La domenica della nonviolenza. 118



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 118 del primo luglio 2007

In questo numero:
1. Antonio Gargano intervista Paul Ricoeur sull'idea di giustizia
2. Due domande a Paul Ricoeur sui problemi attuali dell'etica
3. Un'intervista a Paul Ricoeur sull'etica secondo Aristotele

1. MAESTRI. ANTONIO GARGANO INTERVISTA PAUL RICOEUR SULL'IDEA DI GIUSTIZIA
[Dal sito www.emsf.rai.it riprendiamo la seguente intervista di Antonio
Gargano a Paul Ricoeur sul tema " L'idea di giustizia".
Antonio Gargano e' docente di filosofia a Napoli. Tra le opere di Antonio
Gargano: Kant. Le tre Critiche, La Citta' del Sole; Hoelderlin. Pensiero
politico e filosofia della storia, La Citta' del Sole; I sofisti, Socrate,
Platone, La Citta' del Sole, 1996; (con Alberto Burgio, Michel Vovelle),
Robespierre duecento anni dopo, La Citta' del Sole, 1996; L'idealismo
tedesco. Fichte, Schelling, Hegel, La Citta' del Sole, 1998; Bruno Bauer, La
Citta' del Sole, 2003; Il pensiero filosofico e scientifico nell'antichita'
e nel medioevo, La Citta' del Sole, 2005; L'irrazionalismo dell'Ottocento,
La Citta' del Sole, 2005; Il pensiero filosofico e scientifico nell'eta'
moderna, La Citta' del Sole, 2006.
Paul Ricoeur, filosofo francese, nato nel 1913 e deceduto nel maggio 2005;
amico di Mounier, collaboratore di "Esprit", docente universitario, uno dei
pensatori piu' influenti del Novecento, persona buona. Dal sito
dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo questa
breve scheda: "Paul Ricoeur nasce a Valence (Drome) il 27 febbraio 1913.
Compie i suoi studi di filosofia prima all'Universita' di Rennes, poi alla
Sorbonne, dove nel 1935, passa l'agregation. Mobilitato nel 1939, viene
fatto prigioniero e nel campo comincia a tradurre con Mikel Dufrenne Ideen I
di Husserl. Dal 1945 al 1948 insegna al College Cevenol di
Chambon-sur-Lignon, e successivamente Filosofia morale all'Universita' di
Strasburgo, sulla cattedra che era stata di Jean Hyppolite, e dal 1956
Storia della filosofia alla Sorbona. Amico di Emmanuel Mounier, collabora
alla rivista "Esprit". Dal 1966 al 1970 insegna nella nuova Universita' di
Nanterre, di cui e' rettore tra il marzo 1969 e il marzo 1970, con il
proposito di realizzare le riforme necessarie a fronteggiare la
contestazione studentesca e, contemporaneamente, presso la Divinity School
dell'Universita' di Chicago. Nel 1978 ha realizzato per conto dell'Unesco
una grande inchiesta sulla filosofia nel mondo. Nel giugno 1985 ha ricevuto
il premio "Hegel" a Stoccarda. Attualmente [quando questa scheda fu
redatta - ndr] e' direttore del Centro di ricerche fenomenologiche ed
ermeneutiche". Opere di Paul Ricoeur: segnaliamo i suoi libri Karl Jaspers
et la philosophie de l'existence (con Mikel Dufrenne), Seuil; Gabriel Marcel
et Karl Jaspers, Le temps present; Filosofia della volonta' I. Il volontario
e l'involontario, Marietti; Storia e verita', Marco; Finitudine e colpa I.
L'uomo fallibile, Il Mulino; Finitudine e colpa II. La simbolica del male,
Il Mulino; Della interpretazione. Saggio su Freud, Jaca Book, poi Il
Melangolo; Entretiens Paul Ricoeur - Gabriel Marcel, Aubier; Il conflitto
delle interpretazioni, Jaca Book; La metafora viva, Jaca Book; Tempo e
racconto I, Jaca Book; Tempo e racconto II. La configurazione nel racconto
di finzione, Jaca Book; Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, Jaca
Book; Dal testo all'azione. Saggi di ermeneutica II, Jaca Book; Il male. Una
sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana; A l'ecole de la
fenomenologie, Vrin; Se' come un altro, Jaca Book; Lectures 1. Autour du
politique, Seuil; Lectures 2. La contree des philosophes, Seuil; Lectures 3.
Aux frontieres de la philosophie, Seuil; Le juste, Esprit; Reflexion faite.
Autobiographie intellectuelle, Esprit; La critica e la convinzione (colloqui
con Francois Azouvi e Marc de Launay), Jaca Book. Segnaliamo inoltre:
Kierkegaard. La filosofia e l'"eccezione", Morcelliana; Tradizione o
alternativa, Morcelliana, e l'antologia Persona, comunita' e istituzioni,
Edizioni cultura della pace. Opere su Paul Ricoeur: segnaliamo
particolarmente due recenti monografie: Francesca Brezzi, Ricoeur.
Interpretare la fede, Edizioni Messaggero Padova, 1999; Domenico Jervolino,
Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003; Francesca Brezzi,
Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari 2006]

- Antonio Gargano: Professor Ricoeur, l'esistenza di leggi ingiuste non
prova che la giustizia non si esaurisce nel diritto?
- Paul Ricoeur: Si tratta di un paradosso che e' parte della nostra stessa
realta' umana. Da un lato abbiamo infatti l'idea di giustizia, dall'altro le
leggi scritte proprie dei diversi paesi e delle rispettive legislazioni
nazionali. Abbiamo dunque due concetti di giustizia: l'ideale di giustizia
di cui parla la filosofia del diritto, e poi la giustizia legata al diritto
positivo e formulata nelle leggi. In effetti ci possono essere atti
dichiarati come giusti e leciti perche' conformi a determinate leggi, ma
queste leggi possono a loro volta risultare ingiuste se vengono considerate
in rapporto ad un progetto che oltrepassa le costituzioni e le stesse
nazioni, collocandosi su di un piano per essenza cosmopolitico.
*
- Antonio Gargano: Allora la giustizia e' soltanto un concetto morale che
non prevede se non per accidens una coincidenza con il diritto?
- Paul Ricoeur: No. Resta comunque il fatto che il concetto di giustizia,
quand'anche ci serva a condannare delle leggi ingiuste, non appartiene alla
morale, perche' con esso non si pone il problema della purezza delle
intenzioni, ma piuttosto ci si propone di correggere i comportamenti. Da
questo punto di vista Kant e Hegel hanno ragione: il diritto e' distinto
dalla morale, perche' si presenta come la sfera dell'esteriorita', in cui
gli uomini appaiono esterni gli uni agli altri ed il tribunale reale risulta
anch'esso esterno rispetto al tribunale della coscienza.
*
- Antonio Gargano: Come si puo' venire a capo di questa aporia allora?
- Paul Ricoeur: Il paradosso puo' essere risolto - anche se solo
parzialmente - mediante la nozione di "principi generali del diritto", di
cui si servono i giuristi. "I principi generali del diritto" sono l'elemento
di connessione tra la giustizia come mero ideale e la giustizia legata al
diritto positivo ed alle leggi scritte, che possono essere talvolta anche
leggi criminali: per esempio gli ebrei sono stati sterminati in base a leggi
firmate da un capo dello stato legalmente eletto. "I principi generali del
diritto" sono appunto l'espressione della sensibilita' morale dell'umanita'
in un dato momento storico, giacche' presentano una certa visione dei
rapporti di coesistenza tra gli uomini, tali da rendere sopportabile la vita
in comune.
In questo senso la giustizia e' un concetto che non appartiene ne' alla
morale ne' al diritto positivo, ma ai "principi generali del diritto", che
si trovano nelle dichiarazioni universali dei diritti come per esempio nella
Dichiarazione d'indipendenza della Rivoluzione americana, nella
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione
francese e nel preambolo di molte costituzioni, che spesso contengono
principi piu' giusti rispetto al contenuto determinato delle leggi che
seguono.
*
- Antonio Gargano: E come si deve porre, per lei, la giustizia di fronte al
relativismo degli interessi e dei punti di vista nelle societa' complesse?
- Paul Ricoeur: Cosi' come esiste un rapporto gerarchico tra l'idea di
giustizia, i principi generali del diritto e il diritto positivo, allo
stesso modo esiste una partizione interna al diritto positivo stesso:
abbiamo il diritto pubblico, il diritto privato, il diritto sociale, il
diritto penale. La partizione e' tale da determinare una specie di divisione
del lavoro tra i giuristi stessi.
Credo si debba riconoscere che una tale frammentazione del diritto dipenda
semplicemente dal fatto che le forme di relazione in cui si puo' entrare con
gli altri sono di natura molteplice, e cio' e' strettamente connesso alla
crescente complessita' delle societa' moderne. In una societa' complessa si
danno rapporti diversificati tra le persone, e questo fa si' che le
relazioni di diritto pubblico tra concittadini non coincidano con le
relazioni che si stabiliscono, per esempio, nella definizione dei contratti,
nel diritto di successione o nel diritto sociale. Questo significa un
potenziamento della possibilita' di conflitti.
*
- Antonio Gargano: E la giustizia e' capace di eliminare questi conflitti?
- Paul Ricoeur: Il conflitto fa parte della realta' umana, non si deve
credere che entrando nella sfera giuridica si eviti ogni possibilita' di
conflitto, si entra piuttosto in una sfera in cui i conflitti sono
riconosciuti come leciti e in cui esistono le regole per risolverli. Ma tali
regole non sono necessariamente omogenee, ne' formano un sistema. Uno dei
problemi principali del diritto e' allora quello di eliminare il maggior
numero di contraddizioni, tanto piu' che in linea di principio una legge non
puo' contraddirne un'altra.
Non si tratta dunque di una questione di relativismo, ma piuttosto di un
problema di complessita'. Una societa' bene ordinata - per usare
un'espressione di Hannah Arendt - non e' quella in cui non ci sono
conflitti, ma quella in cui ci sono regole per dirimerli, in questa
prospettiva consenso e conflitto possono coesistere. Una societa' crea tanti
piu' conflitti quanto piu' e' complessa, percio' essa richiede un maggior
consenso sulle regole procedurali. In questo senso Rawls ha ragione nel
sostenere che il progresso principale e' quello che si puo' fare
intervenendo sulle procedure.
*
- Antonio Gargano: Professor Ricoeur per lei e' possibile pensare ancora
alla giustizia come ad un criterio unificante e universale, indirizzato
verso il miglioramento delle condizioni di vita umane?
- Paul Ricoeur: Se vogliamo passare alla realizzazione della giustizia sul
piano pratico, occorre naturalmente chiedersi che cosa si possa fare
affinche' le societa' in cui viviamo si conformino all'ideale di giustizia.
Innanzitutto bisogna pensare che l'umanita' e' unica, in modo da porre il
problema della giustizia al livello dell'umanita'. Se dunque pensiamo la
giustizia in senso cosmopolitico, nel significato che avevano dato a questa
prospettiva gli uomini del XVIII secolo, siamo indotti a considerare un
secondo aspetto della questione, ossia il tipo di disuguaglianza creato
dallo sviluppo economico. Credo che il progresso della giustizia stia
innanzitutto nel rendere possibile l'umanita' come una grande comunita'
tenuta insieme da legami di convivialita'. Mi sembra che, all'epoca del
grande indebitamento del terzo mondo, il grande pericolo consista nel
commerciare soltanto con le nazioni solventi, soddisfacendo pertanto solo i
bisogni di chi puo' pagare.
La giustizia, secondo il mio modo di intenderla, consiste invece piuttosto
nel rompere questa regola secondo cui si debbano soddisfare soltanto i
bisogni di chi puo' pagare, e cio' implica il passaggio dall'idea di
un'economia mercantile all'idea di un'economia dei bisogni. Ci sono bisogni
umani fondamentali da soddisfare, anzi occorre riconoscere che fin dalla
nascita si hanno diritti, giacche' nessuno sceglie di venire al mondo. In
terzo luogo ritengo che le nostre civilta' occidentali debbano cercare di
riconoscere le differenze nella maniera piu' ampia possibile. Contro il
progetto di omogeneizzare l'umanita', rendendo tutti gli uomini simili gli
uni agli altri in base ad un modello culturale uniforme, bisogna dare il
piu' largo credito possibile alle differenze, per esempio alla differenza
dei sessi, alla differenza delle generazioni, delle forme di comportamento
che consideriamo devianti, come l'omosessualita' o la tossicodipendenza.
*
- Antonio Gargano: E' indispensabile l'utilizzo della forza nella giustizia?
E se e' cosi', come dev'essere regolato?
- Paul Ricoeur: Occorre riconoscere in primo luogo che la nostra societa'
non puo' tollerare tutto e che esiste qualcosa di intollerabile, delle
deviazioni e delle trasgressioni che devono essere punite anche usando la
forza. Ma cio' significa ammettere il fallimento della societa', infatti nel
riconoscere che non puo' funzionare senza un minimo di forza, la societa'
sperimenta i suoi limiti e il suo fallimento. Cio' vuol dire che non abbiamo
ancora risolto il problema del "vivere bene insieme", che e' in definitiva
la nostra utopia sociale. In secondo luogo - come intese Cesare Beccaria -
ci si dovrebbe servire della punizione come di un mezzo di educazione,
eliminando il piu' possibile l'idea di espiazione. Tanto piu' che - come
Michel Foucault ha ripetutamente affermato in tutta la sua opera - le forme
di reclusione che continuiamo a praticare secondo modelli puramente
repressivi producono in realta' l'effetto contrario, visto che le prigioni
diventano spesso delle vere e proprie scuole del crimine.
Attualmente dovremmo sperimentare delle forme di pena diverse dalla
reclusione, come il lavoro sociale, o qualcosa del genere. In ogni caso il
criminale, per quanto possa essere considerato abietto il suo crimine,
dev'essere tuttavia rispettato nella sua umanita'.
*
- Antonio Gargano: Qual e' il rapporto tra la giustizia in quanto tale e la
giustizia sociale? Che cosa manca oggi alla realizzazione di una giustizia
sociale?
- Paul Ricoeur: Almeno fino all'inizio del XX secolo, il diritto si e'
articolato soprattutto in diritto pubblico e diritto privato. Solo con
questo secolo si e' sviluppata una nuova concezione del diritto, che ha
aggiunto la connotazione di "sociale" per distinguersi dalla visione
limitata del diritto come diritto delle istituzioni e dei contratti. Il
diritto sociale e' nato quando si e' cominciato a riconoscere che la
societa' stessa produce disuguaglianza ed ingiustizie spesso proprio quando
funziona al meglio e nella maniera piu' produttiva, sviluppando benessere,
ricchezza e cultura, quando cioe' la redistribuzione dei benefici del lavoro
di tutti diventa per se' un problema.
A questo proposito ritengo che l'idea di uguaglianza sia altrettanto
importante dell'idea di giustizia, ancora legata all'opposizione del "mio" e
del "tuo". Credo che nell'idea di giustizia ci sia una specie di limitazione
iniziale, visto che il suo scopo sembra essere non tanto la realizzazione
della comunita', quanto piu' semplicemente, come aveva ben visto Kant, la
realizzazione della coesistenza. Ma noi abbiamo un progetto piu' grande, che
e' la convivenza e la convivialita'; e' proprio a questo punto che introduco
la mia idea di uguaglianza, perche' credo che non sia possibile alcuna
comunita' se lo stato sociale degli uomini e' troppo disparato e se c'e' uno
scarto troppo grande tra i privilegiati e i piu' svantaggiati. E' necessario
pertanto avvicinare i livelli della condizione sociale degli uomini, percio'
l'idea di uguaglianza dev'essere altrettanto forte dell'idea di giustizia.

2. MAESTRI. DUE DOMANDE A PAUL RICOEUR SUI PROBLEMI ATTUALI DELL'ETICA
[Dal sito www.emsf.rai.it riprendiamo le seguenti due domande e risposte
estratte dall'intervista a Paul Ricoeur del 6 marzo 1989 sul tema  "Problemi
attuali dell'etica"]

- "Enciclopedia mltimediale delle scienze filosofiche" [di qui in poi:
Emsf]: Professor Ricoeur, qual e' secondo lei lo stato di salute della
ragione nel mondo?
- Paul Ricoeur: Parlare di stato di salute e' lo stesso che parlare di
malattia. Io credo che noi siamo portatori di tre malattie. Non abbiamo
finito di estirpare in gran parte del mondo l'eredita' del totalitarismo.
Noi abbiamo compiuto l'opera di ricostruzione post-bellica, ma non abbiamo
affrontato la ricostruzione morale dopo l'esperienza inaudita della violenza
e della tortura che e' ancora praticata nel mondo. Io come membro di Amnesty
International seguo da vicino i suoi rapporti. Come lei sa, ci sono soltanto
venticinque o trenta paesi nel mondo che possono essere considerati come
quasi - dico "quasi" - esenti da pratiche di tortura. Questa e' la prima
malattia.
Una seconda malattia e' che la ragione strumentale ha progredito piu'
rapidamente della saggezza pratica ed e' in fondo di questo scarto che noi
soffriamo o di cui soffrono gli scienziati, perche' conosco molti scienziati
che dicono: trovate voi una risposta, noi non ce l'abbiamo. Non bisogna
credere a una pretesa arroganza degli scienziati. Io al contrario sono
colpito dalla loro modestia. Il loro comportamento nel Comitato di Etica e'
in cio' assolutamente esemplare. Loro chiedono sempre, ma gli altri non
hanno risposte, noi manchiamo di risposte. Dunque io direi che si tratta del
crollo della phronesis, di una ragione non strumentale, per usare ancora
questa categoria.
Il terzo punto infine e' che siamo entrati in un mondo della comunicazione,
nel senso materiale - per mezzo di satelliti ecc. - ma anche qui i mezzi di
comunicazione sono molto piu' avanzati della qualita' della comunicazione.
Quello che dicevo poco fa - e ritorno su questo punto - e' che un autentico
confronto con i contenuti di fondo della saggezza indiana, della saggezza
giapponese o cinese, del buddismo o dell'islam, non c'e' ancora stato. Ora
io credo che si possa dire che questo anticipo della comunicazione
tecnologica sulla comunicazione culturale e' una forma patologica della
societa' contemporanea. In questo senso ci troviamo davanti a uno stato di
salute critico.
*
- Emsf: La famiglia e' in crisi, le istituzioni sono in crisi, la scuola e'
in crisi: da dove verra' la futura classe dirigente, a chi si affidera' la
ragione?
- Paul Ricoeur: Io non faccio il profeta. Credo che la funzione della
filosofia sia qui di diagnosi piu' che di prognosi, sia quella di farci
conoscere meglio l'un l'altro in modo meno menzognero. Credo che ci sia
nonostante tutto un problema di veracita', se non di verita'. C'e' un
problema della veracita' perche', gli scrittori in particolare,
rappresentano una forza sovversiva estremamente avanzata e sono spesso loro
che vanno piu' lontano nell'esplorazione del sottosuolo e dei bassifondi
della vita moderna. E allora io credo che la requisitoria della filosofia
attualmente si debba articolare su due punti: sulla nozione che la crisi non
e' passeggera, ma e' come una condizione permanente della nostra esistenza e
che, in secondo luogo, il conflitto fa anch'esso parte - non soltanto il
conflitto d'interessi ma anche quello di idee - della condizione moderna o
post-moderna, come la si vuol chiamare. Se la si chiama moderna e' perche'
si crede di poterla unificare un giorno mediante la ragione; post-moderna e'
l'idea che la crisi e' una maniera d'essere per tutti noi. E se mi permette
di terminare con la philia aristotelica, essa consiste oggi nell'apportare
uno spirito di amicizia nel conflitto. Il mio maestro Karl Jaspers parlava
della lotta amorosa, Liebeskampf. E' questo che i filosofi possono
apportare: una sorta di generosita' nella discussione non disgiunta
dall'esigenza del rigore.

3. MAESTRI. UN'INTERVISTA A PAUL RICOEUR SULL'ETICA SECONDO ARISTOTELE
[Dal sito www.emsf.rai.it riprendiamo la seguente intervista a Paul Ricoeur
del 6 aprile 1989 sul tema "L'etica secondo Aristotele"]

- "Enciclopedia mltimediale delle scienze filosofiche" [di qui in poi:
Emsf]: Professor Ricoeur, la dottrina etica di Aristotele e' al centro di un
nuovo interesse. Da quale testo aristotelico si deve partire per cogliere
gli aspetti di maggior forza delle sue teorie etiche?
- Paul Ricoeur: Credo che dovremmo scegliere l'Etica Nicomachea. Disponiamo
di due o tre trattati di etica di Aristotele, ma questo e' il piu' completo,
il piu' noto, ed il suo testo e' il piu' sicuro e il meglio studiato.
L'opera inizia con una serie di considerazioni volte a orientare il lettore
verso un fine che e' anche quello dell'autore, di Aristotele. Cio' che essi
hanno in comune e a cui entrambi mirano e' la felicita', intesa come la
realizzazione di una vita felice. Tutti gli uomini vi tendono: Aristotele
non si preoccupa di dimostrarlo, ma ammette che tutti la perseguano con le
loro azioni, i loro pensieri ed i loro sentimenti.
A partire da questo dato Aristotele si interroga su come tale scopo possa
essere "ragionevolmente" conseguito. Non dico "razionalmente", perche'
esiste forse una ragione morale che non e' identica alla ragione
scientifica.
Aristotele comincia con lo stabilire quello che si deve intendere con azione
umana. Il problema morale esiste perche' l'uomo e' un soggetto che agisce,
che soffre, che puo' fare delle scelte ragionevoli: il problema dell'etica
e' quello di mettere in rapporto la capacita' di scegliere, che e' in
ciascuno, con la ricerca della felicita'. Quali sono gli elementi intermedi?
Aristotele li riunisce in un solo concetto: la "virtu'". Ma la parola
"virtu'" ha, nel nostro linguaggio, una cattiva reputazione. Percio'
preferirei tradurre con "perfezione": ossia fare bene quello che si fa.
Aristotele classifica dunque le virtu' secondo i campi in cui si puo' essere
perfetti, in cui si puo' essere i migliori e ci si puo' giudicare tali,
perche' si e' ottenuto un buon risultato. Egli ripropone le virtu'
conosciute ai suoi tempi, introdotte nell'educazione attraverso la lettura
dell'Iliade, dell'Odissea, dei tragici, degli oratori. Vi si ritrovano la
temperanza, che e' il buon uso dei desideri, dei piaceri e dei dolori; la
magnanimita', il coraggio, la giustizia, di cui parleremo piu' a lungo,
l'amicizia - ad essa e' dedicato il libro che forse preferisco dell'Etica
Nicomachea. Compiuto l'intero percorso si termina la' dove si era
cominciato, con la ricerca originaria della felicita'. Questo e' il punto
con cui inizia il grande libro decimo dell'Etica Nicomachea, in cui si
mettono a confronto la vita contemplativa e quella pratica.
Nello scrivere questo libro, in fondo, lo stesso Aristotele non compie
un'azione pratica; egli parla della pratica, scrive un'opera del pensiero
teoretico sulla pratica. Ed il suo libro si conclude appunto con l'analisi
del rapporto tra teoria e pratica.
Uno dei concetti fondamentali dell'Etica Nicomachea e' quello di "giusto
mezzo" che costituisce l'apporto principale di Aristotele. Noi ci troviamo
di fronte ad una molteplicita' di virtu': a seconda delle classificazioni,
se ne distinguono quattro, sette, od otto. Che cosa hanno in comune? Questo
problema e' di competenza del filosofo, ed e' qui che egli compie un lavoro
di riflessione che si distingue sia dal senso comune, sia dal metodo seguito
dai poeti. Aristotele ha scoperto - e in cio' consiste il suo apporto
filosofico - che tra tutte le virtu' c'e' almeno questo tratto comune: il
fatto di indicare un giusto mezzo tra due estremi.
Prendiamo il caso degli estremi. Per il coraggio, ad esempio, il primo
estremo e' la temerarieta', il rischiare la propria vita inutilmente;
l'altro estremo e' la vilta', l'aver paura. Il coraggio sta tra i due. La
parola "giusto mezzo" non ha buona reputazione, perche' viene considerata
una forma di compromesso; ma l'idea di Aristotele e' che il giusto mezzo sia
cio' che e' piu' difficile da trovare, perche' e' un punto di equilibrio
estremamente fragile - e spero che la nostra discussione ci permettera' di
ritrovare questo problema, piu' tardi, in situazioni contemporanee in cui,
tra due posizioni estreme, e' appunto difficile trovare il giusto mezzo.
Credo che ci sia un testo di Aristotele in cui si dice che il giusto mezzo
e' un crinale, una vetta, e non una specie di palude in cui si affondi.
*
- Emsf: La riflessione politica aveva toccato dei punti veramente alti nel
pensiero greco. Possiamo ricordare i sofisti, Socrate, Platone. Non bisogna
poi dimenticare l'apporto dei tragici. Ora, l'insegnamento della sofistica e
l'insegnamento di Socrate e Platone rappresentano due posizioni teoriche
irriducibili: da una parte la massima dissoluzione del valore assoluto
dell'etica, dall'altra l'etica elevata a valore assoluto. Come si pone
Aristotele rispetto a queste due interpretazioni dell'etica?
- Paul Ricoeur: I sofisti erano gli educatori dei giovani intellettuali che
ambivano a conquistare dei ruoli di potere; ad essi insegnavano ad ottenere
il successo mediante un abile uso del linguaggio. Platone si era opposto
vigorosamente all'insegnamento dei sofisti, proponendo un'idea della
giustizia del tutto opposta all'abilita', al successo. Riguardo al problema
morale, ed in particolare a quello della giustizia, Platone aveva proposto
l'idea che il bene e le sue forme fossero, esattamente come gli oggetti
matematici, degli oggetti assoluti, che ci precedono ed hanno una realta'
propria; sono insomma delle idee.
Aristotele ha voluto invece avvicinare il bene all'uomo, mostrando che esso
e' contenuto nell'aspirazione alla ricerca della felicita' e nelle strutture
dell'azione. Il merito di Aristotele fu pertanto quello di ricollegare le
virtu' all'azione umana. La nozione di prassi, che poi ha avuto cosi' grande
fortuna con Marx, e' nata con Aristotele. La prassi e' l'azione, il luogo
del bene e del male. E tutte le "perfezioni", che chiamiamo virtu', sono
delle forme che egli chiama abituali, delle disposizioni generali
all'azione, riferite a situazioni tipiche, come il coraggio e' riferito al
pericolo, la moderazione alla tentazione degli eccessi del piacere e del
dolore.
*
- Emsf: C'e' un rapporto tra l'Etica Nicomachea e la Poetica di Aristotele?
- Paul Ricoeur: Si puo' vedere meglio il rapporto nell'altro senso, dalla
Poetica all'Etica: il tratto comune, se cosi' si puo' dire, e' appunto
l'azione. Qual e' infatti l'oggetto della Poetica? E' l'imitazione
creatrice, da parte dei poeti, di azioni notevoli, che conducono gli uomini
migliori alla sventura, mediante uno sviluppo dell'azione che sta appunto
sotto il segno dell'"eccesso". La Poetica e' dunque la contropartita
dell'Etica, non soltanto un trattato di estetica.
L'etica ci dice che l'uomo consegue la felicita' praticando la virtu'; la
Poetica invece fornisce degli esempi inventati, le grandi finzioni
narrative, come una specie di laboratorio del pensiero, per combinare, nelle
maniere piu' diverse, quattro termini: il bene, il male, la buona e la
cattiva sorte.
Ogni tragedia e' un itinerario diverso, che appunto mette in scena - e' il
caso di dirlo - il rapporto dell'azione con la felicita' e l'infelicita',
attraverso la virtu' e il vizio.
*
- Emsf: In Platone, come in Socrate, dunque troviamo l'identita' del vero
col bene. In Aristotele quest'identita' si rompe. Tuttavia, in Aristotele
non troviamo la teorizzazione del relativismo etico o dell'irrazionalismo:
quale e' dunque la via che prende Aristotele?
- Paul Ricoeur: Socrate resta un enigma per tutti i commentatori, perche',
siccome non ha scritto niente, lo conosciamo solo attraverso Platone,
qualche passo di Aristotele, un po' di Senofonte ed i sarcasmi di
Aristofane. Ma quale e' il vero Socrate? Quello che sappiamo di Socrate ci
porta a dire che egli oppose ai sofisti, che insegnavano un uso perverso del
linguaggio per ottenere il successo, un intellettualismo estremamente forte.
E' nell'uso della ragione che risiede il principio stesso del bene, secondo
quello che comunemente si definisce intellettualismo etico. L'uomo non e'
cattivo per propria volonta', ma per mancanza di conoscenza, di educazione,
di cultura.
Da questo punto di vista Aristotele rappresenta un correttivo molto
importante, perche' prende la categoria di azione in un senso assai piu'
largo. La struttura dell'azione comporta per lui, oltre agli aspetti
intellettuali, indicati come "deliberazione", in cui ritroviamo l'elemento
socratico, anche il desiderio. Percio' egli definisce spesso la virtu' come
un desiderio ragionato, sensato. In Aristotele troviamo pertanto un rapporto
molto piu' stretto con il contenuto del desiderio, e questo si comprende,
perche' nel suo pensiero e' presente l'aspirazione alla felicita', che viene
dalle viscere stesse dell'uomo desiderante. Il problema per Aristotele e'
quello di introdurre l'elemento della razionalita' in questa aspirazione
fondamentale; si tratta di una nota molto diversa dall'intellettualismo di
Socrate.
Ma credo che si debba rendere giustizia ad entrambi: non siamo obbligati a
fare una scelta, poiche' essi non avevano gli stessi avversari. Si potrebbe
dire che Socrate risponde ai sofisti, mentre Aristotele risponde a Platone,
e dunque replica alla risposta che Platone aveva dato ai sofisti. C'e' un
gioco assai complicato di correttivi, di aggiustamenti, e non si puo'
prendere un pensiero in blocco, al di fuori del rapporto dialogico con i
suoi contemporanei - e anche con i suoi predecessori -, dato che Aristotele
e' sempre in discussione con Platone e quindi anche con Socrate e i sofisti,
e talvolta con i presocratici.
*
- Emsf: Qual e' il rapporto fra la responsabilita' del cittadino di fronte
alla societa' ed agli altri in genere, e l'ideale della felicita',
considerando che l'uomo si trova talvolta a dover sacrificare la propria
felicita' al bene comune?
- Paul Ricoeur: Non bisogna mai dimenticare che per Aristotele c'e', tra
etica e politica, un nesso assai stretto: ma, per coglierlo, dobbiamo
tornare al concetto di azione, di prassi, che e' il mobile centro di tutto
il suo pensiero.
L'azione vera e' quella che ha luogo in pubblico, nella agora', nella
discussione pubblica per la gestione della citta'. C'e' un testo, proprio
all'inizio dell'Etica Nicomachea, in cui si afferma addirittura che l'etica
e' una parte della politica, perche' la politica, per usare il linguaggio di
Hannah Arendt, e' lo spazio pubblico di manifestazione delle azioni umane.
Di conseguenza, e' per astrazione che certe virtu' si possono considerare
appartenenti, come diremmo oggi, alla vita privata. Ma per un greco, a cui
quell'opera era destinata, non esisteva la separazione tra vita pubblica e
vita privata, che e' un prodotto dell'individualismo moderno. L'uomo greco,
o almeno l'uomo cui si rivolge Aristotele, e', integralmente, un cittadino.
Non esiste per lui la nostra opposizione di privato e di pubblico. Ne
abbiamo una traccia nelle virtu' stesse: parecchie virtu' sono pubbliche, e
la piu' importante e' la giustizia, di cui si parla nel quinto libro,
poiche' essa consiste nel lottare contro gli estremi del voler avere troppi
utili e minori oneri, ad esempio fiscali. Il giusto mezzo e' incarnato dalla
legge della citta', che distribuisce i profitti e gli oneri, dunque i beni
comuni.
La linea di demarcazione tra etica e politica e' estremamente flessibile.
Siamo noi moderni che abbiamo fatto della morale un affare privato e della
politica un affare pubblico, regolato da criteri diversi.
*
- Emsf: Aristotele distingue tra virtu' "etiche" e virtu' "dianoetiche".
Quale e' il senso di questa distinzione?
- Paul Ricoeur: Senza fare della filologia, bisogna tenere presente un fatto
elementare: "etica" deriva da una parola greca, ethos, che vuol dire
"costume", ma che ha un omonimo, ethos, che significa "carattere". Le virtu'
che Aristotele prende in esame nel primo libro, come la temperanza, il
coraggio, la magnanimita', la giustizia, si possono chiamare virtu' del
carattere, perche' fanno parte delle disposizioni ordinarie di un uomo
all'azione. Cio' che si giudica in etica non e' ogni azione singolarmente
presa, ma la disposizione ad agire in un certo senso. Ma Aristotele si pone
un secondo problema, chiedendosi quale sia la virtu' che si riferisce alla
deliberazione ed all'attuazione delle virtu'.
Si puo' dire che ci troviamo qui di fronte a una virtu' di secondo grado, al
problema della phronesis. E' difficile tradurre questa parola. I latini
l'hanno tradotta con prudentia, ma la parola "prudenza" ha per noi un senso
molto diverso; nel concetto di prudenza c'e' l'idea di precauzione, mentre
per Aristotele phronesis e' una parola estremamente forte: si tratta della
saggezza pratica che si attua in circostanze determinate.
Potrei spiegarmi in questi termini: Aristotele ha incontrato il problema
della deliberazione nel libro che precede l'enumerazione delle virtu', il
libro terzo, in cui si parla della praxis e della poiesis. In questo libro
Aristotele esprime un'idea assai limitata del ruolo della deliberazione e,
in un certo senso, della ragione, che consiste per lui soltanto nel
calcolare bene i mezzi, una volta posto il fine. Se un uomo fa il medico,
per essere un buon medico deve saper purgare, somministrare medicine o, al
contrario, tagliare; se fa l'architetto, deve saper costruire case.
Come dice Aristotele, non si delibera sui fini, ma sui mezzi. Nel libro
sesto invece, in cui parla della prudenza, della saggezza pratica, cio' che
viene messo in questione e' proprio il fine. In rapporto al perseguimento
della felicita', si deve fare il medico o l'architetto? Per questo affermo
che siamo di fronte a una virtu' di secondo grado, che rimette in causa i
fini, che non erano affatto in discussione quando si diceva che c'e'
deliberazione soltanto sui mezzi. Qui si delibera intorno ai fini: e' cio'
che fa un adolescente, e che anche noi facciamo in tutti i momenti
importanti della nostra vita, quando prendiamo una decisione per la nostra
carriera, quando facciamo la scelta di quello che si dice in termini moderni
un progetto di vita, un programma di vita. Si attua qui una deliberazione
che investe il rapporto tra i fini e la felicita', e non piu' soltanto
quello tra i mezzi e i fini. Alla fine del sesto libro dell'Etica nicomachea
si trova un capoverso che non finisce di stupirmi, dove si afferma, in
definitiva, che piu' importante della phronesis, della saggezza, e' il
phronimos, l'uomo saggio, perche' e' il suo gusto, il suo tatto morale, che
gli permette in una data situazione di riconoscere in che senso si puo'
agire bene o male.
Aristotele paragona la phronesis anche con la sensazione, la aisthesis, che
ci mette in contatto con le cose singole. Si puo' dire che la phronesis ci
mette in rapporto con le situazioni singole, a partire dalle grandi scelte
di vita, che sono esse stesse ordinate alla felicita'. La phronesis circola
dal basso in alto: in alto c'e' l'idea che ci facciamo della felicita', in
mezzo le diverse virtu' con cui la perseguiamo, e in basso le singole
azioni. La phronesis e' l'arte di accordare tutti i livelli, dunque un'arte
morale.
Si puo' dire che la phronesis e' la grande virtu' della vita pratica, ma
colui che pratica questa virtu' non lo sa. Colui che ne fa la teoria e' il
filosofo. E' per questo che Aristotele non conclude con la vita pratica, ma
con la vita contemplativa: solo l'uomo contemplativo e' capace di
confrontare dei generi di vita, come la vita pratica, appunto - che per lui
e' la stessa cosa che la politica - e la vita speculativa che gli e'
propria.
*
- Emsf: Un ruolo importante nell'Etica Nicomachea e' svolto dalla categoria
dell'amicizia.
- Paul Ricoeur: In primo luogo mi permetta di dire che la parola ha per noi
un senso assai piu' ristretto di quello che aveva per i Greci. Per noi
l'amicizia e' un rapporto di intimita' che ci lega a pochissime persone, a
pochi amici; Aristotele, invece, non dice che si debbano avere molti amici,
ma dice che l'opposto dell'amico e' il nemico. Quando si tiene presente
questa opposizione, si vede che si tratta di qualcosa di assai piu' largo di
un rapporto preferenziale con una cerchia di amici eletti: si tratta invece
dello stesso rapporto sociale.
E' l'amicizia, potremmo dire, che permette di vivere insieme nella citta'.
Percio' credo che non si debba opporre l'amicizia alla politica, perche' il
rapporto sociale e' una specie di estensione a tutta la citta' di quel
nucleo di amicizia che sperimentiamo effettivamente verso coloro che abbiamo
scelto come amici. E' evidente che da un lato bisogna prendere l'amicizia in
un senso piu' lato che non l'amicizia nella sua accezione moderna; ma
dall'altro, se si dice che e' lo stesso rapporto sociale, bisogna aggiungere
che questo rapporto sociale e' limitato agli eguali, e quindi esclude gli
schiavi e gli stranieri. Direi quindi che l'amicizia e' selettiva piu' dal
punto di vista politico che dal punto di vista delle scelte individuali.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 118 del primo luglio 2007

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