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La domenica della nonviolenza. 116
- Subject: La domenica della nonviolenza. 116
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 17 Jun 2007 12:07:44 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 116 del 17 giugno 2007 In questo numero: 1. Serge Latouche: Cos'e' la decrescita? Un'introduzione 2. Serge Latouche: Decolonizzare l'immaginario 3. Vincenzo R. Spagnolo intervista Serge Latouche (2000) 1. RIFLESSIONE. SERGE LATOUCHE: COS'E' LA DECRESCITA? UN'INTRODUZIONE [Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo il seguente estratto dall'introduzione del recente libro di Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007. Serge Latouche, docente universitario a Parigi, sociologo dell'economia ed epistemologo delle scienze umane, antropologo, esperto di rapporti economici e culturali Nord/Sud, promotre del Mauss (Movimento antiutilitarista nelle scienze sociali), propotore della rpoposta della decrescita, e' una delle figure piu' significative dell'odierno impegno per i diritti dell'umanita' e la difesa della biosfera. Opere di Serge Latouche: L'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993; I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione, La Meridiana, Molfetta (Bari) 1995; La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Il pianeta uniforme. Significato, portata e limiti dell'occidentalizzazione del mondo, Paravia, Torino 1997; L'altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino 1997, 2000; Il mondo ridotto a mercato, Edizioni Lavoro, Roma 2000; La sfida di Minerva. Razionalita' occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000; L'invenzione dell'economia. L'artificio culturale della naturalita' del mercato, Arianna Editrice, 2001; La fine del sogno occidentale. Saggio sull'americanizzazione del mondo, Eleuthera, Milano 2002; Giustizia senza limiti. La sfida dell'etica in una economia globalizzata, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Il ritorno dell'etnocentrismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e societa' conviviale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; Decolonizzare l'immaginario. Il pensiero creativo contro l'economia dell'assurdo, Emi, Bologna 2004; Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione di una societa' alternativa, Bollati Boringhieri, Torino 2005; La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. anche il libro-intervista curato da Antonio Torrenzano, Immaginare il nuovo. Mutamenti sociali, globalizzazione, interdipendenza Nord-Sud, L'Harmattan Italia, Torino 2000] "L'ecologia e' sovversiva poiche' mette in discussione l'immaginario capitalista dominante. Ne contesta l'assunto fondamentale secondo cui il nostro orizzonte e' il continuo aumento della produzione e dei consumi. L'ecologia mette in luce l'impatto catastrofico della logica capitalistica sull'ambiente naturale e sulla vita degli esseri umani" (Cornelius Castoriadis) Sembra ormai chiaro che oggi viviamo nell'epoca della sesta estinzione delle specie. Quotidianamente, infatti, si registra la scomparsa di un numero di specie (tra vegetali e animali) che va da cinquanta a duecento, un dato drammatico superiore da mille a trentamila volte quello dell'ecatombe delle ere geologiche passate. Come scrive Jean-Paul Besset: "Dopo l'era dei ghiacci polari, non c'e' mai stato un ritmo di estinzione paragonabile a quello attuale". Durante la quinta estinzione, avvenuta nell'era del Cretaceo 65 milioni di anni fa, si e' prodotta la fine dei dinosauri e di altri animali di grosse dimensioni, probabilmente a causa dell'impatto della Terra con un asteroide, ma questi mutamenti sono avvenuti in un arco di tempo ben piu' lungo rispetto a quello delle catastrofi attuali. Oggi, inoltre, a differenza delle epoche precedenti, l'uomo e' direttamente responsabile della "deplezione" in corso della materia vivente e potrebbe addirittura esserne vittima. Secondo il rapporto di Belpomme sui tumori e le analisi del rinomato tossicologo Narbonne, la fine dell'umanita' dovrebbe avvenire ancor prima del previsto, ovvero verso il 2060, a causa della sterilita' diffusa dello sperma maschile prodotta dall'effetto di pesticidi e altri Pop o Cmr (i tossicologi definiscono Pop gli inquinanti organici persistenti di cui i Cmr - cancerogeni, mutageni, reprotossici - rappresentano la specie piu' "innocua"). Dopo decenni di frenetico spreco, siamo entrati in una zona di turbolenza, in senso proprio e figurato. L'accelerazione delle catastrofi naturali - siccita', inondazioni, cicloni - e' gia' in atto. Ai cambiamenti climatici si aggiungono le guerre del petrolio (alle quali seguiranno quelle dell'acqua) e probabili pandemie, e si prevedono addirittura catastrofi di tipo biogenetico. Ormai e' noto a tutti che stiamo andando verso il collasso definitivo. Restano da calcolare solo la velocita' con cui stiamo precipitando nel baratro e il momento dello schianto. Secondo Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca sull'Antartico all'universita' neozelandese di Victoria, "proseguire con questa dinamica di crescita ci mettera' di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civilta' cosi' come la conosciamo, non fra milioni di anni o qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo". Quando i nostri figli avranno sessant'anni, se il mondo esistera' ancora, sara' molto diverso. E' noto inoltre che la causa di tutto cio' sono i nostri stili di vita fondati su una crescita economica illimitata. Parlare di "decrescita" significa dunque lanciare una sfida, azzardare una provocazione: all'interno del nostro immaginario dominato dalla religione della crescita e dell'economia, asserire la necessita' della decrescita risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni e' quantomeno considerato iconoclasta, ma la realta' e' che viviamo semplicemente in una condizione del tutto schizofrenica. Il presidente francese Chirac, per esempio, ha dichiarato alla Conferenza dell'Onu sull'ambiente di Johannesburg (2002): "La casa brucia e noi intanto guardiamo da un'altra parte". Inoltre, ha affermato che i nostri stili di vita sono insostenibili, dal momento che gli europei consumano l'equivalente di tre pianeti. Parole sante. Purtroppo, mentre pronunciava questi discorsi, i suoi uomini, dietro suo mandato, lavoravano all'Unione europea affinche' il Gaucho e il Paraquat, terribili pesticidi che uccidono le api, provocano il cancro negli uomini e li rendono sterili, non fossero iscritti nell'elenco dei prodotti proibiti. Inoltre, Chirac, Blair e Schroeder si sono adoperati per ridurre drasticamente l'impatto della direttiva Reach (Registration Evalutation and Authorisation of Chemicals). E' inutile stilare la lista delle catastrofi ecologiche gia' in atto o preannunciate, lo scenario e' fin troppo noto, il problema e' che non riusciamo ad afferrarne la portata: la catastrofe e' inimmaginabile fino a quando non si e' realmente prodotta. Siamo anche perfettamente consapevoli di cio' che sarebbe necessario fare, ovvero cambiare orientamento, ma in pratica non facciamo nulla. "Guardiamo altrove", e intanto la casa continua a bruciare. A nostra discolpa e' possibile affermare che i grandi uomini della politica e dell'economia lavorano per lasciarci in questo immobilismo - per esempio il World Business Council for Sustainable Development (Wbcsd), il gruppo di industriali desiderosi di preservare i loro profitti e il pianeta, ha al proprio interno i principali inquinatori del pianeta ed e' stato definito da un ex ministro francese dell'Ambiente "un club di criminali in giacca e cravatta". Sono proprio loro a continuare a gettare benzina (proveniente dagli ultimi barili di petrolio) sul fuoco e intanto continuano a dire a gran voce che questo e' l'unico modo per spegnerlo. Si continua a mantenere i medesimi orientamenti, addirittura perseguendoli con maggior forza, al punto che e' lecito riformulare la domanda posta gia' nel 1987 dal sociologo Jacques Godbout all'interno di un libro premonitore e poco noto: "La crescita e' davvero l'unica via d'uscita alla crisi della crescita?". Secondo l'amministratore delegato del nostro villaggio globale, George W. Bush, la risposta e' ovviamente affermativa. Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring, davanti all'Amministrazione americana della meteorologia, ha infatti dichiarato che "la crescita e' la chiave del progresso dell'ambiente, poiche' fornisce le risorse che permettono di investire nelle tecnologie pulite; rappresenta dunque la soluzione e non il problema". Non e' da meno Chirac quando, in occasione del discorso di auguri alla nazione per il 2006, ha scandito in modo quasi incantatorio: "Crescita! Crescita! Crescita!". Simili orientamenti si conformano alla piu' stretta ortodossia economica. Secondo l'economista Wilfred Beckerman, "e' evidente che, per quanto la crescita economica sia, abitualmente e in un primo tempo, causa di degrado ambientale, in fin dei conti, per la maggior parte dei paesi, il modo migliore - e probabilmente l'unico - per avere condizioni ambientali decenti e' arricchirsi". Questa posizione "filocrescita" e' ampiamente condivisa. Sulla stampa, l'annuncio della ripresa americana o cinese e' sempre dato con toni trionfalistici. I piani di rilancio (franco-tedeschi, italiani o europei) si fondano sempre tutti su grandi opere (infrastrutture e trasporti), che non possono che deteriorare ulteriormente le condizioni, in particolare quelle climatiche. A fronte di questa situazione, il silenzio della sinistra, di socialisti, comunisti, verdi, dell'estrema sinistra e addirittura dei movimenti "altermondialisti", lascia interdetti. A sinistra la crescita e', infatti, considerata come fonte di soluzione della questione sociale, poiche' crea posti di lavoro e ne favorirebbe una ripartizione piu' equa. Jean Gadrey sintetizza bene questa posizione: "Se e' vero che la crescita non puo' risolvere tutti i problemi, e' giustamente considerata da molti come chiave in grado di creare margini di manovra e di migliorare alcune dimensioni della vita quotidiana, dell'impiego ecc... Tuttavia, cosi' facendo, si elude la questione del suo contenuto qualitativo (chi si e' migliorato?), o della sua ripartizione (la 'condivisione del valore aggiunto'), e soprattutto si eludono alcune questioni relative alla sua reale entita' che, se dovessero essere rese note, rischierebbero di indebolire la 'religione' dei tassi di crescita". Solo qualche rara voce (Jean-Marie Haribey, Alain Lipietz e i responsabili di Attac) esce dal coro e sostiene una "decelerazione della crescita". Anche se si tratta di una posizione che, pur partendo da buone intenzioni, si rivela in fin dei conti inefficace, poiche' ci priva nel contempo dei benefici della crescita e dei vantaggi della decrescita. Michel Serres paragona l'ecologia riformista "a una nave che si dirige alla velocita' di 25 nodi verso una parete rocciosa e sulla quale si scagliera' inevitabilmente, mentre sul ponte di comando il capitano ordina di diminuire la velocita' di un decimo, ma non di invertire la rotta". Decelerare significa esattamente questo. Nel 2004, il giornalista del settimanale francese "Politis" specializzato nelle questioni riguardanti l'ecologia e' stato costretto alle dimissioni dopo aver messo in luce in un suo articolo la debolezza dell'opposizione su questi temi. Il dibattito che ne e' scaturito ha rivelato tutto il disagio della sinistra. Il nodo della questione, scrive un lettore della rivista, sta certamente "nella capacita' di sfidare una sorta di pensiero unico, condiviso da quasi tutta la classe politica francese, secondo cui la nostra felicita' deve passare per un aumento della crescita, della produttivita', del potere d'acquisto e dunque per un aumento dei consumi". Come ha osservato Herve' Kempf a proposito di questo caso: "La sinistra e' davvero disposta a proclamare la necessita' di ridurre il consumo materiale, cardine dell'ecologismo?". A rigor del vero e' necessario ammettere che, da non molto, in Francia, il tema della decrescita e' oggetto di dibattito all'interno dei verdi, della Confe'deration paysanne, del movimento altermondialista, ma anche in alcuni settori dell'opinione pubblica, soprattutto grazie al giornale "La Decroissance" promosso dall'associazione Casseurs de pub. Tuttavia, molti hanno preso posizioni aprioristicamente a favore o contro, senza preoccuparsi di informarsi ulteriormente e deformando, se necessario, le rare analisi proposte. Poiche' sono stato spesso chiamato in causa come "teorico della decrescita" (anche da "Le Monde diplomatique"), mi pare opportuno dissipare alcuni malintesi e chiarire in modo preciso i termini della questione. La mia posizione e' esattamente questa: dal momento che un cambiamento radicale e' una necessita' assoluta, la scelta di una societa' della decrescita rappresenta una sfida che vale la pena di cogliere per evitare una brutale e drammatica catastrofe. Questo e' il tema del libro. * Il termine "decrescita" in realta' e' stato introdotto solo di recente all'interno del dibattito economico, politico e sociale, nonostante le idee sulle quali si fonda abbiano una storia molto lunga. Senza dover risalire alle utopie del primo socialismo, ne' alla tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo, il progetto di una societa' paragonabile a quella che intendo per societa' della decrescita era gia' stato formulato alla fine degli anni Sessanta da teorici come Ivan Illich, Andre' Gorz, Francois Partant e Cornelius Castoriadis. Il fallimento dello sviluppo nel Sud del pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord hanno portato molti analisti a mettere in discussione la societa' dei consumi, il sistema di rappresentazione che la sottende, il progresso, la scienza, la tecnica. A questo si e' aggiunta la presa di coscienza della crisi dell'ambiente. L'idea di decrescita nasce dunque sia dalla consapevolezza della crisi ecologica sia dalla critica della tecnica e dello sviluppo. Fino a qualche anno fa, tuttavia, il termine "decrescita" non figurava in alcun dizionario che trattasse di economia e societa', mentre si potevano trovare alcuni concetti simili, come "crescita zero", "sviluppo sostenibile" e naturalmente "stato stazionario". Nondimeno, l'espressione "decrescita" ha gia' una storia relativamente complessa ed e' ricca di significati sul piano politico ed economico. E' tuttavia necessario chiarirne il significato. Alcuni analisti malevoli sostengono che si tratta di un concetto vecchio per poter cosi' liquidare piu' facilmente le proposte sovversive avanzate dagli attuali "obiettori della crescita". Francois Vatin, per esempio, sostiene che gia' Adam Smith aveva proposto una teoria della decrescita nei capitoli 7 e 9 de La ricchezza della nazioni in cui evoca un ciclo di vita delle societa' "che le fa passare dalla crescita accelerata (il caso delle colonie dell'America del Nord) alla decrescita (il caso del Bengala) attraverso uno stato stazionario (il caso della Cina)". In realta', Vatin confonde il concetto di regressione con quello di decrescita. Nella mia accezione, decrescita non identifica ne' lo stato stazionario dei classici dell'economia, ne' una forma di regressione, di recessione o di "crescita negativa", e neppure la crescita zero - benche' alcuni aspetti della decrescita si ritrovino in quest'ultimo concetto. In linea con i pubblicitari, i media chiamano ormai "concept" qualsiasi progetto alla base del lancio di un nuovo prodotto, anche di tipo culturale, e non stupisce dunque il fatto che mi sia stato chiesto quali siano i contenuti del "nuovo concept" decrescita. A costo di far dispiacere qualcuno, dichiaro subito che decrescita non e' un concetto, almeno non nel senso tradizionale del termine, e' improprio parlare di "teoria della decrescita", come gli economisti hanno fatto per le teorie della crescita, e soprattutto che decrescita non identifica un modello pronto per l'uso. Decrescita non e' il termine simmetrico di crescita, ma e' uno slogan politico con implicazioni teoriche, e' un "termine esplosivo", dice Paul Aries, che cerca di interrompere la cantilena dei drogati del produttivismo. Decrescita e' una parola d'ordine che significa abbandonare radicalmente l'obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non e' altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente. A rigor del vero, piu' che di "de-crescita", bisognerebbe parlare di "a-crescita", utilizzando la stessa radice di "a-teismo", poiche' si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo. Decrescita e' semplicemente uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati a individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del doposviluppo. Decrescita e' dunque una proposta per restituire spazio alla creativita' e alla fecondita' di un sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo dell'economicismo, dello sviluppo e del progresso. I limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantita' disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocita' di rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili. Storicamente, nella maggior parte delle societa', queste risorse erano considerate essenzialmente beni comuni (commons) che, nella maggioranza dei casi, non appartenevano a nessun singolo individuo. Ciascuno poteva goderne nei limiti delle regole d'uso della comunita'. La stessa cosa avveniva per le risorse rinnovabili: l'aria, l'acqua, la fauna e la flora selvatiche, i pesci degli oceani e dei fiumi, e, con alcune restrizioni, i pascoli, gli alberi secchi o il legno marcio e i pezzi di legna. L'uso delle risorse non rinnovabili, i minerali del sottosuolo (tra cui l'olio di terra, il petrolio), era governato da regimi di regolamentazione posti sotto il controllo del principe o dello stato affinche' vi si attingesse con criteri consoni alla loro esauribilita'. Piu' generalmente, l'assenza di sistematica mercificazione dei beni naturali e la consuetudine limitavano l'uso di queste risorse a livelli accettabili. La rapacita' dell'economia moderna e la scomparsa dei vincoli comunitari, quelli che Orwell chiama "decenza comune", hanno trasformato l'uso di queste risorse in saccheggio sistematico. Da questo punto di vista, il caso delle balene rivela chiaramente la difficolta' rappresentata dalla protezione dell'ambiente. L'invenzione di Steven Foyn nel 1870 del cannone-arpione esplosivo ha favorito l'industrializzazione della caccia alla balena. Negli anni Venti e' schizzato in alto il numero di baleniere e nel 1938 e' stata raggiunta la cifra record di 54.835 balene catturate. Lo "stock" di balene, come e' noto a tutti, e' ormai in via di esaurimento. L'industria della pesca si e' dunque spostata su nuove specie di dimensioni piu' piccole - la balena blu, la balenottera, il capodoglio. L'introduzione di nuove materie grasse e' avvenuta tuttavia troppo tardi e, secondo la Commissione baleniera internazionale, nell'Antartico, prima dei recenti provvedimenti di divieto della pesca, restavano meno di 1000 balene blu, 2000 balenottere e 3000 capodogli. Diverse specie di balene sono totalmente scomparse, mentre all'inizio del XX secolo esistevano centinaia di migliaia di rappresentanti per ciascuna razza. In definitiva, si prescinde dall'ambiente, lo si pone al di fuori della sfera degli scambi mercantili e nessun dispositivo si oppone alla sua distruzione. Ma in realta', la concorrenza e il mercato, che ci forniscono il cibo alle migliori condizioni, hanno effetti disastrosi sulla biosfera. Nulla interviene a limitare il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuita' permette di abbassare i costi. L'ordine naturale non e', infatti, in grado di opporsi a queste dinamiche, per esempio non e' riuscito a salvare le Isole Mauritius o le balene blu della Terra del Fuoco e solo l'incredibile fecondita' naturale dei merluzzi potra' forse risparmiare loro la sorte a cui vanno incontro le balene. Anche se non possiamo esserne certi, poiche' l'inquinamento degli oceani rappresenta un grave pericolo per questa leggendaria fecondita'. Il saccheggio dei fondali marini e delle risorse alieutiche sembra irreversibile. La dilapidazione di minerali prosegue in modo irresponsabile. I cercatori d'oro individuali, come i garimpeiros d'Amazzonia, o le grandi societa' australiane in Nuova Guinea non arretrano di fronte a nulla per procurarsi l'oggetto della loro cupidigia. Peraltro, nel nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo oeconomicus, e' una sorta di cercatore d'oro. Gli indiani della British Columbia, costa occidentale del Canada (i kwakiutl, haida, tsimshian, tlingt ecc.), hanno invece dato un buon esempio di rapporti armoniosi tra uomo e biosfera. Secondo una leggenda, i salmoni erano esseri umani come loro che vivevano in tribu' in fondo al mare, dove avevano le tende, e d'inverno decidevano di sacrificarsi per i loro fratelli che abitavano sulla terraferma, allora diventavano salmoni e si dirigevano verso le foci dei fiumi. Nella stagione in cui risalivano il fiume, gli indiani accoglievano il primo salmone come un ospite importante e lo mangiavano durante una cerimonia. Il suo sacrificio era tuttavia considerato un prestito provvisorio e ne riportavano in mare lo scheletro e i resti permettendo cosi' la rinascita dell'ospite precedentemente mangiato. In questo modo si perpetuava l'armoniosa convivenza tra salmoni e uomini. Con l'arrivo dell'uomo bianco e l'insediamento a ogni estuario di industrie conserviere si e' realizzata una corsa al profitto che ha portato una drastica diminuzione di salmoni. Secondo gli indiani, i salmoni sono scomparsi perche' i bianchi non hanno rispettato il rituale... E non si puo' dare loro torto. La relazione di queste tribu' con la natura, come quella della maggior parte delle societa' tradizionali, si fonda sull'armonioso inserimento dell'uomo nel cosmo. In Siberia, si muore nella foresta per restituire agli animali cio' che si e' preso da loro. Queste concezioni implicano rapporti di reciprocita' tra gli uomini e il resto dell'universo: gli uomini sono pronti a darsi a Gaia (personificazione mitologica della Terra), come Gaia si e' data a loro. Eliminando la capacita' di rigenerazione della natura, riducendo le risorse naturali a una materia prima da sfruttare invece di attingerne, la modernita' ha eliminato questo rapporto di reciprocita'. La condizione della nostra sopravvivenza sta certamente nella ricostruzione di un rapporto armonioso con la natura, sulle orme di una concezione prearistotelica della relazione uomo-natura. MacMillan, economista americano del XXI secolo impegnato nella salvaguardia dei condor, sosteneva: "Dobbiamo salvare i condor, non tanto perche' abbiamo bisogno dei condor, ma soprattutto perche', per poterli salvare dobbiamo sviluppare quelle qualita' umane di cui avremo bisogno per salvare noi stessi". All'interno della protezione dell'ambiente, Jean-Marie Pelt introduce i concetti di gratuita' e di bellezza. Il problema reale e' che si continua a parlare di ecologia, sono state adottate importanti misure di protezione, ma continuiamo a non invertire radicalmente la rotta. Nonostante l'ottimismo del filosofo francese Michel Serres, gli alberi dotati della capacita' di giudizio non devono nascondere la foresta minacciata. La giurisprudenza americana piu' recente va nel senso di un rafforzamento dell'appropriazione giuridica dei processi naturali da parte dell'uomo sempre piu' spinta. A questo si aggiunge che, per abitudine o incoscienza, le istituzioni tendono a incoraggiare ogni forma di inquinamento (pesticidi, concimi chimici) con esenzioni fiscali e continuano a finanziare progetti che distruggono la biosfera dei paesi del Sud con il pretesto della lotta contro la poverta'. Si e' addirittura arrivati a pensare che l'unico rimedio alla tragedia della scomparsa di numerosi beni comuni fosse la loro completa eliminazione. Secondo i convinti sostenitori della deregulation, solo l'interesse privato e la rapacita' degli individui potrebbero limitare la sua dismisura! Bisognerebbe privatizzare l'acqua e l'aria (ma anche i pesci degli oceani e i batteri delle foreste tropicali) per salvarle dai predatori. » quanto fanno le societa' transnazionali, con il sostegno degli stati nazionali e delle istituzioni internazionali, contro le quali le popolazioni insorgono in tutto il pianeta. La gestione dei limiti della crescita e' diventata una questione intellettuale e politica. La ricerca teorica sulla decrescita si colloca all'interno di un movimento piu' ampio di riflessione sulla bioeconomia, sul doposviluppo e sull'a-crescita... 2. RIFLESSIONE. SERGE LATOUCHE: DECOLONIZZARE L'IMMAGINARIO [Dal sito www.socialpress.it riprendiamo il seguente brano estratto da Serge Latouche, Decoloniser l'imaginaire, Parangon, Paris 2003 (trad. it. Decolonizzare l'immaginario, Emi, Bologna 2004 - ma la traduzione qui presentata e' un'altra), li' apparso col titolo "Decolonizzare l'immaginario... ovvero, farsi uscire il primato economico dalla testa"] "L'intelligenza, la bellezza, l'amore, la poesia sono i valori da opporre alle bassezze del mondo, sono le armi che abbiamo a disposizione" (Salman Rushdie) "Chi e' cittadino? Colui che e' capace di governare ed essere governato e' cittadino." (Aristotele) Cosa fare di fronte alla globalizzazione, alla mercificazione totale del mondo e al trionfo planetario del mercato? Lo iato tra le dimensioni del problema da risolvere e la modestia delle soluzioni immaginabili a breve termine e' dovuto soprattutto alla persistenza delle credenze che permettono al sistema di "tenere" sulle sue basi di immaginario. Perche' le cose possano cambiare, per poter concepire soluzioni realmente originali e innovative, e' necessario cominciare a vederle in modo diverso. In altri termini, per poter cambiare davvero il mondo, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore. "Cio' che ci e' richiesto", nota Castoriadis, "e' una nuova creazione di immaginario, di una importanza senza paragoni nel passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati diversi dall'espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi, che possano essere riconosciuti dagli esseri umani come validi... e' questa l'immensa difficolta' che ci troviamo di fronte. Noi dobbiamo cercare di immaginare una societa' in cui i valori economici cessino di essere centrali (o unici), in cui l'economia sia ricondotta al suo ruolo di semplice strumento della vita umana e non venga piu' vista come fine ultimo: una societa' in cui si rinunci a questa corsa folle verso un continuo aumento dei consumi. Questo non e' necessario solo per evitare la distruzione definitiva dell'ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per emergere dalla condizione di miseria psichica e morale degli uomini conteporanei" (1). * Un vecchio proverbio dice che quando si ha in testa un martello, tutti i problemi hanno forma di chiodo. Gli uomini moderni si sono messi un martello economico in testa. Tutte le nostre preoccupazioni, tutte le nostre attivita', tutti gli avvenimenti vengono visti attraverso il prisma dell'economia. Come dice l'antropologo svizzero Gerald Berthoud: "L'economia e' una categoria alla base della nostra intellegibilita' del mondo, ma anche della della nostra incomprensione degli altri e, in definitiva, di noi stessi" (2). Per dirla con le parole di Polanyi, viviamo in "una societa' totalmente incastrata nella sua economia - una societa' di mercato" (3). Non era cosi' nel Medio Evo, in cui, invece, tutto aveva una impronta religiosa, ne', a maggior ragione, presso i Greci, che tendevano a ricondurre tutto alla sfera politico-filosofica, e neppure presso le popolazioni "primitive", per le quali la ritualita' e la struttura parentale sono i valori fondamentali. Finche' il martello economico resta nelle nostre teste, tutti i tentativi di riforma sono piccoli sommovimenti vani, sterili e spesso pericolosi. Dobbiamo espellere il martello economico dalle nostre teste, decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. Dobbiamo fare in modo che svanisca la nostra idea di onnipotenza dell'assolutismo della razionalita'. Bisogna costruire una postmodernita' attraverso una aufhebung, un superamento/abolizione della modernita', il che significa attraverso un superamento che non neghi il passato modernista e razionalista. Questa postmodernita' non puo' mirare che alla reintegrazione, alla ricollocazione della tecnica e dell'economia nel sociale. Non si tratta di abolire i mercati o di ecludersene, ma di delimitare l'impero del Mercato lottando contro la sua eccessiva influenza. Deve emergere una nuova cultura, che contempli la rinascita del politico, un nuovo rapporto con l'ambiente, una nuova etica. Sara' il risultato di un lavoro storico, non il frutto di un volontarismo tecnocratico, che sia populista, nazionalista, teocratico o che si definisca - o autodefinisca - di destra o di sinistra, reazionario o rivoluzionario. * Come e' possibile decolonizzare il nostro immaginario? E' una questione molto difficile perche' non si puo' decidere di modificare il proprio immaginario. Non e' qualcosa che puo' avvenire con una presa di decisione del genere "Oggi pensiamo cosi', domani penseremo in un altro modo". Tutti i tentativi di modificare radicalmente l'immaginario, di cambiarlo forzatamente, hanno avuto risultati terrificanti, come ha dimostrato l'esperienza degli Khmer Rossi in Cambogia. Nello stesso tempo, il nemico non e' rappresentato solamente dagli "altri". Il nemico siamo anche noi, e' nelle nostre teste. Il nostro immaginario e' colonizzato. Abbiamo bisogno di una catarsi. Ma il lavoro della storia si puo' fare solo a poco a poco, non attraverso soluzioni radicali, dall'oggi al domani. Tutto cio' che serve a fare questo lavoro c'e' gia', ma non lo vediamo. Ad esempio, il dono crea e rinforza i legami sociali mentre lo scambio mercantile li rende sterili e impersonali. Le piccole comunita' e i progetti di economia alternativa, plurale e solidale possono acquisire senso e non essere piu' solamente un alibi, una utopia o, alla fin fine, un gadget per ingenui. Per queste realta', il territorio, il locale saranno fondamentali. Se la razionalita' e' legata alla terna ingegnere-industriale-imprenditore, la ragionevolezza e' legato alla terna ingegnoso-industrioso-intraprendente. Questa terna e' caratteristica delle piccole comunita' e deve trovare le sue radici nel territorio - se non nella terra - da ricostruire... Il problema e' che la maggior parte delle soluzioni concepibili avrebbero una chance di riuscita se si fosse gia' realizzata la diseconomizzazione degli spiriti che dovrebbe esserne il risultato. Risolvere questa quadratura del cerchio costituisce certamente la piu' grande sfida con cui deve confrontarsi il pensiero critico comtemporaneo. * Note 1. Cornelius Castoriadis, La Montee de l'insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe, IV, Seuil, Paris, 1996 2. Gerald Berthoud, in Un antieconomiste nomme' Polanyi, "Bulletin du Mauss", n. 18, 1986 3. Karl Polanyi, La fallace de l'economique, citato da Berthoud in Un antieconomiste nomme' Polanyi, cit. 3. RIFLESSIONE. VINCENZO R. SPAGNOLO INTERVISTA SERGE LATOUCHE (2000) [Dal quotidiano "Avvenire" del 12 febbraio 2000 riprendiamo la seguente intervista li' apparsa con il titolo "Sviluppo sostenibile? Un inganno" e il sommario "Parla l'economista Serge Latouche, secondo cui il mito del progresso ci portera' al collasso ambientale. 'Il concetto stesso di sopportabilita' e' una pura mistificazione, visto che questo sistema di mercato ha sempre imposto di sfruttare le risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto: neanche la morale e la cultura servono da freno'. 'Il boicottaggio ha prospettive limitate: bisogna progettare un modello alternativo. Prendiamo esempio dall'Africa, che non e' sinonimo del nulla'". Vincenzo R. Spagnolo e' giornalista del quotidiano "Avvenire"] "Lo sviluppo sostenibile? Una chimera. Siamo tutti a bordo di quella che lo studioso Bernard Hours ha chiamato 'un'ambulanza mondiale', con le Ong e i vari movimenti umanitari in veste di soccorritori al capezzale dei Paesi poveri. E tutti insieme, infermieri e pazienti, corriamo dritti verso il precipizio, ossia la totale consumazione delle risorse naturali. Ci salveremo solo se sapremo scendere in tempo, abbandonando per sempre la macchina dello sviluppo". L'economista Serge Latouche e' sempre stato considerato un intellettuale scomodo, fuori dai ranghi, e anche in questo inizio di secolo non rinuncia a fare da lucida Cassandra dei mali del pianeta. Docente di storia del pensiero economico all'universita' di Paris XI, con una serie di pamphlet documentati con severo rigore scientifico (dal saggio del 1986 Faut-il refuser le developpement?, tradotto in Italia col titolo I profeti sconfessati, a L'occidentalizzazione del mondo e La megamacchina e Il pianeta dei naufraghi) ha denunciato per anni i gravi squilibri del modello di sviluppo occidentale, divenendo suo malgrado una specie di guru dell'economia alternativa. Oggi lo studioso francese non si ferma all'analisi degli errori del progresso ma indica nuove strade per una radicale inversione di rotta del rapporto dell'uomo con l'economia e l'ambiente. * - Vincenzo R. Spagnolo: Dunque, professor Latouche, lei sostiene che persino l'idea stessa di sviluppo e' in crisi. - Serge Latouche: Senza dubbio. La crisi della teoria economica dello sviluppo, iniziata negli anni Ottanta, si e' ormai aggravata. Con la caduta del muro di Berlino aziende e mercati avevano annunciato ufficialmente che il pianeta si era unificato. Poi l'avvento della globalizzazione ha mandato in frantumi il quadro statale delle regolamentazioni, permettendo alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti e segnando la comparsa del cosiddetto "trickle down effect", ossia la distribuzione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al Sud. Dal 1950 la ricchezza del pianeta e' aumentata sei volte, eppure il reddito medio degli abitanti di oltre cento Paesi del mondo e' in piena regressione e cosi' la loro speranza di vita. Si sono allargati a dismisura gli abissi di sperequazione: le tre persone piu' ricche del mondo possiedono una fortuna superiore alla somma del prodotto interno lordo dei 48 Paesi piu' poveri del globo. In simili condizioni, lei comprende che non e' piu' di attualita' lo sviluppo, ma solo piccoli aggiustamenti strutturali. Che passano sotto il nome di "sostenibilita'" e sono invece una spaventosa mistificazione. * - Vincenzo R. Spagnolo: Perche', professore? - Serge Latouche: Perche' tutte le varie espressioni "sviluppo sostenibile", "vivibile" o "sopportabile" sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo sviluppo e' sempre stato contrario all'idea di sostenibilita', poiche' ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto e' stato rivestito con una patina d'ecologia, che tranquillizza l'Occidente e nasconde la lenta agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se stesso. In Africa, in nome dello sviluppo, i fedeli musulmani della localita' di Kulkinka, nel Burkina Faso, hanno deciso che alleveranno maiali. Niente e' proibito, se porta lo sviluppo. E non serve da freno la morale, ne' la cultura. Il "pensiero unico" del mercato annulla perfino le identita' nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi siamo tutti uguali. Senza contare i danni che il progresso tecnologico causa all'intero pianeta. La concorrenza e il libero mercato hanno effetti disastrosi sull'ambiente: niente limita piu' il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuita' spesso permette di abbassare i costi. * - Vincenzo R. Spagnolo: Un quadro davvero sconfortante, professor Latouche. Non teme le accuse di catastrofismo? - Serge Latouche: No, perche' quello che dico e' sotto gli occhi di tutti: la concorrenza esacerbata spinge i Paesi del Nord a manipolare la natura con le nuove tecnologie e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura, l'uso intensivo di pesticidi e irrigazione sistematica e il ricorso a organismi geneticamente modificati hanno avuto come conseguenze la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche. Il collasso del pianeta si avvicina, insomma, ma invece di lavorare a un'alternativa che eviti la fine delle risorse naturali, si continua a ragionare su correttivi piu' o meno efficaci, sulla "sostenibilita'" appunto. Ma cosi' si confonde il morbo con la cura. * - Vincenzo R. Spagnolo: Quale'e' la cura, allora, a suo parere? - Serge Latouche: C'e' un vecchio proverbio che suona piu' o meno cosi': "se hai un martello conficcato in testa, tutti i tuoi problemi avranno la forma di chiodi". Dobbiamo levarci dalla testa il martello dell'economia, decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. Far tramontare l'onnipotenza dell'"assolutismo razionale" che crede di poter assoggettare ogni cosa al suo volere, e sostituirlo col ragionevole, che si adegua alle mutate condizioni della natura. Questo e' il primo sforzo a livello concettuale. Concretamente, poi, bisogna proseguire nell'opera di contrasto della "megamacchina" dello sviluppo. * - Vincenzo R. Spagnolo: E come? Con lo strumento del boicottaggio? - Serge Latouche: Ho poche speranze sul successo finale delle pratiche di boicottaggio delle multinazionali. Anche se hanno dato frutti di recente, come nei casi della Shell in Germania e della Del Monte in Kenya, non hanno verdi prospettive: i grandi gruppi economici stanno infatti reagendo rapidamente, formando cartelli in settori vitali come quello farmaceutico, agroalimentare o delle comunicazioni per impedire ai consumatori qualsiasi alternativa. Io stesso, nelle scorse settimane, volevo boicottare il gruppo Total-Fina, proprietario della petroliera Erika che ha causato il disastro delle maree nere sulle spiagge della Bretagna, e mi sono ritrovato impotente in autostrada a dover fare benzina ai loro distributori, perche' erano gli unici nel raggio di migliaia di chilometri. Insomma e' giusto far diventare, come scrive l'economista italiano Antonio Perna, un "bisogno" la scelta etica del consumatore, ma non basta. E' necessario, aggiungo io, affiancare alla guerra di trincea il concetto di "nicchia", un luogo cioe' dove progettare una seria alternativa da estendere poi a grandi settori della societa'. Io studio da anni certe economie cosiddette "informali", che sono in realta' veri e propri laboratori del dopo-sviluppo. * - Vincenzo R. Spagnolo: Si riferisce al tipo di societa' basata sulle relazioni interpersonali descritta nel suo libro L'altra Africa? - Serge Latouche: Esattamente. Anche se, di fronte alla evidenza dei successi di certi "imprenditori a piedi scalzi", gli occidentali continuano scioccamente a pensare a quella africana come a un'accozzaglia di "straccioni" che sopravvive in attesa di accedere alla terra promessa della modernita', dell'economia ufficiale e del vero sviluppo. In realta' le migliaia di piccole imprese e il colorato insieme di mestieri (dalle intrecciatrici di strada ai bana-bana, commercianti ambulanti che vendono alle donne senza frigorifero olio "sfuso" o sacchetti di latte in polvere) non possono essere etichettati semplicemente come "naufraghi dello sviluppo". Essi sopravvivono perche' hanno prodotto un tipo di societa' basata non sui rapporti economici ma sul valore delle relazioni sociali e sulla logica del dono. Intendiamoci, parlo di una societa' non assolutamente affrancata dal mercato ma che, comunque, non obbedisce supinamente alla logica mercantile. In questo tipo di societa', che io chiamo vernacolare, ciascuno investe molto nei legami interpersonali, da' in prestito denaro, beni materiali e perfino tempo o lavoro. Lo fa senza pensare a un tornaconto immediato, perche' reputa importante crearsi un gran numero di "cassetti", per usare un'espressione della periferia di Dakar, cioe' di persone debitrici a cui attingere in caso di bisogno. Un po' come le esperienze che noi occidentali stiamo riscoprendo e che vanno sotto il nome di "banca del tempo" o "local exchange trade systems" (sistemi di scambio locale). * - Vincenzo R. Spagnolo: Ci sono segnali di speranza quindi? - Serge Latouche: Oltre alla presenza di nuovi modelli di societa', mi conforta che le coscienze di alcuni Paesi si stiano lentamente risvegliando. Lo mostrano ad esempio i recenti fatti di Seattle. Il gigantesco baraccone del "Millennium Round" messo su' dalla World Trade Organization non e' crollato solo per le forti proteste di piazza delle organizzazioni non governative. E' fallito, ed e' cio' che piu' conta, anche per il dissenso dall'interno dei rappresentanti di molti Paesi in via di sviluppo, alzatisi dai tavoli delle trattative perche' indignati dall'incredibile arroganza delle nazioni occidentali. * - Vincenzo R. Spagnolo: Secondo molti commentatori, anche gli attacchi lanciati nei giorni scorsi dagli hackers ai grandi siti web commerciali come Amazon o Yahoo! potrebbero essere una forma di protesta contro la globalizzazione e i suoi nuovi strumenti, come internet appunto. Qual e' il suo giudizio su questo tipo di protesta? - Serge Latouche: Credo che il pensiero unico del mercato sia da sempre onnivoro e tenda a occupare ogni possibile spazio. Ha fatto cosi' anche con internet, nata per le comunicazioni in ambito militare e fra gli studiosi e ora, per una di quelle finte della storia di cui parlava Hegel, trasformatasi nel piu' potente veicolo delle merci sul pianeta. Pero' i fatti di questi giorni dimostrano come la rete sia ancora un luogo con ampi spazi di liberta'. D'altronde, neanche le proteste di Seattle sarebbero state possibili senza il coordinamento fra associazioni e Ong di tutto il mondo, iniziato anni fa proprio su internet. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 116 del 17 giugno 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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