Minime. 184



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 184 del 17 agosto 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Raul Hilberg
2. Irene Alison intervista Chris Capps
3. Marco Sodano: L'enorme incremento dell'esportazione di armi italiane
4. Andrea Canevaro: Conflitti, riconoscimenti, mediazioni (parte prima)
5. Letture: Paolo Ghezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca
6. Riedizioni: Sofocle, Le tragedie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. LUTTI. RAUL HILBERG
{Raul Hilberg, nato a Vienna nel 1926, esule negli Stati Uniti con la
famiglia dal 1939, nel 1944 come volontario nell'esercito americano
combatte' in Europa nella guerra contro il nazismo. Allievo di Franz
Neumann, docente universitario, storico, e' il piu' autorevole studioso
dello sterminio degli ebrei compiuto dai nazisti. E' deceduto nell'agosto
2007. Opere di Raul Hilberg: la sua opera fondamentale e' La distruzione
degli Ebrei d'Europa, Einaudi, Torino 1995, un libro che e' indispensabile
leggere. Cfr. anche Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, Milano 1994]

L'opera storica di Hilberg e' essa stessa un atto di Resistenza.
Come un maestro, un compagno di lotta, una persona buona e viva e luminosa
qui lo salutiamo.

2. TESTIMONIANZE. IRENE ALISON INTERVISTA CHRIS CAPPS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2007, col titolo "Chris, il
disertore Usa: cosi' andiamo via dall'Iraq" e il sommario "Il militare sta
girando per le caserme americane in Italia invitando i militari a disertare.
Lui l'ha fatto quando era in Iraq. 'Un giorno mi sono ritrovato a
riallacciare la linea telefonica tra la nostra caserma e il carcere di Abu
Ghraib. Sapevo quello che avevano fatto li' i nostri soldati e in quel
momento ho sentito che in fondo ero complice anch'io'".
Irene Alison scrive prevalentemente di temi culturali sul quotidiano "Il
manifesto"]

Non fosse per lo sguardo incredulo, da ragazzino che si e' trovato in un
guaio piu' grande di lui, Chris Capps sembrerebbe un soldatino di Full Metal
Jacket. Capelli rasati, faccia pulita, uno che nell'esercito ci e' entrato
"per andar via di casa e pagare la retta del college". "Casa" era nel New
Jersey, e al college, Chris, non ci e' ancora arrivato. "Quando mi sono
arruolato non avevo nessuna intenzione di combattere, mi avevano promesso un
impiego tecnico. E' cosi' che i reclutatori ti convincono: ti promettono un
lavoro tranquillo e che non andrai mai in missione. Poi, quando comincia
l'addestramento e puoi solo obbedire agli ordini, ti dicono che nessuno e'
al sicuro e che ti spediscono al fronte quando vogliono".
Al fronte, quello iracheno, Chris ci e' finito nel 2005. Un anno dopo,
mentre era in America in licenza, una cartolina gli ha annunciato un'altra
partenza. Destinazione Afghanistan. "Non mi sono presentato alla chiamata.
Poi, quando mi hanno iscritto ufficialmente nell'elenco dei disertori, mi
sono consegnato". Due giorni dopo, era gia' fuori della caserma con il suo
foglio di congedo "tutt'altro che onorevole". Niente carcere ne' corte
marziale. Seguendo i consigli del Military Counseling Network (In sigla:
Mcn) si e' infilato in una delle falle del sistema e ha scoperto che di lui,
come di molti altri fuggiaschi di questa guerra, l'esercito preferisce
disfarsi piuttosto che giustificare l'incremento delle diserzioni davanti
all'opinione pubblica.
Oggi Chris ha 23 anni e al posto dell'uniforme porta una maglietta
stropicciata con su scritto "No Dal Molin". In Italia con la moglie Meike,
rappresentante dell'Mcn, e con Philip Rushton, autore del libro Riportiamoli
a casa (edizioni Alegre), sta cercando di radicare anche qui la rete di
consulenza legale in supporto dei militari americani, ed e' appena tornato
da Vicenza, dove, insieme al comitato che si oppone alla costruzione della
base Usa presso l'aeroporto Dal Molin, ha partecipato a una manifestazione.
"I soldati - dice - devono avere un ruolo nella fine della guerra. Sono loro
che la fanno e loro che possono fermarla".
*
- Irene Alison: Come hai maturato la decisione di disertare?
- Chris Capps: E' successo in Iraq, ma non e' stata una decisione presa sul
campo di battaglia. Ero alla base di Camp Victory e lavoravo come tecnico:
un giorno mi sono ritrovato a riallacciare la linea telefonica tra la nostra
caserma e il carcere di Abu Ghraib. Riparavo quel cavo e ho visto
l'indirizzo al quale corrispondeva: sapevo quello che avevano fatto la'
dentro i nostri soldati e in quel momento ho sentito che in fondo ero
complice anch'io. Quando mi hanno richiamato in Afghanistan, mi sono reso
conto che non potevo piu' continuare.
*
- Irene Alison: Come mai la tua diserzione non ha avuto conseguenze?
- Chris Capps: Non esiste una formula generale per disertare senza
conseguenze. Nel mio caso, una volta tornato in America, ero in attesa di
essere riassegnato a un nuovo reparto e non avevo l'ordine di partire in
missione immediatamente: se cosi' non fosse stato, probabilmente l'esercito
si sarebbe accanito, processandomi e rispedendomi al fronte. In quel
momento, inoltre, il mio reparto d'origine era di stanza in Germania. Per
sottopormi alla corte marziale avrebbero dovuto catturarmi negli Usa,
portarmi in Germania e processarmi li': una spesa di tempo e denaro che
l'esercito ha preferito evitare. Cosi' mi hanno liquidato con un congedo
"tutt'altro che onorevole". Nessuna conseguenza sul piano penale, ma nessun
sussidio per ex militari. Come se non mi fossi mai arruolato...
*
- Irene Alison: Invece della diserzione avresti potuto scegliere l'obiezione
di coscienza...
- Chris Capps: Ma e' un processo lungo e complicato, che le autorita'
militari ostacolano in tutti i modi. Ti sottopongono a un'infinita' di
colloqui con domande del tipo: "Cosa faresti se qualcuno stuprasse la tua
ragazza?" o "come reagiresti se qualcuno picchiasse a sangue la tua famiglia
e tu avessi in mano una pistola?". Se non dai le risposte "giuste" e non
dimostri il tuo pacifismo "assoluto" la tua richiesta viene respinta. Altre
volte, semplicemente, smarriscono la tua documentazione poco prima di
mandarti in missione, e in men che non si dica ti ritrovi al fronte.
*
- Irene Alison: Alcuni militari americani sono stati recentemente accusati
di omicidio volontario ai danni di civili iracheni. Secondo la difesa, hanno
"solo eseguito gli ordini". Qual e' il rapporto tra la responsabilita' dei
soldati e quella dei loro superiori?
- Chris Capps: Dipende dalle situazioni: in casi come Abu Ghraib, la colpa
e' ricaduta solo su pochi soldati di grado basso anche se in realta' le
decisioni venivano dall'alto. Il ministero della difesa dava l'espressa
direttiva di "ammorbidire" i prigionieri e i generali la facevano eseguire.
Per quanto riguarda i civili uccisi in azione, se i soldati ricevono un
ordine illegale, hanno il diritto di non eseguirlo, anche se non e' facile
resistere alle pressioni di un superiore. Se invece si tratta solo di
soldati che perdono il controllo, la responsabilita' e' chiaramente loro, ma
per me e' difficile condannarli senza appello: al fronte ti ripetono
all'infinito che sei un bersaglio e che, nell'incertezza, e' sempre meglio
prima sparare e poi pensare. C'e' un proverbio nell'esercito: "e' meglio
essere giudicati da dodici uomini che essere portati sulle spalle da sei". I
soldati lo imparano in fretta...
*
- Irene Alison: Secondo un'inchiesta del "Playboy Magazine", il ministero
della difesa Usa avrebbe occultato il vero numero dei militari colpiti da
sindrome da stress post-traumatico. Esiste un'assistenza psicologica
adeguata?
- Chris Capps: Ho conosciuto molti soldati che sono stati in cura dagli
psicologi del reparto: vengono tenuti sotto psicofarmaci per un po', per poi
essere dichiarati "guariti" e rispediti al fronte. La verita' e' che
l'esercito guarda male qualsiasi forma di debolezza, quindi per un soldato
e' difficile esprimere un disagio psichico. A volte i superiori quando
distribuiscono i questionari sullo stress post-traumatico ti dicono di
"stare attento a cio' che scrivi".
*
- Irene Alison: Perche' estendere la rete del Military Counseling Network
anche ai soldati Usa di stanza in Italia?
- Chris Capps: Tempo fa il Military Counseling Network e' stato contattato
da due soldati di stanza a Vicenza che stavano per essere mandati in
Afghanistan, e, secondo i legali dell'associazione, i due avrebbero gia'
disertato. Altre tre chiamate, sempre dalla caserma Ederle, sono invece
arrivate alla Gi rights hotline. Ci e' sembrata una ragione sufficiente per
radicare la rete anche qui.

3. DOCUMENTAZIONE. MARCO SODANO: L'ENORME INCREMENTO DELL'ESPORTAZIONE DI
ARMI ITALIANE
[Dal quotidiano "La Stampa" del 14 agosto 2007 riprendiamo il seguente
articolo li' apparso col titolo "Le armi italiane fanno boom. L'export a
piu' 61% nel 2006".
Marco Sodano, giornalista, scrive sul quotidiano "La stampa"]

L'Italia vende armi in tutto il mondo.
Armi italiane per la Nigeria squassata dalla guerriglia del petrolio tra il
governo e il Mend, il movimento per l'emancipazione del delta del Niger:
questi hanno rapito un centinaio di tecnici delle societa' petrolifere
nell'ultimo anno, quelli non vanno per il sottile. A Lagos, nel dicembre
2006, le truppe governative hanno stroncato nel sangue la rivolta dei "ladri
di benzina", disperati che avevano preso d'assalto un deposito per rivendere
il carburante al mercato nero. Almeno cento morti. Il clima scotta, ma nel
2006 l'industria bellica nostrana ha ricevuto dal governo il via libera a
vendere alla Nigeria armamenti per 74 milioni di euro, aeroplani e armi
pesanti. D'altronde gli interessi italiani nell'area sono imponenti: l'Eni
estrae 160.000 barili di greggio al giorno.
Armi italiane - munizioni, missili, navi da guerra, armi leggere e pesanti -
per India (spendera' 66 milioni) e Pakistan (ordini per 39,7 milioni). I due
paesi combattono da mezzo secolo per il controllo del Kashmir, hanno
schierato sul confine un milione di soldati e si scambiano minacce
reciproche a base di missili nucleari. La repressione del governo di Delhi
nel Nordest del paese ha fatto 10.000 morti negli ultimi 10 anni.
Compra armi italiane - con il placet del governo - anche la Colombia. Non fa
punteggio il fatto che tanto l'esercito regolare quanto le Farc (le forze
armate rivoluzionarie), mandino in prima linea i minorenni e che il
conflitto sia costato almeno 300.000 vittime.
Armi italiane per gli Emirati Arabi Uniti: nella lista della spesa del paese
che ha messo fuorilegge la schiavitu' solo nel novembre 2006 "bombe, siluri,
razzi, missili ed accessori, navi da guerra, apparecchiature per la
direzione del tiro, armi e sistemi d'arma e munizioni, aeromobili" per 338
milioni di euro.
Armi italiane per il l'Oman (78,6 milioni), il Venezuela (16), la Malesia
(51), la Libia (14,9) e il Peru' (26,8).
Armi italiane perfino per la Cina: nonostante l'embargo dell'Unione europea,
il governo italiano ha autorizzato l'esportazione di software e pezzi di
ricambio.
+
Esportazioni da record
L'Italia vende armi in tutto il mondo e ne vende sempre di piu'.
E' un periodo d'oro per gli affari di guerra: nel 2005 il Belpaese ha
esportato materiale bellico per un miliardo e 300 milioni di euro. Nel 2006
si son superati i due miliardi: record degli ultimi vent'anni, con una
crescita del commercio con l'estero del 61%. E pazienza se il governo Prodi
in tempi di programma elettorale s'era impegnato a dare una stretta. Mentre
la vocazione pacifista di Palazzo Chigi resta sulla carta, l'industria
armiera nostrana va a palla: sesto posto nella classifica mondiale degli
esportatori di armi militari, secondo per le armi leggere, che uccidono una
persona al minuto. I dati sono elencati nella Relazione sulle esportazioni
di armi presentata dal presidente del Consiglio Romano Prodi il 30 marzo
2007.
*
Controlli addio
L'Italia vende armi in tutto il mondo e per riuscirci meglio ha anche
smontato una legge.
Nel giugno 2003 - governo Berlusconi - il Parlamento ammorbidi' la legge
sulle esportazioni di armi (185 del '90) eliminando l'obbligo di
accompagnare le forniture con il certificato d'uso finale pensato per
impedire le triangolazioni. Armi che partono, in prima battuta, alla volta
di paesi "buoni" e finiscono negli arsenali dei paesi proibiti grazie a una
girandola di compravendite piu' o meno legittime.
Riveduta e corretta, la legge e' meno severa anche su altri punti: prima non
si potevano esportare armi in paesi colpevoli di violazioni dei diritti
umani, oggi le violazioni devono essere "gravi". Scelta politica precisa e
bipartisan: fu il governo D'Alema, nel 2000, ad avviare l'iter delle
modifiche poi perfezionate - e approvate - dal centrodestra.
Insomma, per le armi italiane e' molto piu' facile girare il mondo. Cosi'
non c'e' da stupirsi quando saltano fuori all'improvviso. Nel 2005, in Iraq,
i carabinieri sequestrarono migliaia di pistole Beretta alle cosiddette
forze ribelli. Venne fuori che il primo proprietario di quelle armi (44.000
pezzi) era il Ministero dell'Interno, che le aveva rivendute al suo
fornitore (la Beretta) perche' le riparasse. Questa le aveva poi vendute a
una societa' semisconosciuta, la Super vision international. Non si sa come
ci siano arrivate, ma i rapporti dei carabinieri hanno messo nero su bianco
che pistole italiane appartenute alla polizia sono finite negli arsenali
della guerriglia irachena. Magari per essere usate contro i soldati
italiani.
E ci sono testimonianze sull'arrivo di armi italiane anche in Somalia.
Nonostante la guerriglia infinita e nonostante l'embargo imposto nel 1993
dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, un rapporto Onu datato maggio 2006
accusa l'Italia di aver violato il blocco con "invii di materiale militare"
destinati al governo federale transitorio. Il coordinatore degli ispettori
Onu Bruno Schiemsky scrive di aver contato "almeno diciotto camion militari
arrivati nel porto di Mogadiscio, poi usati per trasportare truppe e armi
antiaeree smontate". Smontati anche gli aeroplani Aermacchi che - sempre
secondo l'Onu - sarebbero arrivati via Eritrea alle Corti islamiche che
combattono il governo di Mogadiscio con l'etichetta di "pezzi di ricambio".
La vendita (per oltre un milione di euro) ottenne a suo tempo
l'autorizzazione del governo.
Armi italiane su un fronte, armi italiane sull'altro, tutto in regola.
*
La lobby in cifre
I numeri dicono che non sara' facile applicare la stretta promessa del
governo Prodi. L'industria bellica italiana occupa 50.000 dipendenti,
fattura 7,5 miliardi l'anno, rappresenta lo 0,8% del Pil e il 15%
dell'export. E procura affari d'oro alle banche, chiamate a gestire le
operazioni di incasso. Il grosso della torta va a San Paolo-Imi, per un giro
d'affari da 446 milioni nel 2006 (quasi il 30% delle transazioni). Seguono
Bnp-Paribas, (290,5 milioni), Unicredit (86,7), Bnl (80,3), Deutsche Bank
(78,3) e il Banco di Brescia, che gestira' piu' di 70 milioni. Hai capito
che lobby, ogni volta che la politica prova a forzarle la mano alla fine si
ritrova bloccata sulla porta. Il cartello dice: sorveglianza armata.

4. RIFLESSIONE. ANDREA CANEVARO: CONFLITTI, RICONOSCIMENTI, MEDIAZIONI
(PARTE PRIMA)
[Ringraziamo di cuore Andrea Canevaro (per contatti:
andrea.canevaro at unibo.it) per averci messo a disposizione questo suo
intervento dal titolo completo "Conflitti, riconoscimenti, mediazioni nel
pensiero e nell'azione educativa", in una stesura ancora provvisoria e
vivacemente orale.
Andrea Canevaro, nato nel 1939, docente di pedagogia speciale
all'universita' di Bologna, e' uno dei piu' illustri pedagogisti italiani.
Dal sito www.mediamente.rai.it riprendiamo la seguente scheda: "Andrea
Canevaro (1939) ha svolto studi umanistici (laurea in lettere e filosofia),
con alcuni anni di borsa di studio presso l'Universita' Lyon 2, e in
particolare ha seguito gli studi in pedagogia speciale del professor Claude
Kohler. Ha lavorato come educatore nel settore della devianza giovanile. Ha
avuto un incarico di insegnamento di Pedagogia Speciale nel 1975 presso il
corso di laurea in Pedagogia della Facolta' di Magistero dell'Universita'
degli Studi di Bologna; presso la stessa sede dal 1973 era assistente
incaricato; e, sempre nella stessa sede, come vincitore di concorso di
professore di prima fascia, e' stato chiamato nel novembre 1980 a ricoprire
la cattedra di Pedagogia Speciale come professore straordinario dal 1980 al
1983, e successivamente come professore ordinario. Dal 1983 e' stato eletto
presidente del corso di laurea in Pedagogia; e dal 1987, per due mandati
triennali, e' stato Direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione,
presso lo stesso Ateneo. Nel novembre 1996 e' stato nominato nuovamente
direttore del Dipartimento di Scienze dell'Educazione. Ha all'attivo una
vasta attivita' di ricerca, che ha prodotto un elevato numero di
pubblicazioni. E' membro di associazioni scientifiche internazionali e
nazionali, direttore di collane editoriali, e nel comitato scientifico di
alcune riviste nazionali ed internazionali". Dal 1966 al 2000 ha fatto parte
del gruppo tecnico dell'Osservatorio del Ministero della Pubblica Istruzione
per l'integrazione scolastica degli studenti e studentesse in situazione di
handicap; ha fatto parte della Commissione insediata dal Ministero della
Sanita' (1997 - 1998) per la definizione di un protocollo per le
riabilitazioni di soggetti in situazione di handicap; relatore in numerosi
Congressi ed in particolare al Congresso Unesco di Salamanca (1988) dove e'
nata la "Carta di Salamanca" per i disabili; e' membro di numerose
associazioni scientifiche nazionali ed internazionali e in particolare del
Collectif de Recherches sur le Handicap et l'Education Specialisee; e' stato
ed e' collaboratore/consulente di Progetti in Cambogia (1997/1998), Bosnia
(1995/2000), Rwanda (1999/2000), Bielorussia (1999 ad oggi) in stretto
rapporto con il Ministero degli Affari Esteri; ha svolto attivita'
seminariali in diverse Universita' (Montreal, Minsk, Tuzla, Buenos Aires);
ha collaborato e collabora alla valutazione di progetti nel settore della
Pedagogia Speciale per l'Universite' du Quebec a Montreal. E' autore di
numerosi volumi pubblicati su: educazione ed handicappati, manuale per
'íintegrazione scolastica, la formazione dell'educatore professionale,
scuola dell'infanzia - handicap - integrazione, pedagogia speciale
dell'integrazione, potenziali individuali di apprendimento, la relazione di
aiuto, ecc. Tra le principali pubblicazioni di Andrea Canevaro: L'illusione
pedagogica, Armando, Roma 1974; Il bambino che non sara' padrone, Emme,
Milano 1975; I bambini che si perdono nel bosco. Identita' e linguaggi
nell'infanzia, La Nuova Italia, Firenze 1976, 1997; I ragazzi scomodi, Edb,
Bologna 1977; Il banco dell'asino e del poeta, Emme, Milano 1978; Educazione
e handicappati, La Nuova Italia, Firenze 1979; (con Raffaella Bassi Neri),
Programmazione e difficolta' scolastiche, Bruno Mondadori, Milano 1979;
Handicap e scuola. Manuale per l'integrazione scolastica, Nuova Italia
Scientifica (Nis), Roma 1983; (con Maria Angiolini, Franco Frabboni), Mi
hanno preso a scuola. Nell'handicappato c'e' un bambino e uno scolaro: sono
tre, Franco Angeli, Milano 1985; Handicap e identita', Cappelli, Bologna
1986; (con A. Rubinelli), Per l'handicap. Un modello pedagogico complesso,
Pellegrini, Cosenza 1986; (con Jean Gaudreau), L'educazione degli
handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna, Nis, Roma 1988,
poi Carocci, Roma 2002; (a cura di, con Maria Angiolini, Maria Saragoni),
Handicap, ricerca e sperimentazione. La realizzazione di un progetto
educativo per l'integrazione, Nis, Roma 1988; Handicap e luoghi
dell'educazione, Eit, Teramo 1989; La formazione dell'educatore
professionale, Nis, Roma 1991; Quel bambino la'... Scuola dell'infanzia,
handicap e integrazione, La Nuova Italia, Firenze 1996; (con Cristina
Balzaretti, Giancarlo Rigon), Pedagogia speciale dell'integrazione.
Handicap: conoscere e accompagnare, La Nuova Italia, Firenze 1996;
Potenziali individuali di apprendimento, La Nuova Italia, Firenze, 1996;
Pedagogia speciale. La riduzione dell'handicap, Bruno Mondadori, Milano
1999; (con Emanuela Cocever, Petra Weis), Le ragioni dell'integrazione.
Inserimento scolastico di alunni con handicap. Una ricerca in tre aree
dell'Unione Europea, Utet, Torino 1996; (con Arrigo Chieregatti), La
relazione di aiuto. L'incontro con l'altro nelle professioni educative,
Carocci, Roma 1999; (con Giacomo Cives , Franco Frabboni), Fondamenti di
pedagogia e di didattica, Laterza, Roma-Bari 1999; La seconda vita delle
cose. Percorsi di educazione ambientale. Volume per l'alunno, Centro Studi
Erickson, 1999; (con Andrea Gamberini), Esploro il mio corpo e l'ambiente.
Giochi e attivita' per bambini dai due ai sette anni, Centro Studi Erickson,
2002; (con Augusto Battaglia, Michelangelo Chiurchiu'), Figli per sempre. La
cura continua del disabile mentale, Carocci, 2002, 2005; (con Dario Ianes),
Diversabilita'. Storie e dialoghi nell'anno europeo delle persone disabili,
Centro Studi Erickson, 2003; (con Marianna Mandato), L'integrazione e la
prospettiva inclusiva, Monolite, 2004; Le logiche del confine e del
sentiero. Una pedagogia dell'inclusione (per tutti, disabili inclusi),
Centro Studi Erickson, 2006]

"Non c'e' nulla da temere dalle idee tranne il fatto che possiamo non
capirle"
(Peter Benenson, fondatore di Amnesty International)

"L'amore aiuta a vivere, a durare,
l'amore annulla e da' principio. E quando
chi soffre o langue spera, se anche spera,
che un soccorso s'annunci di lontano,
e' in lui, un soffio basta a suscitarlo.
Questo ho imparato e dimenticato mille volte,
ora da te mi torna fatto chiaro,
ora prende vivezza e verita'.
La mia pena e' durare oltre quest'attimo"
(Mario Luzi, da Aprile-amore)

1. Conflitti
"I tragici eventi e le atrocita' degli ultimi anni hanno portato a un
periodo di terribile confusione e di spaventosi conflitti nel mondo". Queste
parole di Amartya Sen (2006) introducono una riflessione che il premio Nobel
per l'economia del 1998 svolge collegando il tema attuale dei conflitti e
quello, altrettanto attuale, dell'identita'. E' importante sottolineare la
dimensione storica attuale. E lo e' perche' vi potrebbe essere un equivoco
nel pensarsi su un terreno fuori dalla storia, e che ci permetterebbe di
parlare da una posizione astorica, collocandoci in una sorta di terreno
astratto che potremmo chiamare "teoria dei conflitti".
Amartya Sen si riferisce agli ultimi anni. Ci richiama a un senso della
storia che stiamo vivendo. Richiama quelli che altri indicava come i segni
del tempo.
L'economista premio Nobel collega conflitti e identita' attraverso
l'attenzione a un modo di intendere la vita imposto con tutti i mezzi,
palesi ed occulti (e bisognera' non dimenticare di domandarci da chi e'
imposto...). "L'imposizione di un'identita' presumibilmente unica e' spesso
un ingrediente fondamentale dell'arte tutta marziale di fomentare i
confronti faziosi. A un hutu che viene istigato a uccidere i tutsi si chiede
di vedere se stesso solo come un hutu, non come un ruandese, un africano o
un essere umano, identita' condivise anche dai tutsi. I terroristi islamici
prosperano sul fatto di negare ai musulmani tutte le altre appartenenze a
favore dell'unica identita' religiosa islamica" (A. Sen, 2006).
Possiamo aggiungere che un certo modo di intendere la stessa religiosita'
islamica - si pensi ad Oriana Fallaci - puo' essere immediatamente
equiparata all'identita' del terrorista. In questo modo, contribuisce ad un
modellamento identitario, contribuendo in maniera potente a realizzare cio'
che denuncia e teme.
L'identita' imposta, forzata, puo' avvenire attraverso molti mezzi. Se non
vengono fatte distinzioni fra lo spinello e l'eroina, forziamo un individuo
ad avere l'identita' di tossicodipendente. Amartya Sen vede in questa
imposizione di identita' unica la negazione dell'identita'. Perche' in
questa parola legge la pluralita' e quindi la possibilita' di scelta.
L'identita' forzata di tossicodipendente e' il passaggio ad una perdita di
scelte possibili da parte del soggetto. Essendo tossicodipendente,
dichiarato tale dalla legge, perde la possibilita' di scegliere ed e'
sottoposto a scelte che fanno altri: la comunita' come domicilio coatto che
sostituisce il carcere, eccetera. Ma questo passaggio ne comporta altri, in
una concatenazione di conseguenze che riteniamo molto pericolose. Le
comunita' coatte diventano carceri? E in questo modo, senza una decisione
chiara e condivisa, si attribuiscono compiti carcerari a privati? Le
comunita', a loro volta, finiscono per avere un'identita' forzata?
Nel tema delle disabilita', l'identita' plurale e' il segno del superamento
dell'istituzione totale. Questa espressione si riferisce e si riferiva a
quei luoghi (ricoveri, istituti, ospedali psichiatrici, ecc.) che
contenevano soggetti in maniera esclusiva e, appunto, totale, sottraendo al
soggetto ogni anche piu' piccola scelta, dal capo di vestiario al cibo, al
passatempo. Per capire meglio il meccanismo della cancellazione
dell'identita' plurale, ovvero dell'identita', facciamo riferimento alle
vicende di Jean Ame'ry (1912-1978).
Questo scrittore in realta' si chiamava Hans Mayer, ed era viennese. Era
dunque un uomo, insegnante, amante della musica, della letteratura, della
filosofia, dei boschi viennesi, del vino e della buona compagnia degli
amici; era marito e padre. Ed era ebreo di famiglia, senza praticare la
religione ebraica. Capito' quello che chi legge queste righe si aspetta:
tutte le sue caratteristiche identitarie furono cancellate. Tranne una. Fu
solo ebreo, e come tale perseguitato, torturato. La sua sopravvivenza
significo' cercare di rifarsi un'identita', cambiando il nome. Con il nome
di Jean Amery fu autore di diversi libri, tra i quali Intellettuale a
Auschwitz (1987, 1966), che e' una riflessione autobiografica fra le piu'
significative per capire la drammaticita' della perdita dell'identita'
plurale.
Dovrebbe essere superfluo sottolineare che la vicenda di Jean Amery - Hans
Mayer e' singolare e nello stesso tempo accomunata alla sorte tragica di
milioni di uomini e donne. La sottolineatura e' un richiamo alla necessita'
di evitare il rischio di un certo riduzionismo che porta ad interpretare le
vicende individuali quasi sottraendole al quadro storico. E nel caso del
conflitto, a sopravvalutare una dinamica interpersonale, che pure ha una
grande importanza, fingendo di ignorare gli aspetti storico-culturali in cui
questa si colloca.
*
a. Il parametro della guerra e il paradigma del conflitto bellico
Un parametro e' una costante generica da cui dipende la struttura di una
funzione, di una curva, di una legge fisica (Dizionario Garzanti). Il
paradigma e' un modello che permette di interpretare la realta'.
Vi sono le guerre, che insanguinano il mondo. Nell'anno che l'Europa aveva
dedicato ai disabili, nuove guerre, e soprattutto quella in Iraq,
aumentarono considerevolmente il numero dei disabili, la possibilita' di
diventarlo, e sottrassero risorse ingenti alla qualita' della vita dei
disabili in generale. In molti paesi, impegnati nelle spese di guerra, vi
furono tagli alle politiche sociali. Ogni giorno vengono spesi 2,2 miliardi
di dollari nella produzione bellica e nelle guerre. Nove giorni di spese
militari basterebbero per nutrire e istruire i bambini e le bambine del
mondo.
Ma oltre i conflitti bellici attivi, vi e' un paradigma del conflitto
bellico, invasivo e diffuso. E diffondendosi, trasforma ogni rapporto in una
battaglia da vincere. Diffonde una sorta di diritto primordiale: quello che
permette ed anzi impone che per vincere si possa distruggere. Per essere
vincitore, e' lecito e necessario distruggere qualsiasi cosa. L'altro viene
trasformato in "cosa", ed e' distruttibile. Anzi: bisogna distruggerlo prima
ancora che si disponga a misurarsi con quello che dovra' vincere. Bisogna
distruggere l'altro, e tutto cio' su cui l'altro si appoggia: lavoro, casa,
giustizia, scuola, universita', beni culturali... Chi vuole vincere, puo'
(deve?) soprattutto distruggere la verita'. Ne ha il diritto. Il paradigma
del conflitto bellico distrugge la verita'.
Anche la verita' come assoluto e' compromessa, collocata come un feticcio
oltre ogni contatto con la realta', e quindi resa inutile, come un principio
che non alcun riferimento con le nostre vicende quotidiane. Oppure
strumentalizzata, al di la' di ogni adesione nei comportamenti, per
dell'altro: l'immagine che ne permetta la distruzione. La verita' come
assoluto e' invocata a sostegno ed a legittimazione del proprio agire
distruttivo.
Ma vogliamo riferirci alla verita' che si cerca anche faticosamente giorno
per giorno. E' fatta di incontri, di parole, di ascolti, di volti, di
frammenti che lentamente compongono un disegno, di pluralita'. In ogni
frammento di quotidianita' c'e' un grano di verita'. Mettendo insieme i
frammenti, si mettono insieme verita' che uniscono, si riconosce la verita'.
Il paradigma della guerra falsa i frammenti di cui si compone la
quotidianita'.
Rada Ivekovic sostiene che una societa', in periodi di particolare crisi che
hanno la dinamica della guerra, perde la sua coerenza epistemologica. Questo
significa "che lo scarto tra la realta' e l'immagine di se' aumenta e che il
loro legame puo' anche spezzarsi. Ci sara' allora una rottura della
rappresentazione e, implicitamente, una sorta di scissione ermeneutica. Piu'
la ferita e' grande e piu' la societa' si fonda (o piuttosto si rifonda) su
una menzogna o su un ideale che poco ha a che vedere con la realta'. In tal
caso, prima o poi la non-verita' verra' a galla e un nuovo paradigma,
qualunque esso sia, verra' proposto" (R. Ivekovic, 1999, p. 13).
Rada Ivekovic e' di Zagabria, ha studiato a Belgrado ed a Delhi, e insegna
all'Universita' Paris VII. Ha preferito esiliarsi in Francia, e non vivere
in una terra divisa in tante piccole patrie, nessuna delle quali poteva da
lei essere sentita come sua.
Il nuovo paradigma sembra nascere da un carico eccessivo di non-verita'. E
sembra quindi un frutto un po' meccanico - "qualunque esso sia" - di un
accumulo che finisce per essere insostenibile. C'e' da temere che una
dinamica cosi' meccanica, che la stessa Rada Ivekovic, credo, non
apprezzerebbe, produca molte sofferenze. E c'e' anche da domandarsi se sia
possibile aspettare inerti, non essendo d'accordo con cio' che sta
accadendo.
L'impostazione dell'informazione e' strategicamente fondamentale, sia per i
contenuti che, e soprattutto, per la possibilita' che una verita' sia
confusa, frastornata da tante comunicazioni ad effetto, false nei modi se
non nei contenuti. E in questo, chi vuole essere vincitore seguendo il
paradigma della guerra, si cautela: "Oltre alla solita separazione tra
razionale ('noi') e irrazionale ('gli altri'), la crisi accentua ancor di
piu' l''incomunicabilita'' dell'esperienza, azzerando la tolleranza" (R.
Ivekovic, 1999, p. 16).
A volte non sappiamo ma potremmo sapere, sulla nostra pelle e a nostre
spese, che l'incomunicabilita' si puo' realizzare anche attraverso
un'accelerazione continua dell'eccesso di comunicazione, che rende
impossibile selezionare, fissare nella memoria, connettere, dedurre. Una
vera e propria overdose di comunicazione, che fa perdere le comunicazioni.
L'indistinto della comunicazione, e il distinguibile delle comunicazioni. E
il vincitore, colui che vuole vincere secondo il paradigma della guerra,
deve usare totalmente la comunicazione, avversando le comunicazioni. Questo
rende piu' difficile la formazione e la sopravvivenza della coscienza
individuale. Perche' un processo di coscienza ha "bisogno di intuizioni
esterne  per decidere sulla validita' o no di un algoritmo... Sto suggerendo
qui che il contrassegno della coscienza sia proprio questa capacita' di
divinare (e di distinguere 'intuitivamente'), in circostanze appropriate, la
verita' dalla falsita' (e la bellezza dalla bruttezza!)" (R. Penrose, 2000,
p. 521).
Vedremo che anche su altri punti della nostra riflessione sara' evidenziata
la netta distinzione fra la totalita' singolare e la pluralita'.
Il vincitore nel parametro della guerra puo' avere alleati, sudditi, perche'
deve avere consenso. Non puo' che continuare ad essere in guerra per
continuare ad essere vincitore. E quindi deve avere sempre nemici. "Il
costante richiamo alle differenze da parte dei signori della guerra non e'
che la manifestazione di un rifiuto delle differenze" (R. Ivekovic, 1999, p.
43). Le differenze vanno distrutte o assimilate, e non possono essere
rispettate in una prospettiva di integrazione che le valorizzi.
Puo' essere utile richiamare lo studio di Federico Faloppa (2004) che
percorre diversi tipi di differenze, accompagnate da scelte di vocaboli che
misurano efficacemente il desiderio dei potenti, o che si credono tali, di
tener lontani ed anche di perseguitare le diversita'. In particolare, e'
interessante la parte dello studio dedicata al meticciato. In modi piu' o
meno rudi e crudeli, il meticciato e' stato visto come corruzione della
purezza della razza,indebolimento morale e comportamentale, disordine e
sovversione.
Il paradigma del conflitto bellico sembra alimentarsi con l'ossessione della
purezza, che porta al singolo assoluto. Il vincitore condivide malvolentieri
la vittoria. Se accade, e' per ragioni che vengono sopportate, e non certo
accolte con adesione gioiosa, perche' rende parziale la vittoria. Se accade,
devono esservi motivi che comunque conducano ad un singolo assoluto. Per
questo esistono e si formano interpretazioni assolute del bene. Questo
permette di parlare, con la massima serieta', del mondo del bene, in lotta
contro quello del male. Tale lotta esiste, e non vorremmo far credere che la
riteniamo un trucco e una falsita'. Quello che critichiamo e' il riportare
la lotta in una geografia che divide il mondo fisico ed i suoi abitanti; di
sottrarla alla dimensione interiore, che attraversa ognuno di noi, per
renderla in schieramenti esterni, in cui il male sono intere popolazioni,
sono "gli altri", gli avversari.
Coerentemente con questa impostazione - del paradigma della guerra -, vi e'
l'idea della pace. Un'unica pace, realizzata da un unico vincitore. Come
molte questioni che non hanno soluzioni individuali, perche' i problemi sono
di natura sociale, il parametro della guerra illude che vi possano essere
soluzioni individuali, e quindi imponibili a tutti diventando la soluzione
(Z. Bauman, 2003). La dimensione religiosa viene subordinata a tale assunto,
con il rinforzo di un modello di dominio che si legittima in valori
trascendenti. E vengono saldati a questi i piu' terreni valori economici,
suggerendo l'incapacita' di immaginare il futuro fuori dal paradigma di
crescita economica permanente. Li chiamiamo integrismi, ed e' perfettamente
conseguente al quadro delineato che associamo, essendo collocati dove siamo,
al mondo musulmano, e ai mondi non occidentali. Ma gli integrismi sono
presenti anche in occidente, ed in un'elaborazione che permette di ritenere
il proprio integrismo ben lontano dal senso di chiusura retrograda di altre
culture. L'integrismo puo' sentirsi e rappresentarsi come liberatore e
prodotto di democrazia e di equita'.
Non pensiamo alla pace, ma cerchiamo di fare le paci.
*
b. Il confronto di verita' attraverso il conflitto
"La tua menzogna puo' essere utile ai tuoi (perversi e sbagliati) piani solo
perche' tu presumi che tutti accettino la norma della verita', non della
menzogna. Per essere menzognero te devi volere la verita' dagli altri,
mentre tu ti esenti dal perseguirla. Quindi, di nuovo, ti poni nella
posizione dispotica di volere che tutti, eccetto te, sottostiano alla regola
della verita'. La menzogna non puo' essere condizione di dialogo, dunque,
perche' non puo' essere condizione ne' di giustizia ne' di convivenza. Le
comunita' non si reggono sulla menzogna, e infatti il patto, il contratto,
di una comunita' ideale e' basato sull'opposto delle menzogna, su una
verita', o una modalita' condivisa, fondante... La menzogna e' il peggior
tarlo della democrazia" (N.  Urbinati, 2004). E le paci sono togliere spazio
alla menzogna.
Paradossalmente, la presenza di conflitti e' una garanzia di ricerca di
paci, di riduzione di spazio alla falsita'. Ma occorre sottrarre i conflitti
alla logica del parametro della guerra. E' possibile? Ed e' possibile
rendere visibile la differenza tra conflitti che esigono un vincitore e un
vinto, che esigono distruzioni, e conflitti che sono confronto nella
ricerca? La pervasivita' del parametro della guerra rende difficili le
risposte che ci piacerebbe fossero date.
Ma il conflitto non equivale automaticamente a violenza di sopraffazione.
"Meister Eckhart, un domenicano del XIV secolo, scrisse che nessuno puo'
giungere alla verita' senza commettere cento errori lungo la strada. Abbiamo
bisogno della liberta' di dire le parole delle quali non siamo tenuti
eternamente responsabili. Cercare la verita' richiede un tempo
d'irresponsabilita' protetta" (T. Radcliffe, dic. 2004, p. 742). E in questo
tempo, che accompagna tutta la nostra vita, il conflitto permette di
costruire relazioni piu' giuste. Perche' permette di riassumere gli errori
come elementi utili nella ricerca.
"Esperienza precoce, quella del conflitto e' innanzitutto l'esperienza di un
limite. Il dio-bambino incontra delle resistenze che gli delimitano uno
spazio. L'adolescente si scontra con la generazione che, gia' installata,
pretende di organizzare l'avvenire nelle strutture del passato. Primi
scontri, che precedono tutti quelli che saranno provocati dalla professione,
dal matrimonio, dalle relazioni sociali. Ma anche prime angosce, nella
misura in cui tali opposizioni rimettono in questione una sicurezza e una
volonta' di vivere che hanno effettivamente bisogno di mettersi alla prova.
Se e' vero che e' una solidarieta' che nutre, la presenza degli altri e' al
tempo stesso una minaccia" (M. De Certeau, 1993, p. 40).
Chi cresce, dunque, si pone opponendosi, e confrontandosi, e confliggendo,
con i propri limiti. Ma non solo chi cresce. Il limite e' un accompagnamento
di tutta una vita. E i conflitti - non a caso chiamati socio-cognitivi -
sono utili anche da adulti. Possono fondare la legalita' (e non la legge del
vincitore). E possono essere fonte di sviluppo umano.
Vygotskij ci insegna l'utilita' di vivere conflitti interpersonali o
interpsichici, e quelli intrapersonali o intrapsichici; intergruppo e
intragruppo. Il conflitto puo' insegnare a esistere.
Ma ci sono conflitti di bisogni e d'interesse. E conflitti di valori. Di
questi ci occuperemo, riferendoci a Norberto Bobbio, nel quarto punto della
nostra riflessione.
(Parte prima - segue)

5. LETTURE. PAOLO GHEZZI: SOPHIE SCHOLL E LA ROSA BIANCA
Paolo Ghezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 2003, pp.
240, euro 16,50. Nel suo benemerito, appassionato, acuto impegno di
presentazione della vicenda della Rosa Bianca e di riflessione sul profondo
significato di essa e quindi sull'insegnamento e l'appello che essa rivolge
all'umanita', Paolo Ghezzi dedica questo volume alla figura di Sophie Scholl
(1921-1943), la piu' giovane del gruppo che animo' questa straordinaria
esperienza della Resistenza. Arricchiscono il volume, oltre alla
bibliografia e all'indice dei nomi, 27 schede biografiche delle principali
figure nella vicenda della Rosa Bianca, e un elenco degli autori citati nei
diari e nelle lettere di Hans e Sophie Scholl e di Willi Graf. Un libro che,
come gli altri dallo stesso autore dedicati alla medesima luminosa
esperienza antinazista, vivamente raccomandiamo. Per richieste alla casa
editrice: Editrice Morcelliana, via Gabriele Rosa 71, 25121 Brescia, sito:
www.morcelliana.com

6. RIEDIZIONI. SOFOCLE: LE TRAGEDIE
Sofocle, Le tragedie, Mondadori, Milano 1982-'83 ed Einaudi, Torino 1994,
ora riunite Mondadori, Milano 2007, pp. LVI + 840, euro 12,90 (in
supplemento a vari periodici Mondadori). Con testo a fronte (nell'edizione
oxoniense di Pearson, 1924, 1975), traduzioni di Umberto Albini, Raffaele
Cantarella, Vico Faggi, introduzione di Dario Del Corno, saggi di Maurizia
Matteuzzi, di Albini, Del Corno, Faggi e di Remo Cantoni, commenti della
Matteuzzi, di Marina Cavalli e Marzia Mortarino. Facendo quell'antico gioco
se della grecita' dovesse restare l'opera di un solo autore quale dovrebbe
essere, sempre risposi: Sofocle; e va da se' che richiesto se delle umane
lettere una tradizione culturale soltanto, la grecita'. E forse dovrei
aggiungere ancora: se un'opera, un'opera sola: l'Antigone. Basterebbe a dir
tutto della grandezza e della profondita' dell'animo umano, e dello strazio
suo cocente e infinito, e dell'enigma, l'orrore e lo splendore del mondo.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 184 del 17 agosto 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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