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Nonviolenza. Femminile plurale. 136
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 136
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 1 Nov 2007 11:28:15 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 136 del primo novembre 2007 In questo numero: 1. Medha Patkar: Una lettera aperta alla citta' di Torino 2. Stefania Cantatore: Superate le 50.000 firme 3. Eugenia Diponti: Etiopia 4. Silvia Berruto: Un incontro ad Aosta 5. Lia Cigarini: Un'altra narrazione del lavoro 1. APPELLI. MEDHA PATKAR: UNA LETTERA APERTA ALLA CITTA' DI TORINO [Dal sito del Centro studi "Sereno Regis" di Torino (www.cssr-pas.org) riprendiamo la seguente lettera aperta alla citta' di Torino dal titolo "La mia scomoda verita'". Medha Patkar, intellettuale indiana impegnata nelle lotte nonviolente per i diritti umani e la difesa dell'ambiente, e' giustamente celebre per aver dato vita negli anni '80 al Narmada Bachao Andolan (Nba), il movimento che si oppone alla costruzione delle dighe sul fiume Narmada in India; la sua lotta nonviolenta - per cui e' stata anche arrestata molte volte - ha costretto la Banca Mondiale a ritirarsi dal finanziamento del progetto di Sardar Sarovar, una delle principali dighe sul Narmada, ed il mondo intero a prestare attenzione ai disastri umani ed ambientali causati da queste opere mastodontiche; nel 1991 Medha Patkar ha ricevuto il Goldmann Prize, un premio internazionale per chi si e' contraddistinto nella difesa dell'ambiente e dei diritti umani, e dal 1998 al 2000 e' anche stata una degli undici commissari dell'autorevole Commissione mondiale sulle dighe; attualmente e' una delle figure-simbolo del movimento new global e della nonviolenza in cammino (un piu' ampio profilo di Medha Patkar e' nei fascicoli n. 455 e n. 1261 de "La nonviolenza e' in cammino"). Su Medha Patkar cfr. il libro di Marina Forti, La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004] Care amiche e cari amici, gentili cittadine e cittadini, onorevoli imprenditori e autorita', cinque anni fa, in questo stesso periodo dell'anno, una delegazione del Narmada Bachao Andolan (il movimento di resistenza contro il megaprogetto di dighe sul fiume Narmada) veniva ricevuto con grande onore dalla vostra ospitale citta'. Tra essi, la scrittrice Arundhati Roy insieme a vari attivisti e film-makers che nel corso degli anni hanno seguito e documentato questa straordinaria esperienza di resistenza. In quel momento ero molto impegnata, come ogni anno subito dopo i monsoni, con le sommersioni che vedevano in pericolo un gran numero di villaggi nelle aree vicine alla diga - e non mi fu possibile essere con loro. Ma l'eco della solidarieta' e del sostegno che avete avuto modo di esprimere alla nostra lotta, e' arrivato fino in India. Cinque anni dopo, la diga Sardar Sarovar ha raggiunto quota 122 metri. E poiche' non c'e' terra disponibile per mantenere l'impossibile promessa della "nuova terra in cambio della terra requisita" i lavori si sono interrotti (grazie al cielo) di nuovo. Ma la gente non ha smesso di lottare per costringere il governo a cancellare una volta per tutte il progetto. Alla data attuale, non meno di 200.000 persone potrebbero essere salvate. * Ma la ragione per la quale ho deciso di scrivervi questa lettera oggi e' mettervi al corrente circa la terribile ingiustizia che ha colpito migliaia di contadini (in parte proprietari, nella maggior parte semplici lavoranti) che una volta dipendevano dalle terre piu' fertili che possiate immaginare, nel Bengala Occidentale. Ebbene: quelle terre sono state sottratte per far posto a un progetto di industrializzazione che, mi hanno detto, qui in Italia e' stato descritto come esempio del "nuovo e visionario coraggio" del Ministro di quell'area, Bhuddadeb Bhattacharjee - ma che in effetti ha registrato un enorme costo umano, ambientale e sociale, per la gente che in quella regione viveva da sempre. Mi riferisco all'area di Singur, a circa 40 km dalla citta' di Kolkata: dove non meno di 22.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case e terre per far spazio agli impianti in cui Tata Motors produrra' la sua famosa "low cost car". In nome dello sviluppo industriale, un'area di 400 ettari dieci volte piu' estesa dello Stato del Vaticano e straordinariamente produttiva (dai 3 ai 5 diversi raccolti all'anno) e' stata requisita con la forza. I contadini si sono opposti dal momento stesso in cui il progetto e' stato annunciato, nel mese di maggio 2006. Ma la loro voce e' stata ignorata. Si sono opposti di nuovo in luglio e in settembre, e durante quegli scontri un giovane ha perso la vita. Hanno provato di nuovo a resistere anche il 2 dicembre - ma non sono riusciti a contenere la forza militare di 600 poliziotti e 1500 "agenti" reclutati apposta per recintare quelle terre nel minor tempo possibile contro la loro volonta', e nonostante una buona meta' delle terre non fossero ancora state cedute poiche' era in corso il negoziato con i proprietari. In quei giorni, molte donne vennero umiliate e molestate, ingiustamente accusate dei piu' assurdi reati da parte della forza pubblica. Io stessa, insieme ad altri attivisti sociali, sono stata fermata, malmenata e arrestata per ben tre volte in una sola settimana - e sia a me che ad altri attivisti impegnati sul fronte dei diritti umani e' stato negato il diritto di visitare l'area. Da quel giorno Singur e' stato un campo di battaglia, teatro di una serie di episodi di sangue, violenza e abusi. Durante i mesi di febbraio e marzo la polizia ha piu' volte picchiato a colpi di lathi (la micidiale canna di bambu') chiunque osasse far sentire la propria voce. Il momento piu' cupo e' stato lo stupro e poi l'uccisione di una ragazza, Tapasi Mallich, rea di avere guidato un dharna (seduta di protesta nonviolenta) nel suo villaggio. Molte altre morti, per assassinio o per suicidio, sono seguite dopo la sua. L'ultimo episodio e' di poche settimane fa: un contadino che, rimasto senza la terra di cui viveva, si e' impiccato i primi di settembre, per disperazione. Tutto cio' non ha impedito a Tata Motors di proseguire nella costruzione del suo stabilimento e il governo del West Bengala ha ripetutamente dichiarato il progetto "non negoziabile" in considerazione degli impegni gia' presi e firmati con numerosi investitori esteri, soprattutto con l'Italia. La lotta e' continuata per tutti questi mesi: cinvolgendo non meno di mille famiglie, in parte piccoli proprietari, la maggior parte bargadars (cioe' mezzadri, e semplici lavoranti) che da generazioni dipendono dalla coltivazione di queste terre e che non si arrendono all'idea di perdere insieme ad esse l'unica fonte di sostentamento. Quanto agli stabilimenti Tata Motors, avrebbero potuto essere destinati a terre non agricole, evitando la distruzione di una prospera economia e delle comunita' che da essa dipendevano. Ma la speculazione finanziaria e immobiliare non sarebbe stata altrettanto rapida e profittevole. E' questo il motore che spinge tanti casi di requisizione territoriale (e sfollamenti ambientali) nell'India di oggi. Su questo infuria il dibattito che divide il mio paese circa la sempre piu' stretta collusione tra il cosiddetto "corporate sector" e la politica. Di questo vorrei foste informati. Le stragi che si sono poi verificate a Nandigram (nel marzo scorso, durante gli scontri scoppiati in opposizione a un grosso progetto di insediamento petrolchimico a beneficio dellindonesiana Salim) hanno finalmente bloccato, almeno per un po, qualsiasi progetto di Sez (Special Economic Zone) in Bengala. Ma non a Singur, che non e' mai stata neppure dichiarata Sez. Singur e' semplicemente passata di mano, ridotta a feudo della famiglia Tata, a ingranaggio propulsore tra gli altri dell'alleanza Tata-Fiat. * E questo e' il motivo che mi spinge a scrivervi questa lettera oggi. Negli stessi mesi in cui noi si viveva questo sanguinoso conflitto sociale, il vostro paese spediva in India la piu' impressionante delegazione commerciale che mai si sia vista in 60 anni di storia post-coloniale: non meno di 450 tra uomini d'affari, banchieri, managers, delegati a vario titolo, giornalisti, accademici e naturalmente politici ai massimi livelli, hanno in pochi giorni toccato le nostre maggiori capitali con l'obiettivo di raddoppiare il volume delle transazione tra Italia e India nel piu' breve tempo possibile. "Le condizioni di ingresso sono favorevolissime, considerato il modesto costo dei terreni e le attraenti esenzioni fiscali" ha euforicamente dichiarato un rappresentante della vostra Confindustria al quotidiano indiano "Financial Express". Particolarmente triste e' stato assistere al totale silenzio della vostra stampa e della Fiat, su piu' fronti impegnata con Tata Motors e partner a tutto campo, sia tecnologico sia di know how, anche sul fronte della commercializzazione su mercati terzi e quindi dei profitti globali su questo progetto di low cost car. Noi, popoli e movimenti indiani, ci opponiamo a questo stile neo-coloniale di partenariato e ci domandiamo come possa succedere che una nazione cosi' civilizzata e ricca di cultura come l'Italia possa associarsi a un simile sistematico furto di terre, violento e brutale, contrario a qualsiasi nozione di diritto umano, e in totale contrasto con qualsiasi nozione di sostenibilita' e di rispetto per l'ambiente. Ci chiediamo anche come possa essere successo che coloro che erano al corrente della situazione (i vostri diplomatici in India, i vari funzionari e ministri che hanno preparato la missione Prodi in India) possano essere rimasti cosi' indifferenti alle notizie degli scontri, benche' fossero sotto gli occhi di tutti. * Mi dicono che la citta' di Torino, e proprio negli ex impianti industriali del Lingotto, ha ospitato esattamente un anno fa (ed ospitera' di nuovo il prossimo anno) la piu' grande e magnifica celebrazione dei valori economici e culturali di "Terra Madre". E non posso fare a meno di pensare che, forse, anche una piccola delegazione dalle campagne di Singur avrebbe potuto essere tra i vostri ospiti della prossima edizione, se quei 400 ettari di terra fertile e amorosamente coltivati non fossero stati distrutti con tutti i loro frutti. Mai piu' lo sviluppo industriale riuscira' a imporsi nel nostro paese a spese dello sviluppo agricolo raggiunto dai nostri contadini nell'arco di anni di costante sforzo. Come puo' un governo italiano che si definisce di centro-sinistra, ritenersi partner di un simile progetto di distruzione, di una simile produzione (invece che diminuzione) di poverta'? E' questo il partneriato economico che l'Europa, l'Italia hanno in mente? Mi appello a voi e al vostro Parlamento affinche' il conflitto sociale esploso nelle aree di Singur riceva d'ora in poi la massima considerazione, a maggior ragione dopo che la stessa Alta Corte di Kolkata ha recentemente rilevato l'illegalita' di quelle requisizioni; nonche' le condizioni di assoluto favore offerte a Tata Motors, a fronte delle perdite sofferte da un'intera collettivita'. A nome di tutti coloro che stanno soffrendo per l'iniquita' di quelle requisizioni, mi auguro di udire almeno una voce di protesta, proveniente dall'Italia, contro questa volgare ingiustizia che si sta perpetuando a spese del nostro settore agricolo e delle comunita' rurali, in Bengala occidentale e altrove. Torino, 22 ottobre 2007 2. DEMOCRAZIA PARITARIA. STEFANIA CANTATORE: SUPERATE LE 50.000 FIRME [Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) riprendiamo il seguente intervento, dal titolo "50 e 50 ovunque si decide. 100.000 firme, il nuovo obiettivo" e il sommario "Dopo l'esito della manifestazione di piazza Farnese, riceviamo e pubblichiamo una riflessione dell'Udi di Napoli". Stefania Cantatore, impegnata nel movimento delle donne e promotrice di molte iniziative per la pace e i diritti umani, e' una delle animatrici dell'Udi (Unione donne in Italia) di Napoli. Pina Nuzzo, apprezzata pittrice, e' una delle figure piu' prestigiose dell'Unione delle donne in Italia (Udi)] A piazza Farnese Pina Nuzzo ha annunciato il superamento delle 50.000 firme a sostegno della proposta di legge per "50 e 50" in tutte le assemblee elettive. Per i centri di raccolta e' stata la fine di un'ansia. La fine di una fase della campagna, per niente conclusa: il nuovo obiettivo e' quello delle 100.000 firme. Il motivo sta tutto nell'affermare la "non negoziabilita'", la cogenza del principio di equita' e la percentuale nelle liste, di fronte a detrattori e nemici, per ora sfuggenti e "invisibili". Invisibili ma tanto forti da non aver permesso fino ad oggi l'applicazione di una norma costituzionale, l'articolo 51. La convivenza civilizzata tra generi e differenze e' un punto di arrivo, ha, come prima condizione, bisogno di regole che permettano la democrazia paritaria, quindi semplicemente la democrazia. Parliamo da mesi di questo, e ne parlano le donne che raccolgono le firme, affermando un altro modo di rapportarsi tra loro ed i loro luoghi, e soprattutto informano su questa semplice e decisiva opportunita' di cambiare. In sostanza questo passaparola e' stato e continua ad essere l'unica forma di propaganda sulla quale contare; la stampa, non e' una novita', ha sostanzialmente omesso di parlarne, anche quando il Pd ha assunto il principio di 50 e 50 tra le sue regole costitutive, abbandonando la logica delle quote rosa, in risposta al dibattito aperto dalla nostra proposta di legge. Su questo, per il diritto di tutte e tutti di poter esprimere sostegno alla democrazia paritaria e per raggiungere le condizioni della "non negoziabilita'" della proposta, dovremmo tener conto di alcune condizioni nuove che noi stesse abbiamo rese possibili. Quanto abbiamo messo sul tavolo della politica ha cambiato linguaggi e disposizioni. Parole come violenza sessuata, femminicidio, democrazia paritaria, salvaguardia (al posto della soffocante protezione che da sempre ci offrono) hanno cambiato il linguaggio anche nel potere della comunicazione. E' l'adeguamento formale minimo ad un universo femminile consapevole dei muri che ancora deve attraversare, che sta in posizione assertiva e non in attesa di concessioni. E' la risposta minima, nel tentativo di sostituire la maternita' con una paternita' che ancora una volta si appropria dei contenuti per moderarli e governarne gli effetti. Se e' vero, come e' vero, che questa espropriazione della maternita' dei processi e delle iniziative, sta tutta nell'intento di conservare, riprodurre i privilegi e il malcostume di sempre, quella che va rinegoziata con caparbieta', non e' la visibilita' in quanto tale, ma e' la trasparenza delle fonti. Come sempre si tratta di puntare in alto, per cominciare a cambiare: dopo l'immobilismo della politica, quello dell'informazione. Noi facciamo politica e fare politica e' proporre obiettivi, rimetterli al centro di un'attenzione, in modo differente. Abbiamo compreso bene che i contatti coi centri di raccolta sono potenziali relazioni, e da donne sappiamo bene quale sia il valore e il rischio che corriamo agendole, sospese tra la condivisione del disagio che ha nome nella subalternita' imposta, e le autolesive incomprensioni tra differenze, trasformandole in distanze. Condividere una nuova rivendicazione di qualita' e di spazio nei media, vincere qualcosa, laddove per noi e' stato sempre difficile, e' sfida che possiamo vivere in tutte le nostre iniziative, come sappiamo: agendo ed imparando nello stesso tempo. Sapendo che di tempo le donne ne hanno poco. 3. TESTIMONIANZE. EUGENIA DIPONTI: ETIOPIA [Ringraziamo Eugenia Diponti per questo intervento. Eugenia Diponti, medico, e' impegnata per la pace, l'ambiente, i diritti umani di tutti gli esseri umani] Solo poche righe al ritorno da un viaggio in Etiopia. Una terra meravigliosa, nell'altopiano a sud di Addis Abeba, ricca di verde, piante, fiori, foreste, laghi e fiumi. Un paesaggio per molti aspetti simile a quello del nord della nostra Italia. Un clima per lo piu' mite, stabile con la stagione della pioggie che porta speranza alle persone perche' rende i campi fertili. Sarebbe una benedizione vivere in questo posto se non ci fossero poverta' estrema, malattie, mancanza di lavoro, scuole, ospedali, strade e servizi fatiscenti o quasi inesistenti. Un'unica ferrovia, su un unico binario, che collega Addis Abeba al porto di Gibuti sul Mar Rosso, costruita dai francesi nel primo Novecento e rimasta come allora e da allora tutti i bianchi sono chiamati "frangi". L'Etiopia, circa 70 milioni di persone, come tutta l'Africa ha subito lo sfruttamento coloniale che attraverso lo schiavismo l'ha privata di milioni di giovani uomini e donne, rapiti e venduti nei mercati d'America e d'Europa. Un traffico di esseri umani che in altre forme e per altre vie tuttora continua ed alimenta il mercato dello sfruttamento del lavoro minorile, della prostituzione, il traffico d'organi e il lavoro nero nei nostri paesi cosiddetti civili. Uno sfruttamento che si attua anche attraverso accordi internazionali di mercato che impongono condizioni tali da sfavorire la piccola produzione locale mentre sono favorite le monocolture di prodotti destinati all'esportazione e la maggior parte dei prodotti sono importati creando cosi' un enorme squilibrio e un debito estero sempre piu' elevato. Questa situazione accresce in maniera drammatica il numero dei giovani disoccupati. L'Africa, l'Etiopia continuano a fare gola all'Europa e all'America, ed ora anche la Cina e l'India si sono unite allo sfruttamento delle sue materie prime, del legname pregiato, dell'oro, del platino e di quanto e' loro necessitario per le loro imprese e per il loro rapido sviluppo industriale. * Il governo etiope e' solo formalmente un governo democratico, di fatto e' mantenuto al potere anche dal sostegno dell'amministrazione americana. Qualsiasi oppositore viene eliminato, costretto all'esilio, ucciso oppure imprigionato in carceri che sorgono in posti malarici, dove la morte e' solo procrastinata. I governanti si spartiscono gli aiuti che provengono dall'estero e che ricevono in quanto riconosciuti come i paesi a regime democratico dalla comunita' internazionale. Di tanto in tanto, infatti, ci sono le elezioni ma viene imposto sempre lo stesso risultato e cosi' vince sempre la stessa parte. Delle proprie ricchezze e degli aiuti internazionali al popolo etiope non restano che le briciole. Essi posseggono solo la propria splendida dignita' di esseri umani. * Il 94% della popolazione urbana etiope e' costretta a vivere nelle baraccopoli, misere case per lo piu' senza acqua, senza servizi igienici, senza gas. L'Etiopia e' da poco entrata nel secondo millennio, secondo il calendario ortodosso, e per festeggiare questo avvenimento interi quartieri di Addis Abeba - nuovo fiore - sono stati sgombrati con la forza. Piu' di diecimila persone cacciate via sotto la minaccia di poliziotti armati, cani e bulldozer. Persone come vuoti a perdere ricacciati via verso le colline e le montagne. Dove non hanno piu' nulla di quel poco che prima avevano. Cacciati via, le loro povere case, che sono state comprate con grandi sacrifici, vengono demolite per far posto a nuovi quartieri e case per i pochi privilegiati. Nessuno puo' denunciare questo, pena l'espulsione dall'Etiopia per i bianchi e la prigione per gli etiopi. * La divisione in regioni federali dell'Etiopia e i programmi governativi per le scuole tendono a privilegiare lo studio e l'uso delle lingue locali a scapito della conoscenza di una unica lingua nazionale. Le persone che vivono nelle stessa regione spesso non si capiscono e non riescono a comunicare perche' mancano di una lingua comune, i bambini e i ragazzi non hanno la possibilita' di studiare e conoscere una lingua nazionale. Questo crea le condizioni ed e' la base perche' rivalita', incompresioni e dissidi esplodano. Questa frantumazione delle lingue torna utile ai governanti perche' impedisce la diffusione, la crescita e l'organizzazione del dissenso e dell'opposizione. * Ho passato tanti giorni, nella mia attivita' di medico, a visitare i bambini. La gioia e la dolcezza dell'incontro con quei bambini tante volte e' stata quasi cancellata dalla rabbia e dalla pena. Ci sono stati momenti che ho avuto l'impulso di urlare per il dolore, quando visitando un bambino scoprivo cicatrici sulle loro braccine, braccine sottili come grissini. Cicatrici da ustione, prodotte dalle cadute di questi bimbetti sui fornelli a carbone, posti a terra, al centro della loro casa formata da un'unica stanza. Fornelli usati per cucinare spesso un unico pasto: l'engera. Un pane sottile e morbido che si mangia insieme a un po' di carne e patate. Gia', il pane, dabo nella loro lingua. Il prezzo del pane sale di continuo, e la frutta bella e varia che si vede esposta un po' dappertutto nei piccoli e polverosi chioschi e' destinata solo ai piu' ricchi e all'esportazione. La maggior parte dei bambini etiopi possono solo guardare questa frutta, questi frutti della loro terra ma non se ne possono nutrire, non ne possono gustare il sapore. E sono i bambini e le donne che piu' soffrono. Non e' una novita'. * Le donne sono considerate meno di nulla. La cultura tradizionale e le religioni, soprattutto quella cristiana ortodossa etiope e la musulmana, accettano e perpetuano questa concezione e condizione della donna come inferiore e soggetta all'uomo, soprattutto nelle campagne, e di fatto la giusta rivendicazione di parita' delle donne rimane soffocata all'interno di una millenaria tradizione maschilista che si autoperpetua. Le donne svolgono i lavori piu' pesanti, anche quelli edili, per un compenso di circa 70 centesimi di euro al giorno, appena sufficiente a comprare quattro panini. * I giovani sono tantissimi, belli, dal viso allegro e nobile, vestiti con improbabili combinazioni di colori che ne aumentano bellezza ed eleganza. Sono senza lavoro e con lunghe giornate da riempire con nulla. Il virus dell'Hiv miete vittime a non finire e non c'e' alcun vero, reale piano nazionale efficace di prevenzione e cura. In tutta l'Africa sub-sahariana ci sono milioni e milioni di bambini resi orfani dall'Aids. * L'Etiopia, come molti altri paesi africani, e' un enorme campo di concentramento e chi puo' tenta in tutti i modi di scappare via, verso la speranza di una vita migliore, almeno un po'. La gente vive l'inferno all'interno di un vero e proprio paradiso della natura, e ci vive con dignita' e forza. Gli etiopi sono pazienti, accoglienti ed ospitali. Anche il piu' povero dei poveri mette a disposizione di chi arriva se stesso e quello che ha. Questo e' uno dei grandi insegnamenti che viene dai popoli dell'Africa: l'apertura verso l'altro, l'amicizia come dono gratuito, la disponibilita', il tempo per l'ascolto. * Questo dovrebbe esserci di insegnamento e scuotere il senso di indifferenza, l'anestesia dei sentimenti, il nostro triste e infecondo essere ripiegati su noi stessi. Mi porto tanto da questo viaggio in Etiopia, molto di piu' di quel poco che ho lasciato e dato della mia professione e della mia amicizia. Mi porto una domanda che continuamente mi batte nella testa come un martello, quando alzo la testa da me stessa. "Cosa fai tu, cosa fate voi per far cessare lo sfruttamento delle nostre terre e la miseria del nostro popolo e dei nostri bambini?": a questa domanda mi sento chiamata a dare risposta in prima persona, a questa domanda chiedo che diano risposta i nostri governanti. 4. INCONTRI. SILVIA BERRUTO: UN INCONTRO AD AOSTA [Dal sito del Centro studi "Sereno Regis" di Torino (www.cssr-pas.org) riprendiamo il seguente resoconto. Silvia Berruto, operatrice culturale, amica della nonviolenza, e' impegnata nell'associazionismo democratico, nel giornalismo d'impegno civile, in molte iniziative di pace, di solidarieta', per la nonviolenza] Il Movimento e' in movimento. Il Movimento Nonviolento, gruppo Valle d'Aosta, e l'Arci Valle d'Aosta hanno organizzato all'Espace Populaire di Aosta il 5 ottobre scorso, in collaborazione col centro studi "Sereno Regis" di Torino, un incontro che si inserisce tra i contributi nazionali preparatori per il XXII Congresso del Movimento Nonviolento "La nonviolenza e' politica per il disarmo, ripudia la guerra e gli eserciti" che si terra' a Verona dal primo al 4 novembre. Il Movimento Nonviolento e' stato fondato dopo la "Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli" da Perugia ad Assisi del 24 settembre 1961. Dal 1964 il movimento diffonde il periodico mensile "Azione nonviolenta" per informare selle lotte nonviolente in Italia e nel mondo. Negli anni sono stati molteplici i momenti di presenza politica del movimento. Ricordiamo la campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza al servizio militare, le manifestazioni contro le guerre (Vietnam, Iraq, Kosovo, Bosnia, Cecenia, Afghanistan), le manifestazioni contro le centrali nucleari, le marce antimilitariste, la campagna di restituzione del congedo militare e la campagna di obiezione alle spese militari. L'impegno costante e' la divulgazione della nonviolenza come cultura, stile di vita, prassi politica, ricerca e studio. Aldo Capitini, teorizzatore e promotore della nonviolenza in Italia, asseriva nei suoi scritti "La nonviolenza e' una direzione, un segno di freccia che uno pone alla sua vita". E' un percorso interiore permanente che dura tutta la vita. Richiede cambiamento e riconciliazione con se stessi e con gli altri. Non ammette il concetto di delega tanto in voga oggi. E' una forma di lotta e di pressione, ha una valenza filosofica, culturale e puo' assumere, se agita, anche una valenza politica. * La presentazione della serata ha fatto un preciso riferimento all'home page del sito dell'Espace Populaire, per ricordare il senso e la mission del luogo in cui si stava svolgendo l'incontro riassunti nella condivisibile dichiarazione di intenti: "un laboratorio di pace, per mondi diversi, migliori dell'esistente". In tal senso, (ma anche in tale spazio), c'e' spazio per il sogno. Per il sogno politico che non e' l'enunciazione di un sogno irraggiungibile ma il modo attraverso il quale un desiderio e un auspicio si presentano come legittimi. Perche' questo accada occorrono varie condizioni tra cui la percezione che la storia possa cambiare e che nulla sia ineluttabile, in cui cioe' un cambiamento e' possibile. Il sogno non e' solo un contenuto. E' un'emozione e la possibilita' di condividerlo. Il sogno politico e' essenzialmente un atto, non un disegno compiuto e organico, condizione propria dell'utopia per la quale e' essenziale una dimensione di progetto d'organicita'. * E sulla dimensione delle azioni e del cambiamento il Movimento Nonviolento e l'Arci Valle d'Aosta hanno invitato a parlare due amici e persuasi della nonviolenza: Giovanni Salio, gia' ricercatore presso il Dipartimento di Fisica Generale dell'Universita' di Torino e presidente del centro studi "Sereno Regis" di Torino, e Piercarlo Racca, del coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento e del Centro studi "Sereno Regis". A Giovanni Salio e' stato richiesto un intervento tecnico, "da fisico", sul tema del nucleare che ha intitolato "Armi nucleari: dalla politica del terrore alla politica dei terrorismi", mentre a Piercarlo Racca e' stato chiesto di illustrare la campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare che dichiari l'Italia "zona libera da armi nucleari". La proposta di legge era stata gia' presentata il 5 agosto scorso, proprio all'Espace Populaire, dopo la proiezione del documentario "Le gru di Sadako" per ricordare i bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki. L'incontro con Salio e Racca era inserito nell'ambito delle proposte della settimana della pace (1-7 ottobre 2007) che e' stata vissuta anche all'Espace Populaire dove sono stati organizzati alcuni incontri mirati. Il 2 ottobre in occasione della Giornata mondiale della nonviolenza e' stata proposta la proiezione del documento storico "Testimonianza della prima marcia della pace Perugia-Assisi del 1961 di Aldo Capitini". Nella presentazione e' stato ricordato che il 3 ottobre scorso si e' svolta la seconda Giornata nazionale per un'informazione e comunicazione di pace; che il 4 ottobre, sempre all'Espace Populaire, e' stata ricordata Anna Politkovskaja a cui e' stata dedicata la marcia Perugia-Assisi insieme ad un altro reporter, Ali Iman Shermarke, ucciso l'11 agosto 2007 a Mogadiscio. * La serata aveva anche l'obiettivo di contare le forze per comprendere se fosse possibile costituire un comitato locale per organizzare la raccolta delle firme per sostenere la proposta di legge per dichiarare l'Italia "zona libera da armi nucleari". Il comitato si e' costituito per ora ancora informalmente. I promotori sono il Movimento Nonviolento gruppo Valle d'Aosta e Arci Valle d'Aosta. Hanno aderito finora Legambiente Valle d'Aosta, l'Associazione Saperi e Sapori e il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) Valle d'Aosta. 5. RIFLESSIONE. LIA CIGARINI: UN'ALTRA NARRAZIONE DEL LAVORO [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo, versione rivista della relazione tenuta al XII Simposio dell'Associazione internazionale delle filosofe (Iaph), Roma 31 agosto - 3 settembre 2006, pubblicata sul n. 6 del 2006 di "Critica marxista". Lia Cigarini, storico punto di riferimento del femminismo in Italia, e' una delle figure piu' vive del pensiero e dell'agire delle donne, di molte e di molti maestra] Questo scritto vorrebbe ragionare di politica (di politica delle donne, il che non esclude gli uomini), a partire dal lavoro, anzi a partire dall'idea che il lavoro sia lo spazio pubblico per eccellenza. La vera polis. Io non mi fermero' ad argomentare pro o contro questa idea, poiche' la do' per ben chiarita da Marisa Forcina nell'articolo pubblicato in questa stessa rivista. Di conseguenza parto dal considerare un cambiamento avvenuto nel lavoro, da registrare come un vero grande cambiamento: quando parliamo del lavoro delle donne, oggi, parliamo di lavoro in generale, di tutti, uomini e donne, senza specificazioni. Cio' significa che l'occasionalita' e la marginalita' che hanno caratterizzato il lavoro femminile in passato sono scomparse. La maggioranza delle donne e' sul mercato del lavoro. La loro presenza e' considerata un fatto stabile e una realta' ovvia che non si giustifica piu' come un mero lavoro integrativo del reddito familiare. Cio' cui stiamo assistendo detto in negativo e' un forte indebolimento dell'antica divisione tra sfera produttiva (maschile) e sfera riproduttiva (femminile). Tra le conseguenze, una di carattere squisitamente qualitativo ha attirato da subito l'attenzione degli studiosi piu' avvertiti, vale a dire che soggettivita' e relazione, passione e affettivita', connotati tradizionali della sfera privata e riproduttiva dell'esistenza umana, sono diventate risorse fondamentali nel mondo del lavoro oggi (1). Questo e' avvenuto certo per fattori oggettivi: la recente grande presenza quantitativa delle donne nel mercato del lavoro, la rivoluzione tecnologica e per finire il fatto che le donne stanno entrando in tutti i settori di lavoro e, in particolare, in quelli a veloce evoluzione, terziario avanzato e servizi, nei quali non e' implicata la forza fisica ma l'uso di competenza professionale (le giovani donne sono piu' scolarizzate degli uomini), di capacita' relazionale e comunicativa, saperi indubbiamente preziosi nel nuovo modo di produzione dominato dalla informazione e dalla comunicazione. Ma soprattutto questo e' avvenuto per il fatto, tutto politico, che negli ultimi trent'anni le donne sono state in movimento, vale a dire hanno preso coscienza che l'essere donna non e' un meno ma apre potenzialita' al proprio essere. Al movimento femminista si e' risposto da parte della sinistra enfatizzando la condizione svantaggiata delle donne e fissando l'obiettivo della parita' con gli uomini e non offrendo un'interlucuzione che fosse all'altezza delle nuove proposte. Da qui una visione impoverita del movimento delle donne. Con il suo ultimo libro (2) Alain Touraine ha fatto giustizia di questa veduta facendo delle donne non le destinatarie di politiche paritarie ma i soggetti attivi e pensanti della politica per il nostro tempo: "le donne come attrici collettive creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali (...), in altre parole costruiscono se stesse riparando cio' che e' stato smembrato dalla globalizzazione, dall'esposizione alla deriva delle forze del mercato". A mio parere Touraine accorcia un po' troppo le prospettive: io so che i tempi per le donne saranno lunghi per acquisire proprie autonome forme di lotta nel mondo del lavoro. Tuttavia egli ha il merito di sottolineare che il punto di vista delle donne nell'agire politico e' radicalmente differente dal paradigma politico in corso. * Lavoro e differenza La stessa particolare sofferenza delle donne a causa della rigidita' dell'organizzazione del lavoro e dell'impresa, mette oggi piu' cose in gioco e in movimento di quanto non esprima ormai la categoria di sfruttamento economico che pure esiste. Faccio un esempio: le donne sono letteralmente fatte a pezzi dai tempi del lavoro fuori casa e del lavoro di cura. Cio' da una parte le costringe a interrogarsi sulla percezione di tempo e spazio, sulle aspettative di vita, sulla percezione del denaro e sul senso del lavoro; dall'altra parte il fatto che le donne portino al mercato le relazioni di cura rende visibile cio' che eccede il profitto e quindi rende possibile l'inizio di un cambiamento dell'organizzazione del lavoro. E mette in discussione le forme di lotta e di organizzazione maschile. Si tratta infatti di bisogni molto differenziati, difficili da esprimere nell'assemblea sindacale, e per la loro varieta' non sono sintetizzabili nella contrattazione collettiva. So che e' difficile comunque negoziare sull'organizzazione del lavoro nell'impresa, ma in questo momento ci si puo' almeno impegnare e lottare per una cultura (teoria) del lavoro che non trascuri le differenze e le valuti per se stesse: sono liberta' per la singola donna e il singolo uomo e sono contributo alla civilta'. A questo punto voglio precisare che il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e con il lavoro di cura. Esse studiano con passione e vogliono lavorare restando tuttavia legate al simbolico e alle pratiche della riproduzione dell'esistenza umana. Un gruppo di giovani donne, interrogate sulle loro priorita' tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, hanno risposto rifiutandosi di fissare alcuna priorita'. Questa risposta e' citata come un esempio di ambivalenza, ma io credo che si possa anzi si debba leggerla altrimenti: come un doppio si' al lavoro e alla maternita', e cioe' come l'affermazione di un altro modo di pensare il lavoro. Ecco perche' sostengo che il lavoro con impronta femminile ha un significato piu' ampio e piu' profondo di quello pensato dagli uomini, o, per meglio dire, e', nel suo fondamento, lavoro come congiungimento tra produzione e riproduzione. Ed ecco perche' anche nel lavoro, oltre che nella sessualita', la proposta di pratica politica delle donne e' cosi' radicalmente diversa da quella maschile. E' una politica che si appoggia sulle forme di vita: pensiamo al femminismo degli anni Sessanta e Settanta, che ha teso a modificare la relazione tra donna e uomo, relazione che e' una forma di vita, forse la principale. E per ottenere questa modificazione ha usato come leva la narrazione che le donne hanno fatto della loro esperienza anche la piu' intima, esperienza e sapere che non avevano luogo nei paradigmi interpretativi correnti. Io sostengo che ora siamo in presenza di un accumulo di esperienze lavorative in gran parte mute, non elaborate per la novita' della cosa in se' e per ragioni storiche; in passato la cultura lavorista non ha prestato attenzione al lavoro delle donne se non come questione secondaria e subordinata. Cristina Borderias, storica e studiosa del lavoro, ha il merito di essere stata una delle prime a interrogare i concetti tradizionali dell'esperienza individuale e collettiva delle donne al lavoro e c'e' riuscita nella maniera piu' semplice e impegnativa: ascoltando i racconti delle lavoratrici (3). * Narrazione Io penso dunque che la narrazione e' la pratica adatta per rompere il quadro paradigmatico (dove si procede facendo del lavoro e dei lavoratori oggetti di analisi e studio anziche' farli parlare in prima persona) con un'esperienza nuova e che nel contempo riflette la prossimita' alla vita della politica delle donne. Sono consapevole che la narrazione come tale non rende conto pienamente ne' dei fatti ne' della soggettivita'. Il punto e' un altro: si tratta della forma politica e simbolica che ha permesso alla soggettivita' (femminile) di attivarsi, di interpretarsi da se' e di dare conto della differenza sessuale come dimensione di umanita' che la cultura del lavoro tendeva a ignorare. D'altra parte, mi chiedo, quale altro modo e' pensabile per disfare i paradigmi interpretativi che non danno conto dell'esperienza femminile del lavoro? La narrazione, naturalmente, ruota intorno a un nucleo di esperienze che una vuole condividere con quelle che l'ascoltano, ed e' essa stessa la scoperta di questo nucleo e della sua condivisione. Elaborare un nuovo "lessico" sul lavoro, elaborare categorie, fa parte di questo processo narrativo che aspira all'interpretazione, alla significazione, all'azione politica. In questi ultimi dieci anni quindi, alcune di noi, per capire che cosa stava loro capitando e che cosa stava capitando nel mondo del lavoro, hanno ripetuto il gesto del femminismo delle origini di riunirsi in gruppi per parlare del lavoro interrogandone il senso a partire da se' insieme ad altre donne e ripensarlo da capo. Indubbiamente, grazie alla cosiddetta femminilizzazione (una parola ormai in uso che adotto per farmi capire), c'e' stato un disgelo del tema del lavoro di cui pochi ormai parlavano come centrale per la societa'. Infatti decine di gruppi e associazioni, in partenza formati da giovani donne, poi misti, si sono costituiti e comunicano attraverso la rete o in incontri piu' tradizionali. E' una scelta quella del piccolo gruppo che potremo chiamare tipicamente femminile e che domanda di essere interrogata. Ripeto che, secondo me, questa scelta di partire dal racconto dell'esperienza per conoscere e modificare il contesto in cui si vive, oltre che mostrare la preferenza delle donne per le forme della vita quotidiana, rappresenta l'unico strumento a disposizione della/del singola/o per appropriarsi dell'idea che una/o puo' lavorare senza accettare passivamente le condizioni date e puo' acquisire la necessaria competenza simbolica per essere fedele al suo vissuto e sostenere i suoi interessi. A me sembra anche che per questa via (pratica della narrazione e guadagno di competenza simbolica) si realizzi una soluzione di continuita' rispetto a quel discorso maschile che caratterizza la tradizione lavorista orientata verso l'emancipazione e l'inclusione delle donne alla pari nella organizzazione maschile del lavoro. Attraverso la narrazione del lavoro femminile che e' ñ come ho detto all'inizio ñ racconto delle nuove forme del lavoro tout court, incomincia ad esprimersi una cultura originale del lavoro che ha fatto superare a molte l'orizzonte limitato della parita'. Io penso che, se si allarghera' la riflessione sul lavoro tenendo ferma la barra della differenza, altre mediazioni e costruzioni della tradizione lavorista maschile cadranno. Come sappiamo, negli anni Settanta e Ottanta la rottura della continuita' del discorso sulle donne e' avvenuta attraverso la separazione dalla politica maschile con il formarsi di gruppi e luoghi di sole donne che cosi' hanno creato sapere, linguaggio e pensieri. Si tratta, oggi, di ripensare il senso del lavoro di donne e uomini. La dirompenza di allora torna ad agire adesso. Il fattore dinamico e' sempre lo stesso ed e' la differenza sessuale. La formula da me preferita per dare conto di cio' che sta capitando adesso rispetto allora, e' quella che ho gia' delineato prima, portare tutto al mercato: soggettivita' e relazioni, passioni e affettivita', figli e amore, ecc. Non separare cioe' la sfera relazionale dal mondo del lavoro, come si e' fatto finora. * Nuove strade per il cambiamento Anche alcuni teorici del lavoro oggi scrivono della differenza sessuale come creativa di nuove strade per chi cerca il cambiamento, altri parlano della necessita' di "interiorizzare gli interessi e le competenze femminili e di trattenerle", altri ancora parlano delle donne come possibili autrici della ricomposizione dell'esperienza collettiva e individuale che e' stata lacerata, e altro ancora. Cio' significa che proprio alcuni uomini attenti a cio' che succede nel lavoro e con la volonta' di trovare una strada per modificare le cose esistenti, mettono al centro la differenza sessuale e le sue pratiche politiche. Oggi assistiamo cosi' a un movimento non meno dirompente di quello degli anni Settanta ma in senso inverso, per cui la dirompenza non e' piu' dovuta come allora al fatto di donne che si separano dalla societa' maschile, ma al movimento di un loro portarsi al centro. In questo movimento ci incontriamo con quegli uomini che sono critici delle risposte che oggi si danno ai problemi del lavoro. * Note 1. Cfr. Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Bellinzona, Casagrande Editore, 1994. 2. Cfr. Alain Touraine, Le monde des femmes, Paris, Fayard, 2006. 3. Cfr. Cristina Borderias, Strategie della liberta'. Storie e teorie del lavoro femminile, Roma, Manifestolibri, 2000. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 136 del primo novembre 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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