Minime. 62



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 62 del 17 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Occorre
2. "50 e 50"
3. "Una citta'" intervista Giancarlo Gaeta su Simone Weil (1999)
4. Il 19 aprile  a Roma
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. OCCORRE

Smilitarizzare i conflitti occorre.
L'umanita' e la guerra sono incompatibili.

2. INIZIATIVE. "50 e 50"

"50 e 50 ovunque si decide" e' la campagna e la proposta di legge promosse
dall'Unione donne in Italia per una riforma elettorale necessaria e urgente,
affinche' nelle assemblee democratiche pubbliche elettive vi possa
finalmente essere una presenza paritaria di donne e di uomini, e la
democrazia in fondamentali istituzioni cessi di essere una democrazia
dimidiata.
E' una proposta a cui anche chi questo foglio redige esprime persuaso un
sostegno.
Per informazioni e adesioni chi legge puo' collegarsi al sito www.50e50.it

3. MEMORIA. "UNA CITTA'" INTERVISTA GIANCARLO GAETA SU SIMONE WEIL (1999)
[Dalla rivista "Una citta'", n. 78, giugno 1999 (disponibile anche nel sito:
www.unacitta.it) riprendiamo la seguente intervista li' apparsa col titolo
"Il prestigio e le infermiere" e il sommario "Nella guerra di Spagna, in cui
operai e minatori furono lasciati soli dalle democrazie europee, Simone Weil
maturo' la sua presa di posizione pacifista: la guerra fra stati sarebbe
stata comunque contro gli operai e una catastrofe per l'Europa. Sempre in
Spagna inizio' la sua riflessione sulla forza e la violenza. La proposta
visionaria delle infermiere di prima linea, da contrapporre al prestigio
mortifero delle SS. Intervista a Giancarlo Gaeta. Giancarlo Gaeta insegna
Storia del cristianesimo antico e Storia delle religioni all'Universita' di
Firenze. Per l'editore Adelphi ha curato l'edizione italiana dei Quaderni di
Simone Weil. Per e/o ha pubblicato recentemente Religione del nostro tempo,
una raccolta di saggi su Walter Benjamin, Simone Weil, Etty Hillesum,
Dietrich Bonhoeffer".
Ci corrre l'obbligo di segnalare che alcune espressioni di questa
conversazione, alcune tesi qui sostenute ed alcune interpretazioni qui
proposte ci trovano in netto dissenso, e comunque naturalmente richiedono
una lettura avvertita e contestuale per evitare gravi fraintendimenti: il
rigore morale e intellettuale e l'impegno in difesa dei diritti umani di
tutti gli esseri umani di Giancarlo Gaeta e' noto; e Simone Weil e' una
delle figure piu' luminose della nonviolenza in cammino (p. s.).
Giancarlo Gaeta e' docente di storia delle religioni all'Universita' di
Firenze, ha curato l'edizione italiana dei Quaderni di Simone Weil ed e'
forse il piu' profondo studioso italiano della grande pensatrice. Tra le
opere di Giancarlo Gaeta: Introduzione storica al Nuovo Testamento,
Queriniana, Brescia 1977; Simone Weil, Edizioni cultura della pace, S.
Domenico di Fiesole (Firenze) 1992; (con Carla Bettinelli, Alessandro Dal
Lago), Vite attive. Simone Weil, Edith Stein, Hannah Arendt, Edizioni
Lavoro, Roma 1996; Religione del nostro tempo, Edizioni e/o, Roma 1999.
Simone Weil, nata a Parigi nel 1909, allieva di Alain, fu professoressa,
militante sindacale e politica della sinistra classista e libertaria,
operaia di fabbrica, miliziana nella guerra di Spagna contro i fascisti,
lavoratrice agricola, poi esule in America, infine a Londra impegnata a
lavorare per la Resistenza. Minata da una vita di generosita', abnegazione,
sofferenze, muore in Inghilterra nel 1943. Una descrizione meramente esterna
come quella che precede non rende pero' conto della vita interiore della
Weil (ed in particolare della svolta, o intensificazione, o meglio ancora:
radicalizzazione ulteriore, seguita alle prime esperienze mistiche del
1938). Ha scritto di lei Susan Sontag: "Nessuno che ami la vita vorrebbe
imitare la sua dedizione al martirio, o se l'augurerebbe per i propri figli
o per qualunque altra persona cara. Tuttavia se amiamo la serieta' come
vita, Simone Weil ci commuove, ci da' nutrimento". Opere di Simone Weil:
tutti i volumi di Simone Weil in realta' consistono di raccolte di scritti
pubblicate postume, in vita Simone Weil aveva pubblicato poco e su periodici
(e sotto pseudonimo nella fase finale della sua permanenza in Francia stanti
le persecuzioni antiebraiche). Tra le raccolte piu' importanti in edizione
italiana segnaliamo: L'ombra e la grazia (Comunita', poi Rusconi), La
condizione operaia (Comunita', poi Mondadori), La prima radice (Comunita',
SE, Leonardo), Attesa di Dio (Rusconi), La Grecia e le intuizioni
precristiane (Rusconi), Riflessioni sulle cause della liberta' e
dell'oppressione sociale (Adelphi), Sulla Germania totalitaria (Adelphi),
Lettera a un religioso (Adelphi); Sulla guerra (Pratiche). Sono fondamentali
i quattro volumi dei Quaderni, nell'edizione Adelphi curata da Giancarlo
Gaeta. Opere su Simone Weil: fondamentale e' la grande biografia di Simone
Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994. Tra gli studi cfr.
AA. VV., Simone Weil, la passione della verita', Morcelliana, Brescia 1985;
Gabriella Fiori, Simone Weil, Garzanti, Milano 1990; Giancarlo Gaeta, Simone
Weil, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1992; Jean-Marie
Muller, Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1994; Angela Putino, Simone Weil e la Passione di Dio, Edb, Bologna
1997; Maurizio Zani, Invito al pensiero di Simone Weil, Mursia, Milano 1994]

- "Una citta'": Simone Weil, di fronte al rischio di una guerra mondiale,
sostenne molto fermamente le ragioni della pace, anche con argomenti
piuttosto impressionanti. Addirittura, per giustificare la possibilita' di
cedere qualcosa a Hitler pur di salvaguardare la pace in Europa, dice piu' o
meno cosi': "Una volta che i Sudeti saranno tedeschi e la Cecoslovacchia
diventera' un satellite della Germania, cosa succedera' mai? La messa fuori
legge del partito comunista e l'interdizione agli ebrei dell'accesso a
qualche funzione pubblica. Ingiustizia per ingiustizia...". Puoi spiegarci
quale fu l'itinerario che porto' la Weil dalla Spagna al pacifismo e poi
ancora alla lotta contro Hitler?
- Giancarlo Gaeta: Naturalmente dobbiamo calarci nel momento storico. Per
capire il suo atteggiamento nei riguardi della guerra, mi sembra importante
cogliere la sua visione complessiva della situazione europea. La guerra per
lei avrebbe voluto dire innanzitutto una disfatta definitiva del movimento
operaio, di qualunque possibilita', insomma, di modificare, non dico in modo
rivoluzionario, ma anche per via riformistica, i rapporti di forza
all'interno del capitale, del mondo del lavoro. Con la guerra gli stati si
sarebbero militarizzati, l'economia sarebbe diventata bellica, con il
conseguente predominio assoluto dei poteri statuali, economici e militari.
Poi, guerra voleva anche dire guerra totale, ossia sulla totalita' del
territorio europeo. A torto o a ragione, il governo Blum, che lei infatti
aveva appoggiato, si era mosso nel timore che l'intervento delle democrazie
e della Francia nella guerra civile spagnola, dove il fascismo italiano e il
nazismo tedesco erano apertamente coinvolti, avrebbe inevitabilmente
scatenato una guerra in Europa.
Il terzo motivo nasceva da un calcolo politico: la speranza che
sussistessero ancora in Germania forze politiche ed economiche, anche di
destra, disposte a creare un'opposizione reale a Hitler. Si trattava,
quindi, di tener presente la possibilita' di una dinamica interna alla
Germania, tanto piu' che Hitler, quando lei scriveva quelle cose, aveva
preso il potere da pochi anni. L'idea che il potere hitleriano non fosse
cosi' totalmente assestato non era quindi del tutto peregrina. La guerra,
invece, avrebbe dato tutto il potere a Hitler, e allora non ci sarebbe stato
piu' scampo.
E' in questo quadro che Simone Weil sembra assumere una posizione fortemente
pacifista, nel senso di dire: "Lasciamolo fare, lasciamogli prendere quel
che riesce a prendere e contemporaneamente cerchiamo di renderci conto di
che cosa sta succedendo, quali sono le forze in gioco".
E poi bisogna tener presente che la Weil era un'intellettuale cresciuta
all'interno del movimento operaio, con una visione internazionalistica, con
l'idea fondamentale del superamento dell'oppressione sociale per tutti,
quindi al di la' dei confini, al di la' delle ragioni di questo o di
quell'altro stato.
Simone Weil ha una visione fortissimamente antistatuale: c'e' una quantita'
di suoi scritti in cui mostra che per lei il vero ostacolo, il centro
dell'oppressione, e' la concezione moderna dello Stato, lo Stato nato in
Francia, quello di Luigi XIV, di Richelieu, di Napoleone, lo stato
centralizzato. Quindi, in questo senso, le differenze tra lo Stato tedesco
in mano a Hitler, lo Stato sovietico in mano a Stalin e gli stati
democratici non hanno una differenza qualitativa. Sono differenze per quel
che riguarda le liberta', pero', se ci si mette dal punto di vista
dell'operaio in fabbrica, le differenze non sono sostanziali: le condizioni
reali in cui si lavora, si vive, il grado di oppressione sopportata da un
operaio francese, tedesco, russo, ai suoi occhi non faceva questa gran
differenza. Quindi, in questo senso si puo' capire perche' la guerra potesse
apparirle come la catastrofe totale, la fine di ogni speranza. Naturalmente,
stiamo parlando di un momento antecedente alla guerra stessa.
*
- "Una citta'": Non era comunque una pacifista per principio...
- Giancarlo Gaeta: Parlare per lei di pacifismo in senso stretto, cosi' come
l'intendiamo oggi, non ha molto senso. Lei fece propria la causa pacifista
dell'epoca. Era fermamente contraria alla guerra, pero' non era pacifista
per principio, tant'e' che quando scoppio' la guerra in Spagna lei ando' a
combattere in prima linea, dandone una giustificazione molto semplice: "Io
odio la guerra, ma sento che non posso non essere dalla parte degli operai,
dei minatori, dei repubblicani e contro i fascisti. Non posso restarmene
nelle retrovie, devo andare la'". E lo fece, un po' masochisticamente se si
vuole.
Il suo non e' un pacifismo di principio. La partecipazione alla guerra le
insegna poi che, nel momento in cui si combatte, il dominio della forza
diventa totalizzante e non ci sono piu' buoni e cattivi.
Questo e' il risultato della sua esperienza in Spagna. Lei va in prima
linea, combatte, partecipa a qualche azione militare, fa parte della Colonna
guidate dall'anarchico Durruti, ma si rende conto che la forma mentis, gli
atteggiamenti psicologici dei suoi stessi compagni, una volta liberati dal
laccio della convivenza civile, una volta in guerra, sono simili a quelli
dei nemici: la guerra in fondo come gioco, come espressione di energie che
altrimenti resterebbero compresse, come indifferenza alla morte, la guerra
come pura e semplice violenza.
Quindi, come dire, lei percepisce che il meccanismo stesso della guerra non
salva nessuno, non lascia possibilita' di fatto se non per i santi, per chi
ha doti eccezionali; non lascia possibilita' di combattere sostenuti da una
moralita' superiore, ammesso che in partenza ci fosse.
E' in Spagna che Simone Weil inizia la sua riflessione sulla forza. Matura
la consapevolezza che all'interno della cultura occidentale la forza gioca
un ruolo illimitato. Non siamo abituati a porre dei limiti alla forza. Lo
scatenamento della forza anzi libera da tutti i vincoli, permette di
spingersi fino al limite massimo.
In un frammento dei Quaderni scrive: "Se la guerra e' il prestigio per
eccellenza, l'uso delle armi puo' avere come oggetto di mettere fine al
prestigio, Maratona" (la battaglia di Maratona che mette fine al prestigio
della Persia), "o d'installare un prestigio durevole, impero romano".
"Nel primo caso c'e' contraddizione interna, nel secondo no. Una volta
snudate le armi il dominio del prestigio e' installato, la non resistenza
non e' un mezzo per sottrarvisi".
Qui c'e' una polemica con Gandhi: "Il Cristo stesso e' stato per un momento
privato di Dio: la Croce, il contatto con la forza da qualunque parte si
venga a contatto, impugnatura o punta della spada, priva per un momento di
Dio".
In questa riflessione ci sono certo implicazioni religiose, ma il punto
cruciale mi sembra la considerazione che l'uso delle armi finalizzato a
mettere fine al prestigio, che e' l'atteggiamento della Grecia, e' una
contraddizione in termini.
La Grecia blocca l'impero persiano e basta, vi pone fine, ma non e' che poi
invada la Persia o immagini di costituirsi come Stato piu' potente.
Semplicemente pone un alt. L'impero romano, invece, e' coerente con se
stesso: una guerra serve per installare durevolmente il prestigio.
*
- "Una citta'": La sua opposizione alla guerra e' piu' influenzata da una
valutazione politica, il fatto cioe' che lei la vede come una guerra fra
Stati, o e' influenzata dalla constatazione della implacabilita' della
logica interna della guerra stessa?
- Giancarlo Gaeta: C'e' anche l'orrore della guerra, su questo non c'e'
dubbio. Pero' Simone Weil e' un'intellettuale fredda, che ragiona, e la sua
visione del quadro politico europeo e' molto precisa. Per questo dicevo che
il suo pacifismo non e' di principio. Citati, nell'articolo pubblicato su
"Repubblica" qualche settimana fa, cade in un equivoco. Lui infatti scrive:
"Lei e' stata pacifista per un certo tempo, ha detto quelle cose
relativamente alla Germania, poi ha capito il suo errore e si e' pentita di
questa sua pratica pacifista. Da qui e' nata la sua meditazione sulla forza.
Quindi poi si e' resa conto che il nazismo andava combattuto con tutti i
mezzi fino in fondo".
Non e' vero, le cose non sono andate cosi'. Non ha cominciato a meditare
sulla forza dopo aver smesso di essere pacifista. Ha cominciato a meditarci
molto prima, gia' in Spagna.
Ma la cosa grave, e su questo forse vale la pena riflettere, e' che lei si
e' amaramente pentita, non di essere stata contro la guerra, ma di avere
prestato fiducia e appoggiato i gruppi pacifisti francesi, i quali, al
momento della costituzione del governo di Vichy, sono passati in blocco con
il governo collaborazionista, svelando che il loro pacifismo in realta' era
un filonazismo. Erano contro la guerra al nazismo, perche' in fondo vedevano
nel nazismo un nuovo ideale politico che non a caso hanno rapidamente
sposato non appena i nazisti sono arrivati in Francia. Il che, secondo me,
e' emblematico di un certo pacifismo. Mi sono spesso chiesto, leggendo i
giornali, quanto questi atteggiamenti pacifisti oggi non siano, in realta',
filoserbi, se non nascondano dei calcoli, magari inconsapevoli o non del
tutto chiari, per cui si e' pacifisti perche' si e' in fondo antiamericani.
E' di questo, comunque, che Simone Weil si senti' enormemente colpevole, di
non aver capito in tempo con chi aveva a che fare.
*
- "Una citta'": Paradossalmente, allora, e' nel momento in cui decide che la
guerra a Hitler e' inevitabile, e che la lotta al nazismo dev'essere portata
fino in fondo, che la riflessione sulla forza iniziata in Spagna le torna
utile...
- Giancarlo Gaeta: Forte dell'esperienza della Spagna, una volta che
accetto' la situazione di fatto, cioe' che la guerra c'era ed era stata
scatenata da Hitler, sposto' l'asse della sua riflessione sul come si
dovesse fare la guerra: se si dovesse combattere contro il nazismo
semplicemente dipendendo da una tradizione millenaria, per cui la guerra la
si combatte usando la forza in senso illimitato, fino alla distruzione,
addirittura all'annientamento del nemico, cosi' come peraltro facevano i
nazisti, o se c'erano altre modalita' ponendosi dei limiti, dei limiti
costruttivi, cioe' dei limiti che potessero essere utilizzati per costruire
la pace. Tutto questo e' illustrato da un progetto che lei sottopose a De
Gaulle e al governo francese in esilio a Londra: le infermiere in prima
linea. La Weil immagina la possibilita' di costituire piccole unita' di
infermiere volontarie che avrebbero dovuto soccorrere e curare i caduti, i
feriti in prima linea, non a battaglia finita, non nelle retrovie. Un corpo
di donne che avrebbero dovuto essere nubili, libere da vincoli familiari,
disposte a sacrificare la propria vita perche', dovendo stare sotto il fuoco
nemico, molte ovviamente sarebbero cadute.
Ora, la ragione di questa proposta, in ogni caso, anche se fosse stata
realizzata, non poteva che essere simbolica: soccorrere i caduti nel momento
piu' terribile, immediatamente, invece di lasciarli ad aspettare per ore, o
aiutarli a morire, avrebbe, secondo lei, infuso nei combattenti un
sentimento di umanita', di maternita'. Quelle infermiere sarebbero state
vissute come delle mamme che stavano loro accanto e avrebbero instillato nei
combattenti una consapevolezza del valore del proprio sacrificio, che
normalmente in una battaglia viene perso. In battaglia si diventa degli
esseri destinati alla morte, il cui pensiero dominante e' morire o non
morire.
C'e' un film molto bello in questo senso, La sottile linea rossa, anche come
rappresentazione della battaglia. E' molto realistico non perche' faccia
vedere dei corpi sbranati come l'altro, Salvate il soldato Ryan, ma perche'
fa vedere la paura, il terrore totale dei soldati, nel loro assoluto
abbandono alla morte in uno stato di angoscia totale. Questo e' molto
realistico, ma non si fa mai vedere nei film di guerra dove sembra che i
soldati vadano a combattere come delle macchine. Li' invece capisci
l'angoscia e poi i sentimenti, le visioni dei propri famigliari, i
meccanismi per cui ci si difende oppure ci si abbandona alla morte.
Tutto questo Simone Weil l'aveva percepito in Spagna con molta precisione.
Le infermiere di prima linea dovevano essere il contrassegno del modo con
cui le potenze democratiche occidentali, gli Alleati, combattevano quella
guerra.
Non per annientare o distruggere i tedeschi, ma per ricondurli in qualche
modo alla ragione: bisognava vincerli, ma nell'atto di vincerli non li si
annientava, non li si umiliava.
Quel che andava invece contraddetto immediatamente era l'eroismo, che si
isola nell'esaltazione della morte, caratteristico delle truppe speciali
come le SS, un eroismo mortifero che da' e prende la vita per un ideale.
Queste donne avrebbero potuto testimoniare di una possibilita', di dare la
vita combattendo. Di dare la vita e non la morte. De Gaulle defini' questo
piccolo progetto una follia e lo liquido' in quattro e quattríotto.
*
- "Una citta'": Lei parlo' direttamente con De Gaulle?
- Giancarlo Gaeta: No, diede il progetto a Schumann e Schumann lo fece
vedere a De Gaulle.
Magari la cosa non era veramente realizzabile, il giudizio di De Gaulle, in
fondo, rifletteva l'idea che la guerra ha le sue regole, che non possono
essere alterate; non vi si possono introdurre meccanismi impropri, per lui
alla fine quel che conta e' che i soldati devono andare a morire. Ne La
sottile linea rossa a un certo punto un soldato di fronte all'istruttore, al
tenente, al capitano che li incita, dice: "Ci vogliono morti". "Ci vogliono
morti", lo dice senza cattiveria, non per ribellarsi, quasi dando per
scontato: "Noi siamo qui per questo".
In questo meccanismo non si possono impunemente introdurre elementi di
umanita', di maternita', destabilizzanti di tutta l'organizzazione militare.
Inoltre, c'era in lei una grande preoccupazione, che esprime negli scritti
di Londra, gli ultimi, su come ricostruire l'Europa subito, non a partire
dal dopoguerra. Anche questo, secondo me, non rientra nella nostra
mentalita'.
Tra il momento della guerra e il dopoguerra c'e' una scissione: prima si fa
la guerra, si distrugge, si vince, si elimina il nemico, poi si vedra' in
base alle forze in campo, ai risultati ottenuti. Ma questo vuol dire che poi
non si ricostruisce niente di stabile, perche' semplicemente si rimettono
insieme i pezzi. Resta la forza a regolare tutto il meccanismo; e' la logica
della forza a determinare la pace, a stipulare i trattati, a definire gli
equilibri.
Lei aveva nella memoria, da quand'era bambina, il ricordo preciso di cos'era
stata la pace di Versailles, che lei aveva vissuto come un'ingiustizia
perche' costituiva un'umiliazione terribile per i tedeschi. Quindi, si
sforza di avvertire che i termini della pace andavano costruiti subito: da
subito bisognava mettere in moto dei meccanismi che consentissero di
prefigurare il doponazismo.
Si spinge fino a dire che bisogna assolutamente dare un colpo terribile al
nazismo, il quale deve, in qualche modo, essere spezzato perche' non e' una
cosa con cui si possa trattare. "Pero' - dice - cerchiamo in Germania, al di
fuori del quadro nazista, tutte quelle forze pur piccole, con le quali da
ora e' possibile ristabilire un dialogo, le opposizioni o quelli che per ora
stanno zitti perche' non hanno il coraggio di emergere, e che pero' possono
essere individuati ed incoraggiati".
E soprattutto pensava che ci si dovesse muovere da subito nel senso della
ricostruzione, o della costituzione, di un'entita' politica europea.
Creare un'unita' europea in cui gli stati nazionali, centralistici,
cedessero potere rispetto a un'organizzazione piu' ampia, per lei
rappresentava non solo la fine della guerra in Europa, ma anche l'unica
possibilita' di mantenere una qualche dignita' politica per l'Europa dopo la
guerra. Lei muore nel '43, ma nel '43 ormai era abbastanza chiaro che gli
Alleati avrebbero vinto, per cui lei scrive: "Se da qui alla fine della
guerra l'Europa non e' capace di pensare subito in termini di autonomia
politica, si finira' col diventare succubi degli Stati Uniti e dell'Unione
Sovietica".
Il quadro per lei era nettissimo, e visto quello che e' successo nei
cinquant'anni successivi, si e' avverato completamente: l'Europa non avra'
piu' voce in capitolo, sara' schiacciata fra le due potenze che daranno vita
alla guerra fredda.
*
- "Una citta'": Fa in tempo a vedere Hitler in tutta la sua forza tremenda?
A rendersi conto della Shoah?
- Giancarlo Gaeta: Al momento dell'occupazione, insieme ai genitori
abbandono' Parigi nel tentativo di lasciare la Francia cosi' da metterli in
salvo. Ando' a Marsiglia dove rimase per due anni perche' non riusciva a
lasciare il paese, non era cosi' facile. Ne ha scritto pochissimo, ma dalla
corrispondenza e' in lei evidente la consapevolezza di quello che stava
succedendo. Nessuno, a parte i vertici militari dei vari paesi, sapeva dei
campi di concentramento, ma che gli ebrei sarebbero stati la vittima
sacrificale del nazismo, su questo lei non aveva dubbi.
Questa sua condizione di ebrea l'ha vissuta con una sorta di rigetto. Il suo
essere ebrea era per lei assolutamente irrilevante, non e' mai riuscita ad
identificarsi, a sentirsi appartenente, non solo e non tanto a una
religione, perche' poi la sua famiglia non l'aveva mai praticata, ma neanche
a una storia, a una cultura che era in gran parte sconosciuta. In questo
senso, il fatto di essere perseguitata, di essere tutti a rischio lei, il
fratello, i genitori, era per lei una cosa terribile, incomprensibile, che
fini' per accettare. C'e' una lettera a una delle sue allieve in cui scrive:
"Fa parte della logica terribile della storia che, per superare certi
momenti terribili, qualcuno debba pagare piu' degli altri. Adesso tocca a
noi".
Quindi e' un'accettazione tragica: "Potrebbe toccare a chiunque altro, tocca
a noi. Ammazzeranno noi, siamo a questo punto". Secondo lei, la violenza, a
un certo punto, tende a scaricarsi.
La vita, anche nella sua dimensione normale, per lei e' continuamente un
gioco di forze in cui ciascuno tende a scaricare su di un altro la forza che
potrebbe colpirlo. La forza passa di testa in testa, si trasmette
letteralmente. L'unica possibilita' di arrestarla e' che qualcuno l'accetti,
che qualcuno se la lasci scaricare addosso. Nella sua visione, gli ebrei
erano un po' questo polo su cui si scarica la violenza. E' un fatto
ineluttabile, succede.
A livello religioso, c'e' una dimensione ulteriore, c'e' l'atto volontario
di chi prende su di se' la violenza che rischia di distruggere tanti. La
figura del Cristo ha questo valore. In Cristo lei non sottolinea tanto il
sacrificio, quanto l'immagine dell'agnello che viene sgozzato perche' solo
in questo modo la violenza si blocca.
Penso che da Simone Weil, per quanto riguarda la comprensione dei meccanismi
della forza, e di quell'espressione estrema della forza che e' la guerra, ci
sia molto da imparare.
*
- "Una citta'": Lei vide subito anche lo stalinismo?
- Giancarlo Gaeta: Si', immediatamente. Ci sono articoli dei primi anni
Trenta quando attacca in modo particolare il fatto che Stalin riconduca
continuamente agli interessi dell'Unione Sovietica i movimenti operai nel
mondo, fino ad appoggiare indirettamente il nazismo contro i partiti
comunisti in Germania, perche' la vittoria del comunismo in Germania, un
vero paese industriale, avrebbe ridimensionato totalmente il ruolo
dell'Unione Sovietica.
Quindi vide subito la politica di potenza nazionale praticata da Stalin.
*
- "Una citta'": Addirittura prima dei processi?
- Giancarlo Gaeta: Prima, molto prima, sono articoli dei primissimi anni
'30. Ebbe con Trockij uno scontro personale. Trockij fu per alcuni giorni a
casa sua mentre scappava dall'Unione Sovietica.
Prima di raggiungere il Messico stette a Parigi un po' di tempo, e Simone
Weil lo nascose, insieme alle sue guardie del corpo, nella casa dei suoi
genitori.
Fra i due ci fu uno scontro furibondo di cui c'e' solo qualche piccola
registrazione, perche' si chiusero in camera e trascorsero una serata a
discutere violentemente. E Trockij impazziva a veder questa ragazzina che
gli teneva testa.
La discussione era poi sempre quella: cosa voleva dire una rivoluzione
proletaria che stava diventando, in realta', la costituzione di un nuovo
potere statuale, l'Unione Sovietica, con nuovi interessi e nuova burocrazia.
Subito dopo la guerra di Spagna, inizia a interrogarsi sulle radici dei
totalitarismi emersi nel Novecento.
E' a partire dalla meta' degli anni Trenta che la sua riflessione si
concentra sulle cause del totalitarismo.
Solo che a differenza di Hannah Arendt, che in modo piu' storicamente
corretto assume il Novecento come punto di riferimento, lei tende ad
allargare il quadro della riflessione e della ricerca, e finisce con lo
stabilire un certo collegamento tra le forme di totalitarismo del nostro
secolo e la concezione teocratica del cattolicesimo, a partire dal tardo
Medioevo in avanti. All'origine del totalitarismo ci sarebbe l'idea,
insomma, che esista un centro di potere che contiene in se' la verita'.
In questo caso una verita' trascendente, che stabilisce, di volta in volta,
i confini della Verita', del Bene, del Giusto e che, quindi, colpisce gli
eretici, chi si pone al di fuori della visione assunta al centro.
Secondo lei, gli Stati nazionali nascono per imitazione di questa unita'
religiosa e dagli Stati nazionali nascono i totalitarismi, che vi aggiungono
qualcosa che negli Stati nazionali non c'e': l'idea di possedere una verita'
superiore in nome della quale si possono sacrificare gli altri o anche se
stessi.
Una visione totalitaria della verita' che non puo' non accompagnarsi, di
conseguenza, a uno spirito di superiorita', uno spirito che puo' essere piu'
o meno aggressivo, ma che comunque guarda agli altri come piu' o meno
prossimi, o distanti, dalla verita' stessa.
Questo determina una specie di gerarchia per cui chi si ritiene al di sopra
degli altri agisce di conseguenza.
Questo spirito di superiorita' e' legato anche ad un'idea finalistica o
progressista, per cui cio' che c'era prima e' peggio di quello che viene
dopo. Un'idea, questa, portatrice di una violenza enorme. Una volta che ci
si e' installati a livello diffuso, in una consapevolezza di questo genere,
tutto diventa possibile.
Io penso che i nazisti non ragionassero in modo diverso. Hanno fatto un uso
estremo, illimitato, veramente al di la' dell'immaginabile, di questa
autoconsapevolezza, pero' non c'e' dubbio che pensassero di essere superiori
culturalmente. Poi ci hanno aggiunto come esplosivo la teoria della
superiorita' della razza.
Ci sono pagine bellissime su Hitler ne La prima radice, l'ultimo libro che
Simone Weil ha scritto. Ne fa un ritratto stupendo, in cui ricostruisce in
modo immaginifico, ma altamente realistico, quale possa essere stata
l'educazione di Hitler, che cosa possa aver sognato da ragazzo, di cosa si
era nutrito.
Perche' niente succede per caso, non e' che uno improvvisamente a
quarant'anni diventa un dittatore di quella specie. Scrive: "E' andato a
scuola, ha partecipato a questo clima culturale, ha letto l'esaltazione che
nella nostra cultura umanistica si fa da sempre di Giulio Cesare, di Silla,
di Napoleone. Quelli sono stati i modelli. L'unica differenza tra lui e
chiunque altro di noi, suoi coetanei, e' che lui ha avuto un coraggio che
noi non abbiamo avuto, lui ha avuto il coraggio di credere fino in fondo a
quell'idea, l'ha addirittura incarnata. Ha voluto essere Cesare, Napoleone,
Silla e ha messo in pratica quello che gli avevano insegnato tutti i giorni
a scuola, leggendo questa roba acriticamente, come se questi fossero degli
eroi e non degli assassini. Adesso ci meravigliamo che l'assassino Hitler,
il criminale Hitler stia li' a fare quello che fa. Ma Hitler ormai e'
entrato nella storia, lui quello che voleva ottenere l'ha ottenuto e
qualunque ragazzino domani potra' tornare ad ispirarsi a lui. Se non
cambiamo l'insieme della cultura, della percezione della realta', se non
educhiamo in un altro modo e' inevitabile, perche' la maggior parte di noi
sono dei poveracci, non son capaci di buttarsi dentro fino in fondo, ma
troveremo sempre qualcun altro che lo fa".
*
- "Una citta'": Quindi, se vogliamo essere disincantati, perche'
meravigliarsi di Milosevic?
- Giancarlo Gaeta: Penso che Milosevic si sia molto meravigliato del fatto
che noi ci meravigliassimo. Perche'? Che cosa ha fatto che non abbiano fatto
gli altri, che noi adesso onoriamo, mettiamo sugli altari, studiamo?
Adesso proviamo ripugnanza a glorificare Hitler dal punto di vista storico,
per l'enormita' delle cose che ha fatto.
Forse ci vorra' ancora un secolo, pero' fra un secolo, un secolo e mezzo,
sara' piu' o meno come Napoleone. La storia cambia, le prospettive cambiano,
gia' sono molto cambiate.
Oggi vedo che ci sono almeno venti libri nuovi su Hitler. Quand'ero un
ragazzo, per quel che ricordo, non ho mai trovato un libro su Hitler.
Oggi in fondo se ne parla come di un personaggio che storicamente ha fatto
delle cose discutibili, e il giorno in cui sara' dimenticata la Shoah sara'
stato solo un grande sconfitto della storia.
*
- "Una citta'": Sempre sul tema della forza, ci puoi dire qualcosa della sua
opera sull'Iliade?
- Giancarlo Gaeta: L'Iliade poema della forza e' un commento all'Iliade in
cui lei, a torto o a ragione, legge l'Iliade come l'espressione di una
visione, quella del poeta, in cui la forza e' rappresentata in
continuazione, ma e' anche sentita come qualcosa da respingere. In questo
lei vede il valore della Grecia, che e' poi stata l'unica grande cultura
della civilta' occidentale che non si e' mai realizzata politicamente in
termini di potenza, si e' fermata nelle citta', dove l'unita' era garantita
da qualcosa che non era la potenza politica.
Lei vede in questo poema il rifiuto e il rigetto della forza nel momento
stesso in cui e' rappresentata, il che significa anche che la forza non e'
eliminabile. E' illusorio immaginare di liberarsi della forza nei rapporti
tra gli individui, tra le nazioni, tra i popoli. Ma altro e' concepirla in
termini positivi, come strumento da usare fino in fondo, altro, invece, e'
usarla perche' non se ne puo' fare a meno e, quando ci si trova nel
meccanismo della forza, sentirne comunque l'orrore. Secondo lei, Omero ha
questa rappresentazione e la Grecia nel suo insieme avrebbe cercato, in
qualche modo, di concepire un rapporto tra la necessita' e il bene, in cui i
meccanismi che sono all'interno della necessita' non siano accettati come
l'orizzonte unico.
Riconoscere che si e' sottoposti alla necessita' e quindi si subisce il peso
della gravita' dei corpi, delle menti, dell'universo, non esclude la
possibilita' di seguitare a sentire, contemporaneamente, che cio' a cui si
aspira e' il bello, la pienezza, la felicita', la trascendenza. La
dialettica fra questi due elementi, finche' e' viva ed e' alimentata,
preserva, trattiene da un uso illimitato della forza.
*
- "Una citta'": Nella dialettica fra l'accettazione della forza come
ineluttabile e la sua repulsione, diventano importanti le modalita'.
L'esempio delle infermiere di prima linea e' illuminante. Ecco, rispetto al
Kosovo, quale pensi sarebbe stata la sua posizione?
- Giancarlo Gaeta: A mio avviso, c'era una sola soluzione weiliana di questa
guerra: quella di andare a morire per il Kosovo. Qui invece siamo di fronte
a un uso della forza che e' smisurato, e per di piu' completamente astratto.
Si depersonalizza totalmente la guerra, e questo rende la forza veramente
smisurata, perche' non c'e' piu' nessuna possibilita', ne' per chi colpisce,
ne' per chi e' colpito, di venire in qualche rapporto, per cui non c'e' piu'
nessuna misura.
Morire per il Kosovo: questo avrebbe avuto un grande senso per l'Europa,
perche' allora Milosevic sarebbe stato veramente fuori gioco. Se ci fossero
stati dei ragazzi europei che andavano a morire per i kosovari che lui
voleva massacrare, ecco, li' non ci sarebbe stato piu' scampo. Moralmente
non ci sarebbe stato piu' scampo. Invece abbiamo visto tutti questi politici
affrettarsi a dire: "Per carita', non possiamo mica mandare i nostri soldati
a morire la'". Ma allora?
D'altra parte, su come si sarebbe ridotta l'Europa, Simone Weil aveva visto
giusto: mentre quello faceva le sue pulizie etniche, noi discutevamo di
Maastricht...

4. INCONTRI. IL 19 APRILE A ROMA
[Da Maria Palazzesi (per contatti: m.palaz at libero.it) riceviamo e
diffondiamo.
Maria Palazzesi e' responsabile per la cultura della Casa Internazionale
delle donne (www.casainternazionaledelledonne.org).
Anna Maria Crispino e' nata a Napoli, ma vive e lavora a Roma; giornalista,
si occupa prevalentemente di questioni internazionali; ha ideato la rivista
"Leggendaria - Libri, letture, linguaggi" che dirige dal 1987; e' tra le
socie fondatrici - e attualmente presidente - della Societa' Italiana delle
Letterate.
Rosi Braidotti, nata in Italia, cresciuta in Australia, Rosi Braidotti ha
studiato a Parigi e oggi vive e insegna in Olanda, presso l'Universita' di
Utrecht, dove e' docente di Women's Studies e dirige la Netherlands Research
School of Women's Studies; e' coordinatrice di "Athena", il progetto di
scambi e ricerche di Women's Studies nell'ambito del programma "Socrates"
della Commissione dell'Unione Europea. Opere di Rosi Braidotti in edizione
italiana: (con Patrizia Magli e Nancy Huston), Le donne e i segni, Il Lavoro
Editoriale, 1985, Transeuropa, 1988; Dissonanze. Le donne e la filosofia
contemporanea, La Tartaruga, Milano 1994; Soggetto nomade. Femminismo e
crisi della modernita', Donzelli, Roma 1995; Madri, mostri, macchine,
Manifestolibri, Roma 1996, 2005; Per un femminismo nomade, Stampa
Alternativa, Viterbo 1996;Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identita'
postnazionaliste, Luca Sossella, 2002; In metamorfosi. Verso una teoria
materialistica del divenire, Feltrinelli, Milano 2003.
Federica Giardini e' docente di filosofia politica presso l'Universita' Roma
Tre. Tra le opere di Federica Giardini: Relazioni. Fenomenologia e pensiero
della differenza sessuale, Luca Sossella Editore, Roma 2004]

La Casa internazionale delle donne ha promosso un ciclo di incontri sul tema
"Singolari differenze. Differenze generi diversita': luoghi e spazi della
molteplicita'. Per un buon uso delle parole".
Un percorso di approfondimento e di studio articolato in piu' moduli
integrati e ispirati alla logica di lavoro di laboratorio, che permetta di
partire dall'esperienza e singolare e plurale per restarle fedele quale
luogo di  molteplicita' in continuo fare/farsi e disfare/disfarsi. Bello,
brutto, eccesso, mostruosita', singolare, plurale trovano nuovi spazi di
dislocazione, che nella politica femminista della differenza sessuale e
nella costruzione di una sessualita' a partire dall'esperienza dei corpi,
innanzitutto il proprio, hanno avuto origine. La distinzione tra corpo
biologico e corpo parlante ed il primato di quest'ultimo sul primo stanno
alla base di una rivoluzione di pensiero e di pratiche gia' rese operative,
disconoscere la quale non puo' che contribuire a produrre arretramenti
culturali e politici del vivere in comune.
*
Giovedi' 19 aprile 2007, ore 18,30, Casa internazionale delle donne, via
della Lungara 19, sala "Simonetta Tosi", Roma, incontro con Anna Maria
Crispino: "Il futuro che e' gia' presente: ragionando di madri, di mostri e
di macchine con Rosi Braidotti".
*
Giovedi' 26 aprile, ore 18,30, incontro con Federica Giardini: "Differenza
sessuale in movimento".
*
Per informazioni: Casa internazionale delle donne, via della Lungara 19,
Roma, tel. 0668193001 - 3476207940.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell’ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell’uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 62 del 17 aprile 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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