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Nonviolenza. Femminile plurale. 94
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 94
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 22 Mar 2007 12:04:04 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 94 del 22 marzo 2007 In questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: Dare voce ai bambini vittime della guerra civile 2. Maria G. Di Rienzo: Le donne della Colombia vogliono tessere una rete 3. Maria G. Di Rienzo: Il potere spirituale del bene per uscire dal buco del dolore 4. Maria G. Di Rienzo: Rita, che unisce indiani e pakistani per rompere le politiche dell'odio 5. Maria Teresa Carbone presenta "Terra del mio sangue" di Antjie Krog 1. ESEMPI. MARIA G. DI RIENZO: DARE VOCE AI BAMBINI VITTIME DELLA GUERRA CIVILE [Da "Azione nonviolenta", ottobre 2006 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org). Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Kimmi non aveva nulla, alla fine del 1997, neppure una famiglia o un luogo dove stare, quando si presento' allo studio radiofonico "Tamburo parlante" a Monrovia, in Liberia. Solo il suo nome, i suoi 16 anni, il suo coraggio, e un'idea che bruciava dentro di lui: dare voce ai bambini del suo paese, una voce che li aiutasse a guarire dai traumi di sette anni di guerra civile. Volevano sostenerlo, chiese ai conduttori radiofonici, e far diventare questo desiderio realta'? Ben presto, Kimmi divenne il produttore di "Golden Kids News", un programma settimanale condotto da bambini e bambine. L'entusiastica risposta del pubblico supero' ogni previsione: l'innocenza ed il convincimento che voci infantili trasmettevano, tendendosi verso altri fanciulli che avevano subito enormi atrocita', nel desiderio di aiutarli, suscitavano commozione, ammirazione e stupore. "Molto spesso", dice Kimmi, "gli adulti credono che i bambini non abbiano delle opinioni proprie. E' un errore. I bambini hanno le loro specifiche paure e le loro specifiche idee e preoccupazioni: se gliene si da' la possibilita', le esprimono tutte assai efficacemente". Il successo di "Golden Kids News" fu tale che altre agenzie chiesero di essere aiutate a produrre programmi simili. In Sierra Leone la trasmissione ebbe lo stesso titolo e la stessa fortuna, ed ogni volta che andava in onda produceva allo studio un afflusso di persone che desideravano intervenire o commentare in diretta. Otto anni piu' tardi, sono tredici le stazioni in Sierra Leone che trasmettono il programma, mentre esso e' comparso anche in Angola, Burundi, Repubblica democratica del Congo: il 98% degli intervistati al riguardo, in un sondaggio del 2004, hanno attestato che "Golden Kids News" ha cambiato il loro atteggiamento verso i bambini e credono fermamente che il programma contribuisca al processo di guarigione post trauma. A varcare la soglia di "Tamburo parlante" per avere ragguagli da Kimmi e dai suoi piccoli amici reporter fu infine l'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu. E venne prodotto un altro appuntamento settimanale, questa volta televisivo; da allora e' possibile vedere una o uno speaker, la cui testolina e' avvolta da cuffie che sembrano per contrasto grandissime, che da' l'annuncio del programma in un microfono apparentemente altrettanto sproporzionato: "Mi chiamo Brandy Crawford, e questo e' Children's World, un programma condotto da bambini feriti dalla guerra, e a loro diretto". I reporter sono piccoli profughi, dispersi, orfani, ed ex bambini-soldati. "Questi ultimi spesso intervistano i bambini che erano negli eserciti con loro", spiega Kimmi, "Fanno in modo che gli ex bambini-soldati possano spiegarsi e raccontare, affinche' le loro comunita' li riaccolgano". Ma "Children's World" e' anche un fuoco d'artificio in cui si intrecciano poesie, notizie, canzoni, narrazioni e musica: tutto pensato da bambini violati dalla guerra che ti dicono di voler ricostruire le loro vite. Ma le stanno ricostruendo anche agli adulti. Bellezza e speranza, nei loro visi e nelle loro voci. Promesse. Futuro. Nonostante le minacce di morte ricevute dal proprio governo, Kimmi accetto' nel 1998 di diventare "ambasciatore dei bambini" per l'Unicef. Oggi sta terminando gli studi universitari. Una storia di successo? Chiediamolo a lui: "Il successo non si misura con quello che siamo stati in grado di accumulare per noi stessi, ma con quello che siamo riusciti a condividere con i compagni di viaggio durante quel percorso, a volte duro, che e' la vita". 2. ESEMPI. MARIA G. DI RIENZO: LE DONNE DELLA COLOMBIA VOGLIO TESSERE UNA RETE [Da "Azione nonviolenta", novembre 2006 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org)] "Non avremo mai la pace attraverso una soluzione militare, ma la pace non e' neppure la mera sigla sotto un trattato. Pace significa avere sicurezza, vivere in una societa' inclusiva, e sapere che i diritti umani vengono rispettati ad ogni livello. Dopo quarant'anni di guerra, e' irragionevole pensare che la Colombia cambi in una notte. Ma attraverso il processo di rendere consapevoli le persone del contributo che ciascun individuo puo' dare alla pace, impariamo a riconoscere le nostre forze, le nostre debolezze, e le opportunita' che ci si presentano". A dire cosi' e' Marta Segura, la direttrice esecutiva della Confederazione colombiana delle organizzazioni non governative, che conta oltre 1.100 gruppi aderenti. Il suo paese e' stato lacerato da conflitti armati fra organizzazioni di guerriglieri, gruppi paramilitari ed esercito nazionale, ed e' il paese con il piu' alto tasso al mondo di produzione di cocaina e di rapimenti di bambini. La Confederazione organizza seminari sulla nonviolenza, la giustizia sociale, la democrazia e la costruzione di coalizioni per il cambiamento sociale. Le donne sono al 90% le leader delle ong che ne fanno parte, e Marta dice che non e' un caso: "Il lavoro di pace delle donne colombiane viene visto poco, perche' e' giocato tutto 'dietro le quinte', a livello di base, ma e' assolutamente fondamentale, e continuo. Quando, a causa della guerra, le donne hanno perso figli e mariti hanno preso in mano il lavoro, hanno cominciato a dirigere autonomamente le loro vite, e oggi sono piu' indipendenti e scolarizzate. Il loro potenziale nel trasformare i conflitti e' enorme, e lo stanno usando diffusamente nella societa' civile". Anni ed anni di violenza, racconta Marta, hanno creato uno scenario di frammentazione e disorientamento, distruggendo la fiducia tra individui e gruppi sociali. "Fiducia" e' stata la parola chiave su cui le ong si sono messe in rete nella Confederazione: "Per tessere una rete credibile, di cui le persone potessero fidarsi, ci siamo innanzitutto accordati formalmente sui valori che potevano fare da ponte tra noi, e che sono: il credere nella nostra Costituzione ed in uno stato sociale governato dalla legge; il proteggere i diritti umani; il lavorare attraverso coalizioni ed alleanze con le organizzazioni statali e non statali che condividono questi principi; il fornire buoni servizi alle persone che si rivolgono a noi. Noi garantiamo alle persone che le associazioni della Confederazione hanno un codice etico, e sono trasparenti, e rispondono delle azioni che compiono. La Confederazione celebra ogni risultato raggiunto, le case costruite, il numero di insegnanti formati alla nonviolenza, e cosi' via. Le associazioni collaborano, creando programmi che poi presentano ai governatori regionali, ai sindaci ed altre istituzioni pubbliche: l'essere insieme fornisce loro maggior sostegno e risorse in piu'. I colombiani sono un popolo con tante origini diverse: africana, spagnola, indigena. C'e' poco orgoglio nazionale a tesserle insieme. Ma senza un'identita' condivisa non saremo capaci di arrivare ad una visione comune per il nostro futuro: anche questo e' uno dei motivi per cui si e' continuato, senza successo, a cercare una soluzione militare". A questo proposito, a Marta Segura e' stato chiesto piu' volte come faccia, rappresentando la Confederazione, a sedersi allo stesso tavolo con i militari. "Non abbiamo mai avuto fiducia nell'esercito, e l'esercito non ne ha mai avuta in noi, ma forse e' venuto il momento di sedersi insieme a parlare. Il primo incontro di questo tipo e' avvenuto a Barrancabermeja, una citta' che aveva sofferto un massacro, e terribili violenze. La Confederazione invito' il commissario di polizia, il comandante dell'esercito e gli ufficiali dell'intelligence. I militari erano nervosissimi quando entrarono portandosi dietro un registratore ed i fucili, ma noi aprimmo l'incontro gentilmente, parlando loro della nostra missione, del nostro lavoro, dei nostri quattro principi fondamentali per arrivare alla pace. Dicemmo anche che li temevamo, ma che avevamo bisogno di conoscerli: cosa provavano, cosa pensavano, come vedevano le ong. Essi ci dissero che non si sentivano al sicuro, che temevano li avessimo chiamati li' solo per accusarli. E poiche' loro avevano espresso le loro paure, noi esprimemmo le nostre: gli abusi perpetrati dai militari di cui eravamo stati testimoni, il terrore che provavamo alla sola vista di un'uniforme. Dopo due ore, i militari avevano messo da parte le armi, ed il gruppo rideva e discuteva insieme dei problemi della citta'. I nostri ospiti si accordarono persino con noi per svolgere attivita' a beneficio della comunita'. Anche da esperienze come questa, in cui la societa' civile si fa mediatrice per la risoluzione nonviolenta del conflitto, io derivo la convinzione che la Colombia sia ora ad un punto di transizione ". 3. ESEMPI. MARIA G. DI RIENZO: IL POTERE SPIRITUALE DEL BENE PER USCIRE DAL BUCO DEL DOLORE [Da "Azione nonviolenta", dicembre 2006 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org)] "Ho anche un nome Kimbundu. E' Manzumba. Significa 'potere spirituale'. Ma tutti mi conoscono come Zecao". Jose' Manzumba da Silva Zecao e' un costruttore di pace angolano, un formatore alla risoluzione nonviolenta dei conflitti. A soli 17 anni venne reclutato nell'esercito e la guerra divenne il fulcro della sua esistenza per i dodici anni che seguirono. "Ero addestrato a scovare i nemici e a distruggerli. Comandavo le squadre. Uccidevo, e vedevo la gente venire uccisa. Credevamo di essere obbligati a combattere, anche se con il senno di poi posso dire che non capivamo granche' della situazione. Venivamo manipolati, questa e' la parola giusta, manipolati affinche' uccidessimo. Non avevo mai avuto l'opportunita' di riflettere, di considerare chi stava dall'altra parte". Nel 1992, Zecao fu inviato nella provincia di Uige e li' la sua squadra fu catturata dall'esercito nemico dell'Unita. "Ci portarono nell'interno della foresta, ci legarono e ci gettarono nelle celle. Le celle dell'Unita si chiamano 'copos', coppe. Sono buche profonde nel terreno, cosi' profonde che non puoi arrampicarti e risalire. Devi fare tutto nel buco: mangiare, dormire, urinare, tutto". Zecao ha passato due anni nel "copo". Veniva nutrito a malapena, picchiato, e in diverse occasioni gli furono spezzate le ossa. Due suoi commilitoni vennero uccisi in questo modo. Sopravvivere sembrava dipendere dal caso, ma Zecao fece del suo meglio per trasformare la situazione. "Non ne potevo piu' della depressione, della rabbia e della paura. Cominciai a pensare che se non avevo altro che un po' di intelligenza e un po' di speranza era di quelle che dovevo servirmi. La mia unica possibilita' era entrare in contatto con i miei carcerieri, quelli che stavano la' sopra, persino quelli che mi avevano picchiato e che avevano ucciso i miei amici". Ascoltando le loro conversazioni, Zecao comincio' ad intervenire, a fare domande. "Li sentivo chiedersi perche' combattevano. Molto di quello che dicevano aveva senso anche per me. Aveva una sua logica, e cominciavo a capirla. Se non li avessi ascoltati non avrei mai compreso che tutto quello che c'era veramente da combattere era la guerra stessa". Il 16 novembre 1994, la provincia di Uige torno' sotto il controllo del governo, e Zecao riusci' ad andarsene lo stesso giorno, con l'aiuto dei suoi carcerieri. L'esercito lo congedo', e passo' diversi mesi in ospedale a Luanda. "Dovevo ricominciare tutto daccapo. Riorientare me stesso e la mia vita. Un sacco di miei ex compagni impazzirono, a questo punto. Ma io fui fortunato. Andai all'universita', studiai psicologia, trovai lavoro alla ong 'Christian Children's Fund'. Loro mi incoraggiarono a seguire corsi sulla guarigione dai traumi. Era proprio quello che mi serviva. Curo' me, e mi insegno' a curare. Guardando indietro, il mio periodo nel buco e' stato allo stesso tempo una maledizione e una benedizione. Il male era il dolore, quei due anni miserabili. Il bene, l'arrivare a capire. Non devo piu' schierarmi con un esercito o un altro, devo trovare il terreno comune su cui tutti viviamo come angolani". Oggi Zecao e' il coordinatore del programma "Pace e sicurezza" del Centre for Common Ground (Centro per il terreno comune). Lavora alla risoluzione nonviolenta dei conflitti con i membri di polizia, esercito e governi locali. La parte che piu' lo appassiona del suo lavoro, dice, e' aiutare gli altri ex combattenti a reinserirsi nella vita civile. "La nonviolenza e' antica e moderna allo stesso tempo. Nelle nostre tradizioni, nelle nostre culture, ci sono sempre metodi per promuovere la pace e reintegrare le persone che hanno avuto esperienze traumatiche nella vita della comunita'. Forse, quello che faccio e' nient'altro che la forma moderna della nostra guarigione tradizionale. Suppongo di non chiamarmi Manzumba per niente...". 4. ESEMPI. MARIA G. DI RIENZO: RITA, CHE UNISCE INDIANI E PAKISTANI PER ROMPERE LE POLITICHE DELL'ODIO [Da "Azione nonviolenta", gennaio-febbraio 2007 (disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org)] Il Forum indiano-pakistano per la pace e la democrazia ha compiuto 13 anni ed il suo "credo" e': "Noi siamo convinti che la pace non sia semplicemente assenza di guerra o saper gestire le crisi, ma la condizione fondamentale per assicurarsi che le persone abbiano cibo, rifugio, salute, e vite decenti in ordinamenti regionali in cui si pratichi una democrazia non egemonica". Per capire il valore dell'esistenza del Forum, bisogna pensare che l'India ed il Pakistan hanno una storia cinquantennale di tensioni e conflitti, marcata da tre guerre su vasta scala (1947, 1965 e 1971) e da pesanti situazioni di scontro violento (Siachin, Kashmir, Kargil). Questa relazione ostile ha alimentato in entrambe le nazioni una sorta di "complesso" relativo alla sicurezza nazionale, che legittima la corsa alle armi, alla cosiddetta "deterrenza nucleare" ed alla militarizzazione dei fondi per lo sviluppo. "Inoltre - aggiunge Rita Manchanda - ha alimentato la crescita della destra religiosa ultranazionalista in ambo i paesi, il che ha diffuso l'intolleranza religiosa e l'odio per le minoranze. A livello di base, questo ha creato divisioni fra le comunita' che prima non c'erano, ferite che sono disponibili per essere sfruttate a livello politico. La demonizzazione dell''altro', accoppiata a discriminazione ed esclusione (come per i musulmani in India e gli hindu in Pakistan) ha predisposto il terreno perfetto su cui far crescere la violenza. Gestire le istanze fra hindu e musulmani dipende largamente dal come sapremo trasformare la relazione ostile fra India e Pakistan". Rita Manchanda, giornalista ed attivista per i diritti umani, e' una delle madri del Forum. Mentre come giornalista testimoniava le violenze correlate all'insorgenza in Kashmir ed al conflitto in Kargil, il nascere delle politiche fondamentaliste e gli scontri ormai di routine fra hindu e musulmani, Rita maturo' la convinzione che qualcuno dovesse rompere il silenzio che circondava la negazione dei diritti di partecipazione democratica e la sistematica violazione dei diritti umani, ovvero quelle che lei chiama efficacemente "le politiche dell'odio". Attorno alle domande di Rita Manchanda, contenute dapprima nei suoi articoli, e poi dette a voce alta nei raduni pubblici, si coagulo' un gruppo di attivisti per la pace, pakistani ed indiani, e questo dette inizio a un movimento pacifista non molto esteso ma assai visibile che oggi costituisce l'ossatura del Forum. Nel luglio 2001 Rita contribui' ad organizzare un incontro a Katmandu fra le costruttrici di pace dell'Asia del sud, allo scopo di discutere della partecipazione delle donne nei processi democratici, delle attivita' legate alle ricostruzione ed alla riabilitazione dopo i conflitti, e della salvaguardia dei miglioramenti ottenuti nei rapporti fra i generi durante le crisi violente. Il meeting duro' quattro giorni, e aprendolo Rita porto' all'attenzione delle partecipanti un proprio innovativo concetto, che chiamo' "la mappatura a partire dai margini". Nelle sessioni che seguirono, le partecipanti disegnarono la mappa dei conflitti violenti di cui erano testimoni a partire da una prospettiva di genere, creando rappresentazioni visive che riflettevano la loro esperienza. Rita Manchanda descrive la mappatura come un veicolo per contrastare la visione "statocentrica" dei conflitti: "E' un elemento che funge da catalizzatore per il dialogo e offre nuove prospettive sulle diverse situazioni. Come le donne hanno iniziato a disegnarle, un incredibile flusso di energia e proposte e' scorso fra loro. Ogni mappa inizia inevitabilmente con il dolore, ma si muove rapida verso la creazione del futuro. Le attiviste che hanno appreso questo metodo lo hanno portato nelle loro comunita' per insegnarlo ad altre ed altri. Si e' rivelato efficace nel portare alla luce come il conflitto viene vissuto a livello personale, e cosa ogni persona puo' fare per contribuire alla sua risoluzione nonviolenta. Persone che si sentivano non ascoltate, e in qualche modo tradite e silenziate per questo, hanno finalmente preso parola per la pace. Dovete pensare che ogni iniziativa per la pace che costruiamo come Forum riceve un'intensa pressione contraria, dove alternativamente 'tutti' gli indiani o 'tutti' i pakistani vengono descritti come sabotatori o agenti nemici. Demistificare le politiche dell'odio e' il lavoro quotidiano del Forum". 5. LIBRI. MARIA TERESA CARBONE PRESENTA "TERRA DEL MIO SANGUE" DI ANTJIE KROG [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 marzo 2007 riprendiamo la seguente recensione. Dalla stessa fonte riprendiamo anche la seguente breve scheda sull'autrice e l'opera: "'Passo il tempo seduta, stordita dalla consapevolezza del prezzo che la gente ha dovuto pagare per le proprie parole. Se scrivo, sfrutto e tradisco. Se non lo faccio, muoio': cosi' Antjie Krog, nata nel 1952 a Kroonstad, in Sudafrica, e autrice di otto volumi di poesie in lingua afrikaans, ha sintetizzato in Terra del mio sangue i dubbi e le sofferenze che ha affrontato quando, a capo di una squadra di giornalisti e tecnici radiofonici, ha dovuto riassumere quotidianamente i racconti di vittime e carnefici per i notiziari sui lavori della Commissione per la Verita' e la Riconciliazione presieduta da Desmond Tutu. Nell'arco di due anni e mezzo, fra il '95 e il '98, la Commissione ha raccolto i racconti di ventimila vittime e ottomila richieste di amnistia, ma soprattutto ha scongiurato il bagno di sangue che molti avevano temuto all'indomani del crollo del regime razzista. Proprio per questo carico di dolore l'autrice di Terra del mio sangue (che verra' presentato questo pomeriggio alle 19 presso lo spazio 'Griot' in via Santa Cecilia 1/A a Roma alla presenza di Goffredo Fofi e della curatrice Maria Antonietta Saracino) e' stata assai riluttante quando il libro e' stato portato sul grande schermo da John Boorman in un film (con Samuel L. Jackson e Juliette Binoche) che, nonostante le buone intenzioni, ne banalizza l'intensita' dei contenuti". Maria Teresa Carbone, traduttrice, saggista, organizzatrice culturale, curatrice con Nanni Balestrini del sito di letture e visioni in rete www.zoooom.it Antjie Krog, poetessa e giornalista sudafricana, e' nata nel 1952 a Kroonstad, in Sud Africa; ha pubblicato otto volumi di poesie in lingua afrikaans prima di diventare una figura nota a livello nazionale per la sua diffusione via radio dei lavori della Commissione per la Verita' e la Riconciliazione, che come giornalista ha seguito e la cui storia e' raccolta nel suo libro Terra del mio sangue; gia' vincitrice del Pringle Award per il giornalismo, per Terra del mio sangue, suo primo libro scritto in inglese e poi tradotto in molti paesi, ha vinto numerosi premi, fra cui l'Hertzog Prize, il Dutch-Flemish Prize, il Reina Prinsen Geerling Award e l'Eugene Marais Prize. Da Terra del mio sangue e' stato tratto il film In My Country, di John Boorman, con Samuel L. Jackson e Juliette Binoche. Opere di Antjie Krog: Terra del mio sangue, Nutrimenti, Roma 2006. Achille Mbembe e' docente di scienze politiche a Johannesburg. Maria Antonietta Saracino, anglista, insegna all'Universita' di Roma "La Sapienza"; si occupa di letterature anglofone di Africa, Caraibi, India e di multiculturalismo. Ha curato numerosi testi, tra cui Altri lati del mondo (Roma, 1994), ha tradotto e curato testi di Bessie Head (Sudafrica), Miriam Makeba (Sudafrica), la narrativa africana di Doris Lessing e Joseph Conrad, testi di Edward Said, di poeti africani contemporanei, di Aphra Behn; ha curato Africapoesia, all'interno del festival Romapoesia del 1999; ha pubblicato saggi sulle principali aree delle letterature post-coloniali anglofone, collabora regolarmente con le pagine culturali de "Il manifesto" e con i programmi culturali di Radio3. Zoe Wicomb e' una scrittrice sudafricana. Tra le opere di Zoe Wicomb: You Can't Get Lost in Cape Town, Feminist Press, 2000; David's Story, Feminist Press, 2002; Playing in the Light, New Press, 2006. Maureen Isaacson, scrittrice sudafricana, nata a Johannesburg nel 1955, cresce nei claustrofobici quartieri per soli bianchi della citta'. Si libera del retaggio provinciale causato dal segregazionismo sudafricano viaggiando in tutta Europa e, nel Sudafrica democratico, interessandosi a questioni politiche e culturali; a lungo giornalista freelance, lavora per il "Sunday Independent" dove e' anche responsabile delle pagine culturali del giornale; all'attivita' giornalistica affianca quella di scrittrice; ha pubblicato diversi racconti su antologie e riviste, alcuni dei quali sono stati tradotti e pubblicati in vari paesi europei; ha ricevuto numerosi premi sia per i suoi articoli che per la sua produzione letteraria. Patricia Schonstein scrive dall'eta' di sedici anni; e' autrice di romanzi, poesie e storie per bambini. Opere di Patricia Schonstein: Il cielo di Cape Town, Pisani, Isola del Liri (Frosinone) - Roma; Il tempo degli angeli, Pisani, Isola del Liri (Frosinone) - Roma. Sindiwe Magona e' una importante scrittrice sudafricana, "nata nel Transkei e cresciuta nei sobborghi di Citta' del Capo, ha allevato da sola i suoi tre figli, lavorando come domestica. Grazie a una forza di volonta' che non e' luogo comune definire indomabile, e' pero' riuscita a laurearsi all'universita' di Citta' del Capo e a conseguire un master in scienze dell'organizzazione sociale presso la Columbia University. A lungo attiva presso le Nazioni Unite, Sindiwe Magona ha pubblicato nel 1991 il suo primo libro, To My Children's Children, seguito da una raccolta di racconti, Living, Loving And Lying Awake At Night (1994) e da Mother to Mother. Oggi la scrittrice, che e' tornata a vivere in Sudafrica, continua a essere molto impegnata in attivita' legate ai temi dell'ambiente e dei diritti delle donne" (Maria Teresa Carbone); un'intervista di Maria Teresa Carbone a Sindiwe Magona e' nel n. 41 de "La domenica della nonviolenza". Dal sito delle Edizioni Goree (www.edizionigoree.it) riprendiamo la seguente scheda: "Sindiwe Magona, nata nel Transkei, e' cresciuta nei duri sobborghi di Citta' del Capo. I suoi scritti ricordano la difficile giovinezza in Sud Africa e le sue lotte, personali e politiche, di donna nera sudafricana vissuta sotto la segregazione, cercando di realizzare l'armonia razziale e sessuale nel suo Paese. Questa donna straordinaria ha svolto i suoi studi per corrispondenza, dovendo occuparsi da single dei tre figli, senza disporre di una residenza fissa e lavorando come domestica. Si e' quindi laureata all'Universita' del Sud Africa e ha svolto un master in Scienze dell'Organizzazione Sociale del Lavoro presso la Columbia University. Nel 1993 l'Hartwick College le ha assegnato un dottorato in Human Letters e nel 1997 e' stata accolta nella Foundation of Arts Fellow nella categoria non-fiction. L'impegno politico della Magona e' stato finalmente riconosciuto nel 1976, quando e' stata chiamata a Bruxelles a far parte del Tribunale Internazionale per i crimini contro le donne, e nel 1977, quando fu fra le dieci finaliste per il Woman of the Year Award. Al culmine del suo impegno politico ha deciso che la penna puo' fare di piu' della spada; cosi' attraverso la sua scrittura cerca di sfidare e influenzare l'opinione pubblica del suo paese, spingendo i giovani neri, soprattutto le donne, a svolgere un ruolo attivo nella crescita del nuovo Sud Africa. Recentemente ha lasciato il suo incarico presso l'Onu, svolto per molti anni, ed e' tornata a vivere a Citta' del Capo". Opere di Sindiwe Magona: Da madre a madre, Goree, 2005; Ai figli dei miei figli, Nutrimenti, 2006; Push-Push ed altre storie, Goree, 2006; Il miglior pasto di sempre, Goree, 2007; Guguletu blues, Goree, 2007. Sindiswa Merile e' una scrittrice sudafricana. Nadine Gordimer e' una delle piu' grandi scrittrici contemporanee, sudafricana, impegnata contro l’apartheid, Premio Nobel per la letteratura. Opere di Nadine Gordimer: oltre i suoi numerosi volumi di racconti e romanzi (tra cui: Un mondo di stranieri, Occasione d'amore, Il mondo tardoborghese, Un ospite d'onore, La figlia di Burger, Luglio, Qualcosa la' fuori, Storia di mio figlio, L'aggancio, Sveglia, tutti presso Feltrinelli; Il bacio del soldato, presso La Tartaruga) segnaliamo Vivere nell'interregno, Feltrinelli, Milano 1990; Scrivere ed essere, Feltrinelli, Milano 1996. Opere su Nadine Gordimer: AA. VV., Nadine Gordimer: a bibliography of primary and secondary sources, 1937-1992, Hans Zell, London 1994] Osservava tempo fa il camerunese Achille Mbembe, docente di scienze politiche a Johannesburg e studioso fra i piu' importanti in materia di teoria postcoloniale, che in Sudafrica "dalla fine della supremazia bianca nel 1994, i nomi ufficiali dei fiumi, delle montagne, dei borghi e delle metropoli non sono molto cambiati. Ancora oggi si puo' raggiungere il proprio luogo di lavoro risalendo l'avenue Verwoerd (l'architetto dell'apartheid), mangiare in un ristorante sito lungo il viale John Vorster o andare a messa in una chiesa all'incrocio di due strade intitolate entrambe a qualche lugubre figuro degli anni di ferro del regime razzista". * Invisibilita' a caratteri d'oro In generale, aggiungeva Mbembe, la toponimia sudafricana e' tale che ci si potrebbe credere non in Africa, ma in qualche provincia inglese o olandese o tedesca: "La lunga umiliazione dei neri e la loro invisibilita' sono ancora scritte a caratteri d'oro su tutto il territorio del paese". Eppure, si affrettava a sottolineare lo studioso, il mantenimento di questi riferimenti di stampo coloniale non significa che il paesaggio simbolico sudafricano non si sia trasformato. Al contrario, "di tutti i paesi del continente il Sudafrica e' quello dove ha avuto luogo la riflessione piu' sistematica fra memoria e oblio... L'idea di fondo qui non e' distruggere necessariamente i monumenti la cui funzione un tempo era quella di sminuire il senso di umanita' degli altri, ma di assumere il passato come una base per creare un futuro diverso". Che questo sia stato (e sia) un lavoro immenso, complicato e sofferto, da sottrarre a qualsiasi prospettiva banalmente agiografica, lo dimostra oggi un libro di straordinaria densita' ed efficacia stilistica, che ripercorre da vicino i due anni e mezzo di attivita', fra il dicembre '95 e l'estate del '98, della Commissione per la verita' e la riconciliazione istituita da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu. * Un'epica contemporanea Rielaborazione dell'enorme mole di materiali raccolti dalla sua autrice, Antjie Krog, incaricata in quel periodo di seguire quotidianamente il lavoro della Commissione per conto di una radio sudafricana, Terra del mio sangue (in originale Country of My Skull, uscito da Nutrimenti nella traduzione di Marina Rullo e per la cura di Maria Antonietta Saracino, pp. 525, euro 18) e' un documento la cui lettura andrebbe suggerita a tutti quelli che a distanza di decenni rivangano episodi lontani per rivendicare il primato - o addirittura l'unicita' - della "loro" storia. Ma e' anche, al tempo stesso, la versione in chiave contemporanea degli antichi poemi epici, un'opera all'apparenza spoglia e fattuale, dove tuttavia le testimonianze dei perseguitati e dei persecutori, i dialoghi degli osservatori, i commenti e le riflessioni dell'autrice si susseguono, si intrecciano e si ripetono come tante voci di un unico canto fino a comporre il quadro di un paese lacerato e al tempo stesso deciso a evitare tanto la tragedia di un nuovo scontro frontale, quanto i rischi di una subdola rimozione. Fu del resto come poetessa che Antjie Krog, di origine afrikaner (bianca, dunque), divenne famosa nel suo paese ancora giovanissima, nel 1970 - quando il regime dell'apartheid era al culmine - scrivendo dei versi in cui il suo amore per il Sudafrica si univa alla protesta per la discriminazione nei confronti dei neri. Di queste sue origini, della sua appartenenza critica e insieme appassionata alla cultura un tempo dominante, cosi' come del dolore anche fisico che il confronto con le testimonianze dell'apartheid le ha inflitto, la scrittrice non fa mistero nel libro: "Settimana dopo settimana; voce dopo voce; racconto dopo racconto. E' come guidare in una notte di pioggia dietro un camion enorme. Immagini di devastazione che gettano scrosci di pioggia sul parabrezza. Non puoi sorpassare perche' non vedi niente e non puoi rallentare o fermarti perche' non arriveresti mai. Non e' tanto la morte e i nomi delle vittime, ma la rete di dolore infinito che li avvolge". Commenta nella postfazione Maria Antonietta Saracino: "Tra corpo e racconto il legame e' profondo. Il narrare puo' lenire le ferite del corpo, puo' dare il sollievo di un dolore condiviso. La guarigione sta nel dire. Non cosi' per chi ascolta, per chi quel dolore e' invece chiamato a contenere". * La storia di Tom e Bernard Tanto piu' importante, quindi, la trasparenza e l'onesta' che sottendono un racconto in cui il rigore morale di fondo impedisce qualsiasi manicheismo (ci sono le vittime e i carnefici, ma non ci si nasconde che il male, e il bene, possono albergare dalla parte "sbagliata") e non teme di sottoporre a uno scrutinio impietoso perfino quella idea di "riconciliazione" su cui si incardina oggi il lavoro politico e sociale del paese. Ne e' un esempio la storiella (quasi un apologo) che affiora a meta' circa delle cinquecento pagine di Terra del mio sangue e che e' ironicamente rappresentativa delle contraddizioni del Sudafrica contemporaneo: "C'erano una volta due bambini, Tom e Bernard. Tom abitava proprio di fronte a Bernard. Un giorno Tom rubo' la bicicletta di Bernard e ogni giorno Bernard vedeva Tom che andava a scuola con la sua bici. Dopo un anno, Tom ando' da Bernard, gli tese la mano e disse: 'Riconciliamoci e mettiamo da parte il passato'. Bernard guardo' la mano di Tom: 'E la bicicletta?'. 'No - disse Tom - non sto parlando della bicicletta, sto parlando di riconciliazione'". Nell'epilogo e' del resto la stessa Krog a tracciare un bilancio disincantato del lavoro della Commissione. Positivo per quanto riguarda il "tentativo di offrire una tribuna alle vittime e riequilibrare in qualche modo l'ideale politico di amnistia", questo bilancio si risolve in un fallimento rispetto alla fine delle violazioni dei diritti umani: "La nazione e' assediata a tal punto dalla criminalita' che e' alla disperata ricerca dei modi per punire i colpevoli". Ma; soprattutto, e' intorno al concetto di riconciliazione che emergono i dubbi: "Le ricerche dimostrano che la gente e' piu' divisa di prima... I neri stanno ridefinendo se stessi con il rinascimento africano, gli afrikaner con la guerra anglo-boera". Eppure, nonostante questa frattura, l'idea della riconciliazione e' penetrata nel paese "come una delle abilita' piu' elementari per sopravvivere al conflitto", perche' "la riconciliazione non e' solo un processo, e' un ciclo che si ripete piu' volte". * Riflessi condizionati Sull'autostrada, il bel racconto di Zoe Wicomb che chiude l'antologia di autrici sudafricane Il vestito di velluto rosso (Edizioni Goree, traduzione e cura di Maria Paola Guarducci, pp. 182, euro 15), conferma questa immagine di un paese dove l'esigenza di trovare nuovi punti di equilibrio fra bianchi e neri convive con la difficolta', da una parte e dall'altra, di sottrarsi alle antiche logiche di potere e di sfruttamento. Di ritorno da una degustazione di vini, tipico rito della borghesia bianca e benestante, una coppia si ritrova bloccata nella notte lungo una strada deserta. Quando dall'oscurita' emerge un ragazzo nero, la donna e' rapida nell'impugnare la pistola. Ma il giovane e' li' per aiutarli, la gomma forata viene sostituita, i due sono pronti a ripartire, mentre Themba li osserva: "Di nuovo il rumore delle loro voci che si fondevano, e la chiave che girava, e la Mercedes che partiva e fu come se da lontano, unendosi ai farfuglii di ringraziamento, lui udisse un suono sottile che arrivava da un luogo sconosciuto dentro di se' e poi le parole scandite, Per favore signore, signora, non avreste per favore qualche rand, poi il movimento concitato nelle tasche, nella borsa, e due paia di mani bianche passarono le banconote - Si', certo, scusa ragazzo, scusa ci e' sfuggito - nelle sue mani protesiche a forma di ciotola". Sono queste paure, questi sensi di colpa, questi riflessi condizionati incistati come virus all'interno delle strutture profonde, pubbliche e private, del paese durante i lunghi anni dell'apartheid a segnare ancora oggi la vita quotidiana del Sudafrica democratico. In un altro racconto della raccolta, Spia, ambientato proprio sullo sfondo dei lavori della Commissione per la verita' e la riconciliazione, Maureen Isaacson contrappone all'io narrante, una giornalista bianca e progressista, uno dei carnefici del regime, determinato ad avvalersi di ogni appiglio, di ogni connivenza vera o apparente, per non perdere il proprio status e i propri privilegi: "Per lui queste udienze rappresentano tutto. E' lui quello che chiede liberta' e perdono, sebbene sia io a sentirmi colpevole. Mi sono seduta con lui, nella sua macchina. Sono stata ospite della gente le cui riprovevoli azioni sono adesso sotto scrutinio. Eccoli tutti qui. Mi sorridono con complicita'. Cosi', questo significa andare a letto con il nemico". A nessuno, dunque, e' permesso "chiamarsi fuori", fingere che il passaggio a uno stato di normalita' sia compiuto, pretendere che il passato sia chiuso. Tanto meno agli scrittori (e alle scrittrici) che in Sudafrica continuano, sia pure sotto forme diverse, ad assumersi quel ruolo di testimoni del proprio tempo che e' sempre stato tipico degli autori di tutto il continente. E se questo e' vero perfino per un romanzo a prima vista lontano da qualsiasi tensione politica come Il tempo degli angeli di Patricia Schonstein (Edizioni Pisani, traduzione di Flavia e Costanza Rodota', pp. 207, euro 14), che all'interno della variegata comunita' italiana di Cape Town imbastisce una sorta di favola contemporanea, colorata e carnale, eppure attraversata dall'eco di una tragedia all'apparenza lontana come e' quella dell'Olocausto, lo e' tanto piu' per le opere di Sindiwe Magona, da sempre impegnata - nelle sue poesie, nei suoi romanzi (Da madre a madre), nei testi autobiografici (Ai figli dei miei figli) - a scavare nella storia e nel presente del suo paese. * Alla scuola di scrittura Proprio Sindiwe Magona ha adesso curato un'antologia, Guguletu Blues. Racconti di donne della township (Edizioni Goree, traduzione di Maria Paola Guarducci e Maria Scaglione, pp. 176, euro 14), che rappresenta un movimento ulteriore di questo impegno. Scritti in lingua xhosa (e l'edizione italiana riporta a fronte anche il testo originale), questi racconti sono infatti il frutto del lavoro di quello che, in tutt'altro contesto, si potrebbe definire come una scuola di scrittura creativa. "Ho messo insieme - spiega infatti Magona nella prefazione - un gruppo di persone che vorrebbero scrivere. Non si paga niente, all'aspirante scrittrice si chiede solo di venire, di partecipare a questa associazione in cui usiamo il xhosa, la nostra ricchezza come popolo, la nostra eredita'". Scrittrici esordienti, quindi, ma spinte da una urgenza di raccontare (e di farlo nella loro lingua madre) che conferisce ai loro testi una eccezionale vitalita', una sincerita' priva di qualsiasi affettazione. Come appare evidente, per esempio, dall'incipit di Siamo arrivati in un altro posto di Sindiswa Merile: "La vita non e' un gioco da ragazzi; ha alti e bassi. Mai pensare che la vita sia facile. Bisogna lottare". * Gesti essenziali Vengono in mente le parole che la piu' celebre scrittrice sudafricana, Nadine Gordimer, scriveva nel 1984 nel suo saggio Il gesto essenziale (non a caso citato anche da Maria Antonietta Saracino a proposito di Terra del mio sangue): "E' per il fatto di essere 'piu' che uno scrittore' che molti neri e nere del Sudafrica cominciano a scrivere. Tutti gli ostacoli e i motivi di diffidenza - mancanza di istruzione, di una tradizione di espressione letteraria, perfino la possibilita' di assumere l'abitudine quotidiana della lettura, da cui scaturiscono le doti di uno scrittore - vengono rimossi dalla imperiosa necessita' di dare espressione a una maggioranza non silenziosa, ma che non ha fruito dell'eloquenza di una parola scritta che testimoniasse le sue iniziative, la sua fierezza e le sue pur notevoli collere contro l'indifferenza". ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 94 del 22 marzo 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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