Nonviolenza. Femminile plurale. 115



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 115 del 12 luglio 2007

In questo numero:
1. Cati Schintu: Femminismi islamici
2. Firouzeh Khosrovani: Mezzaluna di miele
3. Firouzeh Khosrovani: L'immagine che fa scandalo
4. Tamar Pitch: Multiculturalismo

1. RIFLESSIONE. CATI SCHINTU: FEMMINISMI ISLAMICI
[Dal sito di "Donne in viaggio" (www.div.it) riprendiamo il seguente
articolo del 27 aprile 2007 dal titolo "Femminismi islamici. Le donne
dell'Islam".
Cati Schintu, intellettuale femminista e libertaria, scrive su "Donne in
viaggio", e' webmaster del sito di "A. Rivista anarchica"]

Qualcuno l'ha definito un ossimoro, per sottolineare l'impossibilita' che la
religione musulmana possa conciliarsi con l'autodeterminazione femminile, ma
il femminismo islamico e' oggi uno strumento di elaborazione, di riflessione
e di lotta politica per milioni di donne.
Di femminismo islamico si e' parlato in un incontro organizzato dal Cirsde -
Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne che si e' svolto a
Torino lo scorso 6 marzo. O per meglio dire, si e' parlato di femminismi
perche', come hanno ricordato le studiose che hanno partecipato
all'incontro, nei differenti contesti del mondo islamico, piu' o meno
fondamentalisti, e nell'esperienza dell'immigrazione le pratiche delle donne
hanno dato esiti assai diversi.
*
Nel tentativo di proporre una sintesi, Ruba Salih, antropologa palestinese,
docente dell'Universita' di Bologna, che da anni si occupa di ricerca sulla
condizione delle donne in Medio Oriente e sui processi di costruzione
dell'identita' di genere, individua almeno tre percorsi in cui si e'
differenziato il femminismo islamico innanzitutto nell'elaborazione del
rapporto con la religione.
La corrente del pensiero delle donne piu' marcatamente islamista, pur
partendo dalla constatazione dell'oppressione subita, non rivendica come
tema centrale l'uguaglianza ma il principio della complementarita' tra i
generi, secondo una lettura tradizionalista del Corano. "Nasce in
opposizione al femminismo laico ed elitario che ha fatto sua la retorica
coloniale della modernizzazione, concepita come acquisizione di un modello
di societa' occidentale", precisa Ruba Salih.
Il femminismo laico e modernista, invece, riconduce lo specifico religioso a
una dimensione personale e privata e fa piu' compiutamente riferimento
all'universalita' dei diritti delle donne sanciti dalle Convenzioni
internazionali.
Tra questi due poli e' cresciuta nei paesi islamici e tra le comunita' di
immigrate una molteplicita' di movimenti femminili, caratterizzati da una
continua ricerca di compatibilita' fra appartenenza religiosa e
rivendicazione dei principi di uguaglianza fra i generi, che nella pratica
politica propongono nuovi diritti di cittadinanza. Cosi' come e' avvenuto in
Marocco dove un'ampia presenza femminile nella societa' ha reso possibile
l'approvazione del nuovo Codice sulla famiglia che oggi garantisce una
maggiore tutela dei diritti delle donne come persone e come cittadine, ma
sempre nel costante richiamo ai principi coranici.
Il femminismo islamico non e' dunque una prassi politica facilmente
classificabile e identificabile, cosi' come e' stato nell'esperienza
occidentale, ma il tentativo di parlare a piu' mondi culturalmente molto
distanti, sia in Europa sia nei paesi musulmani. Un insieme di riflessioni e
di pratiche attraverso cui le donne hanno reclamato e reclamano i propri
diritti, nell'orizzonte pero' del proprio retaggio culturale e religioso,
sia pure sottoposto a negoziazioni continue.
Per tutte, anche per le femministe laiche, il dato religioso e' ineludibile.
La rilettura del Corano e piu' in generale delle fonti islamiche e' uno
strumento indispensabile per legittimare il pensiero femminista che
rivendica in questa nuova interpretazione della tradizione i diritti delle
donne, l'eguaglianza di genere, la giustizia sociale. L'ermeneutica
femminista pone l'accento sui versi coranici che enunciano l'uguaglianza di
uomini e donne, decostruendo le interpretazioni che i religiosi musulmani
hanno fin qui dato per giustificare la supremazia maschile.
*
In Iran, ad esempio, sta crescendo una nuova elite intellettuale di donne
che si dedicano agli studi teologici e giurisprudenziali con uno sguardo di
genere, per reclamare l'abolizione di leggi che le discriminano e questo
intenso dialogo con la tradizione e le fonti conferisce loro una maggiore
capacita' di incidere nella societa'. Lo sottolinea Anna Vanzan, studiosa di
cultura islamica presso l'Universita Iulm di Milano.
In Iran il movimento femminista ha una lunga tradizione, gia' a partire
dalla seconda meta' dell'Ottocento, mentre agli inizi del secolo scorso
nascono le prime organizzazioni di donne che dibattono di diritti,
promuovono interventi pubblici, pubblicano libri, giornali e riviste.
Attraverso questa importante produzione di idee e proposte politiche si e'
diffusa una maggiore consapevolezza nella societa' civile che si e' poi
affermata nel movimento per le riforme democratiche degli anni Novanta, di
cui le donne sono state motore fondamentale.
"L'ascesa delle scrittrici e delle intellettuali - racconta Anna Vanzan - e'
un fenomeno di enorme portata il cui impatto sull'assetto sociopolitico e
culturale del paese e' sempre piu' rilevante, nonostante il controllo e la
dura repressione esercitati dal regime teocratico iraniano. L'alto grado di
istruzione raggiunto dalle donne fa si' che questa produzione editoriale
abbia una diffusione abbastanza ampia, diventando strumento di riflessione,
discussione e lotta".
Scrittrici e intellettuali sono anche tra le promotrici, insieme con
l'avvocata premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, della campagna "Un milione
di firme" partita nell'agosto del 2006 che chiede l'abolizione delle leggi
discriminatorie contro le donne. "L'esistenza di queste leggi degrada le
donne, le riduce a cittadine di seconda classe, assegna loro un valore che
e' meta' di quello dell'uomo", si legge nell'appello, pubblicato sul sito
www.we-change.org, promosso, tra le altre, dall'anziana poetessa Simin
Behbahani, che le femministe iraniane considerano come loro ispiratrice,
dalla prima donna editrice in Iran Shahla Lahiji, dalla regista Tahmineh
Milani, dalla giornalista Sahla Sherkat, fondatrice e direttora della
rivista Zanan ("Donne"), punto di riferimento del femminismo iraniano. Donne
che hanno spesso pagato con il carcere il loro attivismo.
*
Ulteriori livelli di complessita' si evidenziano nell'esperienza delle donne
islamiche immigrate in Europa.
Del femminismo islamico nelle comunita' di immigrazione hanno parlato Eva
Lorenzoni, dottoranda in Sociologia e Ricerca sociale presso l'Universita'
di Torino, e Fatima Habib Eddine, del Centro giovani islamiche in Italia.
Eva Lorenzoni conduce una ricerca tra le donne immigrate di origine
marocchina a Torino e a Parigi, focalizzata sulle modalita' con cui esse si
definiscono, concretamente ma anche sul piano simbolico, in ambiti complessi
come quelli dei paesi che le ospitano in cui spesso gli immigrati sono
rappresentati e vissuti come un problema e una minaccia.
A partire da questo dato di incomunicabilita' che sancisce la differenza
insormontabile tra "noi" e "loro" si puo' leggere la radicalizzazione
tradizionalista nelle comunita' di immigrati.
In questo contesto, l'islamismo diventa il paradigma di un'autodefinizione
individuale e sociale e una via possibile verso una emancipazione che sappia
superare la dicotomia tra modernita' occidentale e integralismo patriarcale,
passando attraverso la reinterpretazione delle proprie tradizioni.
L'adesione all'Islam e' largamente percepita come scelta consapevole di un
sistema religioso e culturale che - correttamente reinterpretato e senza
radicali rotture teologiche - riconosce dignita' e valore alla donna e che
solo il potere patriarcale ha potuto distorcere.
Come ha osservato Margot Badran, studiosa della condizione femminile nelle
societa' musulmane, nel saggio "Femminismo islamico: che cosa significa"
(pubblicato nel volume Senza velo. Donne nell'Islam contro l'integralismo, a
cura di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo, Edizioni Intra Moenia), "la
seconda generazione di donne musulmane che vivono nelle comunita'
occidentali della diaspora e nelle comunita' musulmane minoritarie si trova
spesso stretta tra le pratiche e le regole delle culture d'origine dei
genitori e i modi di vita nelle loro nuove patrie. Il femminismo islamico
aiuta queste donne a districarsi tra religione e sistema patriarcale;
fornisce loro modi islamici di comprendere l'uguaglianza di genere, le
opportunita' sociali e il loro proprio potenziale".
Lo sguardo occidentale coglie soprattutto gli aspetti piu' oscuri e
stereotipati dell'Islam, mentre tende a ignorare che tanta parte del mondo
musulmano aspira e cerca di costruire un sistema democratico in cui i
diritti della persona siano tutelati. "E in questo - sottolinea Fatima Habib
Eddine - il femminismo islamico puo' svolgere un ruolo fondamentale perche'
propone pratiche e strategie politiche, seppure con diverse sfumature, in
grado di contrapporsi a integralismi e fondamentalismi".

2. MONDO. FIROUZEH KHOSROVANI: MEZZALUNA DI MIELE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 luglio 2007, col titolo "La mezzaluna
di miele" e il sommario "Matrimoni temporanei in Iran: mercimonio,
scappatoia, o soluzione ipocrita? Iran, frequentare l'altro sesso e' una
colpa: ma un ministro consiglia le unioni temporanee per le 'esigenze
sessuali'".
Firouzeh Khosrovani e' una prestigiosa giornalista e documentarista
iraniana]

Teheran. L'Iran naviga tra crisi nucleare e minacce di sanzioni economiche,
crisi interne e internazionali. Eppure sulle prime pagine dei giornali di
recente ha tenuto banco l'hojatoleslam Mostafa Pour Mohammadi, ministro
dell'interno, quando ha dichiarato che il matrimonio temporaneo e' la
miglior soluzione per ridurre i problemi sociali. "L'innalzamento dell'eta'
del matrimonio ha creato numerosi problemi nella nostra societa'", ha
spiegato il ministro durante un forum sul hejab (il copricapo femminile
prescritto dall'islam) a Qom, la citta' delle maggiori scuole teologiche
sciite dell'Iran. "Puo' l'Islam restare indifferente verso la passione
erotica che Dio ha concesso a un ragazzo di 15 anni? Non si puo' ignorare le
esigenze sessuali dei giovani. Il matrimonio temporaneo e' la soluzione".
Non e' difficile comprendere perche' il ministro si rivolga ai giovani: il
60% dei 70 milioni di iraniani ha meno di 30 anni. Anche se fa un curioso
effetto sentire parole simili, proprio mentre e' in corso l'operazione di
polizia piu' severa da anni contro le ragazze che si mostrano in pubblico
con abiti "non-islamici", o i ragazzi vestiti in modo "disordinato"...
Il "matrimonio temporaneo" (in farsi "sigheh") e' una pratica propria
dell'islam sciita, benche' non sia contemplata dal Corano (che anzi sembra
escluderlo, ad esempio dove condanna il concubinato). E' un contratto di
matrimonio di cui i contraenti definiscono la durata ("da un minuto a 99
anni"). Oggi gran parte dei saggi (mufti) sunniti lo vieta, mentre il clero
sciita iraniano lo considera legittimo; afferma che e' stato praticato sotto
il profeta Maometto prima di essere vietato da Omar, il secondo califfo.
Alcuni citano Moussa Kazem, settimo Imam degli sciiti, che autorizzava il
matrimonio temporaneo per celibi o uomini sposati lontani dalle loro
spose...
Certo e' che il matrimonio temporaneo era praticato in Iran anche prima
della Rivoluzione islamica del '79 e oggi e' previsto dal codice civile: un
uomo ha diritto di stipulare fino a quattro matrimoni permanenti simultanei
e un numero infinito di matrimoni temporanei successivi. In un matrimonio
temporaneo gli sposi devono accordarsi per non avere figli; se un figlio
nasce pero' avra' tutti i diritti di un bambino nato da un matrimonio
permanente, almeno in teoria.
*
Gli incontri sul web
Non esistono statistiche precise sul matrimonio temporaneo oggi. Non c'e'
dubbio pero' che sia diffuso, e l'uso di siti web per trovare partners lo
testimonia. Puo' capitare di trovare annunci come quello di Mina, 41 anni,
rimasta vedova: si dichiara disponibile a un matrimonio temporaneo e invita
l'interessato a prendere contatto via e-mail precisando le richieste, la
dote (che secondo la sharia e' un obbligo dello sposo) e la durata
desiderata. In un altro annuncio Mohsen, un ragazzo di diciotto anni,
vorrebbe sperimentare un matrimonio temporaneo, vuole una moglie religiosa
ed e' pronto a offrirle in dote una moneta d'oro al mese. Lo spazio virtuale
e' il luogo migliore per incontrare le offerte; i siti di matrimoni
temporanei piu' frequentati hanno piu' di mille utenti al giorno.
Il discorso del ministro Pour Mohammadi ha scatenato polemiche (secondo il
portavoce del governo pero' parlava "nella sua qualita' di chierico ed
esperto religioso, ma la questione non interessa l'esecutivo"). Resta da
chiedersi cosa significhi il matrimonio temporaneo nella societa' iraniana
oggi, e perche' un ministro trovi necessario incoraggiarlo.
Sembra che l'establishment iraniano veda nell'unione "a tempo determinato"
un modo per rincorrere una societa' che cambia. Il primo leader della
repubblica islamica a parlarne pubblicamente in questi termini e' stato Ali
Akbar Hashemi Rafsanjani, allora presidente della Repubblica, negli anni
'80: per lui era una soluzione sanzionata dalla sharia per proteggere la
societa' dall'"inquinamento morale". Riprendeva le argomentazioni
dall'ayatollah Mottahari, uno dei padri ideologici della Rivoluzione
islamica del '79, defunto discepolo di Khomeini, il quale considerava il
matrimonio temporaneo utile per evitare l'adulterio: "Oggi i giovani, maschi
e femmine, raramente si sposano in giovane eta'. Nei tempi moderni, il
divario tra la puberta' naturale e la puberta' sociale non cessa di
allargarsi. (...) Siccome l'istinto sessuale esiste, che fare? Proporre a
ragazzi e ragazze di astenersi? Permettere loro di avere relazioni sessuali
illegali? Il matrimonio temporaneo e' una risposta". E' proprio il
ragionamento del ministro Pour Mohammadi.
Assume tutt'altro aspetto, il matrimonio temporaneo, se si pensa che nel
1994 il governo aveva pensato di creare delle "Istituzioni di Castita'",
case dove contrarre un matrimonio temporaneo anche per poche ore: case
chiuse con legittimazione islamica? Il progetto e' stato archiviato tra le
polemiche, ma era andato molto vicino a essere messo in pratica.
Forse mostrava il vero volto del matrimonio temporaneo. Nella societa' reale
infatti c'e' un chiarissimo discrimine culturale e di classe: nelle classi
medie e istruite il matrimonio temporaneo non esiste. E' praticato invece
dai ceti piu' bassi, ultrareligiosi e tradizionalisti: da chi non puo'
permettersi un matrimonio vero per ragioni economiche, ma non oserebbe una
relazione libera per convinzioni religiose (o controllo sociale). A volte
poi maschera la prostituzione vera e propria: le formalita' del contratto
sono minime, tempo e compenso ("dote") sono pattuiti in anticipo, una
relazione commerciale con un'ipocrita copertura religiosa.
*
Una paradossale scappatoia
Certo, negli anni cupi della rivoluzione, quando i pasdaran arrestavano le
coppie non sposate che si mostravano in pubblico, il matrimonio temporaneo
e' stato praticato anche da persone che non ci credono, per legittimare una
relazione con un documento ufficiale che da' molti vantaggi pratici, tra cui
poter viaggiare insieme: una coppia iraniana non puo' prendere una camera in
nessun albergo in Iran senza un certificato di matrimonio.
Mercimonio, scappatoia, o valvola di sfogo degli impulsi sessuali giovanili
con una copertura di legittimita': in ogni caso il matrimonio temporaneo
suscita critiche molto dure tra i sostenitori dei diritti delle donne. La
giurista Shirin Ebadi, Nobel per la pace, si e' sempre espressa in modo
contrario. La sociologa Fatemeh Sadeghi sottolinea quanto sia contradditoria
l'ideologia che sostiene il matrimonio part-time: "La struttura religiosa
'santifica' la famiglia, ma poi predica il matrimonio temporaneo che in
pratica indebolisce l'istituzione della famiglia". Un religioso riformista,
l'hojatoleslam Yousefi Ashkevari, fa notare che il matrimonio temporaneo
"svaluta" la donna: in una societa' tradizionalista, dove la verginita'
della sposa e' considerata indispensabile, una ragazza che sia stata sposata
in via temporanea difficilmente trovera' un matrimonio "vero".
E i giovani, obiettivo dichiarato del ministro Pour Mohammadi? Molti di loro
respingono il matrimonio temporaneo, soluzione tradizionale che non risponde
all'aspirazione piu' comune: frequentarsi liberamente e senza doversi
sposare. Ragazze e ragazzi non possono incontrarsi nei luoghi pubblici se
non con molte limitazioni: e cosi' il regime islamico li spinge (soprattutto
nelle classi medie e occidentalizzate) a incontrarsi piu' spesso nella sfera
privata, ormai l'unico spazio di liberta'.
Paradossi di un sistema che impedisce ai giovani di frequentarsi e avere
libere relazioni amicali e affettive: poi pero' offre loro un matrimonio
part-time per sfogare le "esigenze sessuali".

3. MONDO. FIROUZEH KHOSROVANI: L'IMMAGINE CHE FA SCANDALO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 aprile 2007, col titolo "Iran, il look
che fa scandalo" e l'occhiello "Simboli e liberta' pubbliche. Le ragazze di
Tehran si scoprono: e scoppia la guerra del foulard" e il sottotitolo
"Operazione di polizia contro le donne 'mal velate'. E contro mode
'occidentali', jeans strappati e capelli 'punk'. Nel vano tentativo di
negare liberta' pubbliche ormai entrate nel senso comune"]

Teheran. La campagna contro le "malvelate" e' cominciata. Come ogni anno,
all'inizio della primavera, quando l'aria diventa tiepida e gli abiti si
alleggeriscono, a Tehran e nelle altre citta' dell'Iran si appesantiscono le
ammonizioni a rispettare il codice di comportamento islamico. L'annuncio di
pesanti ammende punta al look estivo di donne e uomini, in particolare
giovani; sono presi di mira i soprabiti trasparenti e attillati, le sciarpe
meno larghe, i pantaloni piu' corti, i jeans strappati che lasciano vedere i
ginocchi, i sandali e lo smalto sulle unghie, i pantaloni corti o il gel nei
capelli dei ragazzi.
La novita' di quest'anno e' che la campagna e' cominciata con un'operazione
di polizia per la "sicurezza pubblica" per le strade, lanciata sabato
mattina con molta evidenza. Tre giorni dopo il capo della polizia di Tehran,
Mehdi Ahmadi, ha fatto il primo bilancio: i suoi agenti hanno ammonito e
impartito lezioni di "morale islamica" a 1.347 donne e ne hanno fermate e
portate in commissariato 117. Hanno ammonito anche i gestori di 544 negozi e
locali pubblici e ne hanno chiusi una ventina. Gli agenti, uomini e donne,
hanno preso a fermare le automobili con donne "malvelate", o con ragazzi e
ragazze sospettati di andare in giro per rimorchiare: 47 veicoli sono stati
fermati per "abbigliamento inadeguato" del guidatore (o guidatrice), 8 per
"offesa alla pubblica moralita'", 24 per "inquinamento acustico": ovvero,
perche' diffondevano musica (un inquinamento "occidentale").
Il giro di vite ha gia' provocato una protesta: a Shiraz, importante citta'
meridionale, dove circa duemila studenti universitari - per lo piu' uomini -
martedi' hanno protestato contro una circolare del rettore dell'universita',
che vietava magliette senza maniche o i capelli "alla punk" perfino nei
dormitori. Pare che la protesta abbia ottenuto il suo effetto, la circolare
e' stata ritirata.
Le campagne contro gli abiti leggeri sono una ricorrenza stagionale; questa
volta pero' sembra piu' pesante. Un segno e' che in questi giorni, durante i
controlli sull'abbigliamento, gli agenti hanno cominciato (ricominciato) a
chiedere a donne e uomini in compagnia se c'e' una relazione familiare tra
loro: da parecchi anni a Tehran questo non succedeva piu'. Segno di un
ritorno indietro anche sul piano delle liberta' quotidiane?
*
All'inizio del suo governo, il presidente Mahmoud Ahmadinejad aveva detto
che non ha nessuna intenzione di intervenire sull'abbigliamento e i
comportamenti quotidiani della persone. Ma per i veri sostenitori del suo
governo, l'attuale "corruzione morale" e' insopportabile. Gli ayatollah di
Qom ispiratori del presidente (i piu' conservatori), e il suo entourage,
avvertono con allarme la scomparsa dei valori per cui hanno fatto la
rivoluzione. Potrebbe Ahmadinejad mettere a rischio la sua popolarita' tra i
suoi rigidi sostenitori?
In parlamento, ben 203 deputati hanno addirittura "ringraziato" la polizia
per il suo intervento moralizzatore. I conservatori hanno sempre accusato i
riformisti per il diffondersi della "patologia" del "cattivo hejab". In
effetti gli otto anni di presidenza di Mohammad Khatami hanno portato
maggiori aperture sociali e cambiato i costumi quotidiani, compreso
l'abbigliamento: foulard inconsueti nei luoghi pubblici, donne e uomini che
escono liberamente insieme, concerti, il moltiplicarsi di caffe' e locali,
il teatro di strada. Cose talmente acquisite che sembra impossibile tornare
all'austerita' precedente.
Eppure la polizia ci prova. Le forze dell'ordine dicono che e' tutto "per il
bene delle donne, perche' si proteggano da eventuali molestie maschili", e
che "d'altronde la maggior parte delle violenze sessuali avvengono nei
confronti di ragazze 'malvelate'". La propaganda ufficiale associa l'aumento
di microcriminalita' con gli appelli inconsci della moda "provocante".
"Per la vostra santa sicurezza, vi arrestiamo e vi mettiamo in prigione",
schernisce Nik Ahang e Kowsar, un giornalista dissidente all'estero, e
continua: "Secondo un sondaggio della polizia, il 97% delle donne vorrebbe
un hejab completo e ora la polizia cerca quel 3% che invece non e'
favorevole...".
*
La fase successiva di questa campagna riguarda i ragazzi dal look bizzarro,
con t-shirt molto strette e pantaloni a vita bassa, catene e altri
accessori, tatuaggi e capelli lunghi o adolescenti con la cresta: tutte
dimostrazioni concrete dell'insuccesso dell'educazione religiosa e
antioccidentale impartita nelle scuole. Per i conservatori, e' l'intero
impianto della moralita' rivoluzionaria che vacilla.
Nel primo decennio della rivoluzione, gli uomini non potevano portare
maniche corte negli uffici statali, le barbe ben rasate erano malviste cosi'
come le cravatte, un rosario in mano era segno di virtu': per gli impiegati
statali questo resta un canone, i piu' rappresentativi portano la camicia
sopra i pantaloni e in ufficio cambiano le scarpe con le ciabatte: e' il
modello "hezbollahi".
All'opposto, la moda iraniana e' in pieno fermento e nella Tehran bene (la
parte nord della citta') nascono nuove tendenze, sia pure tra le pieghe
delle regole stabilite dal governo: interessanti modi di annodare il
foulard, l'uso di rossetto e lo smalto nero durante il moharam, mese di
lutto per gli sciiti. Ormai nelle boutiques di Tehran nord i manteaux
islamici sono sostituiti con spolverini molto eleganti. Non per nulla, in
questi tre giorni la polizia ha sigillato piu' di venti negozi di
abbigliamento.
*
Vestiti e hejab hanno un valore simbolico. Cosi', da un lato le donne
iraniane rivendicano il diritto di scegliere come vestire - e anche il
diritto di entrare allo stadio e di fumare il narghile' - ma d'altra parte
molte fanno notare che "tuttora in tribunale serve la testimonianza di due
donne per pareggiare la testimonianza di un uomo", fa notare la premio Nobel
per la pace Shirin Ebadi: per la legge, la donna conta la meta' di un uomo.

4. RIFLESSIONE. TAMAR PITCH: MULTICULTURALISMO
[Dal sito di "Giuriste d'Italia" (www.giudit.it).
Tamar Pitch, prestigiosa intellettuale, antropologa e sociologa, insegna
sociologia del diritto presso la facolta' di giurisprudenza dell'universita'
di Camerino. Fa parte del comitato scientifico del Progetto citta' sicure
della Regione Emilia Romagna ed e' giudice onorario presso il Tribunale per
i minorenni di Roma. Collabora a numerose riviste italiane e straniere. Tra
le sue opere: La devianza, La Nuova Italia, Firenze 1975; Sociologia
alternativa e nuova sinistra negli Stati Uniti d'America, La Nuova Italia,
Firenze 1977; Responsabilita' limitate, Feltrinelli, Milano 1989; AA. VV.,
Donne in carcere, Feltrinelli, Milano 1992; Un diritto per due. La
costruzione giuridica di genere, sesso e sessualita', Il Saggiatore, Milano
1998]

Del relativismo culturale, paradigma dominante nell'antropologia culturale
tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, viene denunciata la miseria
etica da Levi-Strauss, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. Come
si puo', dice Levi-Strauss, giudicare una cultura soltanto sulla base dei
suoi propri valori, dopo la Shoah? non equivarrebbe, questo, a "comprendere"
il nazismo, dove comprendere significa appunto giustificare, se non
perdonare?
Ma il problema rimane intero, come ben capiscono gli antropologi americani,
chiamati nel 1947 a commentare la Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo: da un lato le ragioni etico-politiche dell'universalismo, le
stesse che animano Levi-Strauss, dall'altro lato il timore che questo
universalismo non sia che una ulteriore mutazione di quell'etnocentrismo in
polemica col quale era per l'appunto nato il relativismo. L'etnocentrismo
evoluzionista, per esempio, secondo il quale tutti gli esseri umani sono
dotati della stessa capacita' di creazione culturale, ma si dispongono in
scala, alla cima della quale stanno gli esseri umani europei, faro di quella
civilta' che gli stati europei sono impegnati, e devono, esportare ovunque.
Come questa versione dell'etnocentrismo si connota per giustificare le
imprese coloniali, cosi' il relativismo esprime, in antropologia, il rimorso
dell'occidente.
Il disagio degli antropologi americani rispetto alla Dichiarazione
universale del 1947 ci dice pero' molto altro, ossia che la faccenda non
riguarda solo quella specifica disciplina scientifica il cui oggetto e'
"l'altro", ma ha a che fare con la storia politica e giuridica dei diritti
che si vogliono universali, con la loro stessa antropologia, intesa qui come
concezione dell'umano e del mondo.
E' una storia assai controversa e contraddittoria, come ben spiega
Ferrajoli, ricordando come tra i primi diritti fondamentali inventati vi
siano quello jus immigrationis ac communicationis teorizzati da Francisco
Vitoria per giustificare la conquista spagnola dell'America e il relativo
genocidio degli indigeni che vi si opponevano. Ma e' la stessa
proliferazione e specificazione dei diritti (Bobbio) che ne mette in
tensione l'antropologia, come molte femministe di recente hanno avvertito.
Il soggetto dei diritti, neutro, isolato, autonomo si presta male a
rispondere alle esigenze di individui sessuati, situati, in relazione,
svelando come questa costruzione giuridica assolutizzi e universalizzi
caratteristiche storiche e sociali associate ad un pensiero non solo
europeo, ma maschile.
Da questo punto di osservazione, i diritti e la cultura di cui sono
portatori (nata in occidente, ma non esaustiva delle "culture occidentali",
anzi convivente con altri modelli e valori e spesso in contrasto con essi)
possono essere definiti, come da ultimo ha fatto Eligio Resta, un pharmakon,
al tempo stesso veleno e cura: anzi, cura del loro stesso veleno. Essi sono
veicolo di conquista e penetrazione dentro altre culture, cosi' come sono
baluardo e difesa delle differenze (individuali, ma. secondo molti anche
collettive, culturali) di fronte agli abusi e alle sopraffazioni della
conquista e della penetrazione.
*
Il dibattito degli antropologi americani all'indomani della Dichiarazione
universale del '47 mostra consapevolezza di questa doppia faccia della
cultura dei diritti, la quale da' luogo ad un vero e proprio paradosso
etico, che potrebbe essere espresso cosi': possiamo noi, facendo riferimento
a una cultura che prescrive l'uguale rispetto per tutti, non importa quanto
differenti da noi - anzi, proprio in quanto da noi differenti - proporre (o,
piu' spesso, imporre) questa cultura stessa agli altri? Come si vede,
universalismo e relativismo si ripropongono dentro la stessa cultura dei
diritti, sono anzi cio' che la connota.
Se, con il relativismo, l'antropologia dava voce al rimorso dell'Occidente,
oggi questo rimorso sembra subire una torsione: il rimorso, si dice, conduce
all'agnosticismo, a un relativismo etico non solo giustificazionista, ma
non-interventista. Infine, conduce ad uno scarico di responsabilita', il
contrario di cio' che un rimorso seriamente inteso dovrebbe comportare.
Peggio: in questi ultimi anni, la tolleranza implicata dal paradigma
relativista si e' mutata nell'elogio della separazione, in un
differenzialismo escludente e razzista, che predica la non contaminazione
delle culture, e dunque l'esigenza che ciascuna si preservi intatta nel
luogo di origine. Il relativismo antropologico, dicono Dei e Simonicca,
rappresenta, paradossalmente, la piu' micidiale arma etnocentrica messa in
moto dall'antifondazionalismo ottocentesco (vedi Bossi e compagnia).
Universalismo e relativismo sono dunque strettamente intrecciati, due facce
di una stessa medaglia, e possono ambedue legittimare politiche
contraddittorie. In ambedue coesistono il riconoscimento delle differenze
(che, cosi' come per Ferrajoli, anche per Geertz sono "semplicemente un
fatto"), da cui possono derivare conseguenze paradossali precisamente
perche' in ambedue il riconoscimento di un fatto diventa norma universale.
Ma e' la stessa prospettiva relativista, non diversamente dall'universalismo
di cui e' l'altra faccia, che si pone gia' all'origine come un'opzione
etica, perlomeno nell'antropologia culturale: al cuore del relativismo c'e'
infatti la tolleranza, che ne e' presupposto piuttosto che conseguenza. Come
si vede, la cosiddetta "nostra cultura", con la quale immagino si intenda
comunemente riferirsi alla cultura dei diritti , e' insieme universalista e
relativista.
*
Ciclicamente, la cultura occidentale liberal si trova di fronte ad un
dilemma etico rispetto alle culture altre: il principio del rispetto delle
differenze culturali implica la rinuncia al giudizio, se il giudizio non
puo' aver luogo se non adottando criteri di valutazione della cultura
propria? Oppure la rinuncia al giudizio e' di per se stessa opzione
etnocentrica e produttiva di una tolleranza piuttosto incline
all'indifferenza morale? L'evoluzionismo ottocentesco, presupponendo
l'universalita' della natura umana, dava per risolto il problema cognitivo e
adottava come standard di giudizio quelli propri dell'elite culturale
dell'Europa del tempo. Le politiche adeguate a questa impostazione della
questione sono implicitamente politiche assimilative. Assumendo un preciso
standard di valutazione e giudizio, esse non sono "moralmente indifferenti".
Poiche' questo standard rimane perlopiu' implicito (o tale, col tempo,
diventa) esso assume la valenza di cio' che e' naturale, ovvio, nell'ordine
delle cose: la gerarchia implicita in queste politiche si naturalizza, la
valenza etica della scelta del punto di vista si nasconde nell'"ordine delle
cose". E' la versione etnocentrica, maschile-centrica, ecc.,
dell'universalismo (quella, tra parentesi, usata da Berlusconi).
Il relativismo, viceversa, contestualizza gli universi morali e cognitivi, a
partire dal proprio (e cade cosi' nell'autorefutazione), ma non si sottrae
allo scandalo etico, che si ripropone vuoi sotto la forma dell'indifferenza
morale, vuoi sotto quella, a noi contemporanea, del razzismo
differenzialista.
Il paradigma relativista, in antropologia, nasce con intenti conoscitivi: si
puo' conoscere una cultura diversa dalla nostra soltanto ricostruendone la
storia, assumendo cioe' che tutte le culture, comprese quelle cosiddette
"primitive", abbiano subito un processo di sviluppo e cambiamento secondo
modalita' e su parametri propri, non (ri)conoscibili adottando i nostri
standard di riferimento. Una cultura a basso sviluppo tecnologico, per
esempio, puo' essere viceversa una cultura molto sviluppata su altri piani,
quelli "spirituali", e cosi' via. Tuttavia, sostiene Gellner, capire e
giudicare non sono operazioni separabili, posizione epistemologica e
posizione etica si intrecciano in maniera inestricabile, giacche' il
paradigma relativista rinuncia alla spiegazione, come ancoraggio dei
concetti indagati a qualcosa di esterno al contesto della loro produzione e
indipendente dall'interpretazione che di questi concetti danno gli attori
stessi, per privilegiare la comprensione, ossia appunto l'interpretazione
autoctona. Sarebbe, questo, un atteggiamento "caritatevole", che implica una
tolleranza totale verso gli altri.
*
Ora, se il dibattito sulla questione epistemologica ha tralasciato
curiosamente il tema del modo come "gli altri" ci comprendono, ci spiegano,
ci traducono, quest'ultimo appare con gran forza nel contesto dell'emergere
contemporaneo di richieste di riconoscimento pubblico della propria
identita' "differente". Sono tutte richieste, queste, interne alla cultura
dei diritti, per l'appunto, e che non vengono avanzate soltanto da
"minoranze etniche" o culturali. Che questi altri vivano tra noi (alcuni, le
donne ad esempio, siamo noi) e si possa leggere la loro alterita' come esito
di una scelta politica piu' o meno consapevole, rende il dilemma piu' e non
meno complicato. Certamente, essi danno voce ad un paradosso: la denuncia
dei fallimenti delle politiche di eguaglianza basate sull'assimilazione si
esprime tramite, e non contro, il linguaggio e la cultura dei diritti. La
questione delle differenze che chiedono riconoscimento pubblico tramite una
politica dell'identita' ha dato luogo ad un dibattito acceso, come sappiamo,
dentro la cultura politica liberale e tra questa e correnti di pensiero
neocomunitarie e neorepubblicane, chiamando in causa precisamente cio' che
ho chiamato l'antropologia implicita - l'individualismo - nella cultura dei
diritti, vuoi per rivendicarla come irrinunciabile e fondante
dell'universalismo democratico, vuoi per denunciarla come produttiva di
discriminazioni.
La questione non si pone, dunque, tra l"occidente" (comunque lo si voglia
caratterizzare) e "gli altri", ma dentro l'occidente come dentro tutte le
altre culture, nella misura in cui anch'esse si sono aperte o sono state
conquistate dalla cultura dei diritti. Ma l'antropologia mostra
costitutivamente qualcosa che dovrebbe essere ovvio: ossia che le culture
sono aperte, ibride, in comunicazione tra loro, in continuo movimento e
cambiamento, internamente contraddittorie e permeabili. Concepirle, come la
politica dell'identita' tende a fare, chiuse, statiche, in se' coerenti e
omogenee, come vorrebbero certe correnti neocomunitarie e il relativismo
differenzialista, e' un errore pericoloso e tendenzioso.
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Esiste una terza via tra l'universalismo assimilazionista e il relativismo
differenzialista? Con Todorov, potremmo pensare ad un "universalismo di
percorso", un orizzonte di dialogo tra culture che produce una intesa frutto
non di deduzioni da un principio a priori, ma di confronti e compromessi.
L'universalismo di percorso e' condizione stessa del lavoro dell'antropologo
cosi' come della comunicazione con gli altri. Cio' non elimina il rischio
dell'etnocentrismo, ma la consapevolezza e la pratica dell'andirivieni tra
culture diverse non possono che mutare cio' che noi stessi pensiamo di noi
stessi. De Martino dice qualcosa di simile, quando sostiene che la propria
cultura e' la condizione imprescindibile dell'incontro con l'altro. Lo
scandalo dell'incontro etnologico consiste bensi' nella messa in dubbio
della cultura propria, ma cio' conduce alla presa di coscienza, ad una
scelta piu' consapevole di quei valori della propria cultura (non tutti) cui
si riconosce valenza positiva. E' l'etnocentrismo critico, come assunzione
consapevole (consapevole, tanto piu' quanto piu' ci si espone all'incontro
con l'altro) della storicita' e specificita' di quei valori che si
vorrebbero universalizzare.
L'andirivieni che approda all'etnocentrismo critico interpreta
l'universalismo di percorso come produttore di un migliore "amore di se'".
Ossia, esso conduce, come dicevo, alla scelta di quei valori e principi
della propria cultura che sembrano promettere rispetto e valorizzazione
degli altri.
Questa idea ha varie implicazioni. La prima ha a che vedere con l'idea di
una tolleranza limitata e vigile. Si deve tollerare tutto cio', ma soltanto
cio', che non contraddice i principi su cui si fonda la tolleranza stessa.
E' un'implicazione negativa. La seconda implicazione e' quella invece che
sottende le politiche multiculturaliste. Rispetto e valorizzazione
richiedono moltiplicazioni di diritti e tutele adeguate. Le due
implicazioni, nelle societa' multiculturali che le hanno sperimentate, hanno
condotto l'una a politiche assimilative che hanno prodotto discriminazione
per chi non poteva o non voleva assimilarsi, l'altra alla chiusura
intraculturale e alla messa a rischio dei diritti individuali.
Una terza via, piu' in sintonia con l'idea stessa di etnocentrismo critico,
e' quella implicata da un diritto mite (Zagrebelski), inteso come la
stipulazione costituzionale di principi tesi a "realizzare le condizioni di
possibilita' della vita comune, non il compito di realizzare direttamente un
progetto determinato di vita comune". I principi costituzionali sono visti
come esito di un confronto in cui si rinuncia all'assolutezza e insieme come
cornice per progetti diversi, che competono e possono competere in virtu'
della loro apertura e "debolezza": dove, tuttavia, assoluto e
imprescindibile e' invece il valore della coesistenza stessa.
Potrebbe essere questa una visione che bene si accorda con il pluralismo
giuridico, che e' non solo riconosciuto e ammesso, ma anche promosso,
all'interno, beninteso, di una cornice fornita da principi costituzionali, a
loro volta frutto di un dialogo che, circolarmente, tutelano.
*
Il richiamo di Ferrajoli ad un "costituzionalismo mondiale", di cui le
Dichiarazioni universali dei diritti sono il supporto positivo, va nella
stessa direzione. Cio' che non esime, naturalmente, come gia' dicevano gli
antropologi americani alla fine della seconda guerra mondiale, dal rivedere
contenuti e linguaggio delle Dichiarazioni stesse alla luce del confronto
interculturale da esse reso possibile, tutelato, ma anche, nel bene e nel
male, vincolato. Giacche' si potrebbe dire che l'inefficacia e' il prezzo
dello scarso potere di persuasione (la scarsa capacita' di raccogliere
consenso) di diritti formulati con un linguaggio e l'adozione di criteri
relativi ad una sola cultura, la (parte della) nostra. Che e' cosa diversa
dal dire i diritti sono un prodotto nostro, non solo non vi e' in essi
alcunche' di universalizzabile, ma i tentativi di universalizzazione
implicano politiche di dominio o comunque di scarso rispetto per le culture
altrui, e dunque vanno abbandonati. Oppure, specularmente, poiche' sono un
prodotto nostro, essi sono anche testimonianza della superiorita' della
nostra cultura e del nostro buon diritto di imporli agli altri o di
accettare gli altri nella misura in cui essi li adottano, o vi si adeguano,
cosi' assimilandosi a noi.
Se poi dal cielo delle disquisizioni etico-politiche scendiamo sulla terra
delle pratiche e dell'esperienza, allora vediamo qualcosa che taglia la
testa al toro: i diritti, se non dagli Stati e dalle organizzazioni
internazionali, sono presi terribilmente sul serio da moltissimi dei dannati
della terra, ovunque si trovino. Sono diventati, magari ritradotti e
riformulati, grande parte del linguaggio comune della ribellione e della
rivolta.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 115 del 12 luglio 2007

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