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Voci e volti della nonviolenza. 70
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 70
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 27 Jun 2007 10:54:19 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 70 del 27 giugno 2007, edizione straordinaria In questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: La "cultura" della violenza 2. Maria G. Di Rienzo: Lo stupro come arma di guerra 3. Maria G. Di Rienzo: Rinascere 4. Maria G. Di Rienzo: L'attivista in abito da sposa 5. Maria G. Di Rienzo: Il diritto di stare al freddo 6. Et coetera 1. MARIA G. DI RIENZO: LA "CULTURA" DELLA VIOLENZA [Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Quando la 'cultura' e la 'tradizione' giustificano la violenza sulle donne, fatta di delitti e umiliazioni"] Generalmente, siamo abituate/i a guardare alle culture come al prodotto di gruppi di persone sostanzialmente eguali che vivono in una data regione geografica. In realta' ogni gruppo contiene grandi differenze che concernono i livelli di potere, il benessere, la possibilita' di esprimere i propri bisogni e i propri interessi. Le istanze relative al potere vedono spesso le donne in una posizione ambigua o svantaggiata. Le qualita', i comportamenti e le identita' di uomini e donne sono determinati ovunque dal processo di socializzazione: poiche' i ruoli e le responsabilita' sono specificatamente culturali essi cambiano nel tempo. I ruoli di genere sono infatti influenzati da fattori storici, religiosi, economici ed etnici. Essere consapevoli della relazione di genere all'interno dei gruppi, il proprio e gli altri, mostra che le comunita' non sono un armonioso insieme di individui con interessi e priorita' comuni; le divisioni si disegnano ovunque lungo le linee dell'eta', della religione, della classe e del genere. Questi differenziali di potere ovviamente ostacolano alcune "categorie" di persone qualora esse decidano di dar voce ad opinioni che contraddicono la visione generale o la mettono in discussione, in particolar modo se si tratta di donne. Molte donne, esclusivamente perche' sono donne, soffrono nei propri paesi serie minacce o negazioni rispetto ai loro diritti fondamentali ed alla loro liberta'. Molte vivono in situazioni di poverta' e violenza estreme. Alcune vengono vendute o barattate, forzate a matrimoni indesiderati sovente in giovanissima eta', e vengono loro spesso imposte restrizioni o regole su cui hanno scarse o nulle possibilita' di contrattazione. Altre vengono punite perche' i loro mariti o congiunti sono detenuti o ricercati, e non hanno alcuna protezione per se stesse e gli eventuali figli. Delitti d'onore, lapidazioni per presunto adulterio, stupri di donne e bambine, vengono visti come "pratiche tradizionali locali". Lo scioccante e totale disprezzo per i loro diritti umani che sottende queste giustificazioni non ha base reale nel presunto consenso delle donne: ovunque vi sono resistenze, lotte, tentativi di cambiamento o negoziazione. La negazione dei diritti umani delle donne viene usualmente giustificata con la tradizione, la religione, la coesione sociale, la moralita' o complessi sistemi di valori trascendenti. Ma a questo punto e' necessario chiedersi se tutta questa "cultura" non sia che un feticcio usato per mantenere privilegi sociali ed economici, o semplicemente psicologici. Oggi nessuno che voglia impegnarsi nella costruzione di pace o nella cooperazione allo sviluppo dovrebbe riferirsi a culture e costumi sociali come ragioni per non guardare alla discriminazione delle donne; al contrario, vi e' la necessita' di ribadire che tutte le nazioni hanno il dovere di garantire diritti umani a chiunque: "Nessuno stato puo' far riferimento ai costumi nazionali per non garantire diritti umani e liberta' fondamentali a tutti gli individui" (Dichiarazione di Pechino, Quarta Conferenza Onu sulle donne, 1995). * Difendere i diritti delle donne appare particolarmente minaccioso a chiunque voglia mantenere rapporti basati sulla gerarchia e la violenza. In alcune parti del mondo le cose vanno come nell'esperienza di seguito narrata. Undici uomini dell'esercito buttarono giu' la porta della casa in cui una dozzina di attiviste per i diritti umani si erano riunite, nella provincia di Mindanao nelle Filippine. Era il marzo del 2004. Portarono via Angelina Ipong, all'epoca sessantenne, ma non si limitarono a chiuderla in una cella. Angelina e' stata torturata e si e' abusato di lei sessualmente. Siede ancora in quella prigione, in attesa di un processo che non arriva e di poter contestare le quattordici accuse mosse contro di lei dal governo, che vanno dall'omicidio alla rapina. Non l'hanno accusata del suo vero crimine: Angelina stava organizzando una delegazione che sperava di aprire negoziati di pace fra il governo filippino e gli insorgenti musulmani. L'abuso che ha subito non e' raro nel paese e forse Angelina e' persino "fortunata", giacche' il suo caso e' stato preso a cuore da Amnesty International: dal 2001, 319 attiviste/i per i diritti umani sono stati assassinati da soldati, membri delle forze dell'ordine e squadroni della morte filogovernativi; altre 185 persone sono semplicemente "scomparse". "La prima cosa che viene in mente a chi arresta o rapisce una donna e' che lei e' un oggetto sessuale. Ma dappertutto i corpi delle donne sono diventati il campo di battaglia per ottenere il controllo, l'arena piu' concreta". Non faro' il nome dell'amica che ha visto Angelina trascinata in carcere e che dice questo. E' una femminista, ed e' stata costretta a fuggire dalla provincia di Mindanao dopo essere stata accusata di far parte di due differenti gruppi armati. Passa le notti sveglia, rigirandosi nel letto: attende il colpo che sfondera' la porta. "Se questo e' il prezzo per il mio essere una difensora dei diritti umani delle donne, sono disposta a pagarlo". * Spesso le donne non sono neppure consapevoli di essere titolari di diritti umani, ma non appena lo diventano le loro vite cambiano immediatamente in meglio. Il programma di educazione ai diritti umani rivolto alle donne, gestito dal 1995 in Turchia da un gruppo di femministe turche, ha ormai raggiunto oltre 5.000 donne in 33 differenti province; i 30 centri che sono nati in tutto il paese in riferimento al programma ne hanno raggiunte altre 3.000. "Ci dedicammo a piu' di due anni di ricerche prima di implementare il programma sul campo", raccontano le organizzatrici, "Gli studi confermarono che le vite delle donne erano modellate su pratiche patriarcali e che esse ignoravano i diritti che le leggi garantiscono loro. Inoltre, le pratiche patriarcali spacciate per 'tradizioni' non tenevano in alcun conto le aspettative delle donne, ed i loro bisogni nei campi della salute riproduttiva e sessuale". La maggior parte delle partecipanti (88%) sono divenute "persone chiave" nella propria comunita' di riferimento, ovvero le persone sagge a cui ci si rivolge quando le relazioni si guastano o sorgono difficolta' in seno alle famiglie e nel vicinato, e/o hanno fondato organizzazioni e comitati di base per rispondere ai problemi piu' svariati del loro territorio (74%). Le lotte che conducono sono rigorosamente nonviolente. Un risultato cosi' importante non era scontato, ma di fatto queste donne "ignoranti" e ignorate sono state adeguatamente informate su tutto cio' che serve ad un attivista, femmina o maschio: diritti civili e costituzionali, tecniche antiviolenza, economia e legge, abilita' comunicative, eccetera. Il resto delle statistiche dice che il 63% delle partecipanti sono state in grado di annullare la violenza domestica nella propria casa e che il 22% l'ha grandemente ridotta; il 43% ha trovato lavoro fuori casa; il 54% ha ripreso a studiare in modo formale o informale... e il 72% dei mariti ha completamente cambiato atteggiamento nei loro confronti, comportandosi in modo assai piu' rispettoso e positivo. Ma al di la' dei numeri, puo' essere interessante ascoltare le voci di queste donne coraggiose. Cemile, del villaggio di Izmir, racconta di "essere cresciuta ad abusi e pestaggi. Il mio e' stato un matrimonio combinato. Per me non era semplice neppure uscire a passeggiare. La famiglia in cui entrai era molto vasta e in passato io ero l'unica a dovermi fare carico dei lavori domestici. Se facevo un errore anche piccolissimo erano guai. Un giorno ho sentito parlare di questo programma per le donne, era al Centro comunitario (una sorta di centro sociale gestito dalla municipalita' - ndr) e mi ci sono iscritta subito. Le cose che imparavo le portavo in famiglia, ne discutevo, e le mettevo in pratica. Le mie relazioni con mio marito e i suoi parenti sono enormemente cambiate. Ora i lavori di casa si dividono, e loro rispettano me e le mie idee. Ho capito che dovevo dapprima essere utile a me stessa per essere d'aiuto agli altri. Adesso sono coinvolta in un progetto che si chiama 'Colline verdi': stiamo piantando alberi sulle colline spoglie per risanare l'ambiente. Sono andata finalmente a scuola, e ho conseguito il diploma elementare in un anno. Adesso sto frequentando le medie e poi andro' alle superiori. Inoltre, sono stata eletta al Consiglio comunale di Karsikaya". Museyyer, da parte sua, ha scoperto l'esistenza del programma rivolto alle donne dopo la nascita del suo sesto bambino. Anche il suo e' stato un matrimonio imposto, e ha dovuto sposare il proprio cugino: "Parlavo dei seminari con qualunque donna venisse a contatto con me. Dopo un po' ci ho portato tutte le mie parenti di sesso femminile. Ai mariti all'inizio dicevamo che andavamo a prendere un caffe' o un te' insieme. Sapere di avere dei diritti come donna e come madre l'ho imparato grazie al programma. In famiglia ci sono otto bocche da sfamare e solo mio marito lavorava fuori casa: dopo aver partecipato agli incontri ho deciso che anch'io avrei avuto un impiego e nel corso c'erano un sacco di donne che volevano la stessa cosa. Abbiamo fondato una cooperativa, fatto ricerche di mercato e indagato le necessita' del territorio: ora produciamo candele ed abbiamo aperto un asilo infantile. La nostra cooperativa si chiama 'Fiducia'. C'e' stato un tempo in cui non avrei mai osato parlare dei miei desideri a mio marito, e in cui a stento mettevo il piede fuori di casa... oggi sto trattando con il Ministero dell'Industria e Commercio, con la Direzione degli Affari Culturali e non so dire con quante ditte private". * Le esperienze, infatti, dicono che non e' mai troppo tardi: Theresa Chilala ha 79 anni, e si sta battendo perche' nessuna vedova venga mai piu' "ereditata" dalla famiglia del marito, secondo un costume della minoranza Tonga in Zambia che si puo' tradurre come "pulizia sessuale". Il marito di Theresa e' morto nel 1990, e da lei ci si aspettava che acconsentisse ad avere rapporti sessuali con uno dei parenti maschi del defunto: in questo modo sarebbe stata "liberata dal fantasma del marito" e avrebbe potuto continuare a vivere con la famiglia di lui. Non e' solo il timore dell'aids, che in Zambia affligge il 16% delle persone fra i 15 ed i 49 anni, e neppure e' solo il fatto che la fede di Theresa e' quella cristiana: lei dice di voler difendere la sua dignita' di donna. Poiche' si e' strenuamente rifiutata, ha potuto portarsi via appena il suo gregge e ritirarsi sul proprio pezzettino di terra. Ma i parenti acquisiti hanno continuato, per rappresaglia, a bruciare cadaveri proprio su quella terra. Nel 1997 Theresa si e' rivolta all'associazione "Legge e sviluppo", un'ong locale che difende le donne dalle discriminazioni di genere. Nel febbraio 2006, dopo svariate vicende, ha vinto la causa legale contro i parenti acquisiti, e l'ha vinta grazie all'applicazione della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw, Onu, dicembre 1979) che lo Zambia ha sottoscritto nel 1985 e che e' stata ampiamente citata in tribunale. Grazie a questa sentenza, altre vedove ed orfani cacciati dalle case in cui vivevano alla morte di mariti e padri, molti ridotti a condizioni di estrema poverta', hanno cominciato a farsi sentire. Secondo Theresa le tradizioni e i costumi si trasformano come ogni altra cosa al mondo e non c'e' nulla di tragico in questo. Specialmente quando causano dolore, dice, devono proprio cambiare. Altrimenti calcificano. 2. MARIA G. DI RIENZO: LO STUPRO COME ARMA DI GUERRA [Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Lo stupro come arma di guerra contro le donne. La guerra e' un crimine. Lo stupro e' il peggior crimine dei crimini"] "Lo stupro e' il processo consapevole di intimidazione grazie al quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in stato di paura" (Susan Brownmiller). Non si tratta di un atto incontrollato. Lo stupro viene commesso dopo essere stato vagheggiato, pianificato, vagliato, preparato. E' un atto che cerca simbolicamente la morte della propria vittima, ovvero che essa desideri essere morta. Lo stupro in guerra e' anche uno strumento di esilio forzato, di distruzione di una comunita', di un gruppo o di un popolo. Lo stupro e' infine spettacolo: qualcosa che deve essere visto e sentito e raccontato agli altri. L'orrore palese del conflitto armato si somma alle violazioni conseguenti nel campo dei diritti umani; la guerra distrugge o limita severamente i diritti di base sociali, economici e politici di uomini e donne: mentre eserciti e/o milizie avanzano, le scuole chiudono, i servizi sanitari spariscono o diminuiscono, l'economia vacilla e la disoccupazione cresce. Ma la violenza sessuale, sebbene anche uomini la subiscano, non e' il primo timore che stringe il cuore di un uomo quando viene arrestato, o quando la sua porta di casa viene buttata giu' a calci alle due del mattino, o quando i soldati "nemici" entrano con i carri armati in citta'. E' il primo terrore di una donna. * Era il 1992 quando in riferimento a cio' che accadeva in Bosnia-Erzegovina si comincio' a parlare di stupro di massa come arma da guerra. Durante il conflitto armato nella ex Jugoslavia lo stupro come strumento di guerra si rivelo' persino piu' "efficace" dell'uccisione dei soldati nemici. Entrare in un piccolo paese, raggruppare le donne, violentarle di fronte a tutti era un mezzo sicuro per liberare il terreno: dopo gli stupri, la popolazione si spostava spontaneamente, fuggiva, e l'area poteva essere occupata in tutta tranquillita'. Sia i carnefici sia le vittime erano entrambi sicuri delle implicazioni culturali legate alla violenza sessuale. Le condividevano. Le donne dei Balcani spesso si sposano in eta' molto giovane, hanno bambini presto e ricevono solo un'istruzione di tipo primario. La societa' le percepisce come "inferiori" agli uomini e ci si aspetta da loro che siano umili e obbedienti, a casa e sul posto di lavoro. Questo subdolo e persistente non rispetto delle donne ha lastricato la strada che porto' agli stupri di massa. Lo scopo dei violentatori era di umiliare le donne cosi' profondamente da far divenire i ricordi legati alla loro casa una sorgente di estrema sofferenza e paura. Tali memorie, infatti, tennero le donne lontane dalle abitazioni e dai villaggi in cui erano vissute. In questo senso, si puo' parlare di "stupro etnico", poiche' finalizzato alla "pulizia etnica" di un'area. Ma le aggressioni in Bosnia presero anche un altro aspetto che definisce lo stupro etnico come assimilazione forzata ad un gruppo: lo stupro fu infatti usato per ingravidare le donne. I violentatori serbi pensavano di creare una Grande Serbia etnicamente omogenea facendo partorire bambini nati dallo stupro a donne musulmane. Nel pensiero patriarcale che fa da sostrato a questo tipo di ragionamento, e' ovvio che se il padre e' serbo, serbo sara' il figlio. Sebbene cio' sia avvenuto in un'epoca in cui non si ignora piu' il contributo genetico della madre al concepimento (e cio' e' avvenuto nella seconda meta' degli anni '50 dello scorso secolo, non prima), gli stupratori non considerarono il fatto che meta' dell'eredita' genetica del bambino sarebbe derivata dalla madre musulmana. L'anno scorso una delegazione di parlamentari europei acconsenti' ad ascoltare cinquanta sopravvissute, ma solo una riusci' effettivamente a parlare. La donna, con vistose cicatrici sulle braccia, spiego' che non era fuggita dal proprio villaggio nei pressi di Prijedor in Bosnia perche' la sua giovane nuora era in procinto di partorire e lei era rimasta ad accudirla. Assieme al figlio piu' piccolo e a costei viveva nascosta in una cantina. Un gruppo di soldati serbi scopri' il rifugio e nonostante le sue implorazioni l'intero gruppo la stupro'. Affinche' le sue urla non svegliassero il figlioletto, la donna si morse ripetutamente le braccia. La sua storia prese due ore per essere narrata, ed alla fine i volti dei parlamentari erano bianchi: una di essi dette di stomaco. Di comune accordo, la delegazione disse che non voleva ascoltare altri resoconti, uno era bastato. Si stima che circa 60.000 donne, nella ex Jugoslavia, siano incorse nella stessa esperienza della donna che sconvolse la delegazione europea: troppe non sono piu' qui per raccontarla. * La cifra, in riferimento al conflitto in Ruanda, raggiunge e forse supera il mezzo milione. La maggior parte di delle vittime di stupro ruandesi sono anche state mutilate, in relazione alle loro caratteristiche "razziali": i nasi appuntiti e le dita lunghe, che generalmente caratterizzano i corpi delle donne Tutsi, sono stati tagliati via. I seni venivano amputati come ulteriore punizione. Numerose fra loro sono quelle che, sopravvissute alla prima ondata di violenza ma scopertesi incinte dei "figli dello stupro", si sono suicidate od hanno addirittura pagato altre persone affinche' le uccidessero. Il 70% delle restanti contrasse il virus Hiv, e oggi molte sono gia' morte di Aids. * Violenza sessuale, schiavitu' sessuale e prostituzione forzata sono fattori presenti da sempre nei conflitti armati. La violenza sessuale e' una parte significativa del conflitto, un modo per terrorizzare intere comunita' ed implementare politiche di genocidio e "pulizia etnica". Oggi il diritto internazionale stabilisce che la violenza sessuale durante un conflitto e' crimine di guerra, e che l'uso dello stupro e' un crimine contro l'umanita'. Il processo di tale sviluppo legislativo parte addirittura dal XIV secolo (con gli editti di Riccardo II d'Inghilterra) e passa attraverso il Codice Leiber della guerra civile americana, per arrivare alle Convenzioni dell'Aja e di Ginevra. Quest'ultima attesta che "le donne dovranno essere protette specificatamente contro ogni attacco al loro onore, in particolare contro lo stupro, la prostituzione forzata od ogni forma di assalto indecente". Come e' facile notare, nel 1949 lo stupro viene ancora definito come lesione all'onorabilita' ed alla decenza, e non come lesione alla persona umana che lo subisce. Saranno i tribunali speciali internazionali per l'ex Jugoslavia ed il Ruanda, nella seconda meta' degli anni '90 dello scorso secolo, a stabilire una visione diversa. Nel 1998 il Tribunale internazionale per il Ruanda condannera' Akayesu, ex sindaco della citta' di Taba, per aver pianificato gli orrori degli stupri di massa nel distretto di sua competenza: il verdetto e' il primo a punire la violenza carnale come atto di genocidio, perpetrato con l'intento di distruggere un gruppo mirato. L'unica donna a sedere in quella Corte, la giudice Navi Pillay, racconta: "Le prove erano evidenti e indiscutibili, ma il nostro problema era che non esisteva una definizione comunemente accettata dello stupro rispetto al diritto internazionale. Perche' fosse accettata ne abbiamo creata una che e' 'neutra' rispetto al genere e definisce lo stupro come un'invasione fisica di natura sessuale, commessa su una persona in circostanze di coercizione". Tre anni dopo, nel febbraio 2001, sara' il Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia ad emettere una seconda sentenza storica. Zoran Vukovic, Radomir Kovac e Dragoljub Kunarac vengono riconosciuti colpevoli di numerosi stupri (alcuni commessi su bambine di dodici anni) e di aver venduto o affittato donne e ragazze a scopo di prostituzione ad altri soldati serbi. La Corte li condanna per crimini contro l'umanita', ed e' la prima volta che la schiavitu' sessuale viene definita entro tale cornice. La tortura delle donne e' una parte intrinseca della guerra, spiego' la giudice Florence Mumba leggendo la sentenza: "Cio' che l'evidenza mostra sono donne e fanciulle musulmane, madri e figlie, spogliate delle ultime vestigia della dignita' umana. Donne e ragazze trattate come beni mobili, oggetti di proprieta' ad arbitraria disposizione delle forze di occupazione serbe". Bakira Hasecic subi' questa sorte nel 1992, nella citta' bosniaca di Visegrad, tristemente famosa per l'hotel "Vilina Vlas", un campo di stupro da cui pochissime vittime sono tornate. "Mentre mi violentavano gridavano: Non metterai al mondo altri piccoli turchi, ma piccoli cetnici questa volta. Quest'odio si e' trasmesso di generazione in generazione, dal tempo delle conquiste turche. Il non essere serba era la mia colpa. Non aveva alcuna importanza come io definivo me stessa. Ero bosniaca, ed ero musulmana, ed ero una donna. Ecco i motivi di quanto e' accaduto". * E dove lo stupro non e' perseguito con nettezza neppure dalla legge ordinaria, o viene considerato una "tradizione culturale" o un'offesa minore, diventa difficile operare. Ove ad esempio si pensa che le donne non abbiano il diritto di rifiutare atti sessuali all'interno del matrimonio, i loro stupratori si considerano pienamente legittimati qualora le tengano in qualita' di "mogli". "In Sierra Leone, i perpetratori hanno una visione molto ristretta di cosa sia una violenza sessuale. Se catturano o rapiscono una donna, la costringono a stare nella loro casa e le danno del cibo, credono di avere tutto il diritto di stuprarla. Portati davanti ai tribunali negano l'addebito se viene formulato come stupro, ma quando si chiede loro se avevano 'donne a disposizione per soddisfarsi' rispondono di si'", dice Maxine Marcus, che ha partecipato come avvocata delle vittime al Tribunale speciale internazionale per la Sierra Leone, "Qui l'odio tribale non c'entra: le Forze di Difesa Civile, e cioe' le milizie pro-governative, assalivano donne del loro stesso gruppo. Le consideravano 'razioni di guerra', risorse naturali di cui disporre a piacimento. C'e' voluto molto tempo per costruire rapporti di fiducia con le testimoni sopravvissute: queste donne venivano stigmatizzate dalle loro stesse comunita', svilite e insultate da parenti e vicini di casa. Non erano in grado di cominciare a rielaborare il trauma subito, perche' il contesto attorno a loro non considerava lo stupro un'offesa alle loro persone". * Nella Repubblica Democratica del Congo, decine di migliaia di donne sono state stuprate pubblicamente dagli uomini delle varie fazioni combattenti, in quelle che Juliane Kippenberg di Human Rights Watch ha definito "cerimonie rituali di violenza", ma un numero ancora maggiore e' stato assalito in strada o nella propria stessa casa. Mentre scrivo (marzo 2007), attorno all'ospedale Panzi a Bukavu bivaccano circa 250 donne, in attesa di essere ricoverate per sottoporsi ad interventi di chirurgia: i loro genitali sono stati devastati dagli stupri di miliziani e soldati governativi. "Non abbiamo letti e spazio a sufficienza", racconta il primario, il dottor Denis Mukwege Mukengere, "Ricoveriamo in media dodici minorenni violentate al giorno. Il mese scorso circa trecento fra donne e bambine si sono sottoposte ad interventi di chirurgia riparativa. La loro eta' va dai tre anni agli ottanta. Molte sono state contagiate dall'Hiv". * Lo stupro in se' e' gia' un'orribile esperienza, ma le sopravvissute ad esso continuano a subirne gli effetti anche dopo. Spesso soffrono di gravi problemi di salute fisica e mentale. Le donne sposate che sono sopravvissute alla violenza possono essere ripudiate dai loro mariti ed in alcuni casi devono darsi alla prostituzione per poter vivere. Le sopravvissute nubili possono non riuscire piu' a sposarsi, perche' i membri delle loro comunita' le considerano "guastate". Le testimonianze rivelano che sovente le donne stuprate hanno paura di cercare rifugio nei campi profughi, perche' temono l'ostracismo dei loro stessi parenti che vi si trovano; inoltre la cronica carenza, in tali campi, di cure mediche e psicologiche tende ad aggravare la loro situazione, piuttosto che a migliorarla. Molte donne, temendo ritorsioni o a causa dei tabu' che circondano la violenza sessuale, non denunciano gli abusi subiti neppure quando questo si rende possibile. Come una donna del Darfur, in Sudan, ha detto ai ricercatori di Amnesty International nel 2004: "Nascondono questa vergogna nei loro cuori". Nella regione decine di migliaia di persone sono morte a causa del conflitto interno che in tre anni ha prodotto due milioni e mezzo di rifugiati. Il governo di Khartoum si e' rifiutato di investigare sulle accuse di crimini contro l'umanita' commessi da eserciti e milizie, cosi' questo lavoro lo sta facendo un Tribunale internazionale delle Nazioni Unite. Il principale pubblico ministero, Luis Moreno-Ocampo, inizialmente dichiaro' che le accuse di stupro non sarebbero state vagliate, ma l'evidenza delle testimonianze dirette (piu' di cento) e le migliaia di documenti raccolti lo hanno indotto a cambiare idea. Halima Bashir e' una delle sopravvissute che probabilmente il giudice ascoltera'. Nello scorso dicembre e' stata torturata e ha subito stupri di gruppo per aver denunciato un attacco congiunto delle milizie islamiste (Janjawid) e dei soldati governativi ad una scuola elementare femminile. Durante l'aggressione, finalizzata ad una violenza carnale di massa, sono state violate bambine dagli otto ai tredici anni. "Erano sotto shock", racconta Halima, "Sanguinanti, piangevano e gridavano. Era terribile. Poiche' ho detto pubblicamente quanto era accaduto, le autorita' mi hanno arrestata. Te lo facciamo vedere noi cos'e' uno stupro, mi hanno detto mentre mi picchiavano. Sono stata battuta e battuta. La notte, tre uomini mi hanno violentata. Il giorno dopo e' andata allo stesso modo, solo che gli uomini erano differenti. Tortura e stupro, ogni giorno, tortura e stupro". In Darfur, generalmente, una donna stuprata e' una donna rovinata: il biasimo dell'atto violento ricade su di lei, ed in molti casi viene espulsa dal nucleo familiare di cui ha causato la "vergogna". Molti dei bimbi nati dalle violenze carnali vengono abbandonati. Gli stupri di massa nella regione si sono rivelati il mezzo piu' efficace per terrorizzare comunita' tribali, spezzare la loro volonta' di resistenza e farne dei profughi. * La realta' e' che durante ogni guerra le donne e le ragazze divengono letteralmente i bersagli dei combattenti. Non si tratta solo di genocidio riproduttivo, di sgomberare aree e ridurre in frantumi aggregazioni umane: qualsiasi fantasia di violenza e tortura puo' essere effettivamente messa in opera. Soldati regolari ed irregolari sanno alla perfezione che, nel dopoguerra, le loro azioni saranno si' biasimate, ma all'interno di una nozione culturale largamente diffusa, ovvero che gli uomini fanno cose irrazionali durante un conflitto armato. Inoltre, potranno usare un tipo di difesa abbastanza consueta: obbedivo agli ordini. Tristemente, non e' neppure una menzogna: nei tribunali internazionali molti generali hanno attestato che cio' e' stato fatto per "alzare il morale dei nostri combattenti". Ci si puo' ovviamente chiedere quanto conti e quanto contera' in futuro l'aver definito gli stupri durante i conflitti armati come "crimini di guerra" (la guerra e' di per se' un crimine, il peggiore che l'umanita' infligge a se stessa) o che tipo di compensazione i tribunali internazionali possano fornire alle vittime. E' chiaro che le donne e le ragazze violate non dimenticheranno mai le atrocita' subite. Depressione, paura degli uomini, sfiducia e disistima sono esperienze comuni a chi sopravvive allo stupro. Per molti secoli esso e' stato definito non come un attacco violento alla donna, ma come l'ingiuria alla "proprieta'" di un altro uomo. Sino ad ora e' stata l'esperienza maschile a costruire le norme per considerare cosa sia ingiusto in tempo di guerra. Il fatto che una nuova cornice giuridica nasca dalla narrazione dell'esperienza femminile, e demistifichi l'oggettificazione delle donne, ha un valore simbolico assai profondo. Il diritto internazionale e', naturalmente, lungi dall'essere perfetto, ma le donne come Bakira Hasecic dicono che continueranno a testimoniare e a presentarsi nei tribunali affinche' chi ha loro inflitto tanto dolore venga posto di fronte alle sue responsabilita': "All'inizio ti chiedi perche' dovresti andare dai giudici a rivivere quegli orrori in pubblico, ma dopo averlo fatto ti senti meglio. Guardare in faccia il proprio violentatore e costringerlo ad affrontare la verita' e' tutta la giustizia che possiamo avere". 3. MARIA G. DI RIENZO: RINASCERE [Da "Azione nonviolenta", marzo 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Morire per i diamanti, rinascere per la pace"] Arrendersi alla rabbia e al dolore sarebbe stato facile. Hindolo Pokawa ha visto i membri della sua famiglia massacrati. Ha visto vicini di casa mutilare altri vicini. Era spaventato, minacciato, si sentiva privo di potere e fini' per fuggire dal suo paese, la Sierra Leone, nello Zimbabwe. Aveva 18 anni, ed era convinto che un giorno sarebbe tornato per vendicarsi e predicare la guerra. Invece, sta per tornare a casa con l'intento di costruire percorsi di pace. Oggi Hindolo Pokawa ha 30 anni, ed e' un membro di Nonviolent Peaceforce, il gruppo che sta lavorando da qualche anno alla costruzione di una forza di pace internazionale impegnata nell'intervento nonviolento di "terza parte". Al presente, Nonviolent Peaceforce ha gia' addestrato e formato centinaia di persone, e spera di arrivare a parecchie migliaia nel 2010: capaci di interposizione, con completo supporto logistico, costoro dovrebbero poter intervenire nei conflitti in ogni parte del mondo. In Zimbabwe, Pokawa ha studiato il ruolo dei diamanti nella guerra civile che ha devastato il suo paese per 11 anni, e grazie al padre, l'unico sopravvissuto della sua famiglia, si e' avvicinato agli insegnamenti di Gandhi e di Martin Luther King. La decisione di approfondire la conoscenza della nonviolenza lo ha portato negli Usa nel 2000, a Minneapolis, dove ha frequentato l'universita' ed ha sposato una compagna di studi proveniente dall'India. Le sue tracce rimarranno a lungo a Minneapolis, dicono i suoi compagni di Nonviolent Peaceforce. Come membro dell'organizzazione, Hindolo Pokawa ha lavorato con grande impegno nei quartieri piu' duri della citta', parlando di pace e nonviolenza a ragazzi coinvolti nelle gang e perpetratori o vittime di crimini ed atti di violenza. "Sto davanti a voi come qualcuno che abbia una pistola puntata alla testa", cosi' cominciavano spesso i suoi interventi, "Abbiamo qualcosa in comune, vedete. Dobbiamo lottare insieme, e vi dico, e lo credo con tutta l'anima, che la nonviolenza e' molto piu' potente della pistola". Lo studio e la pratica della nonviolenza, racconta Pokawa, lo hanno cambiato profondamente; tutto questo e' diventato parte integrante di lui, qualcosa che non puo' piu' essere messo a tacere o lasciato indietro: "La mia nuova vita e' come un'ombra che mi segue", scherza, "Se anche tentassi di ignorarla, non me lo permetterebbe... So che parlare e' facile. So che rispondere con la violenza sembra naturale. Immaginate di essere costretti a guardare persone che amate in balia di uomini armati, e questi uomini chiedono loro: Manica lunga o manica corta? 'Manica lunga' significa che taglieranno via una mano, 'manica corta' che amputeranno il braccio sino al gomito. Questo e' cio' che noi in Sierra Leone abbiamo vissuto". Oggi questo giovane uomo ritorna in un paese in cui esiste una fragile pace. L'industria dei diamanti proclama di essere pulita, ora, ma Pokawa sa che i minatori vivono ancora in condizioni terribili, e che ben poco della ricchezza relativa ai diamanti resta in Sierra Leone. E rivedra' i sopravvissuti come lui, quelli mutilati e feriti di cui conosce le terribili vicende. Tornera' nel Minnesota, di cui ama gli innumerevoli laghi e le persone che lo affiancano nella lotta nonviolenta, ma pare proprio che la sua casa lo stia chiamando: "Devo andare. Devo cercare di capire cos'e' cambiato e come. Ed ho bisogno di fare alle persone questa domanda: Cosa potrebbe spingerti a rovinare la vita del tuo vicino di casa, ad amputargli gli arti, ad ucciderlo? E voglio raccontare come la nonviolenza ha trasformato la mia vita, e come trasformera' le loro". 4. MARIA G. DI RIENZO: L'ATTIVISTA IN ABITO DA SPOSA [Da "Azione nonviolenta", aprile 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "L'attivista in abito da sposa per combattere la violenza domestica"] Josie Ashton, trentaquattrenne, e' convinta che la comunita' latina di New York abbia bisogno di una "sveglia" rispetto alla violenza, soprattutto alla violenza domestica. Lei e' divenuta la sfida costante alla compiacenza che circonda gli abusi tra le pareti di casa e non. L'evento che la mise per cosi' dire in moto fu un omicidio che getto' nella costernazione i dominicani residenti in citta': Gladys Ricart fu uccisa mentre si trovava nel proprio soggiorno, circondata da parenti felici, e splendente nel suo abito bianco da sposa. Il futuro marito la stava attendendo in chiesa. Il suo assassino era un facoltoso uomo d'affari con cui Gladys aveva avuto precedentemente una relazione. Il fatto ebbe ampia risonanza e Josie stessa, che all'epoca gia' lavorava come avvocata d'ufficio a Miami per le vittime di violenza domestica, ne discuteva con amici e conoscenti: fu cosi' che scopri' parecchie cose assai disturbanti, per lei. Per esempio, che parecchi biasimavano la vittima. "Dicevano che in qualche modo aveva contribuito a quanto le era accaduto. Avevano la percezione che essere uccise e' quanto inevitabilmente accade alle donne se hanno relazioni con piu' di un uomo nella loro vita. I media, come al solito, parlavano di crimine della passione e di raptus". La concezione machista che un uomo non possa risolvere conflitti se non tramite atti di violenza, e che debba essere il padrone delle donne con cui ha relazioni di parentela o affettive facevano il resto. Oltraggiata dai commenti e commossa per la sorte toccata a Gladys, Josie Ashton compi' un primo pellegrinaggio di testimonianza: affitto' un abito da sposa, e indossatolo cammino' dal New Jersey, ove l'omicidio aveva avuto luogo, alla Florida dove lei stessa vive. I suoi colleghi tentarono di dissuaderla: "Mi dissero che era un suicidio professionale", ricorda Josie, "Sei finita, mi ripetevano". Il 26 settembre 2001, al secondo anniversario della morte della ragazza dominicana, Josie Ashton si licenzio', affitto' di nuovo la veste nuziale e parti' per il suo secondo viaggio lungo 1.300 miglia. Durante il percorso ha visitato 14 rifugi antiviolenza e 22 citta'. La sua idea ha ispirato "marce di spose" a New York, in Florida, nel Wisconsin e a Washington. Molti, quando la vedono camminare abbigliata in quel modo, la fermano per offrirle sostegno ed aiuto. Josie ha guadagnato alla causa, con tale sistema, numerosi altri attivisti e attiviste. "Ho parlato con persone che soffrono a tutti i livelli per la violenza domestica, sia perche' la subiscono sia perche' ne sono testimoni. Sembrava che stessero solo aspettando di essere legittimati a discuterne, di poter maneggiare la questione". Oggi Josie ha ripreso il lavoro di avvocata per le vittime di violenza domestica a Fort Lauderdale, ma continuera' ad usare la sua idea del pellegrinaggio e spera che le "marce" si espandano: Josie crede che la strada maestra per il cambiamento sia l'abbandono di posizioni puramente difensive. L'agenda della lotta va verso la ridefinizione dei ruoli sociali di genere e lo smantellamento sistematico degli stereotipi che alimentano la violenza. Le spose non vogliono piu' temere i loro mariti o i loro ex fidanzati. "Abbiamo la necessita' di essere maggiormente pro-attive. Dobbiamo trasformare la concezione che la violenza domestica e' correlata ad una supposta 'debolezza' delle donne. La violenza per me e' una malattia, e va contrastata e curata nello stesso modo in cui ci difendiamo dalle infermita'". 5. MARIA G. DI RIENZO: IL DIRITTO DI STARE AL FREDDO [Da "Azione nonviolenta", maggio 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org), col titolo "Il diritto di stare al freddo mentre il pianeta si scalda"] Da dodici anni Sheila Watt-Cloutier fa qualcosa che suona un po' strano: come dice lei stessa, difende per il proprio popolo, gli Inuit, "il diritto di stare al freddo". Le vite degli Inuit, infatti, sono direttamente minacciate dal surriscaldamento globale. Sheila vive in una remota comunita' del circolo polare artico e quest'anno il suo nome e' fra i 181 segnalati per il premio Nobel. "E' stato un compito duro e difficile portare all'esterno il nostro messaggio. Non siamo che 155.000 e viviamo letteralmente in capo al mondo, per cui molta gente non sapeva neppure che esistiamo". Ma Sheila, una donna ordinaria e comune, senza alcun aggancio politico, ha saputo usare molto bene cio' di cui e' fornita: determinazione e forza d'animo. Ha prodotto e partecipato a documentari, ha rilasciato interviste, presentato appelli, ha narrato la storia del suo popolo davanti al governo canadese e alle Nazioni Unite. "Cos'ho fatto? In realta' tutto quel che ho fatto e' stato dare un volto umano alla devastazione provocata dal surriscaldamento del pianeta, agli effetti che essa ha sulle persone reali, sulle loro vite e sul loro ambiente". Basta ascoltarla, mentre narra di gente inghiottita dal ghiaccio che si assottiglia, del cibo che diventa sempre piu' scarso, delle strade che si sciolgono, delle case che franano; degli inquinanti che hanno intossicato persino il latte delle donne Inuit, che non possono piu' nutrire al seno i loro piccoli e della presenza di piante e animali cosi' estranei all'ambiente che la lingua Inuit non ha parole per definirli. L'organizzazione che Sheila rappresenta (Conferenza Inuit del circolo polare artico, in sigla Icc) ha commissionato studi e ne ha effettuati di propri, provando che la temperatura nell'Artico si sta alzando con velocita' doppia rispetto al resto del mondo. "Noi ne sperimentiamo gli effetti su base giornaliera. E percio' siamo i guardiani dell'ambiente, un segnale d'allarme anche per voi. A me basta mettermi alla finestra: da casa mia, a Iqaluit, io posso vedere con i miei stessi occhi la cappa polare che si scioglie, i ghiacci andare alla deriva. Non sto parlando di teorie su cio' che accadra' in futuro, sto parlando di cio' che accade oggi. E neppure e' tutto, cio' che si vede in superficie. I ghiacci si sciolgono da sotto, e quello che noi sapevamo su come maneggiarli, tutta la saggezza che trasmettevamo alle giovani generazioni non ha piu' senso. Molti dei nostri anziani sono completamente sotto shock, per questo fatto". Sheila e' nata nel 1953 nella citta' di Kuujjuaq (Quebec del nord) e per i primi dieci anni della sua vita l'unico mezzo di trasporto che ha conosciuto e' stata la slitta tirata dai cani. Sua madre era una guaritrice ed una guida spirituale molto nota, cosi' Sheila e' stata profondamente immersa sin da bambina nella cultura del suo popolo. Dopo essersi laureata all'Universita' di Montreal ha sempre lavorato nella sanita' pubblica, offrendosi come "ponte" grazie alla sua ottima conoscenza di inglese e francese oltre che dell'inuktitut, la sua lingua madre. Sua figlia e' rinomata nelle arti Inuit, fra cui il "canto di gola" e la danza al suono del tamburo. Nel 1995, quando fu eletta presidente dell'Icc, Sheila si getto' a capofitto nella lotta contro il surriscaldamento globale e contribui' alla stesura della Convenzione di Stoccolma, in cui furono messi al bando la produzione e il commercio di un gruppo di sostanze chimiche accertate come inquinanti permanenti, il cui uso agricolo ed industriale aveva causato intossicazioni agli Inuit. "Si', anche noi abbiamo linee aree e camion, ma la verita' e' che il nostro contributo al problema e' piccolissimo e che ne siamo sempre piu' consci. L'inquinamento ci viene da fuori. Il 26% dei gas che contribuiscono al surriscaldamento li producono gli Usa". Forse, nel prossimo ottobre, il premio Nobel andra' a qualcun altro, ma la "nomination" di Sheila Watt-Cloutier concentra un po' d'attenzione sul problema di cui lei e la sua gente si stanno occupando. Un'attenzione che dovrebbe essere molto maggiore, se vogliamo che gli Inuit, noi stessi e l'intero pianeta sopravviviamo alla sconsiderata avidita' delle azioni umane. 6. ET COETERA Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Un piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e' in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 70 del 27 giugno 2007, edizione straordinaria Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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