Voci e volti della nonviolenza. 112



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 112 del 6 novembre 2007

In questo numero:
1. Rocco Altieri: La nonviolenza del forte
2. Giobbe Santabarbara: Minime due glosse al testo che precede
3. Et coetera

1. ROCCO ALTIERI: LA NONVIOLENZA DEL FORTE
[Dal sito dei "Quaderni Satyagraha" (www.gandhiedizioni.com) riprendiamo il
seguente testo]

"The way of the Lord is for the brave, not for the coward"
(Pritam (1))

Il racconto (2) dell'epica lotta che prese l'avvio l'11 settembre 1906 in
Sud Africa crea nel lettore moderno stupore e incredulita'. L'entusiasmo e
la forza sprigionati da quel grande movimento popolare, la sagacia di Gandhi
nell'orientarlo, ci sembrano, a distanza di un secolo, straordinari e
difficili da spiegare, soprattutto se commisurati ai parametri del nostro
"realismo politico".
Il satyagraha in Sud Africa e' stato, in realta', un grande laboratorio,
religioso e politico, che fece esclamare a Tolstoj (3), nella lettera
inviata a Gandhi, due mesi prima di morire: "Il vostro lavoro nel Transvaal,
che pur sembra essere cosi' lontano dal centro del nostro mondo, in realta'
e' di fondamentale e straordinaria importanza, in quanto fornisce
l'esperimento piu' significativo che il mondo da tempo aspettava, e nel
quale possono ora impegnarsi non solo i cristiani, ma tutti i popoli della
terra" (4).
*
Satyagraha: la forza della verita'
Il metodo di lotta sperimentato da Gandhi in Sud Africa e' conosciuto col
nome di satyagraha che significa letteralmente: perseverare nella verita',
parola (5) preferita all'espressione resistenza passiva, che al fondo lascia
ancora intendere la volonta' di molestare la parte avversa (6), ed e',
percio', priva di "amore costruttivo". Scrivendo su "Indian Opinion", Gandhi
spiega il significato del nuovo termine: "Satya che vuol dire Verita',
implica amore, e agraha che vuol dire fermezza, genera forza, e talvolta
funge da sinonimo di 'forza'. Cosi' iniziai a chiamare il movimento indiano
satyagraha, vale a dire, la Forza che e' generata da Verita' e Amore cioe'
nonviolenza, e smisi di usare l'espressione 'resistenza passiva'" (7). In
un'altra occasione Gandhi ne approfondisce l'etimologia: "La parola Satya
(Verita') e' derivata da Sat, che significa cio' che e'. E nulla e' o esiste
in realta' eccetto la Verita'. Questa e' la ragione per cui Sat o Verita' e'
forse il nome piu' importante di Dio. Infatti e' piu' corretto dire che la
Verita' e' Dio, piuttosto che Dio e' la verita'" (8).
Cosi' Gandhi spiega la differenza tra il metodo del satyagraha e la pratica
della resistenza passiva, usata diffusamente nel mondo anglosassone, ad
esempio dal movimento delle suffragette: "Satyagraha differisce dalla
resistenza passiva come il Polo Nord dal Polo Sud. Quest'ultima e' stata
intesa come l'arma del debole e non esclude l'uso della forza fisica o
violenza allo scopo di raggiungere il proprio obiettivo; mentre la prima e'
stata concepita come l'arma del piu' forte, ed esclude l'uso della violenza
in qualsiasi forma" (9).
Percio' la forza della verita' puo' altrimenti essere chiamata "forza
dell'amore", anche se Gandhi avverte che: "Senza verita' non c'e' amore;
senza verita' esso puo' diventare attaccamento morboso, come nell'amore per
il proprio paese, che porta offesa agli altri; o infatuazione, come del
giovane innamorato per una ragazza; o ancora puo' essere cieco e irrazionale
come nell'amore possessivo dei genitori verso i propri bambini. Attraverso
la verita', Amore trascende ogni animalita' e non e' mai parziale.
Satyagraha, quindi, e' stato descritto come una moneta: su una faccia leggi
amore, sull'altra verita'. E' una moneta corrente in ogni luogo e ha un
valore incalcolabile" (10).

Infine, il satyagraha puo' anche essere inteso come "forza dell'anima", in
quanto "un chiaro riconoscimento dell'anima interiore e' una necessita' se
un satyagrahi (11) crede che la morte non significhi la cessazione della
lotta, ma il suo culmine" (12). "La morte in combattimento e' una
liberazione, e la prigione e' la porta di accesso alla liberta'" (13).
L'inseparabile combinazione di verita' e amore appare essere il punto
risolutivo nella relazione tra i fini e i mezzi: "Senza ahimsa (14), scrive
Gandhi, non e' possibile cercare e trovare la verita'. Ahimsa e Verita' sono
cosi' interconnesse che e' praticamente impossibile distinguerle e
separarle. Sono come due facce di una moneta, o piuttosto di un disco
metallico liscio senza impronte. Chi puo' dire, qual e' il diritto, e qual
e' il rovescio? Nondimeno ahimsa e' il mezzo, Verita' e' il fine. I mezzi in
quanto mezzi devono essere sempre al centro della nostra ricerca, e cosi'
ahimsa e' il nostro supremo dovere. Se noi ci prendiamo cura dei mezzi,
siamo destinati a raggiungere dei risultati prima o poi. Una volta che noi
avremo compreso questo punto, la vittoria finale e' fuori discussione" (15).
I mezzi e i fini vengono abitualmente separati in politica, ma essi devono
essere riconciliati nel campo della risoluzione costruttiva di un conflitto.
Secondo il metodo nonviolento mezzi e fini sono interscambiabili. Gli uomini
hanno, infatti, il controllo solo sui mezzi, non sui fini, che appartengono
a Dio. Ha scritto Richard Gregg: "I mezzi ci infondono una immensa speranza,
perche' i mezzi sono, qui e ora, soggetti alle nostre scelte e sottoposti al
nostro potere e controllo. Il solo modo per migliorare il futuro e'
migliorare il presente usando un metodo corretto, e sforzandoci di
applicarlo giorno per giorno. Se noi usiamo mezzi giusti e perseveriamo in
cio', potremo certamente conseguire un fine giusto" (16).
*
Ahimsa: Dio e' la nostra forza
Secondo Gandhi il segreto del successo della grande mobilitazione degli
immigrati indiani contro il Black Act risiedeva nella fede che li animava:
"Quando in migliaia si unirono al movimento, io non avevo parlato loro,
neanche li avevo visti. Ne' potevano leggere documenti. Il mio cuore stava
lavorando all'unisono con loro. Una fede viva era tutto cio' che era
necessario, (...) una fede vivente in Dio e nella nonviolenza. Questa fede
e' autopropulsiva, e illumina la vita degli uomini ogni giorno sempre di
piu'" (17).
Chiunque si avvicini a Gandhi con spirito irreligioso o antireligioso, non
si pone nella condizione di capirlo. Chi tenta di isolare l'aspetto piu'
propriamente pragmatico e politico, da quello metafisico, naufraga
miseramente e si condanna all'impotenza. In un articolo rivolto ai militanti
di sinistra, scritto nel luglio 1947 tenendo presenti i problemi legati alla
costruzione dell'India indipendente, Gandhi invita costoro a scoprire ed
adottare il satyagraha, un'arma che si potrebbe dimostrare potente ed
efficace per realizzare il socialismo, e cosi' avverte: "Verita' e ahimsa
devono essere accolti nel socialismo. Cio' puo' diventare possibile a
condizione che si sviluppi una fede vivente in Dio. Una semplice, meccanica
adesione alla verita' e all'ahimsa e' probabile che crolli al momento
critico. Percio' ho detto che la Verita' e' Dio. Dio e' una Forza vivente.
La nostra vita si nutre di tale Forza. Questa Forza risiede nei nostri
corpi, ma non si identifica con essi. Colui che nega l'esistenza di questa
grande Forza, nega a se stesso l'accesso al suo inesauribile potere e,
quindi, rimane impotente. Egli e' come una nave senza timone, sballottata di
qua e di la', che naufraga prima di aver raggiunto la meta. Molti si trovano
in questa condizione" (18).
Nel suggerire le caratteristiche che dovrebbero avere i volontari da
selezionare per le Peace Brigade, progettate nell'anno 1938 con compiti di
polizia nonviolenta nei casi di violenze e disordini locali, cosi' Gandhi
indica la prima e indispensabile qualita' per l'arruolamento:
"Egli o Ella devono avere una fede vivente nella nonviolenza. Questa e'
impossibile senza una fede vivente in Dio. Una persona nonviolenta non puo'
fare nulla al di fuori del potere e della grazia di Dio. Senza questa non
avrebbe il coraggio di morire senza rabbia, senza paura, e senza
risentimento. Tale coraggio proviene dalla fede in Dio che alberga nei cuori
di tutti, e non ci puo' essere paura in presenza di Dio. La conoscenza
dell'onnipresenza di Dio significa anche rispettare le vite di coloro che
vengono chiamati violenti o teppisti" (19).
E nel pensare alla formazione dei combattenti nonviolenti, facendo un
parallelo con l'addestramento che viene propinato ai militari, Gandhi
osserva: "Un militare cerchera' la sua protezione nelle armi, e percio' si
spenderanno molti milioni per gli armamenti. Invece il primo e unico scudo
della persona nonviolenta sara' la sua fede incrollabile in Dio. Le
mentalita' dei due non potrebbero essere cosi' diverse" (20).
"Io ho la ferma convinzione che l'autentico fondamento del training
[nonviolento] sia la fede in Dio. Se la fede e' assente, tutti i training
che uno puo' seguire falliranno miseramente alla prima occasione. Non
lasciamo che qualcuno ironizzi sulla mia affermazione, dicendo che nel
partito del Congresso ci sono molte persone che hanno vergogna di invocare
il nome di Dio. Io sto cercando semplicemente di vedere la questione nei
termini della scienza del satyagraha, cosi' come io l'ho conosciuta e
sviluppata. La sola arma del satyagrahi e' Dio, con qualsiasi nome Lo si
conosca. Senza di Lui il satyagrahi e' privo di forza davanti a un
avversario dotato di armi mostruose. Ma colui che accetta Dio come suo
protettore rimarra' tranquillo di fronte alla piu' grande potenza di questo
mondo" (21).
Mettere da parte o addirittura negare la presenza di Dio negli affari
correnti induce un senso di frustrazione. Facilmente ne consegue la perdita
di fiducia in se stessi e nella solidarieta' reciproca. Privati della
speranza, si cede facilmente alle lusinghe della violenza.
Sebbene Dio sia il Creatore, il Legislatore e il Signore dell'Universo, e
non un solo filo d'erba si muova senza la sua volonta', in realta' oggi,
osserva Gandhi: "noi siamo diventati atei in tutti gli aspetti pratici. E
percio' crediamo che alla lunga dobbiamo ricorrere alla forza fisica per la
nostra protezione" (22).
*
Abhaya: uomini e donne senza paura
Alla fine dell'incontro di preghiera dell'11 marzo del 1946, a Bombay, cosi'
si espresse Gandhi: "Lasciatemi dire in tutta umilta' che ahimsa appartiene
al coraggioso. Pritam ha cantato: 'La via del Signore e' per il coraggioso,
non per il codardo'. Per via del Signore qui si intende la via della verita'
e della nonviolenza. Io ho detto prima che non considero Dio altro che come
verita' e nonviolenza. (...) Ahimsa richiede forza e coraggio per soffrire
senza rivalsa, per ricevere colpi senza restituirli. Ma cio' non esaurisce i
suoi significati. Il silenzio diventa codardia, quando la situazione
richiede di dire tutta la verita' e agire di conseguenza. Noi dobbiamo
coltivare questo coraggio..." (23).
Due giorni dopo, sempre a Bombay, durante la serale preghiera pubblica
aggiunse la seguente riflessione: "La Verita' e' essa stessa Dio, e
nonviolenza e' propriamente un sinonimo di verita'. Le persone devono
prepararsi a sostenere verita' e nonviolenza ad ogni costo, anche a prezzo
della morte, proprio come si preparerebbero a sacrificare le loro vite a
Dio..." (24).
Come i lettori della Gita sanno, la "mancanza di paura" e' in testa alla
lista degli Attributi Divini elencati nel sedicesimo capitolo (25). Secondo
Gandhi (26), cio' e' dovuto non all'esigenza metrica del poema epico, ma a
una precisa intenzione dell'autore di attribuire al coraggio il primo posto,
in quanto esso e' indispensabile allo sviluppo di tutte le altre nobili
qualita'. Infatti: "Come si puo' cercare la Verita' e nutrire Amore, senza
mancanza di paura? (...) Dio significa Verita', e intrepidi sono quelli che
si armano di coraggio, non certo di spade, fucili e simili. A queste
ricorrono solo coloro che sono posseduti dalla paura. L'essere privi di
paura comporta la liberta' da ogni timore esterno: la paura della malattia,
delle ferite nel corpo, della morte, del venire spossessati dei propri beni
materiali, della perdita di coloro che ci sono piu' vicini e piu' cari,
della perdita della propria reputazione o della paura di offendere gli
altri, e cosi' via. (...) Il cercatore di Verita' deve vincere tutte queste
paure, pronto a sacrificare ogni cosa per questa ricerca, come fece
Harishchandra" (27).
"Il perfetto coraggio puo' essere raggiunto solo da chi ha realizzato il
Supremo, poiche' implica liberta' dalle illusioni. Uno puo' sempre
progredire verso questo obiettivo con sforzo determinato e costante, e
coltivando la fiducia in se stessi" (28).
Nagler fa notare come Gandhi in tutti i suoi discorsi pubblici esalti le
qualita' guerriere dei satyagrahi: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la
dedizione, la disciplina. Scrive Nagler: "Il satyagrahi viene continuamente
paragonato a un 'soldato' e la lotta per fondare la societa' nonviolenta a
una 'guerra'. La grande utilita' nel parlare in questo modo e' di correggere
la fondamentale incomprensione che la nonviolenza sia solo un no a qualcosa,
mentre ogni energia e' nelle mani del violento. Serve anche a ricordarci che
la nonviolenza richiede, se possibile, molta piu' disciplina, addestramento
ed esercitazione dei militari, e che dobbiamo essere pronti al sacrificio,
anche se in modi differenti" (29).
I conflitti sociali non sono sempre risolvibili con l'opera di mediazione e
di arbitrato, con appelli alla buona volonta' e inviti alla pace sociale.
Essi comportano spesso un'azione diretta, che puo' svilupparsi in termini
violenti o nonviolenti, comunque seguendo il corso di un confronto/scontro
con duri rapporti di forza, determinando anche possibili atti di violazione
della legge. Gandhi, a questo proposito, condanna l'immobilismo e
l'impotenza del generico pacifismo, e dichiara senza esitazione di preferire
la violenza all'inazione: "Mai e' stato ottenuto qualcosa su questa terra
senza azione diretta. Io rigettai l'espressione 'resistenza passiva' a causa
della sua insufficienza e del suo essere interpretata come un'arma del
debole. Fu l'azione diretta in Sudafrica, continuamente manifestata con
efficacia, che spinse il generale Smuts alla ragionevolezza" (30).
In questo senso Gandhi contrappone in modo netto la nonviolenza
opportunistica del calcolatore Bania, il commerciante, e la nonviolenza
attiva del coraggioso Kshatriya, il guerriero (31). Non ci sono dubbi che la
nonviolenza proposta da Gandhi e' quella del guerriero, e che non ammette
debolezze, opportunismi, cedimenti. Se qualcuno non e' in grado di seguire
la via stretta della nonviolenza, viene invitato perentoriamente ad
allontanarsi: "Io non posso sostenere in nessun caso la codardia. Nessuno
dica, quando saro' partito, che ho insegnato alle persone ad essere codarde.
Se pensate che la mia ahimsa equivale a cio', dovreste rigettarla senza
esitazione. Preferisco di gran lunga che voi moriate in combattimento, dando
o ricevendo colpi, piuttosto che languire in una vile condizione di terrore.
(...) Fuggire dalla battaglia - palayanam - e' codardia, e non degno di un
guerriero. (...) Un guerriero nonviolento sa di non poter abbandonare la
battaglia. Egli affronta la violenza a viso aperto, senza mai ospitare,
neppure una volta, un pensiero violento. Se questo tipo di ahimsa vi sembra
impossibile, sarebbe piu' onesto con voi stessi confessarlo e lasciar
perdere. Per quanto mi riguarda non si tratta di deporre le armi. Io non
posso farlo. Io cerco di essere un guerriero di tal fatta e, se Dio vuole,
vorrei esserlo per tutta la mia vita. Un tale guerriero puo' combattere
anche da solo" (32).
Sfugge alla cultura occidentale, abituata a ragionare solo in base al freddo
calcolo utilitaristico, la comprensione di un tale "furore" combattente, di
questa disposizione entusiasta al sacrificio, totalmente sprezzante della
morte, non dissimile - e non sembri irriverente e inopportuno
l'accostamento - dal coraggio di cui danno prova oggi, purtroppo col ricorso
ad altri mezzi, i fondamentalisti islamici.
*
Brahmacharia: l'addestramento del forte
Scrive Gandhi nel suo ashram di Sevagram: "Una tale nonviolenza [la
nonviolenza del forte], non puo' essere appresa stando a casa, ma ha bisogno
di forgiarsi nella lotta. Allo scopo di provare noi stessi, noi dovremmo
imparare ad affrontare il pericolo e la morte, a mortificare la carne ed
acquisire la capacita' di sopportare ogni tipo di privazioni" (33).
Il Brahmacharia costituisce per Gandhi l'essenza stessa della formazione di
un satyagrahi.
E' un termine sanscrito e significa "regola di condotta" (charya)
indirizzata alla ricerca della "Realta' Suprema" (Brahma). Brahmacharia,
quindi, deriva dalla Verita' e ha lo scopo di servirla.
Non si puo' restringerne il significato alla sola questione sessuale (34),
alla raccomandazione di rifiutare il matrimonio e preferire il celibato,
aspetto peraltro comune a tutte le tradizioni religioso-monastiche, compresa
quella cattolica.
Brahmacharia per Gandhi significa, in senso lato, addestramento personale al
dominio delle passioni e al controllo di tutti gli organi di senso. Si
offre, quindi, come un percorso formativo esigente, un vero e proprio
esercizio spirituale. Richiede una tensione etica costante che porti
all'autodisciplina interiore e allo swadeshi (l'indipendenza dalle
illusioni). La liberta' va praticata come liberazione, non solo politica, ma
innanzitutto spirituale. Nella visione indu' comporta anche la liberazione
finale dell'anima dalla servitu' terrena.
Per conseguire questa liberazione, Gandhi raccomanda il silenzio, la
preghiera, il digiuno, la meditazione, l'hata yoga, pratiche molto diverse
dai tanti training nonviolenti in voga ai giorni nostri. Coma afferma
Gandhi: "Non esiste un corso di training per chi vuole imparare la
nonviolenza. Ma e' facile per ciascuno evolversi attraverso i principi che
ho formulato" (35).
La nonviolenza e' scelta seria e impegnativa, invita a intraprendere un
processo di conversione non solo negli atti interni della propria coscienza,
ma anche nei conseguenti atti esteriori. L'impegno al dominio di se' va
esercitato contemporaneamente in tutte le direzioni e si estrinseca
nell'assumere una serie di voti (36): il controllo del palato, il
vegetarianesimo, il rifiuto degli alcolici, del fumo e di ogni forma di
droga, la poverta' e il non possesso, il non rubare, il non appoggiarsi sul
lavoro altrui, la scelta del lavoro manuale, la filatura, il lavoro
personale per il pane. I voti non sono un segno di debolezza, ma aiutano a
formare il carattere, a potenziare l'auto-purificazione e
l'auto-realizzazione (37).
Infine, l'amore deve liberarsi dall'impurita' del desiderio, dai propri
attaccamenti egoistici, consacrando tutta la persona al servizio della
Verita': "La Verita', esorta il Mahatma, deve manifestarsi nei nostri
pensieri, nelle nostre parole, nelle nostre azioni" (38). "La ricerca della
Verita' e' vera bhakti (devozione). E' il cammino che porta a Dio. Non c'e'
posto per la codardia, non c'e' posto per la frustrazione. E' il talismano
con cui la stessa morte diventa la porta per la vita eterna" (39).
In questa prospettiva Gandhi rassicura di essere contrario alla meccanica
repressione degli istinti, un fatto che "snerva e rattrista" (40). La
pratica del Brahmacharia va intesa giustamente come progressivo
self-control: capacita' di elevazione e sublimazione delle energie vitali.
Intraprendendo questo cammino, si ricavano conoscenza e gioia.
"Dove c'e' Verita', c'e' anche vera conoscenza. Dove non c'e' Verita', non
ci puo' essere vera conoscenza. E' per questo motivo che si associa la
parola Chit (conoscenza) al nome di Dio. Quando c'e' una conoscenza vera,
c'e' sempre perfetta beatitudine (ananda). Non c'e' posto per il dolore. E
poiche' la Verita' e' eterna, anche la gioia che ne deriva e' eterna.
Percio' noi conosciamo Dio come Sat-chit-ananda, colui che riunisce in Se'
la verita', la conoscenza e la gioia. La devozione alla Verita' e' la sola
giustificazione per la nostra esistenza. Tutte le nostre attivita'
dovrebbero essere centrate sulla Verita'. La Verita' dovrebbe essere il
respiro della nostra vita. Una volta che questo stadio del proprio progresso
spirituale viene raggiunto, tutte le altre corrette regole di vita saranno
praticate senza sforzo, e l'obbedienza ad esse sara' istintiva. Ma senza la
Verita' e' impossibile osservare qualsiasi principio o regola nella vita"
(41).
Nella visione di Gandhi non c'e', quindi, nessuna forzatura. Brahmacharia e'
realizzare in se', gradualmente, con naturalezza, la legge morale
universale.
Brahmacharia e' libera scelta vocazionale, impegno di vita. Gandhi chiede di
lasciare tutto, per donare la propria vita a servizio della Verita'/Dio. Ma
come per il giovane ricco della parabola evangelica, all'invito di Gandhi si
gira le spalle e ci si allontana. Meglio pensare che il Brahmacharia sia un
residuo medievale di un "fachiro seminudo".
*
Yaina: il sacrificio di se'
La prova finale della verita' ci puo' essere data solo dalla stretta
adesione all'ahimsa, basando l'azione sul rifiuto di nuocere, o meglio sulla
forza dell'amore. Ma poiche' nelle dinamiche sociali la personale volonta'
di non fare del male puo' scontrarsi con la decisa violenza dell'avversario,
che puo' arrivare fino ad uccidere, la nonviolenza richiede di accogliere su
di se' la sofferenza del conflitto, non per vilta', ne' per scelta comoda,
ma con l'obiettivo di spezzare la catena della violenza. Percio'
l'addestramento al satyagraha deve preparare al coraggio, a non aver paura
della morte. L'accettazione della sofferenza spinta fino al sacrificio della
propria vita e', infatti, l'ultima verifica della sincerita' della propria
posizione: "Nell'applicazione del satyagraha ho scoperto fin dai primi
momenti che la ricerca della verita' non ammette l'uso della violenza contro
l'avversario, ma che questo deve essere distolto dall'errore con la pazienza
e la comprensione. Infatti cio' che sembra verita' ad uno puo' sembrare un
errore ad un altro. E pazienza significa disposizione a soffrire. Dunque il
senso della dottrina e' la difesa della verita' attuata non infliggendo
sofferenze all'avversario ma a se stessi" (42).
Come avverte Vinoba: "L'ahimsa non consiste nello starsene seduti vilmente a
casa per evitare la battaglia. Si deve andare la' dove la battaglia infuria
e dichiarare: 'Sono pronto ad essere ucciso, ma non uccidero'" (43).
E' ferma convinzione di Gandhi, una persuasione che nasce dalla sua fede in
Dio, che la natura umana non sia immutabile e fissata una volta per tutte, e
che ogni uomo possa trasformare le proprie abitudini consolidate e cambiare
direzione alla propria vita. Cio' richiede sicuramente uno sforzo, ma su
questo sforzo fa leva l'azione terapeutica della nonviolenza.
La rigorosa disciplina comporta sofferenza (tapasya) e sacrificio (yaina),
impegni e parole verso cui l'Occidente dimostra repulsione e orrore.
L'etica del sacrificio personale si presenta come l'esatto opposto della
filosofia moderna dell'utilitarismo: "Yajna significa atto diretto a
promuovere il benessere degli altri, senza desiderare di averne in cambio un
qualche ritorno personale, sia di natura materiale che spirituale. Per
'atto' qui si deve intendere, nel senso piu' ampio possibile, non solo le
azioni, ma anche i pensieri e le parole. Negli altri bisogna comprendere non
solo gli umani, ma tutti gli esseri viventi" (44).
La ricerca delle soddisfazioni egoistiche cessa di avere ogni influenza
sulla nostra vita per far posto alla rinuncia. Rinuncia, pero', non va qui
intesa come abbandono del mondo per ritirarsi in un bosco a fare gli
eremiti. Piuttosto significa impostare tutta la propria vita al servizio
degli altri. Come scrive Gandhi: "La Gita insegna, e l'esperienza conferma,
che ogni azione che non possa entrare sotto la categoria di yaina promuove
schiavitu'. Il mondo in questo senso non puo' esistere un solo istante senza
yaina. (...) Yajna e' apparso con la creazione stessa. Il nostro corpo,
dunque, ci e' stato dato unicamente perche' possiamo usarlo per servire
tutta la creazione" (45).
Tutta la legge del satyagraha si basa sull'assunto che la bonta' innata del
nostro piu' brutale avversario puo' essere risvegliata dalla pura sofferenza
di un uomo portatore di verita'. Scrive il Mahatma in una lettera del 23
marzo 1919: "Satyagraha, come mi sono sforzato di spiegare in diversi
incontri, e' essenzialmente un movimento religioso. E' un processo di
purificazione e di penitenza. Si cerca di promuovere le riforme e
indirizzare le rivendicazioni attraverso l'auto-sofferenza" (46).
La forza della verita' si afferma solo attraverso il fuoco del sacrificio,
introducendo nel conflitto l'elemento nuovo della propria sofferenza. Uomini
e donne nell'intraprendere la via del satyagraha sono consapevoli di mettere
a rischio le loro vite e le loro fortune. Ma offrendosi al carcere, alla
perdita economica, le catene dell'oppressione saranno spezzate (47).
Alla vigilia del suo "digiuno fino alla morte" del dicembre 1932, cosi'
Gandhi scrive: "Le persone che si propongono di operare cambiamenti radicali
nella condizione umana e sociale non possono fare a meno di suscitare un
sommovimento nella societa'. Non e' possibile ottenere qualcosa senza
scuotere la societa'. Ci sono solo due metodi per fare cio', uno violento e
l'altro nonviolento. La pressione violenta agisce sugli esseri fisici e
degrada sia chi la usa, sia la vittima, mentre la pressione nonviolenta
esercitata attraverso l'auto-sofferenza, come il digiuno, agisce in un modo
completamente differente. Non tocca i corpi fisici, ma fortifica la
condizione morale di coloro verso cui e' diretta" (48).
Nel tenere sempre alta l'iniziativa morale, incalzando continuamente
l'avversario, la nonviolenza non mira all'umiliazione o alla distruzione del
coraggio dell'altro, ma semplicemente mira a trasformare il suo paradigma
etico, costruendo nuove modalita' di comprensione, di dialogo, di comune
sentire.
Per questo scopo, sceglie di concentrare la sua forza in un punto decisivo:
il cuore dell'avversario e' il punto di fusione, la sofferenza il fattore di
conversione e di empatia. Non certo la sofferenza procurata all'avversario,
ma l'auto-sofferenza diviene generatrice di potere, creatrice di forza umana
e sociale che rigenera la moralita' dell'avversario, la sua percezione etica
e psicologica del conflitto.
La pratica sociale dal basso porta Gandhi ad essere piu' che un mediatore,
un autentico suscitatore di conflitti, simile a un profeta dell'Antico
Testamento, prospettando non di "trascendere" (49), ma di rivoluzionare
culture (modi di pensare) e societa' (organizzazioni economiche e
politiche).
I grandi rivolgimenti della storia non sono mai avvenuti a causa di
decisioni prese nei palazzi, nei centri del "potere", ma nascono dal basso,
nelle periferie, e progrediscono attraverso la partecipazione degli ultimi e
dei reietti. Nascono e si affermano come rivoluzioni religiose, perche'
cambiano "le culture profonde" su cui si basano i rapporti economici e
politici di una societa'. E' questa la lezione che ci viene dalla storia
dell'11 settembre di Gandhi.
In questo momento drammatico per il futuro della civilta' umana, col rischio
crescente di un collasso ecologico e di una guerra atomica, bisognerebbe
essere pronti, come fecero i primi cristiani, come ha fatto Gandhi, a
tornare nelle catacombe, a dare se stessi in sacrificio, se necessario a
offrirsi in pasto ai leoni: "Il puro devoto della nonviolenza deve
consacrarsi senza alcun limite al servizio dell'umanita'" (50).
*
Note
1. Poeta gujarati. Il versetto qui riprodotto veniva da Gandhi cantato
abitualmente durante le preghiere, cfr. The Collected Works of Mahatma
Gandhi (CWMG), Ahmedabad, Navajivan Trust, 1966-1981, vol. LXXXIII, p. 252.
2. Cfr. M. K. Gandhi, Satyagraha in South Africa, Ahmedabad, Navajivan
Trust, 1950, tr. it. Una guerra senza violenza, Firenze, Lef, 2005.
3. CWMG, vol. X, pp. 512-4. La lettera e' datata 7 settembre 1910. Tolstoj
muore ad Astapovo il 7 novembre 1910.
4. CWMG, p. 513.
5. CWMG, vol. VIII, pp. 131-2.
6. M.K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi, 1973,
p. 18.
7. M. K. Gandhi , Una guerra senza violenza, op. cit, p. 103.
8. M. K. Gandhi, cit. in A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano,
2a ed., Linea d'ombra, 1989, pp. 16-7.
9. CWMG, vol. XVII, p. 152.
10. CWMG, vol. XVII, p. 153.
11. Viene chiamato satyagrahi l'attivista nonviolento.
12. CWMG, vol. XVII, p. 153.
13. CWMG, vol. XVII, p. 153.
14. Ahimsa viene tradotto con la parola nonviolenza.
15. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 7.
16. R. Gregg, The Power of Nonviolence, London, James Clarke, 1960, p. 176.
17. CWMG, vol. LXIX, p. 313.
18. CWMG, "Socialism", New Delhi 13 luglio 1947, in vol. LXXXVIII, p. 324.
19. CWMG, Qualification of a Peace Brigade, "Harijan", 18 giugno 1938, in
vol. LXVII, p. 126.
20. CWMG, Physical Training and Ahimsa, Simla 29 settembre 1940, "Harijan",
13 ottobre 1940, in vol. LXXIII, p. 67.
21. CWMG, vol. LXXIII, p. 69.
22. M. K. Gandhi, cit. in G. Dhawan, The Political Philosophy of Mahatma
Gandhi, Ahmedabad, Navajivan Trust,1946, p. 45.
23. CWMG, op. cit., vol. LXXXIII, p. 242.
24. CWMG, op. cit., vol. LXXXIII, p. 252.
25. Il Canto del Beato (Bhagavadgita), a cura di R. Gnoli, Torino, Utet,
1976, p. 235.
26. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir (traduzione inglese dall'originale in
gujarati a cura di V. G. Desai), Ahmedabad, Navajivan Trust, 1932, p. 17.
27. La storia e' riportata nel Mahabharata. Harishchandra, imperatore di
Bharata, affronta ogni tipo di privazioni e avversita', anche le piu'
estreme, pur di non venir meno al dovere morale di dire sempre la verita'.
Tra le figure mitologiche piu' amate in India, la leggenda di Harishchandra
colpi' Gandhi fin dall'adolescenza, in quanto esempio intrepido di
perseveranza nella verita' (cfr. M. K. Gandhi, An Autobiography or the Story
of my experiments with Truth, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1927, p. 4).
28. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., pp. 17-18.
29. M. Nagler, "Nonviolence", in World Encyclopedia of Peace, Oxford,
Pergamon, 1986, vol. II, p. 76.
30. CWMG, op. cit. vol. XVII, p. 407.
31. Cfr. CWMG, op. cit., vol. LXIX, p. 312. Bania indica la casta dei
commercianti, Kshatriya quella dei guerrieri.
32. Ibid.. Cfr. CWMG, op. cit., vol. LXIX, p. 312.
33. CWMG, vol. LXXII, p. 416.
34. Cfr. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 10.
35. CWMG, vol. LXXII, p. 416.
36. Cfr. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit.
37. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 30.
38. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 10.
39. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 4.
40. M. K. Gandhi, Bapu's Letters to Mira, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1949,
p. 170.
41. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 1.
42. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., p. 15.
43. Vinoba Bhave, Gandhi. La via del Maestro, Alba, San Paolo, p. 94.
44. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 31.
45. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., pp. 31-2.
46. Cfr. CWMG, op. cit., vol. XV, p. 145.
47. M. K. Gandhi, Tyller, Hampden and Bunyan, in "Indian Opinion", 20
ottobre 1906, ora in CWMG, vol. V, p. 477.
48. M. K. Gandhi, "Statement on Fast to Anti-Untouchability Committee", 4
dicembre 1932, ora in CWMG, vol. LII, p.114.
49. Trascendere un conflitto, alla Galtung, puo' determinare anche effetti
di acquietamento delle rivendicazioni, di mitigazione della violenza solo
nel breve periodo, perche' si agisce alla superficie, non nel profondo delle
ragioni del conflitto. Il modello sociale preferito ultimamente da Galtung
nella soluzione dei conflitti e' quello tecnocratico, adottato dalla
Svizzera o dal Giappone. Cfr. J. Galtung, Transcend & Transform, London,
Pluto Press, 2004.
50. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 35.

2. GIOBBE SANTABARBARA: MINIME DUE GLOSSE AL TESTO CHE PRECEDE

Molte sono le visioni della nonviolenza, e le vie. La nonviolenza non e' un
insieme di dogmi e di autorita', ma di concrete esperienze e riflessioni. Ad
esempio per me che scrivo queste righe sono state migliori maestre di
accostamento alla nonviolenza Rosa Luxemburg e Virginia Woolf, Hannah Arendt
e Simone Weil, che non Mohandas Gandhi e Aldo Capitini, Lev Tolstoj e Martin
Luther King. E poco conta che gli ultimi quattro esplicitamente
teorizzassero, tematizzassero e praticassero la nonviolenza dichiarandola
come tale e le prime quattro no.
Cosi' al bel saggio che precede - e che nitidamente ricostruisce alcuni
elementi essenziali della visione e della proposta gandhiana - forse non
sara' inopportuno aggiungere due glosse.
*
La prima: credo che quando Gandhi e molte altre persone amiche della
nonviolenza parlano di Dio o della religione, dicano con altro linguaggio
cose che io materialista chiamo con altro nome; se "religio" e', nell'etimo,
legame, collegamento, relazione, non si puo' - in quanto esseri umani,
ovvero animali sociali, e parlanti, cioe' dialogici - non essere in questo
senso religiosi; se con la parola Dio si intende cio' che altri chiama sommo
bene, ed altri ancora intende come percezione del cosmo e sintesi dei
valori, allora anche noi modesti amici della scuola di Lucrezio e Diderot,
di Feuerbach e Leopardi, di Luxemburg e di Camus, di Arendt e di Russell,
possiamo essere ammessi alla mensa comune dell'umanita' pur essendo ateisti
senza equivoci.
Se il concetto di religione e la nominazione dell'Altissimo fossero invece
strumento atto ad escludere ed opprimere e disumanizzare chi di una
narrazione e di un linguaggio non partecipa, allora almeno io preferisco
stare tra gli esclusi, e combattere chi esclude ed opprime e disumanizza.
Con tanto affetto per gli amici detentori di una fede salvifica, quella fede
io non l'ho (e non avendola ne discendono altresi' alcune conseguenze
pratiche cui non sempre gli amici teisti mi sembra siano abbastanza attenti:
che non essendoci riscatto dal male in un altro mondo o in un'altra vita o
in un'altra dimensione, mai tu devi opprimere o lasciar opprimere
chicchessia; che "sacrificare" e' parola ed azione che riferita ad esseri
umani designa e costituisce il crimine piu' orribile; che non la sofferenza
autoinflitta ma una sobria e condivisa felicita' merita di essere vissuta e
proposta alla vita altrui, e cosi' via).
*
La seconda: l'insistenza sul coraggio fino al sacrificio e sulle metafore
militaresche e guerriere, fino ad espressioni raccapriccianti, aveva un
senso nel contesto comunicativo - storico e culturale - in cui l'azione
politica di Gandhi si collocava, oggi non piu'; anzi: esse sono ormai un
residuo di un linguaggio, e di un'ideologia, che anch'essa e anch'esso
dobbiamo affrontare, smascherare, sconfiggere, liberandocene infine.
*
E' vero: tanta parte del nostro riflettere e colluttare consiste sovente di
questioni linguistiche; ma gli esseri umani questo sono: corpo, linguaggio,
relazioni. E breve maravigliosa una vita bisognosa di cure e attenzione, di
reciproco ascolto ed aiuto.

3. ET COETERA

Rocco Altieri e' nato a Monteleone di Puglia, studi di sociologia, lettere
moderne e scienze religiose presso l'Universita' di Napoli, promotore degli
studi sulla pace e la trasformazione nonviolenta dei conflitti  presso
l'Universita' di Pisa, docente di Teoria e prassi della nonviolenza
all'Universita' di Pisa, dirige la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le
opere di Rocco Altieri segnaliamo particolarmente La rivoluzione
nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca
Franco Serantini, Pisa 1998.
*
Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo
pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della
nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio
d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di
convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra,
avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro
la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della
nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito
del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico.
Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la
teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione
economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il
30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di
quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e
che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti
discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione,
della sua opera. Opere di Gandhi:  essendo Gandhi un organizzatore, un
giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una
natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere
contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua
riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede
significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In
italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e
autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la
liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton;
Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento; La cura
della natura, Lef; Una guerra senza violenza, Lef (traduzione del primo, e
fondamentale, libro di Gandhi: Satyagraha in South Africa). Altri volumi
sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di
frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da
Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio
pensiero, e La voce della verita'; Feltrinelli ha recentemente pubblicato
l'antologia Per la pace, curata e introdotta da Thomas Merton. Altri volumi
ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali
della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono
stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi
massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (e per un acuto commento si veda
il saggio in proposito nel libro di Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza
civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996). Opere su Gandhi:
tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente
accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro
di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung,
Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente
detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il
Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il
Mulino; Gandhi e lÃIndia, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il
Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e'
quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia
cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti
nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente
utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L.
Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti
Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci,
Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di
Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma 1999; tra le piu' recenti
pubblicazioni segnaliamo le seguenti: Antonio Vigilante, Il pensiero
nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004; Mark
Juergensmeyer, Come Gandhi, Laterza, Roma-Bari 2004; Roberto Mancini,
L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005; Enrico Peyretti, Esperimenti con
la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini)
2005; Fulvio Cesare Manara, Una forza che da' vita. Ricominciare con Gandhi
in un'eta' di terrorismi, Unicopli, Milano 2006; Giuliano Pontara,
L'antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega,
Torino 2006.
*
Giobbe Santabarbara e' un collaboratore de "La nonviolenza e' in cammino".

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 112 del 6 novembre 2007

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