Nonviolenza. Femminile plurale. 137



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 137 del 2 novembre 2007

In questo numero:
1. Diana Napoli: Un pomeriggio con Maria G. Di Rienzo
2. Teresa Blasi Pesciotti: Per Maria
3. Lea Melandri dialoga con Lisetta Carmi
4. Ida Dominijanni: Da "L'impronta indecidibile"
5. Libri: "Diotima", L'oscuro materno

1. INCONTRI. DIANA NAPOLI: UN POMERIGGIO CON MARIA G. DI RIENZO
[Ringraziamo Diana Napoli (per contatti: e-mail: mir.brescia at libero.it,
sito: www.storiedellastoria.it) per questo intervento.
Diana Napoli, laureata in storia presso l'Universita' degli studi di Milano,
insegna nei licei, e' stata volontaria in servizio civile presso il Centro
per la nonviolenza di Brescia.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un
piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in
"Notizie minime della nonviolenza" n. 81]

Maria G. di Rienzo il 21 ottobre ha passato un pomeriggio al centro per la
nonviolenza di Brescia e io credo di non averla ancora sufficientemente
ringraziata: non solo per le ore che mi ha concesso, non solo perche' la sua
presenza e' stata uno spiraglio di umanita', la manifestazione di un modo
tutto particolare di approcciarsi alla gente e sorridere degli inconvenienti
(in primis quelli tecnici - della registrazione del nostro colloquio - che
hanno perduto le parole che avrebbero dovuto conservare fedelmente), ma
soprattutto perche' quel che mi ha raccontato in un pomeriggio domenicale mi
ha costretta a rivedere tutti i miei pregiudizi da studiosa accademica
facendomi toccare con mano, e commuovendomi, una storia che per un motivo o
per l'altro, mi ero sempre lasciata sfuggire tra le mani.
Valga confessarlo, io non mi ero mai sentita, intellettualmente e
culturalmente, vicina al movimento femminista perche' lo consideravo solo
nei suoi aspetti accademicamente conoscibili: tra teoria di genere e
democrazia io non mi sono mai sentita a mio agio.
E invece ho dovuto constatare che nulla di tutto questo e' piu' lontano
dalla concretezza di una lotta femminista come quella che conduce Maria di
Rienzo che ha esordito proferendo una frase che nella sua semplicita' e'
assolutamente disarmante: la mia battaglia finira' quando sapro' che una
donna e' considerata un essere umano.
*
E per capire com'e' lontano questo traguardo abbiamo iniziato dal nocciolo
della questione: dal nodo piu' irrisolto della violenza domestica che
contiene gli aspetti piu' subdoli di un sistema violento che non rientra in
nessuno schema sociologico o antropologico tanto l'ambiguita' di questo tipo
di vessazione ha saputo scombinare ogni logica di vittime e carnefici.
Strette, le donne, tra una "sindrome della crocerossina", il senso di colpa
e il mito del grande amore, e' prima di tutto psicologicamente che la
spirale della violenza le avvolge, annebbiando la capacita' di comunicare il
proprio disagio all'esterno a causa della poca stima di se', dell'assenza di
considerazione per se', in quanto esseri umani, che e' il primo risultato di
quelle scenette insensate che si consumano tra le mura domestiche. Da dove
si parte? Gli interventi istituzionali sono auspicabili (una legislazione
adeguata, un maggiore sostegno da parte delle istituzioni alle case e
associazioni per le donne), ma non e' sufficiente questo per considerarsi
degli esseri umani di nuovo.
Per guardarsi negli occhi, uomo e donna, "ciascuno forte della sua forza". E
questo e' il compito della solidarieta' che e' una caratteristica umana
trasversale a ogni societa': e si puo' partire dai villaggi africani formati
da ripudiate, o da quelli costituiti dalle donne ferite e mutilate dalle
guerre, in cui la forza della consapevolezza di se' e' riuscita a
ricostruire quello che anni di conflitti avevano distrutto, ovvero la
possibilita' di pensare, costruire e realizzare un avvenire che fino a pochi
anni prima magari non si sarebbe osato immaginare nemmeno nei sogni piu'
nascosti.
A questo serve il femminismo: non alle teorie politiche o non solo ad esse,
ma a raccontare e non stancarsi di scrivere e tradurre tutto quel che accade
nel mondo nella speranza che i contorni per le donne di un avvenire diverso
non siano solo quelli costruiti dagli standard occidentali di liberazione
cosi' minuzionsamete e teleologicamente descritti in qualche libro di storia
e in cui siamo abituate a pensare, ma acquistino una dimensione
semplicemente umana, fatta di semplici consapevolezze umane, che ogni donna,
appunto, venga considerata un essere umano.
E questo perche' non esiste una liberazione presunta fatta di contenuti:
essa non e', piuttosto, sufficiente. Esistono solo nel mondo le diverse e
singole donne che lottano per la propria dimensione umana, piu' profonda e
al di la' di qualunque sistema. La storia di queste donne e' quella che io
ho conosciuto grazie a Maria di Rienzo, perche' le cerca e le trasmette a
tutti e io, grazie ad esse, ho compreso che sono storie non di persone e non
di esseri umani, ma, res sic stantibus, di un livello precedente, di una
consapevolezza diversa: appunto, storie di donne e basta.
*
Parte del tempo, il 21 ottobre, lo abbiamo dedicato anche alla letteratura:
quella di fantascienza innanzitutto, di cui Maria di Rienzo e' esperta
lettrice e scrittrice, ma anche una certa poesia di cui abbiamo celebrato i
domenicali funerali. Sul primo versante sono proprio digiuna, sul secondo
anche ma qualcosa potrei pur dire e dunque vorrei dedicarle questi versi
che, pure scritti da un uomo, ovvero il mio poeta preferito, io ho sempre
pensato potessero appartenere a una donna, una di quelle donne le cui storie
lei ci racconta:
"A te nelle non-/ giunte mani/ soppesata:/ della mia disperazione/
silenziosa pazienza".
"Quando tu fai scorrere il sogno, vicino alla barca/ sotto la scheggia di
luna, lungo il bordo/ della vita, in quest'ora/ di relitti. Nulla/ pendeva
nel picco, tanto/ tu eri in pericolo".

2. POESIA E VERITA'. TERESA BLASI PESCIOTTI: PER MARIA
[Da Teresa Blasi Pesciotti, Secretum, Edizioni Sette Citta' - Malavoglia,
Viterbo 2007, p. 37.
Teresa Blasi Pesciotti e' una delle figure piu' vive della sinistra
viterbese, e' impegnata nell'Associazione "Achille Poleggi" e nei movimenti
per la pace, la solidarieta', i diritti. Opere di Teresa Blasi Pesciotti:
Secretum, Settecitta' - Malavoglia, Viterbo 2007]

Nel lungo dolore di anni
non gridasti come Giobbe "Perche'?"
Troppo eri intenta regina munifica
a dispensare ogni giorno
con le piccole mani operose
a tutti e a ciascuno
il pane d'amore.
Che a te ritornava
come onda dal mare.
Ora che il sonno per sempre t'ha presa
ci guardiamo smarriti, piu' soli.

Che la pena di oggi
trascolori in memoria
cio' che fu calda vita.

3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI DIALOGA CON LISETTA CARMI
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente dialogo gia' apparso
el suppemento settimanale "D" del quotidiano "La Repubblica" del 29
settembre 2007.
Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista,
redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della
rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione
teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente
L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997;
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa
del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby
Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le
passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito
www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha
insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene
corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di
Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata
redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba
voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il
desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al
movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica
dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997);
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati
Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991;
La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996;
Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000;
Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati
Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza
In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della
rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la
rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato,
insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista,
Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le
rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'".
Lisetta Carmi (Genova, 1924), intellettuale, musicista, artista, amica
dell'umanita'. Dal sito www.exibart.com riprendiamo la seguente scheda:
"Ripercorrere oggi la vicenda fotografica di Lisetta Carmi significa
coglierne da un lato l'alto significato sotteso di esperienza umana,
dall'altro recuperare i valori di una fase storica che ha segnato in maniera
forte la societa' e la cultura italiane tra gli anni Sessanta e Ottanta del
Novecento. Nata a Genova nel 1924, vissuta in via Sturla 'nell'allegria di
una famiglia protettiva e molto severa, in un clima di inclinazioni
artistiche e di rigore (il padre assicuratore e la madre donna colta e
raffinata)' con due fratelli 'intelligenti e creativi', Lisetta Carmi
studio' musica alla scuola del maestro Alfredo They allievo di Ferruccio
Busoni perfezionandosi in pianoforte. Segnata negli anni del secondo
conflitto mondiale dal clima di violenza e persecuzione contro gli ebrei di
cui la famiglia ebbe a subire pesantemente gli effetti, intraprende dopo la
guerra, con successo, la carriera di concertista. L'interesse e la svolta
per la fotografia maturano in lei improvvisi dopo il 1960 quando, colpita
dai movimenti di piazza conseguenti alla svolta a destra del governo
Tambroni, mal sopportando il clima ovattato delle serate concertistiche al
pianoforte, decide in spregio ai rischi ai quali poteva andare incontro,
contro i quali la metteva in guardia il maestro They giustamente
preoccupato, di scendere in piazza accanto ai portuali e protestare con
essi, dando testimonianza del suo desiderio di impegno civile. La fotografia
la scopri' quasi subito, in un viaggio fatto in Puglia dove aveva seguito
l'amico etnomusicologo Leo Levi che vi si recava per studiare i canti di una
comunita' ebraica. Consapevole dalla bellezza del paesaggio che andava a
visitare e della ricchezza di testimonianze artistiche che avrebbe
incontrato, ritenne doveroso portare con se' la macchina fotografica
(un'Agfa Silet) per trarne immagini. Al rientro a Genova, chi le vide ne
rimase attratto e impressionato positivamente tanto che Lisetta Carmi si
convinse che quella di fotografa poteva essere la sua nuova vita, una volta
lasciata la musica. Fotografo' prima per il teatro Duse, qualche anno; come
fotografa di scena apprese l'arte dei dosaggi sapienti di luci e ombre,
quindi inizio' a fare reportage, pubblicando sui giornali, dai quali seppe
comunque sempre tenersi indipendente. Nascono cosi' le ricerche e i servizi
sul lavoro dei portuali, sui travestiti, sulla borghesia genovese vista
attraverso i monumenti sulle tombe nel cimitero di Staglieno; e comincia a
viaggiare, viaggia molto: Parigi, Israele, Venezuela, Afghanistan, India,
Pakistan, sempre attenta alla gente e ai suoi problemi. Ma covava dentro
un'ansia insoddisfatta, un desiderio di rinnovamento spirituale, una spinta
verso nuovi orizzonti e prospettive che trovarono appagamento nel 1976 nel
momento in cui le si rivelo' 'Babaji Hairakhan Baba... come uno specchio
chiaro in cui potevo vedere il mio se''. Interviene allora un nuovo radicale
cambiamento: abbandona la fotografia e nel 1979 crea in Puglia 'terra che il
maestro considerava sacra' un ashram 'per la trasformazione delle persone e
la purificazione delle loro menti, per la meditazione e il karma yoga'.
Lisetta Carmi vive oggi in Puglia, a Cisternino. Scrive di lei Uliano Lucas
nel saggio che fa da introduzione all'ampia scelta di fotografie pubblicate
nel n. 3 dei Quaderni di Aft: 'Nel panorama della fotografia italiana degli
anni Sessanta e Settanta che e' stato, a mio avviso, il periodo piu'
stimolante della storia della nostra fotografia, Lisetta Carmi ha avuto un
ruolo centrale quanto insolito e sfuggente. Centrale perche' a riguardarle
oggi, le sue immagini si scoprono tutte inserite in quel momento di rottura,
di svolta nella storia della cultura e della societa' italiana rappresentato
appunto dai movimenti antiautoritari e di sinistra degli anni '60,
dall'imporsi della societa' di massa e dal nascere di un nuovo modo di
raccontare e interpretare la realta'. Insolito e sfuggente perche', pur
incarnando a pieno e interpretando con grande forza espressiva questo
momento, la Carmi sembra viverne al contempo ai margini, in una sua
personalissima storia che la porta fuori dai circuiti e dalle dinamiche del
fotogiornalismo di allora, fuori dalle tematiche e dai racconti prediletti,
tanto che io stesso, imbattutomi sporadicamente nelle sue immagini e nel suo
nome in gioventu', l'ho scoperta e conosciuta solo in questi ultimi anni
quando, uscendo dal vortice dell'impegno politico e del reportage
giornalistico, sono tornato a guardare e a ricostruire le tessere e i
percorsi della nostra fotografia. Ho riflettuto allora su questa figura
anomala, solitaria, di donna, appartenente ad una famiglia della borghesia
genovese, di origine ebraica, adolescente durante la guerra, che decide a
trent'anni di abbandonare una promettente carriera di concertista e di
ricorrere alla macchina fotografica come strumento per conoscere il mondo e
se stessa'. La ricerca sui travestiti a Genova fu realizzata nell'arco di un
quinquennio tra il 1965 e il 1970. Il volume con le fotografie usci' nel
1970 dopo non poche traversie e grazie all'impegno del fotografo Luciano
D'Alessandro. All'epoca fece abbastanza scalpore: modernissima
líimpaginazione dovuta a Giancarlo Iliprandi, l'introduzione era scritta
dallo psichiatra Elvio Fachinelli. 'A riguardarlo a distanza di un
trentennio - dice Uliano Lucas nel saggio pubblicato nel catalogo della
mostra nel fascicolo n. 3 dei Quaderni di Aft -, la sua modernita', la
vitalita' del racconto, la forza dello stile rimangono intatti. E' un libro
ormai entrato di diritto nella storia della fotografia italiana'"]

Ho conosciuto Lisetta Carmi nel 1972, quando usci' con una piccola casa
editrice di Roma (Essedi' Editrice) il suo libro di fotografie I travestiti,
rifiutato dall'editore che lo aveva accettato e dalla maggioranza dei
librai. Ripugnanza e orrore per l'argomento ne fecero in quegli anni un
libro quasi clandestino, nonostante l'originale valore conoscitivo
sottolineato dallo psicanalista Elvio Fachinelli nella Prefazione. Ritrovo
oggi Lisetta nella splendida campagna della Val d'Itri, tra ulivi, trulli,
tappeti di margherite e papaveri, l'ashram da lei fondato e la casa nel
centro di Cisternino, paese di elezione da quasi quarant'anni. Le parlo
subito della possibilita' di ristampare il suo lavoro in un momento di
grande interesse per queste tematiche. Ma lei mi sposta continuamente lo
sguardo, mi avvolge con l'appassionato racconto delle sue "cinque vite",
perche', mi spiega, "l'opera di un artista va giudicata nella sua interezza,
a ciclo compiuto".
*
- Lea Melandri: Il tuo percorso esistenziale e artistico e' contrassegnato,
a prima vista, dal susseguirsi di fasi diverse, e quindi di svolte nette: il
pianoforte, la fotografia, l'incontro col maestro induista Babaji e la
fondazione di un'ashram a Cisternino, la ripresa della musica e della
pittura con Paolo Ferrari, del Centro Studi Assenza, e il momento attuale
che tu chiami "il periodo di totale liberta'". Io invece vedo, nella tua
singolare esperienza, una linea di continuita', che riassumerei cosi':
l'amore per la vita nei suoi aspetti molteplici e contraddittori; la forza e
la coerenza nel tenere insieme ricerca interiore, creazione artistica e
impegno sociale; infine, la lezione che ti e' venuta dallo studio rigoroso
della musica, quella concentrazione e solitudine che tu stessa riconosci
aver "dato equilibrio" al tuo carattere ed essere rimaste come sottofondo
alla fotografia.
- Lisetta Carmi: Mi ritrovo totalmente in questa descrizione della mia vita.
Sono nata in una famiglia borghese e non amo le famiglie borghesi, anche se
la mia era una bellissima famiglia, due genitori intelligenti e molto
severi. Non ho potuto identificarmi con mia madre, una grande artista che,
sposata a ventidue anni e con tre figli, non ha potuto realizzarsi come
voleva. Me lo ha confessato nell'estrema vecchiaia, quando e' venuta ad
abitare con me nel trullo a Cisternino, cinque anni prima di morire, a
cent'anni. Ero l'unica figlia femmina e da piccola avrei voluto essere un
maschio, perche' papa' era un uomo straordinario e cosi' i miei due
fratelli, Eugenio e Marcello. Ho accettato, e con gran gioia, di essere una
donna soltanto alla fine del lavoro che ho fatto coi travestiti. Quando l'ho
fatto vedere allo psichiatra Sergio Piro, alla domanda "Ma lei si
identificava come uomo o come donna?", io ho detto "Ne' come uomo ne' come
donna, perche' esistono solo gli esseri umani". A quel punto ho capito che
ero felice di essere una donna, che rifiutava il ruolo femminile ma non la
sua appartenenza di sesso. Ma l'avvenimento che ha cambiato piu'
profondamente la mia vita e' stato l'incontro con Babaji. Quando l'ho visto
a Jaipur, l'ho riconosciuto come il mio guru da sempre. Insegnava in modo
particolare, non con le parole ma coi fatti, con gli atteggiamenti, le cose.
Mi ha insegnato che il denaro non e' nostro, ma ci viene affidato da Dio per
il bene di tutti, per cui va dato a ognuno secondo il suo merito o il suo
bisogno. Quello che ha dato una misura alla mia vita e' l'amore per
l'umanita' e la ricerca della verita'.
*
- Lea Melandri: Tu hai detto spesso che eventi di grande spessore, anche
tragici, hanno attraversato la tua vita, a partire dalle leggi razziali che
nel 1938 ti hanno costretta, a soli quattordici anni, a lasciare la scuola e
poi a fuggire in Svizzera con la tua famiglia. Ma sempre hai aggiunto che ti
hanno aiutata a crescere, a condividere il dolore del mondo, a metterti
dalla parte di chi soffre, di chi il potere lo subisce. Non una scelta,
quindi, ma una "inclinazione", legata a una sofferenza e a una ricerca
personale: l'essere ebrea, donna, comunista, sopravvissuta alla persecuzione
razziale. Da qui la partecipazione profonda per quell'"universo umano
oscuro" dei "senza voce", a cui hai cercato ogni volta di dare storia,
visibilita', attraverso il tuo raccontare o "scrivere con la macchina
fotografica". Quella che e' entrata nel tuo lavoro e' l'umanita' dolente
degli emarginati, la parte di se' che si rifiuta o non si vuole vedere, ma
e', contraddittoriamente, anche il piacere di liberarsi di vincoli,
convenzioni, poteri e artifici inutili. Tu hai voluto fermare lo sguardo su
cio' che appare "impresentabile" della vita: la nascita nella sua
naturalita', come nelle fotografie sul parto fatte nell'ospedale di
Galliera, la morte nella visione autoritaria e erotica che la borghesia
genovese di fine '800 ne ha dato nel cimitero di Staglieno, l'inferno dei
portuali di Genova, la disperazione e l'ombra di un poeta vicino alla fine,
nei dodici scatti "rubati" a Ezra Pound nel 1966 a Sant'Ambrogio di Rapallo.
Nello stesso tempo e' come se tu avessi voluto mostrare, in questi aspetti
rifiutati, i segnali di una liberta' sconosciuta, di una umanita' diversa.
- Lisetta Carmi: Ti faccio un esempio. Io sono stata in Venezuela per tre
mesi e ho frequentato molto i rivoluzionari, i professori universitari,
avevo molti contatti. Poi sono andata a Maracaibo, che allora era una delle
citta' piu' ricche del mondo, con una immensa quantita' di petrolio e una
poverta' infinita. Uno dei servizi, pubblicati sulla rivista "Nuovi
argomenti", era sui negozi di poverissime persone, che avevano negozietti di
legno con insegne che dicevano: "Mi ultimo esfuerzo", "La sucursal del
cielo", "Libreria pobremente", "Mi ultima esperanza", "No vendo vicios".
Titoli meravigliosi! Il servizio su Maracaibo mostra un quartiere
poverissimo ma allegrissimo. A Maracaibo ho fotografato anche un basurero,
il posto dove buttavano la spazzatura. Era una distesa immensa, tutta
fumante, piena di spazzatura, chiusa. I camion arrivavano, aprivano e la
buttavano giu'. Subito arrivava la folla dei poveri di Maracaibo a
raccogliere quello che si poteva ancora vendere. C'e' una fotografia con
tante facce di  ragazzi che vengono fuori ridendo da una montagna di basura.
Avendo un grande amore per le persone, avevo con la gente un rapporto
diretto. Nessuno si rifiutava, capivano che li fotografavo col cuore, che
non andavo a fotografare la miseria coi soldi dei giornali ricchi. E' stato
cosi' anche coi portuali di Genova. C'era uno che mi veniva a prendere da
casa alle cinque e mi portava sul porto, dove mai mi avrebbero fatta
entrare, comunista com'ero, perche' sapevano che avrei fatto un lavoro
contro la borghesia genovese. "Lisetta - mi dicevano - tu vieni a
fotografare le formiche!", e tuttavia mi amavano moltissimo, perche'
vedevano che lavoravo per loro.
*
- Lea Melandri: Io ti ho conosciuta l'anno in cui hai pubblicato il tuo
lavoro sui travestiti di Genova, nel libro omonimo edito da Essedi' Editrice
di Roma nel 1972, con una Prefazione di Elvio Fachinelli. Quella ricerca mi
sembra che sia tuttora la piu' complessa, la piu' densa di investimenti
intellettuali, fantastici, emotivi, personali. Nella figura del travestito,
ricercato e respinto dalla societa', confluiscono la persecuzione contro gli
ebrei e l'omofobia, la paura del diverso, dell'effeminato, il travaglio
della donna contro un ruolo imposto e della borghese ribelle e tragressiva.
Ma vi si legge anche il piacere di potersi identificare con chi, mosso da
coraggio e provocazione, aveva cercato di uscire da rapporti standardizzati
e violenti, con quella che appariva come un'"avanguardia contraddittoria",
segnale della crisi del rapporto uomo-donna. Tu stessa hai definito i sei
anni trascorsi con loro, in una frequentazione quotidiana, "quasi una
terapia".
- Lisetta Carmi: Invece di andare per sei anni da uno psicanalista e
spendere soldi senza risolvere nulla, ho fatto questo lavoro sui travestiti
che mi ha fatto capire molte cose della mia vita. Nel mondo borghese io
vedevo tanta ipocrisia. Quando ero particolarmente triste e ribelle di
fronte a una societa' che vuole apparire diversa da come e', andavo da loro:
persone sfruttate, aggredite, giudicate male dalla societa', pero' vere.
Sono stata attirata dal loro essere e non essere uomini e donne nello stesso
corpo; vedevo in loro una verita', un'allegria, un vivere "altro" che mi ha
aperto quella porta che il mondo borghese non vuole varcare, chiuso nella
finzione e nelle false sicurezze. Io sono contro la famiglia, che considero
una prigione, mi piacciono le famiglie allargate. Quando sento dire "mio
figlio", "mia moglie", "mio marito", penso: ma che follia! Non c'e' niente
di nostro su questa terra, neanche il corpo e' nostro, ci e' dato perche'
noi possiamo crescere.
*
- Lea Melandri: Nella trascrizione grafica del Quaderno musicale di Luigi
Dallapiccola (Ed. Sedizioni, Milano 2005) ho trovato molte considerazioni
che potrebbero essere riferite a te. Di Dallapiccola dici: "un uomo
sensibile a molti e gravi problemi di oggi... un artista che difende nel suo
isolamento, nel suo vivere appartato, la sua liberta' interiore, per poter
esprimere musicalmente la sua originale partecipazione alla vicenda umana
del secolo XX". In un altro passaggio scrivi: "Soltanto affermando
sinceramente e coraggiosamente noi stessi, possiamo dire una parola valida
nel tempo per noi e per gli altri". Sono questi due aspetti che io vedo in
te e nel tuo lavoro: la sensibilita' profonda ai problemi del mondo, nei
vari contesti in cui ti sei trovata a vivere, tra culture diverse, e il modo
originale con cui questa passione di condividere si e' legata in tutto il
tuo percorso alla solitudine, alla rigorosa ricerca di una liberta'
interiore. Per strade diverse, io ho imparato dal femminismo che e' solo
partendo dalla storia personale che si possono capire gli altri. La gente
confonde generalmente la solitudine con l'isolamento, con la perdita di ogni
interesse. Io la considero, al contrario, un privilegio, a volte anche
doloroso. Da un certo punto in avanti, ho sentito proprio il piacere di un
intrattenimento tra se' e se', pieno delle voci, dei volti e di tutte le
storie di cui siamo fatti.
- Lisetta Carmi: Sono totalmente convinta di questo: se uno non analizza la
propria interiorita', se non vive intensamente la propria vita, non puo'
capire gli altri. Qui, attorno a me, c'e' tutto: isolamento e partecipazione
totale al mondo. In un mio scritto leggo: amava il silenzio, perche' parlare
disperde.

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: DA "L'IMPRONTA INDECIDIBILE"
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadeledonne.it)
riprendiamo il seguente stralcio dal saggio di Ida Dominijanni Giglio,
"L'impronta indecidibile" nel volume collettaneo della comunita' filosofica
di Diotima, L'oscuro materno, Liguori, Napoli 2007.
Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia
sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale
femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di
liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania
Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005]

(...) Due vuoti dentro L'ordine simbolico della madre. Il primo vuoto e' il
posto del padre, che non vi compare e non e' contemplato. Quell'assenza
lascia alcuni non detti, sia sulla struttura del simbolico sia sul rapporto
della genealogia materna con l'altro. Sulla struttura del simbolico, perche'
ne L'ordine simbolico della madre metonimia e metafora, contiguita' e
sostituzione, relazione e legge non si incrociano piu'. Sul rapporto della
genealogia materna con l'altro, perche' con il padre restano fuori dal
discorso anche l'amore della figlia per lui, che pure e' un dato rilevante
per la sessualita' femminile infantile e adulta, nonche' il desiderio della
madre per l'uomo: quasi che l'atto sessuale che origina la procreazione
diventasse secondario o prescindibile, come diventa secondario e
prescindibile nell'immaginario sulla procreazione tecnologicamente assistita
di oggi.
Vengo cosi' al secondo vuoto: nell'ordine della madre la sessualita'
femminile e' andata progressivamente in dissolvenza. Piu' la madre e'
diventata figura sessuata dell'origine, dell'autorita' e della parola
femminile, piu' si e' desessualizzata. Un esito paradossale, che non era
nelle premesse del discorso: non, ad esempio, nei primi testi di Luce
Irigaray, dove il progetto di portare a rappresentazione la relazione
madre-figlia forclusa dal simbolico patriarcale era tutt'uno con quello di
fare posto alla sessualita' della donna; ed era proprio la sessualita'
femminile - le labbra che si toccano, il sesso che non e' uno - a inaugurare
l'economia metonimica della contiguita' contro quella metaforica e
patriarcale della sostituzione e del sacrificio.
Puo' essere accaduto che il linguaggio, per quanto metonimicamente legato al
corpo e all'esperienza, abbia messo a tacere il sesso? O che il simbolico
materno abbia riprodotto un immaginario desessualizzato della madre? La
sessualita', mi pare, torna a interrogarci da questo crinale che ha a che
vedere per un verso con i limiti del simbolico, per l'altro con il rapporto
fra simbolico e immaginario. La sessualita' infatti eccede il processo di
simbolizzazione: gli sottosta' ma non gli si riduce, alimenta il desiderio
di sapere e di parlare ma vive oltre il linguaggio, quando il linguaggio si
ritrae o collassa. E viceversa tace, da troppo tempo, nelle nostre pratiche
discorsive. Ma quando la sessualita' tace, sappiamo che qualcosa, nel
"circolo di corpo e parola", si inceppa, o ritorna in forme impreviste. E
infatti io temo che ritorni, contro ogni nostra intenzione, nella forma di
un desiderio femminile nuovamente tacitato, o di una potenza materna
nuovamente desessualizzata, che oggi si riaffacciano - tornero' su questo -
nell'immaginario femminile e maschile.
Clinica e senso comune convergono oggi nel dire che nel giro di un secolo,
nella popolazione femminile delle societa' occidentali, il sintomo isterico
e' stato soppiantato dal sintomo anoressico (e si e' nel frattempo spostato
sugli uomini). La grande imputata e' di nuovo la madre.
I due sintomi si inscrivono infatti in due ordini, o disordini, simbolici
del tutto diversi, segnati da un mutamento storico di cui - questo e' il
punto - la rivoluzione femminil-femminista e' stata in parte artefice.
Mentre il corpo isterico femminile esprimeva una sessualita' interdetta
dalla legge del padre che cercava le parole per dirsi - e le ha trovate,
nella talking cure psicoanalitica e nelle pratiche femministe della messa in
parola -, il corpo defemminilizzato, dematernalizzato e desessualizzato
dell'anoressica non offre e non chiede parola ne' all'analista ne' alla
madre ne' all'altra donna, si presenta come un dato identitario, un ritorno
di reale non simbolizzabile, un corpo-feticcio che eccede il discorso e da
cui l'io dipende interamente. La talking cure rischia lo scacco, e il
processo di simbolizzazione rivela il suo limite.
Se l'isteria e' il sintomo che ha accompagnato l'ingresso delle donne nella
modernita' e a cui il femminismo ha dato una risposta politica, l'anoressia
si configura cosi' non solo come il sintomo di una resistenza femminile alla
postmodernita' edonista e consumista, ma anche come un effetto imprevisto e
paradossale del mutamento femminile, del sapere femminile sulla donna, della
rivoluzione simbolica femminista. Dal sintomo nevrotico dell'oppressione al
sintomo perverso della liberta' femminile?
Se nella conversione isterica contro la madre abbiamo visto il bisogno del
continuum materno, la sottrazione dalla madre del corpo anoressico non
esprimera' al contrario un bisogno di discontinuita' dal materno, una
differenza femminile dalla madre cui dare spazio e significato?
Mentre al tempo di Freud il "disagio della civilta'" era riconducibile
all'imperativo repressivo di un super-io sociale che domandava ai singoli
soggetti, in cambio dell'accesso alla comunita', l'interdizione del
godimento e la rinuncia al soddisfacimento pulsionale ("devi/non devi"),
oggi sembra viceversa da ricondurre all'imperativo al godimento ("devi
godere") che caratterizza il super-io sociale tardocapitalistico e
postmoderno e la personalita' narcisistica contemporanea. Mentre Freud
concepi' la psicoanalisi come "clinica simbolica", talking cure basata
sull'ipotesi che il sintomo esprime nella lingua dell'inconscio il ritorno
cifrato del desiderio rimosso, oggi i nuovi sintomi, associati all'agire
compulsivo, alla disinibizione, all'uso dell'oggetto finalizzato al
godimento, appaiono irriducibili alla dialettica rimozione-ritorno del
rimosso; manifestazioni del reale piu' che messaggi cifrati da interpretare,
segnalano al tempo stesso una crisi della facolta' della simbolizzazione nei
loro portatori, della "virtu' simbolica della parola" nella talking cure, e
un limite del simbolico come tale. Mentre al tempo di Freud il corpo
parlante dell'isterica, sintomo-sintesi delle nevrosi dell'epoca, domandava
messa in parola e simbolizzazione, oggi il corpo dell'anoressica,
sintomo-sintesi delle "perversioni del godimento", la rifiuta, o non sa che
farsene. Infine e non ultimo: mentre al tempo di Freud il padre garantiva la
soggettivazione e la tenuta dell'ordine simbolico, oggi e' nel declino del
padre che si condensano la crisi del Grande Altro, del soggetto morale e
dell'ordine simbolico.
Secondo Roudinesco la chiave decisiva per compulsare il destino dei rapporti
fra i sessi stretto fra la crisi dell'autorita' paterna e del "logos
separatore" da una parte, e una potenza "non tanto femminile quanto materna"
dall'altra parte, resta affidata all'"emergere di un nuovo ordine simbolico"
che risultera' dai conflitti del presente.
La potenza materna si e' di nuovo ingoiata la sessualita' femminile, ed e'
di nuovo fonte di processi di fantasmatizzazione e criminalizzazione delle
donne? L'onere della risposta, e' chiaro, non spetta a Roudinesco ma a noi,
che abbiamo ripensato la madre come principio di un simbolico che non separa
ma unisce, scommettendo su una sua capacita' di regolazione sociale che non
dipende dalla legge, testimoniando un processo di soggettivazione che non
passa per l'atto sacrificale del parricidio ne' per la sua imitazione
matricida. Ma per rispondere, all'immaginazione teorica e pratica e'
necessario affiancare l'analisi sociale, cercando di scorgere nel presente i
segni di quello che e' e che sara' la madre dopo il patriarcato, nelle sue
luci e nelle sue ombre, nel chiaro e nell'oscuro appunto che la circondano,
nei suoi aspetti di realta' e nei suoi aspetti fantasmatici.
In questa direzione, la prospettiva post-lacaniana va a mio avviso accolta
per quello che dice della "morte del padre" (dopo e in sequenza con la morte
di Dio, della metafisica, della politica e quant'altro), e
contemporaneamente ribaltata per quello che non dice della vicenda della
madre.
La differenza oggi non e' data solo o tanto dall'acutizzarsi della crisi
dell'autorita' paterna e della sindrome narcisistica maschile: e' data da
cio' che noi abbiamo messo o rimesso al mondo della madre, della sua potenza
e della sua impotenza, della sua realta' e della sua fantasmaticita', in
replica, in mimesi o in differenza dalle tradizionali declinazioni del
materno. Dopo quarant'anni di femminismo, la madre non ci sta alle spalle:
per l'immaginario sociale, le madri siamo noi. La percezione reale o
fantasmatica della madre riguarda direttamente la percezione reale o
fantasmatica di cio' che nel femminismo abbiamo detto e fatto; percio' e'
importante e difficile tentare di decifrarla.
Su questa dislocazione da noi operata dell'autorita' simbolica della madre
dalla potenza materna tradizionale si gioca infatti, nella sfera personale
non meno che nella sfera pubblica, una partita fantasmatica confusa, in cui
la nostalgia del materno patriarcale si confonde con la paura per la madre
risignificata dal femminismo - l'una e l'altra, la nostalgia e la paura,
accomunate dalla desessualizzazione della differenza femminile. Ne viene
spesso, da parte maschile, un groviglio contraddittorio, questo si'
difficile da decifrare, di domande e diffidenze: domande di accudimento e
nutrimento, spesso trasferite dal regno della cura tradizionale a quello
della cura psicologica e intellettuale; diffidenze per l'inedito
manifestarsi di un materno esigente e poco complice, generoso ma poco
accudente.
Quanto abbiamo concesso, in cambio di un riconoscimento di autorita', di
perdere in sessualita', cosi' mettendoci da sole sul piano inclinato della
replica della figura materna tradizionale? Quanto la fecalizzazione del
rapporto madre-figlia ci ha distratte dall'interrogarci su quale sia la
relazione con la madre dei figli narcisisti del padre mutilato o tramontato?
La nostra ricerca dell'autorita' simbolica puo' farsi complice di questa
desessualizzazione. Perche' e' vero che senza evocazione della potenza
materna non c'e' grandezza femminile; ma e' vero anche che al riparo di una
potenza materna idealizzata la grandezza femminile non vola, non rischia, e
nemmeno genera. (...)

5. LIBRI. "DIOTIMA": L'OSCURO MATERNO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadeledonne.it)
riprendiamo il seguente comunicato editoriale]

"Diotima", L'ombra della madre, Liguori, Napoli 2007, pp. 208, euro 15,50.
Nel libro viene messa a tema una delle questioni che piu' hanno coinvolto il
femminismo e il rapporto politico tra le donne, ovvero il legame con la
madre. Su questo si e' giocato nel passato recente il significato stesso di
liberta' femminile.
In particolare viene indagato l'aspetto oscuro del rapporto con la madre. Si
tratta dell'enigma della vicinanza del materno, che si mostra come qualcosa
di indefinito e illimitato, che sta tra la madre e la figlia e che si puo'
veder proiettato, se pure in forma diversa, nei legami delle donne fra loro.
E' quell'aspetto del rapporto con la madre, che rimane come inerte rispetto
al linguaggio, eppure si avverte vivo e inquietante. Inquietante nel senso
che mette in movimento, fa uscire dalle quiete e incute paura. La paura, per
le donne, deriva dall'angoscia interna della ritorsione della madre, del suo
giudizio, della sua potenza. L'intenzione che ha guidato le autrici e' stata
quella di affrontare l'impensato dell'ombra del materno senza arrivare a
risposte adoperabili subito; si e' scelto piuttosto di vedere cosa avviene
di esso dentro e fuori di noi, nelle nostre relazioni e nel rapporto con il
mondo.
*
Indice: Prefazione, di Chiara Zamboni Robotti e Luisa Muraro Brunello;
Paradossi del materno, di Cristina Faccincani Gorreri; Ne' una ne' due:
l'enigma di un eccesso nello spazio pubblico, di Chiara Zamboni Robotti; Con
lo spirito materno, di Diana Sartori Ghirardini; La passione di esserci, di
Laura Colombo; La luna e le lunine, di Sara Gandini Baraldi; Ancora si nasce
da donna, di Maria Luisa Boccia Ingrao; Maria, di Lucia Vantini Vignola; La
mia Colette, di Liliana Rampello Corbetta; Demetra e il figlio della regina,
di Delfina Lusiardi Sassi; Non fare ombra all'ombra della madre, di Anna
Maria Piussi Berlese; In gioco, di Wanda Tommasi Turrini; L'impronta
indecidibile, di Ida Dominijanni Giglio.
*
Diotima e' una comunita' filosofica femminile, nata presso l'Universita' di
Verona nel 1984: le donne che ne fanno parte, alcune interne altre esterne
alle istituzioni accademiche, sono accomunate dall'amore per la filosofia e
dalla fedelta' a se stesse. Diotima ha gia' pubblicato, presso la Tartaruga
di Milano, Il pensiero della differenza sessuale (1987), Mettere al mondo il
mondo (1990), Il cielo stellato dentro di noi (1992) e, presso Liguori,
Oltre l'uguaglianza. Le radici femminili dellíautorita' (1995), La sapienza
di partire da se' (1996), Il profumo della maestra (1999).

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 137 del 2 novembre 2007

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