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Minime. 261
- Subject: Minime. 261
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 2 Nov 2007 00:26:38 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 261 del 2 novembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini: Il fascismo dei maschi, il razzismo degli sfruttatori. Apocalypsis cum figuris 2. In corso a Verona il XXII congresso del Movimento Nonviolento 3. Cati Schintu: Aung San Suu Kyi e la via birmana alla pace 4. Lea Melandri: La costruzione patriarcale della "razza" 5. Chiara Zamboni: Il razzismo in centimetri sul corpo femminile 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. PEPPE SINI: IL FASCISMO DEI MASCHI, IL RAZZISMO DEGLI SFRUTTATORI. APOCALYPSIS CUM FIGURIS Come si fa a non vedere a quale livello di ferocia e pervasivita' e' ormai giunta quella guerra dei maschi contro l'altra meta' dell'umanita', guerra, si', che ormai chiamiamo - con termine terribile e ineludibile - femminicidio? E come si fa a non vedere a quale livello di ferocia e pervasivita' e' ormai giunto il razzismo della casta dei privilegiati - e privilegiati perche' godono del frutto della rapina genocida ai danni dei quattro quinti dell'umanita', rapina che si presenta ora sotto lo pseudonimo di "nuovo ordine mondiale" - al punto che anche il sindaco di Roma, che solitamente viene spacciato per persona mite, dimenticando il principio di diritto secondo cui la responsabilita' penale e' personale e quello secondo cui una persona puo' essere punita solo se ha commesso un reato, arriva a promuovere una sorta di crociata contro le persone provenienti dalla Romania (ben sapendo che quando i prominenti e i bennati lanciano raffiche di folli feroci parole in tv, i nazisti nostrani nei loro sottoscala gia' affilano i pugnali pronti all'uso, da quelle medesime folate di parole sentendosi a un tempo eccitati e legittimati)? Come si fa a non vedere che proseguendo nella devastazione ambientale recata con se' dal modello di sviluppo industrialista e consumista, dalla logica della massimizzazione del profitto e dello sfruttamento totale e totalitario di natura e persone, la biosfera sta giungendo al collasso, e con essa, entro essa, la civilta' umana si estingue, e l'umanita' presente e futura va incontro a sofferenze indicibili? Come si fa a non vedere che la partecipazione militare italiana alla mattanza in Afghanistan, in spregio della legge che l'omicidio e le stragi proibisce, in spregio della legge che la guerra ripudia, ci rende terroristi, complici di terroristi, mandanti, esecutori, seminatori ed alimentatori di terrorismo, ci rende un paese assassino, un ex-ordinamento giuridico che abdica al diritto in favore della mafia, uno "stato canaglia" (nel gergo di lorsignori), e cosi' si apre un varco, si aprono le cateratte, al dilagare di ogni orrore? * Come si fa a non vedere questa fiumana di sangue? E a restare inerti e pusillanimi sulla soglia di casa in attesa che ci investa, e allora non basteranno ne' i sacchetti di sabbia, ne' i cavalli di frisia, ne' la mitraglia, ne' il girar dell'elica e il rombo del motor. Tutti saremo sommersi. * Il tempo disponibile e' ormai poco: o la nonviolenza si fa forza politica e programma politico, o la nonviolenza si pone l'obiettivo del governo del nostro paese e delle cose del mondo, o la nonviolenza torna al programma di Gandhi: programma politico rivoluzionario per l'autogoverno, per la presa e la condivisione del potere, per la liberazione dell'umanita' e la responsabilita' di ciascuno per tutto, o non ci sara' scampo per nessuno. Per nessuno ci sara' scampo. La nonviolenza in cammino, la nonviolenza del movimento delle donne, la nonviolenza dell'ecologia fondata sul principio responsabilita', la nonviolenza che rivendica tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani, la nonviolenza socialista e libertaria, la nonviolenza dell'internazionale futura umanita', e' oggi a questa prova e non puo' eluderla. Deve organizzare la lotta politica per il potere politico, deve rovesciare le sorti del mondo. Deve fermare la guerra, le stragi, le devastazioni. Deve affrontare e sconfiggere patriarcato, sfruttamento, inquinamento, militarismo, totalitarismo, barbarie. Deve inverare il progetto politico di Simone Weil e di Hannah Arendt, di Virginia Woolf e di Rosa Luxemburg, di Rigoberta Menchu' e di Vandana Shiva. Di Luce Fabbri. Di Aung San Suu Kyi. La nonviolenza in cammino. Questa unica umanita'. 2. INIZIATIVE. IN CORSO A VERONA IL XXII CONGRESSO DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Ibu Robin Lim e' ostetrica, operatrice umanitaria, costruttrice di pace, animatrice dell'associazione no profit Yayasan Bumi Sehat di Bali; nel 2006 le e' stato attribuito il premio internazionale "Alexander Langer"; un suo profilo essenziale e' nel n. 1385 de "La nonviolenza e' in cammino", due interviste nel n. 1445 e nel n. 1480] Iniziato ieri, e' in corso a Verona il XXII Congresso del Movimento Nonviolento: "La nonviolenza e' politica per il disarmo, ripudia la guerra e gli eserciti", presso la Sala "Comboni", Missionari Comboniani, vicolo Pozzo 1, San Giovanni in Valle (vicino a Piazza Isolo, centro storico di Verona). Di seguito il programma di oggi e dei prossimi giorni. * 2 novembre, venerdi' Mattina: lavoro in tre commissioni: I Corpi civili di pace; Il Servizio civile volontario; L'educazione alla nonviolenza. Pomeriggio: lavoro in tre commissioni: Economia, ecologia, energia; Risposte di movimento alla crisi della politica; Resistenza nonviolenta contro il potere mafioso. Sera, ore 21: incontro con Ibu Robin Lim, indonesiana, ostetrica, Premio Alexander Langer 2006, "La pace nel mondo puo' venir costruita cominciando oggi, un bambino per volta". * 3 novembre, sabato Mattina: riferiscono le prime tre commissioni e poi dibattito; riferiscono le altre tre commissioni e poi dibattito; spazio per presentare le mozioni. Pomeriggio: dibattito sulle mozioni, votazioni, rinnovo delle cariche. * 4 novembre, domenica, ore 10 "Non festa, ma lutto", iniziativa nonviolenta: camminata attraverso luoghi simbolici della citta': partenza da via Spagna, Casa per la Nonviolenza, percorso attraverso San Zeno, Tribunale Militare, Arsenale, Ponte della Vittoria, arrivo in Piazza Bra' alle ore 12. * Per informazioni: Casa per la nonviolenza, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 3. PROFILI. CATI SCHINTU: AUNG SAN SUU KYI E LA VIA BIRMANA ALLA PACE [Da "Donne in viaggio" n. 70, novembre 2007 (disponibile nel sito: www.donneinviaggio.it). Cati Schintu, intellettuale femminista e libertaria, scrive su "Donne in viaggio", e' webmaster del sito di "A. Rivista anarchica". Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San (il leader indipendentista birmano assassinato a 32 anni), e' la leader nonviolenta del movimento democratico in Myanmar (Birmania) ed ha subito - e subisce tuttora - durissime persecuzioni da parte della dittatura militare; nel 1991 le e' stato conferito il premio Nobel per la pace. Opere di Aung San Suu Kyi: Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano 1996, 2005; Lettere dalla mia Birmania, Sperling & Kupfer, Milano 2007] E' una donna dall'aspetto fragile Aung San Suu Kyi, la leader dell'opposizione birmana, premio Nobel per la pace, che con il suo attivismo ispirato ai principi della nonviolenza da quasi vent'anni tiene testa a un regime dittatoriale spietato e brutale. "La signora", come la chiama con affetto il popolo birmano, a cui il governo impedisce anche di pronunciarne il nome, e' diventata il simbolo di un paese oppresso e umiliato che non cessa di lottare pacificamente per la democrazia e che alla violenza del potere oppone la propria dignita'. Anche nelle recenti manifestazioni che si sono svolte tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre di quest'anno, guidate da monaci e monache buddisti, e represse con inaudita violenza dai militari, Aung San Suu Kyi e' stata il principale punto di riferimento per il suo popolo e per la comunita' internazionale. L'inviato speciale dell'Onu Ibrahim Gambari, giunto in Birmania (1) per tentare di avviare un dialogo con il regime ed esprimere la preoccupazione del mondo per la sorte degli oppositori, ha voluto incontrarla a Rangoon, e nonostante le resistenze del regime e' riuscito a vederla due volte, prima e dopo i colloqui con il generale Than Shwe. Alla causa della sua gente, Aung San Suu Kyi ha sacrificato la propria liberta' e la propria vita privata, anche quando, nel 1999, potendo tornare a Londra per rivedere il marito malato di cancro, ha rinunciato perche' il regime le avrebbe impedito di rientrare in Birmania. Centrali, nella sua scelta radicale di condividere fino in fondo le sofferenze e la lotta per la liberta' del popolo birmano, sono stati la sua fede buddista, gli insegnamenti del Mahatma Gandhi e l'esempio di impegno civile dei suoi genitori. Nel discorso per la consegna del premio Nobel per la pace assegnatole nel 1991, e che Aung San Suu Kyi non ritira personalmente perche' si trova a Rangoon agli arresti domiciliari, afferma: "Non potrei proprio, in quanto figlia di mio padre, restare indifferente riguardo a cio' che accade nel mio paese (...) questa crisi nazionale potrebbe in realta' essere definita come la seconda lotta per l'indipendenza birmana". * Il padre, Aung San, un importante esponente politico, guido' la Birmania nella lotta per l'indipendenza dalla Gran Bretagna. Fu ucciso insieme ad altri dirigenti in un attentato nel 1947, quando Aung San Suu Kyi aveva appena due anni. Sua madre, Khin Kyi, divenne una figura politica di spicco nella Birmania indipendente e nel 1960 fu nominata ambasciatrice in India. Aung San Suu Kyi segue sua madre in India, qui frequenta le migliori scuole del paese, in seguito si trasferisce in Inghilterra per studiare scienze politiche, economia e filosofia alla Oxford University. Dopo la laurea, continua i suoi studi a New York e nel 1972 inizia a lavorare per le Nazioni Unite. Si sposa con uno studioso della cultura tibetana, ha due figli. La vita di Aung San Suu Kyi subisce un brusco cambiamento quando, nel 1988, dopo quasi trent'anni di assenza, rientra in Birmania per assistere la madre gravemente malata. Il Paese, oppresso fin dal 1962 da una feroce dittatura, attraversa una drammatica crisi economica e sociale e proprio quell'anno scoppiano le prime proteste popolari guidate dalle opposizioni e dalle minoranze etniche perseguitate dal regime militare del generale U Ne Win. Migliaia di uomini e donne, studenti, contadini, operai, dipendenti pubblici, monaci buddisti, cristiani, musulmani, intellettuali, artisti, invadono pacificamente le strade per chiedere riforme democratiche. Aung San Suu Kyi fa propria la causa del suo paese e diventa la voce e l'icona del movimento nonviolento per la pace e il rispetto dei diritti civili. Nello stesso anno fonda quello che diverra' il principale partito d'opposizione al regime, la Lega nazionale per la democrazia (Nld). Dopo le dimissioni del generale U Ne Win, la nuova giunta militare, denominatasi Consiglio per la Restaurazione della Legge e dell'Ordine dello Stato (Slorc), reagisce uccidendo migliaia di uomini, donne e bambini in tutto il paese. Ma nonostante gli arresti in massa - la stessa Aung San Suu Kyi viene costretta agli arresti domiciliari -, il ricorso sistematico alla tortura, le sparizioni degli oppositori, le dimostrazioni continuano. Grazie alle pressioni internazionali, e probabilmente confidando nel fatto che i leader dell'opposizione sono stati messi a tacere in carcere, nel 1990 il governo indice le elezioni. La vittoria del partito di Aung San Suu Kyi e' schiacciante, ottiene l'82% dei voti, ma la giunta militare si rifiuta di riconoscere il risultato e riprende il potere. Aung San Suu Kyi viene rilasciata nel 1995, dopo sei anni di arresti domiciliari, e prende subito contatto con la Lega per la democrazia: "Quando (...) ci reincontrammo, quella sera, decidemmo semplicemente di riprendere da dove avevamo lasciato sei anni prima. Quel giorno resta impresso nella mia memoria non come una giornata storica, ma come un giorno di serena determinazione", racconta nel suo libro Lettere dalla mia Birmania del 1995, pubblicato in Italia nel marzo di quest'anno (2). Nei sette anni di relativa liberta' Aung San Suu Kyi, pur sottoposta a pesanti restrizioni e intimidazioni, prosegue la sua attivita' a favore del ripristino della legalita' e denuncia le condizioni spaventose in cui e' costretta a vivere la popolazione, privata dei diritti piu' elementari. Fa sentire la sua voce anche alla conferenza mondiale delle donne a Pechino, nel 1995, a cui invia una testimonianza, non potendo partecipare fisicamente. "Nessuna donna ha mai iniziato una guerra, ma sono le donne e i bambini che sopportano le sofferenze maggiori in caso di conflitti", si legge nel suo discorso. "C'e' un vecchio proverbio birmano che i maschi citano per negare alle donne la possibilita' di partecipare al processo di cambiamento e al progresso della societa': 'L'alba viene solo quando canta il gallo'. Ma i birmani oggi conoscono le ragioni scientifiche che determinano alba e tramonto. E il gallo saggio sa di cantare perche' e' sorto il sole e non viceversa. Sa di cantare per dare il benvenuto alla luce che cancella le tenebre della notte. Non e' una prerogativa maschile portare la luce al mondo: le donne, con la loro capacita' di compassione, di sacrificare se stesse, con il loro coraggio e la loro perseveranza, hanno fatto molto per dissipare le tenebre dell'intolleranza e dell'odio, della sofferenza e della disperazione" (3). Certo Aung San Suu Kyi ha ben presenti le sofferenze delle donne birmane, la drammatica condizione delle donne Karen, Shan, Kachin e delle numerose altre minoranze etniche che popolano la Birmania, sottoposte da decenni a ogni genere di violenza da parte dei militari. Naw Zipporah Sein, la responsabile dell'Organizzazione delle Donne Karen attiva in territorio tailandese, in un'area che ospita campi profughi e organizzazioni di esuli e dissidenti birmani, denuncia: "Molte donne Karen sono state uccise o stuprate dai soldati, altre sono rimaste vedove o hanno visto uccidere i loro figli, oppure sono state costrette a lasciare le loro case e le loro terre. I soldati distruggono i villaggi e bruciano le scorte di cibo. I bambini muoiono per carenza di cure mediche e di assistenza. Io sogno una vita senza guerra e sostengo coloro che come Aung San Suu Kyi lottano per la pace e la giustizia" (4). Nel 2000 Aung San Suu Kyi viene nuovamente arrestata ed e' solo grazie alle pressioni delle Nazioni Unite che dopo due anni le viene concessa la liberta' vigilata. Temporaneamente libera, viaggia per il paese con la carovana della Lega nazionale per la democrazia, visita i monasteri buddisti, arriva nei villaggi piu' desolati, incontra la sua gente. Il senso del suo agire politico e' sempre nella vicinanza e nella condivisione delle sofferenze degli altri, nella sua straordinaria umanita'. In Lettere dalla mia Birmania scrive: "Molti sostengono che non sia pertinente, in politica, parlare di concetti come metta (bonta', tenerezza) e thissa (verita'). Ma la politica riguarda la gente, (...) l'amore e la verita' riescono a motivare la gente infinitamente di piu' di ogni sorta di coercizione". Durante uno di questi viaggi, nel 2003, un gruppo di militari spara sul suo convoglio nel tentativo di ucciderla. Nell'imboscata muoiono almeno 70 persone, tra cui il vicepresidente della Lega nazionale per la democrazia, lei si salva ma viene condannata agli arresti domiciliari a cui e' tuttora costretta. Da allora non si hanno quasi piu' notizie su di lei, la sua casa e' presidiata dai militari e non e' consentito avvicinarla, persino nominarla e' vietato. Eppure, come i recenti avvenimenti hanno dimostrato, e' sempre nel cuore dei birmani, e' lei che nutre la loro speranza in un futuro dignitoso. In un mondo dominato dalla violenza, in cui anche i paesi democratici legittimano la guerra definendola "umanitaria", Aung San Suu Kyi e' diventata un esempio per tutti di come sia possibile lottare per la liberta' e affrontare i conflitti con mezzi pacifici. Lo ricorda Paolo Pobbiati, presidente della sezione italiana di Amnesty International: "In un momento difficile come questo sarebbe bello vedere affermarsi figure che esprimono la volonta' di pace, di nonviolenza, che parlano di riconciliazione a una controparte ottusa e violenta. Sarebbe bello vedere affermarsi in un paese del Terzo Mondo un modello autoctono basato sulla democrazia e sul rispetto dei diritti. Il pensiero di Suu Kyi non e' soltanto una speranza per il popolo birmano o per tutti gli oppressi: fa parte del patrimonio dell'umanita'" (5). * Note 1. Nel 1989 la giunta militare cambia il nome della Birmania in Myanmar e della sua capitale Rangoon in Yangon. 2. Aung San Suu Kyi, Lettere dalla mia Birmania, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2007. 3. Dal sito www.dassk.com (in inglese), dedicato alla leader birmana. 4. Dal sito www.articolo21.info 5. Dalla Premessa alla nuova edizione del libro di Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005. 4. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: LA COSTRUZIONE PATRIARCALE DELLA "RAZZA" [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo gia' apparso sul quotidiano "Liberazione" del 27 ottobre 2007. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"] La sentenza del giudice di Hannover, che ha concesso a un imputato per violenza sessuale l'attenuante "culturale ed etnica" relativa alla sua origine sarda, ha fatto giustamente parlare di razzismo e di sessismo, ma ha lasciato aperto, non indagato, il sottile, ambiguo legame con cui essi si presentano oggi sulla scena pubblica, politica e mediatica. In alcuni casi, per allontanare dal proprio popolo ñ Stato o regione - l'ombra di una "differenza culturale" infamante, si e' finito per far sparire la benche' minima traccia di residui patriarcali. "In Sardegna ñ ha detto lo scrittore Salvatore Niffoi - da sempre regna il matriarcato, il simbolo stesso della Sardegna e' la madre terra, la fertilita', la potenza femminile". Per rafforzare la sua tesi, ha portato l'esempio della moglie, estremamente attenta alla sua creativita' letteraria - "la mia prima lettrice" -, confermando inconsapevolmente l'ambiguita' di un potere femminile basato sulla dedizione all'altro. Un giudizio ancora piu' deciso nel proclamare l'innocenza del maschio, in ogni paese europeo, e' stato quello di Francesco Merlo ("Repubblica" del 12 ottobre 2007): "Tutti noi cittadini d'Europa veniamo da una cultura contadina dove la donna era condannata a stare in casa alla conocchia, per diventare a sera macchina di riproduzione. Ma ci siamo liberati di quel feroce passato, sepolto anche nel nostro Sud insieme al mito arcaico dell'onore e del disonore, della virilita', che era valore, e' vero, ma solo perche' non c'era ancora lo spazio per coltivare altri valori, di civilta', come la cortesia, la dolcezza, la cultura, il pudore, la fragilita', insomma quella gentilezza dei costumi maschili che oggi prevale dappertutto, anche in Sardegna. La donna italiana, intelligente e libera come quella tedesca, in Piemonte come in Calabria, non e' oltraggiata dalla cultura". Non so in quale nuovo Eden viva Francesco Merlo, o se ad accecarlo sullo stato attuale del rapporto tra i sessi sia stato l'affiorare alla memoria delle tragiche discriminazioni che hanno segnato la storia del '900. Una volta chiarito che non esistono "tipologie nazionali", e che l'"etnia" e' una costruzione immaginaria, messa a copertura di rapporti di potere, interessi economici e relazioni sociali, e' importante che si dica che significato si da' oggi a questo termine, che uso si fa del concetto di "differenza" quando si parla di una societa' "multiculturale". A conclusione di una lunga ricerca sul pensiero razzista, cosi' come si manifesta nei bambini e nel senso comune, confluita poi nel libro La pelle giusta (Einaudi 1997), l'antropologa Paola Tabet scrive: "Nei termini etnia e cultura sono trasfusi i significati di razza... Con l'arrivo in Italia degli immigrati del 'terzo mondo' il discorso razzista diventa quotidiano, invadente, circola veloce, pressoche' dovunque, in una forma o nell'altra, come discorso della gente o dei media... La 'razza', questa categoria scientificamente immaginaria, ma socialmente reale e mortifera, e' cio' che sta sullo sfondo delle emozioni e rappresentazioni di questi bambini". Nella percezione di uno "straniero" minaccioso confluiscono segni lasciati da un passato storico - la schiavitu', il colonialismo -, ma soprattutto l'immagine che si va costruendo di un "terzo mondo" che oggi, come dice Tabet, e' interno, "a domicilio", e di cui il "nero" e' solo il diverso per eccellenza, la "cristallizzazione dell'alterita'". Nel magma sempre piu' confuso, in cui vanno a confluire criminalita', disagio sociale, insicurezza, i "soggetti minacciosi" si moltiplicano e, nel medesimo tempo, subiscono una, sia pure meno evidente, riduzione a un unico, omogeneo tratto distintivo: sono, di volta in volta, gli scippatori, le prostitute, i lavavetri, i parcheggiatori abusivi, i mendicanti, i writers, i presunti terroristi nascosti nelle moschee, le donne col burqa, gli zingari; ma sono anche le molte facce di quella umanita' inferiore, non propriamente umana, che si ripresenta in ogni epoca e in ogni societa' come un residuo da tenere a bada o da eliminare. Oggi, "vite di scarto" sono quelle del povero, del vagabondo, del migrante visto come miserabile e spesso come delinquente, una presenza "selvaggia" che semina paura, fastidio, odio, per le strade della civile Europa. In questa schiera di indesiderati, da cui molti vorrebbero vedere ripulite le nostre citta', entrano di tanto in tanto gli stupratori, soprattutto se stranieri. Benche' le cronache dimostrino quotidianamente che stupri e omicidi di donne avvengono per la maggior parte dei casi in famiglia, che il "perturbante" emerge imprevisto dalla "normalita'", che con la stessa mano si puo' accarezzare e uccidere, la violenza che un sesso fa all'altro stenta ancora a essere nominata come tale: la forma piu' manifesta e piu' orribile di un potere sovrano che l'uomo si e' arrogato sulla donna e che tuttora vive, incorporato nelle istituzioni, nelle abitudini, nelle convinzioni filosofiche e morali della "civilta'". Sono quelle "zone oscure", quegli "angiporti di umanita'" che Francesco Merlo vorrebbe lasciare nella cronaca nera, affrontare con "la medicina psichiatrica", e che altri preferiscono spostare sulle culture "diverse", "arretrate". E' bastato il caso Hina, l'estate scorsa, per dare alla violenza patriarcale il volto di una comunita', di una religione, per farne un tassello dello "scontro tra Occidente e Islam". * Negli scritti dei bambini, che compaiono nel libro di Paola Tabet, la commistione di sessismo e razzismo non compare, ma forse, se al posto del tema "Se i tuoi genitori fossero neri" si fosse chiesto di dire cosa intendono per maschio e femmina, oppure cosa pensano di eventuali genitori gay e lesbiche, avremmo avuto non meno ragioni di stupirci, ridere o rabbrividire. "La vita dei negri e' bruttissima perche' gia' a vederli sono poveri. I negri nascono in Sud America, Iraq, Maroche, Albania. I negri a scuola non li accettano e li buttano via e io non vorrei stare fuori da scuola. I negri nascono di tre razze: di pelle nera, gialla e bianca". "Se i miei genitori fossero negri sarebbero vestiti con degli stracci e ciabatte da arabo. Abiterebbero in jugoslavia. Mangerebbero sempre riso e farina". "Se fossi nero: ruberei, farei tutto con malvagita'. Andrei per la strada a vendere cose. Abiterei in luoghi sporchi". "Se i miei genitori fossero neri, gli darei una bella 'scartazzata', cosi' sarebbero bianchi e puliti come la lana di una pecora bianca appena lavata con il sapone". Oggi la violenza che ha a che fare col rapporto tra i sessi, benche' esca sempre piu' spesso dalle case, dal privato, dall'ambiguo legame con l'amore, continua a subire forme diverse di cancellazione: sia che si tenti di darle una maschera "etnica", sia che la si riduca a patologia individuale, raptus momentaneo. Se c'e' una cultura che ha fatto del pregiudizio razziale il suo atto fondativo, e' proprio quella maschile, col suo carico di ingiustizie e di orrori perpetrati a danno dell'altro sesso e poi via via su altri "diversi". L'incivilimento ha prodotto finora cambiamenti superficiali e passibili di essere contraddetti. Per scuotere un'ideologia che e' divenuta ragione di sopravvivenza, garanzia di privilegi, occorrerebbe una forza collettiva di donne consapevoli del loro destino, capaci di vedere nel potere ñ sessuale e procreativo -, che e' stato loro attribuito, la ragione prima della loro sottomissione. Se non ci fermiamo alla facile equiparazione tra migrante e stupratore, la rappresentazione, cosi' genuina e "politicamente scorretta" che danno i bambini del razzismo, puo' aiutarci a portare allo scoperto alcune parentele radicate nel senso comune, che parlano dell'affinita' tra vittime del razzismo e vittime del sessismo. Lasciando stare l'ideologia che interpreta l'inferiorita' di un popolo come "effeminatezza", ci sono altri tratti comuni nel modo con cui si costruisce socialmente, politicamente la "differenza". E' sempre un gruppo dominante, come scrive Paola Tabet, che decide la classificazione e la collocazione sociale di persone e gruppi "secondo una biologia di comando". La costruzione del "diverso" e' sempre "reificazione di rapporti sociali. Rimossi lo sfruttamento, il dominio, la storia coloniale passata e i rapporti attuali di egemonia economica dell'Occidente,obliterati dunque i rapporti politico-economici che creano la poverta', rimane in piedi solo la poverta' stessa, illimitata, inspiegabile". Ma non si puo' dire lo stesso per quegli aspetti psicologici, culturali che tuttora vengono attribuiti alle donne, e a cui si continua ad imputare la loro inadeguatezza, estraneita', rispetto alle responsabilita' della vita pubblica? Non sono queste "differenze", naturalizzate, a offrire ragioni sia a chi vorrebbe vedere nel femminile materno i tratti di una superiore umanita' - non violenta, generosa di cure e attenzioni all'altro -, sia a chi, come Otto Weininger, considerava le donne incapaci di "rapporti vicendevoli", in quanto prive di quella indipendenza che e' solo di chi, come l'uomo, possiede un Io intelligibile? 5. RIFLESSIONE. CHIARA ZAMBONI: IL RAZZISMO IN CENTIMETRI SUL CORPO FEMMINILE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 ottobre 2007. Chiara Zamboni e' docente di filosofia del linguaggio all'Universita' di Verona, partecipa alla comunita' filosofica femminile di "Diotima". Tra le opere di Chiara Zamboni: Favole e immagini della matematica, Adriatica, 1984; Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil, IPL, 1993; L'azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994; La filosofia donna, Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1997; Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori, Napoli 2001] Nella fotografia una donna in reggiseno e gonna bianca sta girandosi nella stanza dove le stanno prendendo le misure classiche: peso, circonferenza, altezza. Siamo in Spagna. Zapatero ha deciso di combattere anche cosi' la battaglia contro le taglie 38, il magro femminile di moda e le modelle sottilissime, astratte. Una battaglia che pone al centro, perche' sia segno della normalita', una improbabile donna spagnola cosi' com'e'. In realta' una donna a sua volta astratta, perche' risultato statistico della misurazione su campioni raccolti un po' in tutte le piazze delle citta' spagnole. Una donna che si prevede solida, lontana dalla magrezza femminile che si esibisce sulla passerella delle sfilate, per le strade, nelle riviste patinate. Una donna in carne "e dunque" contenta, lontana dai segni dell'infelicita' che la magrezza suggerisce. Vengono in mente altre battaglie per la razza. C'e' il precedente del nazionalsocialismo, che pero' si muoveva diversamente. Veniva proposto il modello dell'uomo e della donna ariani, biondi, con gli occhi azzurri. C'era un che di metafisico nell'indicare semplicemente l'essenza pura, che non aveva bisogno di essere misurata per essere d'orientamento morale per i tedeschi e non solo per loro. Anzi, rifuggiva dal quantitativo. C'era un nesso implicito tra essenza ariana e vita buona. Tra qualita' pura della razza e vita orientata secondo il giusto. Nelle nostre democrazie evidentemente le battaglie per la razza si fanno diversamente. In primo luogo si fanno quasi esclusivamente sul corpo della donna. Occorre sempre interrogare di nuovo il rapporto tra questa forma politica e il corpo femminile, perche' continuamente cambia referenti e modi. Si pensi anche solo in Italia al dibattito sulla fecondazione assistita. Lo stile di questi interventi prende poi un andamento quantitativo: quanti embrioni, quanti centimetri di fianchi, quale misura dei vestiti pronti nei negozi. Se una democrazia ha come mito fondatore la maggioranza contrapposta alla minoranza - l'unico mito rimasto a fronte di tanti altri significati di democrazia che si sono sperimentati nel Novecento - il quantitativo ne misura l'essenza. E quindi il corpo femminile solido, "buono", sano, metafora di una vita felice, non viene suggerito attraverso modelli che abbiano un significato metafisico e qualitativamente essenziale. Un di piu' da amare. No: e' la proporzione quantitativa e la proiezione statistica del corpo delle donne che viene proposta. Una sorta di razzismo democratico, basato sulla proiezione della maggioranza delle donne misurate. Un razzismo al ribasso, che tiene conto della media quantitativa. E' destinata al fallimento una campagna cosi' melanconica, senza immaginazione, che non sappia trovare un di piu' femminile innamorante, che tocchi e seduca. Che non trovi parole per parlare al desiderio delle donne. Che non sappia opporre alla ricerca di perfezione di colei che si ostina a modellare il proprio corpo a pura essenza spirituale se non il quantitativo medio. Proprio cio' che le ragazze, che ostentano la loro magrezza con alterigia e con la consapevolezza di incarnare una eccezionalita' inquietante, maggiormente rigettano, rifiutano. D'altra parte la complessita' della campagna di opinione contro l'anoressia non puo' essere vista solo nella prospettiva del "governo del vivente", come gli studi di biopolitica suggeriscono. E' vero che in questa chiave le donne sono considerate come corpo di cui disporre collettivamente, da definire entro limiti oggettivi, da posizionare. Ed e' vero anche che i governi stanno facendo sul corpo delle donne una implicita politica della razza. E che vengono coniugate ancora una volta organizzazione e limitazione del corpo femminile affinche' se ne abbia un effetto etico, un orientamento di vita, una modificazione d'anima. Ma la situazione che ci troviamo a vivere non e' riducibile solo a questo. Se guardiamo al nostro presente riandando con il pensiero ad alcuni momenti di storia delle donne e a come le donne si sono regolate nel passato, guadagniamo strumenti interpretativi piu' fini. Dove la vera misura e' il desiderio soggettivo femminile, che ha a che fare con il rapporto simbolico che le donne intrattengono con il proprio corpo. Riletta in questa chiave, la campagna sull'anoressia si rivela, come ha gia' scritto su queste pagine Ida Dominijanni, come segno di una complessita' non riducibile a un disturbo alimentare segnato dai rapporti famigliari. E non riportabile neppure soltanto al governo del vivente in termini di biopolitica. Ad esempio nel Medioevo, nel Rinascimento l'astinenza dal cibo, la magrezza erano segno di santita' di fronte a Dio. Segno mostrato da parte di alcune donne come elemento tangibile di perfezione alla collettivita' di cui facevano parte. La via della perfezione che modella il corpo ha una doppia faccia, spirituale e materiale. Segreta, per il legame tra se' e se' e cio' che ognuna di queste donne intende per assoluto, per infinito; pubblica, e allora codificabile, perche' segno di separatezza, distinzione, contestazione dei valori prevalenti del proprio tempo legati alla ricchezza e all'abbondanza. Leggendo questi come altri momenti della storia delle donne si nota come cio' che differenzia le donne dagli uomini e' che certe scelte orientanti della vita hanno sempre un legame con il corpo e il corpo e' segno e allo stesso tempo soggetto della disposizione esistenziale del desiderio. Desiderio, corpo e inconscio sono legati in un nodo particolare nella esperienza delle donne. A quando un ripensamento delle nostre democrazie a partire dalla soggettivita' femminile e dal suo desiderio, con tutti i segni del corpo che ne sono la grammatica? 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 261 del 2 novembre 2007 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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