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Nonviolenza. Femminile plurale. 93
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 93
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 15 Mar 2007 12:02:21 +0100
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 93 del 15 marzo 2007 In questo numero: 1. Storie di donne in cammino 2. Susan Feiner, Drucilla Barker: Microcredito, una riflessione diversa 3. Luisa Muraro: Il pensiero dell'esperienza 1. INIZIATIVE. STORIE DI DONNE IN CAMMINO [Ringraziamo Normanna Albertini (per contatti: normin56 at aliceposta.it) per averci inviato il seguente resoconto ed alcuni materiali "sul lavoro che abbiamo fatto in Appennino per la festa della donna. Tutto preparato e portato avanti con le straniere presenti sul territorio: una cosa bella, propositiva, partita dal basso, perche' sono state loro a fare la proposta, quindi partecipatissima e sentita... Queste sono alcune delle venti storie che corredano la mostra fotografica". Normanna Albertini e' nata a Canossa nel 1956, insegnante nella scuola elementare, vive e lavora a Castelnovo ne' Monti; e' impegnata nel gruppo di Felina (Reggio Emilia) della Rete Radie' Resch, e quindi in varie iniziative di solidarieta', di pace, per i diritti umani e per la nonviolenza; scrive da anni su "Tuttomontagna", mensile dell'Appennino reggiano. Opere di Normanna Albertini: Shemal, Chimienti Editore, Taranto-Milano 2004; Isabella, Chimienti Editore, Taranto-Milano 2006] E' stata inaugurata domenica 11 marzo, al Centro culturale polivalente di Castelnovo ne' Monti, Reggio Emilia, la mostra "Sguardi dal mondo: storie di donne in cammino", nata da un'idea del "Gruppo donne del mondo", coordinato da Clara Vassallo, in collaborazione con l'Ufficio immigrati, con il Centro territoriale permanente - Educazione degli adulti, Direzione Didattica di Castelnovo ne' Monti, e con il Gruppo Caritas. La sala Poli si e' riempita come forse non succedeva da tempo; una folla di persone, soprattutto donne, provenienti da ogni angolo del mondo, una folla colorata, allegra ed entusiasta, ha ascoltato la presentazione di Claudia Corbelli, assessora alla cultura del Comune, e gli interventi del dottor Sergio Tamagnini, dirigente del Centro territoriale permanente - Educazione degli adulti, di Clara Vassallo, dell'assessora della Comunita' Montana Clementina Santi e di Yaroslava Dromina, che ha parlato a nome delle donne straniere. Intorno, i volti e le storie di tante donne, ritratti sul territorio montano dalle fotografe Ettorina Agosti e Simona Bocedi e accompagnati da testimonianze raccolte da Nazzarena Milani e Normanna Albertini. Si voleva, in questo modo, ricordare l'8 marzo, festa che risale al 1908, fuori da ogni logica consumistica, riportandola al suo vero significato. E' stato particolarmente seguito l'intervento di Yaroslava, toccante, sentito, dai contenuti forti e pieni di speranza. Yari, come preferisce essere chiamata, lavora presso una famiglia del ramisetano, dove assiste una signora anziana; in Ucraina insegnava letteratura russa e straniera, lavorava come psicologa e la sua cultura e sensibilita' sono emerse chiaramente nel suo discorso (che riportiamo sotto per intero). Finiti i discorsi e i ringraziamenti (tra gli altri a Paolo Ielli, che ha dato un notevole contributo nell'organizzazione, e a "Tuttomontagna", che ha sponsorizzato in parte l'iniziativa) un buffet e poi tante chiacchiere tra italiani e stranieri, stranieri e stranieri, in un miscuglio di lingue e colori che, come ha commentato uno dei presenti, ricordava la scena di un film sugli emigranti italiani in America. * L'intervento di Yaroslava Dromina La mostra e' emozionante ed interessante. Sembra che in queste foto di donne tutto il mondo sia entrato e abbia trovato spazio qui, in questa sala. Siamo diverse... con gli occhi marroni, blu, verdi; con le espressioni allegre, tristi, commoventi, tranquille. Ognuna e' Monna Lisa, con un mondo dentro ricco, sibillino e misterioso. Ma nello stesso tempo siamo simili noi, donne, fondamento del mondo: "Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficolta', portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un no come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Amano, trionfano, soffrono, riescono ad essere forti quando non c'e' piu' nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ed un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano... Portano allegria e speranza, compassione e ideali. E gli occhi che guardano dalle foto ci mostrano che le donne, davvero, hanno infinite cose da dire e da dare. Ringrazio chi ha avuto l'idea di questa mostra che ci unisce, che rivela l'accoglienza, il rispetto, la comprensione per noi, donne, venute qui da diverse parti del mondo. E ringrazio tutti coloro che hanno collaborato alla sua realizzazione. * Storia di Er.: Voglia di diventare qualcuno La mia storia comincia con l'arrivo in Italia sei anni fa. Assieme a mia madre e mio fratello abbiamo lasciato l'Albania e abbiamo raggiunto mio padre che da un anno era qua. Dopo due settimane mi sono iscritta alle scuole superiori e, perdendo un anno, ho cominciato dalla prima. Speravo fosse un buon inizio per ambientarmi, fare nuovi amici e per sentire meno la mancanza dei parenti e amici con cui avevo condiviso i miei primi 16 anni di vita. Non fu come pensavo, ho fatto molta fatica a inserirmi in questo nuovo ambiente poiche' non mi sentivo accettata per non dire che ero rifiutata. I primi due anni di scuola li ho passati da sola, senza una persona che mi stesse vicina. A scuola andavo bene, anzi benissimo, per essere una straniera arrivata da poco. Era proprio lo studio il mio passatempo non avendo amici con cui parlare o divertirmi. Proprio il secondo anno di scuola ho scoperto di essere incinta. E' stata una sorpresa che dopo e' diventata un meraviglioso miracolo donato solo a me e a mio marito, sicuramente. Quando e' finito il secondo anno ero di sei mesi e nessuno sapeva niente. Durante le vacanze estive ho incontrato dei compagni di classe che ormai si erano accorti della mia gravidanza. Sara' stata proprio questa cosa che dopo mi ha fatto avvicinare a loro. In quarta ho avuto l'altra sorpresa di aspettare un altro figlio. Non ho abbandonato la scuola perche' era troppo importante per me. Ho proseguito con il pancione tra battute indiscrete per ritrovarmi in quinta con due bimbe, una piu' bella dell'altra, e gli esami che mi aspettavano. Tante persone mi sono state vicine e mi hanno dato l'appoggio che mi serviva. Sono riuscita a dare gli esami e a finire, non proprio con il risultato che speravo, ma comunque soddisfatta di me. Mi bastava pensare come li avevo passati questi cinque anni, con la famiglia da una parte e la scuola dall'altra, e l'impegno che avevo messo in tutte e due le cose. Attualmente sto facendo un corso di praticantato che deve durare due anni per riuscire a dare l'esame di Stato e ottenere la firma di geometra. So di non essere uguale a tante mie coetanee, pero' a ventidue anni mi sento realizzata, con una famiglia bellissima e un futuro che mi aspetta. Se mi fossi arresa alle prime difficolta' non avrei potuto ottenere quel diploma che, stando in Italia, ho compreso quanto e' importante. Sicuramente non mi sento un esempio da seguire ma una persona che ha voglia di diventare qualcuno. Vista la mia eta' posso dire che il futuro mi aspetta e spero solo che sia stupendo per tutti e quattro. * Storia di Et.: Orgoglio di essere piu' forte Il mio paese, nel lontano Oriente, e' uno stato in via di sviluppo. Per tradizione, religione e cultura, le donne, laggiu', devono molto rispetto agli uomini, non possono contraddirli, prendere decisioni proprie, dire la loro. Tutto e' deciso dai maschi. Io sono una donna cresciuta in quell'ambiente e ne ho tutte le caratteristiche. Vivo in Italia da dieci anni perche' ho sposato un italiano. Qui ho continuato a comportarmi come mi era stato insegnato, ma ho trovato alcune difficolta'. Ho cercato di capire dove sbagliavo, perche' c'era qualcosa che non funzionava; il mio atteggiamento sottomesso, qui, non dava i giusti risultati. Ancora ci sono domande a cui non ho trovato risposta, ma qualcosa ho capito. Ho capito che devo cambiare il mio carattere, devo diventare piu' decisa, prendere in mano la mia vita, modificare tutto il mio modo di vivere, darmi una disciplina e un'autonomia diverse, con piu' indipendenza e senso di responsabilita'. Anche per il bene dei miei figli, che hanno bisogno di una mamma forte e felice. E un po' ce l'ho fatta. Oggi sono piu' sicura, piu' determinata, riesco a prendere delle decisioni da sola. Sono orgogliosa di questo mio nuovo modo di essere. Quando ritorno al mio paese, sono felice, perche' i miei connazionali mi chiedono: "Come fai ad avere un carattere cosi' forte?". Ho spiegato loro che, per avere tutto quello che ora ho, bisogna affrontare la vita in modo totalmente diverso. * Storia di F.: Vivere con un euro al giorno Sono nata in un modesto villaggio, in un Paese dell'Oriente. Il villaggio si trovava in montagna, eravamo sei fratelli, con la mamma e il papa', ed eravamo poverissimi. I miei genitori lavoravano tantissimo, ma non guadagnavano niente; i soldi per comprarci il necessario per vivere non c'erano, pativamo la fame. Riuscivamo ad avere a disposizione l'equivalente di un euro al giorno, non di piu'. Pochi soldi e tanti figli vogliono dire miseria. Con mio padre ricordo che camminavo per chilometri fino alla citta' piu' vicina; lui portava sulle spalle un maialino che avrebbe venduto al mercato. La strada era lunga, non era possibile farcela in un giorno, per cui si doveva dormire fuori almeno per una notte. Ricordo il freddo e la paura che mi assalivano nell'oscurita', mentre provavo a dormire li', vicino al sentiero, in mezzo alla boscaglia. Avevo tanto freddo, e avevo paura dei serpenti e degli altri animali pericolosi che popolano quei luoghi. Una notte il papa' mi ha lasciato li' ed e' tornato al mattino con il cibo che aveva comprato dopo aver venduto il maiale. Mi ha detto: "Hai fame? Andiamo a casa!". Io ero sfinita, non riuscivo piu' a camminare, gli dicevo: "Ho fame! Aiuto! Aiuto!". Quando stavamo per arrivare ho chiamato la mamma: "Ho fame! Non riesco piu' a camminare!". La strada era troppo lunga, non ne potevo piu'. A scuola sono andata in quella del villaggio per tre anni, poi sono andata per un anno in un collegio, in citta', ma la' ho preso una grave malattia, anche perche' ero molto denutrita e il mio corpo non riusciva a combattere le infezioni. I miei genitori mi hanno fatto tornare a casa: basta scuola! Quando sono un po' cresciuta, a diciassette anni, sono andata a lavorare come cameriera in un ristorante. Ma non sapevo leggere, non sapevo scrivere; lavorare, in quelle condizioni, era difficile... Nel 2003 ho incontrato quello che sarebbe poi diventato mio marito, un italiano che era in vacanza nel mio Paese. Ora sono qui e l'Italia mi piace, anche se trovo il clima troppo freddo. Poi c'e' il fatto che in Italia pochissimi parlano inglese, e per me e' un problema, perche' cosi' non riesco a comunicare con le persone. Ora sto frequentando un corso di italiano per stranieri, mi piace moltissimo e vengo a scuola volentieri. Nel cuore porto la gente del mio villaggio, ho nostalgia di loro. Ma nel cuore ho soprattutto la grande nostalgia delle mie due sorelle che, purtroppo, non ci sono piu'; la miseria e il troppo dolore se le sono portate via. * Storia di Ma.: Tenevo la contabilita'... e aggiustavo i tubi! Sono nata in una piccola citta' della Moldova. Dopo un normale percorso di studi, ho cercato di realizzare il mio sogno di diventare avvocato, ma non sono riuscita a superare i test di ammissione per un solo voto. La delusione e' stata grande e mi ha convinta a cercarmi un lavoro, cosi', a vent'anni, mi sono trasferita a Chiscineu, la capitale del nostro "grande paiesia". Sono andata a lavorare in una fabbrica di componenti elettronici e, avendo un carattere espansivo ed essendo una persona dinamica, ho dedicato il mio tempo libero all'organizzazione di eventi culturali pubblici. Proprio allora ho intrapreso gli studi di psicologia e sociologia all'universita': il tempo era passato ed io avevo modificato il mio sogno di diventare avvocato. Nel contempo, ho continuato a lavorare. Dopo cinque anni di studi, con grande soddisfazione, mi sono laureata. Ho proseguito il lavoro in fabbrica per circa vent'anni, mentre riuscivo a specializzarmi pure in economia. Tutti quegli impegni non mi lasciavano tempo per pensare a me stessa in quanto donna. Non capivo, in quel periodo, quanto fosse importante creare una famiglia e dedicare un po' di tempo a me stessa e agli affetti. Nel 1988 divento' evidente che l'"impero" sovietico si stava disgregando, mentre in Moldova iniziavano ad emergere e si facevano sempre piu' insistenti le voci per l'indipendenza e la separazione da Mosca; mi impegnai in prima persona nei movimenti indipendentisti. Trovai, quindi, un nuovo posto di lavoro, dato che la fabbrica stava andando in rovina. Diventai contabile in una societa' di amministrazione. Un lavoro che mi piaceva, perche' mi dava la possibilita' di stare a contatto con la gente. I problemi erano tanti: mancava spesso l'acqua, il gas, e mi e' capitato di dovermi improvvisare operaia per risolverli, perche' spesso il mio capo non era nel suo ufficio, oppure gli idraulici erano ubriachi. Cosi' tenevo la contabilita'... ed aggiustavo i tubi! Pensavo di aver raggiunto un felice benessere. Invece, nel duemila, ci furono altri mutamenti e fui costretta a cambiare attivita'. Essendo specializzata in economia, mi trasferii al Dipartimento di statistica di Stato. E li' aumentarono i miei problemi: stipendio piu' basso, poco lavoro, mancanza di certezza per il futuro. Allora ho preso la decisione di venire a cercare lavoro in Italia. Avevo un'amica che gia' lavorava qui e mi diceva che anche per me c'era la possibilita' di un'occupazione. Cosi', come si dice da noi, ho "preso il cuore in bocca" e sono partita senza la paura di abbandonare la mia patria, i miei affetti e di recarmi in un Paese che non conoscevo direttamente. Adesso posso affermare di aver fatto la scelta giusta. Ho trovato un lavoro che mi soddisfa, una sistemazione adeguata, ed ho conosciuto tante altre persone che, come me, hanno lasciato i loro Paesi per lavorare in Italia. Grazie a Dio ora sto bene. * Storia di Mo.: Un amore che viene da lontano, da sempre conosciuto Non sono una donna "straniera"; sono una montanara. La mia storia e' certo un po' originale, sicuramente un poco fuori dal comune, dal normale. Sempre che si sappia cos'e' la normalita'; io, a 33 anni, ancora non l'ho capito. Sono una montanara "doc", appunto, e porto questa mia, nostra terra, dentro di me, nel cuore, nei ricordi e negli affetti; eppure, questo mio amore per cio' che sono e per le mie radici mi ha aperto le strade a un amore che viene da lontano, da un luogo cosi' diverso dalla mia terra, distante. Purtuttavia ho ritrovato in mio marito qualcosa di familiare, qualcosa che in fondo sapevo di conoscere. Le differenze erano solo una patina di polvere che ricopriva "strade" conosciute da entrambi. Vivo da sempre a Casina; a 15 anni, a una partita di calcio fatta per beneficenza, ho conosciuto mio marito Khalil, come avrete intuito non proprio un montanaro, gia': perche' lui viene dal Marocco, precisamente da Casablanca: Oggi vivo ancora a Casina, che e' diventato anche il paese di mio marito e dei nostri cinque figli. Siamo ben inseriti nella comunita', anche se all'inizio della nostra storia non e' stato tutto facile. Troppi pregiudizi, troppe diffidenze, che, col tempo e con pazienza, siamo riusciti a superare. Certo, sarebbe stato piu' semplice reagire con rabbia e magari chiuderci in noi, ma la nostra scelta di "lasciare la porta socchiusa" si e' rivelata giusta e ora viviamo sereni e contenti in questo paese che porta, nella sua tradizione e nella sua storia, un'antica memoria di accoglienza e di ospitalita', tipica della cultura contadina di questo nostro Appennino. Quindi e' stato naturale per me partecipare con gioia a quegli "incontri del te'" della domenica pomeriggio fra donne montanare di origine o di adozione, quel te' che senz'altro e' servito a rompere timori e timidezze, dove la solarita' e la complicita' tipica di noi donne ha fatto il resto. Sono seguite cene per le nostre famiglie, iniziative di beneficenza, cene ed incontri aperti anche alla gente che abita e vive in montagna, giusto per quel concetto di lasciare socchiusa la porta, perche' chi e' interessato, o anche solo curioso, possa venire a vedere chi siamo, a scoprire come tante donne di posti, luoghi, culture, religioni e lingue diverse riescano insieme, ogni volta, a scoprire percorsi e valori condivisi, comunanze che all'inizio erano impensabili ai piu'. Gia', perche' a volte teniamo a considerarci chiusi in schemi rigidi. Invece ognuno di noi ha le sue differenze, le sue esperienze che fanno di ogni persona un microcosmo da esplorare e conoscere; non e' detto che due persone nate nello stesso luogo o della stessa cultura siano identiche, e' praticamente impossibile. Anche all'interno della stessa famiglia le differenze tra un membro e l'altro ci sono, quindi: perche' considerare chi proviene da un altro paese o da un'altra cultura come una persona da temere? O guardare con sospetto e diffidenza chi viene definito comunemente "l'altro"? Ognuno di noi e' "l'altro", ognuno di noi e' un "estraneo" o uno "straniero". Se partiamo da questo principio sara' piu' facile avvicinarci fra di noi, conoscerci, che non vuol dire frequentare gli stessi luoghi di lavoro, le stesse scuole, gli stessi negozi. La conoscenza non e' l'incontro fortuito, la conoscenza va oltre; e' qualcosa che va cercato, costruito col tempo e con la volonta'. Per tornare alla mia esperienza, in questi anni posso dire di aver scoperto con mio marito che, anche se con percorsi a volte differenti, alla fine della strada ci ritrovavamo sempre alla solita "casa". Le differenze che ci sono state e ci sono fra noi non ci hanno indebolito ne' come individui ne' come coppia, anzi: hanno permesso di scoprire a me nuovi percorsi e a mio marito altri percorsi di vita che mai avremmo nemmeno sognato. Spero che questo mio breve intervento possa far avvicinare altre persone all'esperienza di "Donne del mondo" e che le iniziative fatte fin d'ora possano continuare e crescere, perche' il nostro territorio possa arricchirsi ed offrire nuove o buone possibilita' alle nostre famiglie e ai nostri figli. * Storia di S.: Uno sguardo diverso addosso Prima di venire in Italia, abitavo ad Irece', in Bahia, Brasile, ad otto ore di viaggio da Salvador. Ma non era quello il mio paese, io sono nata a San Paolo, dove mio padre lavorava come guardia giurata. Della mia infanzia ricordo che mi piaceva la scuola, ci sono andata fino a quattordici anni, poi ho capito le difficolta' di mia madre che, con sette figli da mantenere, non ce la faceva piu'. Cosi' sono andata a lavorare come domestica. Lo stipendio era bassissimo. A diciannove anni ci siamo trasferiti in Bahia; io avevo gia' una figlia, il cui padre era morto. Il motivo del trasferimento era la paura di mia madre che i miei fratelli piu' grandi prendessero una brutta strada nell'ambiente violento della citta'. La situazione in Bahia, pero', per noi e' peggiorata ancora. Proprio la' i miei fratelli sono stati uccisi da malviventi. Al primo hanno sparato, il secondo e' stato accoltellato a distanza di otto giorni. La morte dei miei fratelli ci ha distrutti, i miei genitori si sono separati. Ho incontrato un italiano, ci siamo innamorati. Lui mi ha promesso di sposarmi; gli ho creduto, abbiamo avuto due figli, ma lui rientrava sempre in Italia e mi lasciava sola, senza un vero sostegno per tirare su' i bambini, che pure aveva riconosciuto. Anche ora che sono in Italia, non ho da lui nessun aiuto, anzi: non vuole nemmeno vedermi. Ho sofferto tanto. Vivevo con la mia mamma. Intanto, tre dei miei fratelli si erano sposati. Dopo il lavoro di domestica, ho lavorato in una fabbrica, in un laboratorio di vestiti da sposa, ho fatto anche la gelataia. Non riuscivo pero' a guadagnare abbastanza per far star bene i miei figli. Una mia amica sposata con un italiano, che torna d'estate in vacanza a Irece', si e' offerta di aiutarmi e mi ha ospitato in casa sua, in Italia, per diversi mesi. Se non fosse stato per lei, per l'aiuto che mi ha dato, e di cui non potro' mai ringraziarla abbastanza, non so come avrei potuto sopravvivere. Oggi lavoro presso una famiglia nella montagna reggiana; con i soldi che mando in Brasile riesco a pagare l'affitto per i miei figli e per mia madre, a farli studiare e a mantenerli. Ho anche comprato un pezzetto di terra e sto costruendo una piccola casa per loro. Mia figlia grande e' in prima superiore, mi manca molto, mi mancano tutti, e sento una tristezza immensa. Vorrei averli qui con me. Vorrei portarli in Italia, perche' la vita qua e' diversa. Credo sarebbe meglio, per loro, crescere in mezzo agli italiani, perche' c'e' meno discriminazione, meno differenza tra i poveri e i ricchi. In Italia, nella scuola, negli ospedali, tu sei trattato allo stesso modo, ti guardano allo stesso modo, il povero come il ricco. In Brasile no. Il povero e il ricco, in Brasile, non si mescolano. Io voglio che i miei figli si sentano uguali agli altri piu' fortunati di loro, che non sentano uno sguardo diverso addosso. Della mia vita qui, l'unica cosa che non mi piace e' la solitudine, mi manca la famiglia. Avessi i miei figli qua con me, sarei felice. * Storia di Y.: I miei giorni qui in Italia Anche se ora i miei giorni sono uguali e passano monotoni, cerco di vedere cose belle in questo modo di vivere. Ogni mattina alle 6,45 mi tormenta la sveglia. Con gli occhi ancora chiusi accendo la televisione su Canale 5 per sentire le notizie e l'oroscopo. Mi alzo, mi lavo, mi vesto e corro al pollaio con il secchio pieno di mangime per le galline. Torno con il secchio pieno di legna. Ancora sulla soglia comincio a svegliare la mia signora (dell'eta' di 98 anni) chiedendole: "Buongiorno, ha riposato bene? Cos'ha sognato?". Le do' da mangiare, poi preparo il necessario per lavarla. Arrivano le assistenti domiciliari che mi aiutano nell'operazione e, nel frattempo, mi fanno lezione di italiano. Io divento scocciante con le mie domande, ma le assistenti portano tanta pazienza. Quando la mia vecchietta e' lavata, pulita, unta con la crema, riposa nella poltrona e io continuo la mia attivita' in cucina. Preparo da mangiare e pranziamo. A volte gradisco anche i suoi complimenti sul cibo. E mi sembra di saper cucinare davvero. Passa il momento del pranzo e arriva il pomeriggio. Con il sollevatore metto la signora a letto, cosi' puo' riposare. Se non piove o non nevica, vado fuori a fare un giro a piedi. Anche se ripercorro le stesse strade, non mi annoio mai, ogni volta trovo qualcosa di nuovo. Mi piace ascoltare il canto degli uccelli, guardare il sole nel cielo, ammirare i monti. Probabilmente da sempre mi mancavano queste cose, ma non lo sapevo. E se dovro' cambiare lavoro, cerchero' di rimanere in montagna. Non troppo distante dalla citta', pero', perche' mi mancherebbe il contatto con la gente. Finita la passeggiata, riprendo i miei lavori in casa: lavo, stiro, metto in ordine il cortile, preparo la cena, do' da mangiare alla signora. Alle venti, di solito, le auguro la buonanotte. E dopo mi godo la mia (relativa) liberta': leggo, scrivo, guardo la televisione. Passo cosi' i miei giorni qui in Italia, e intanto invecchio. 2. RIFLESSIONE. SUSAN FEINER, DRUCILLA BARKER: MICROCREDITO, UNA RIFLESSIONE DIVERSA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento. Susan F. Feiner e' docente di economia e women's studies alla University of Southern Maine; Drucilla K. Barker e' docente di economia e women's studies alla Hollins University; in collaborazione hanno pubblicato Liberating Economics. Feminist Perspectives on Families, Work, and Globalization (Liberare l'economia. Prospettive femministe sulle famiglie, il lavoro e la globalizzazione), 2004. Muhammad Yunus e' l'ideatore e fondatore della Grameen Bank; nato e cresciuto a Chittagong, principale porto mercantile del Bangladesh, economista, docente universitario negli Usa poi in Bangladesh; fondatore nel 1977 della Grameen Bank, un istituto di credito indipendente che pratica il microcredito senza garanzie, grazie a cui centinaia di migliaia di persone - le piu' povere tra i poveri - si sono affrancate dalla miseria e dall'usura e sono riuscite a prendere nelle proprie mani il proprio destino. Opere di Muhammad Yunus: Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998. Opere su Muhammad Yunus e la Grameen Bank: Federica Volpi, Il denaro della speranza, Emi, Bologna 1998. Una intervista a Muhammad Yunus e' nel n. 396 de "La nonviolenza e' in cammino", un'altra nel n. 1473. Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 novembre 2006 riprendiamo la seguente scheda: "Muhammad Yunus, inventore della Grameen Bank, ha ricevuto il Premio Nobel 2006 per la pace come riconoscimento ai suoi 'sforzi per creare sviluppo economico e sociale a partire dal basso'. Nato nel 1940 nell'attuale Bangladesh, si e' laureato in economia nel 1969 alla Vanderbilt University di Nashville. Dopo una breve esperienza di insegnamento in Tennessee e Colorado, torna in patria nel 1971 per dirigere il Dipartimento di economia rurale dell'universita' di Chittagong. Del 1974 e' l'ideazione di una forma di governo rurale, il primo passo verso il sistema dei microcrediti. Vista l'indisponibilita' delle banche, inizio' con il prestare l'equivalente di 30 euro a testa a 42 donne che non potevano acquistare la materia prima per creare i loro oggetti d'artigianato. Il buon esito dell'esperimento incoraggio' Yunus ad allargare il sistema. Nel 1983 nasce la Grameen Bank (banco rurale, o del villaggio). Oggi le cifre raccontano il successo strepitoso dell'iniziativa: 1.084 filiali nel mondo dove lavorano 12.500 persone. Oltre 7 milioni i clienti, sparsi in 37.000 villaggi. Il 94% sono donne. Negli ultimi 20 anni l'istituto ha erogato prestiti per oltre 2.000 miliardi di euro. Tasso di restituzione oltre il 90%". Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] All'inizio di questo mese, in un discorso tenuto alla Camera di Commercio ispanica, il Presidente Bush ha espresso l'opinione che il microcredito "ha avuto molto successo". Ha poi aggiunto: "Se tu sei un piccolo agricoltore che stenta la vita, non ti piacerebbe vendere le tue merci all'estero? Non vorresti essere capace di vendere ad un universo piu' vasto?". Apparentemente, Bush ed altri credono che i piccoli agricoltori usciranno con successo da un'agricoltura di sussistenza e cominceranno a competere per la propria quota di mercato, fianco a fianco con potenti multinazionali quali ConAgra, General Foods e Nestle'. Questo equipara le attivita' delle piu' grandi corporazioni mondiali a quelle dei contadini poveri (in maggioranza donne) che commerciano nei mercati locali. Si', come no. C'e' da aspettarsi che Bush fiancheggi le politiche in voga alla Banca mondiale. Ma quando il comitato che assegna il Premio Nobel, le Nazioni Unite, e centinaia di agenzie internazionali per lo sviluppo si uniscono alle celebrazioni del microcredito quale chiave per ridurre la poverta' femminile, attraverso l'empowerment economico delle donne, noi abbiamo l'obbligo di verificare le premesse che stanno alla base di tali celebrazioni. I potenti che disegnano le politiche da seguire al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale, alla Federal reserve ed alla Casa bianca, condividono la visione che i mercati (ed in special modo gli scambi individuali che avvengono nei mercati) salveranno i poveri del mondo. Questa visione e' un dogma di fede per i neoliberali, sin da quando essi hanno aderito alla filosofia economica che sostiene che il capitalismo e i mercati senza alcun vincolo cureranno i mali del pianeta. Essa guarda alla poverta' come ad un problema di comportamento individuale. Tale era il quadro concettuale di Hoover durante la Grande depressione, quando proclamo' (sbagliando): "La prosperita' e' proprio dietro l'angolo". Il New Deal, invece, rigetto' gli appelli al "rude individualismo" ed istitui' politiche economiche - assistenza sociale, minimi di paga, sussidi per i disoccupati - disegnate per aiutare i lavoratori e le loro famiglie a contrastare la poverta' dovuta al fallimento dei mercati. * Le donne costituiscono il 70% delle persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, e che sono un miliardo e trecentomila. Milioni sono le donne agricoltrici, lavoratrici domestiche, impiegate nei settori cosiddetti informali. Negli ultimi vent'anni, la percentuale di donne che svolgono attivita' in proprio nel settore non agricolo e' aumentata globalmente dal 28 al 34%, e confrontandola con la percentuale di uomini nella stessa condizione, si nota che quest'ultima e' cambiata di poco, movendosi dal 26 al 27%. Le donne sono ancora la maggioranza mondiale dei lavoratori part-time, precari e temporanei, e ancora fanno il doppio di lavoro non retribuito rispetto agli uomini. Pure, i neoliberali aderiscono ad un granitico amore fondamentalista per il mercato che ignora le spiegazioni strutturali per le basse rendite delle donne e rigetta gli interventi politici tesi ad aiutarle. Infatti, il premio Nobel per la pace e' andato in una direzione totalmente diversa: a Mohammed Yunus, fondatore della Grameen Bank e propugnatore del microcredito. Nella devastazione che segui' la carestia in Bangladesh, nel 1972, Yunus vide che "i piu' poveri tra i poveri" non potevano accedere a prestiti perche' mancavano loro le garanzie. In risposta egli creo' "circoli di credito", assicurando debiti individuali alla responsabilita' collettiva di un gruppo. Questa innovazione permise alla Grameen Bank di offrire prestiti ad interessi minori rispetto a quelli richiesti dai prestatori locali e dagli strozzini. Solo ai membri dei circoli era permesso accedere ai prestiti della Grameen. Quando una donna di uno di essi non pagava il suo debito, le altre dovevano farsene carico, o avrebbero perduto tutte l'accesso a prestiti futuri. La Grameen, come le altre istituzioni che fanno microcredito, mena gran vanto degli effetti positivi della sua azione. Oggi essa presta circa 60 milioni di dollari al mese, in somme che vanno in media dai 20 ai 500 dollari e piu'. Dei sei milioni e novecentocinquantamila beneficiari dei prestiti, il 97% sono donne, dice il sito web della Banca. Ma il microcredito non e' una porta aperta ad opportunita' piu' vaste. Esso incoraggia le donne e i bambini a lavorare in casa cucendo e tessendo, assemblando giocattoli o componenti elettroniche, o allevando polli e capre. Questi impieghi dalle paghe basse richiedono lunghe ore di lavoro in condizioni non sempre felici. Spesso essi confinano le donne nelle case, o le espongono ai rischi di luoghi di lavoro primitivi e non sicuri, dove le loro attivita' agricole o i prodotti da loro fatti in casa devono essere trattati in un sistema informale ferocemente competitivo, privo di regole e inaccessibile alle leggi o alle istituzioni che proteggono i lavoratori, o che almeno tentano di assicurarsi che essi siano pagati decentemente per il loro lavoro. I dati sul settore informale sono difficili da ottenere, ma i ricercatori sono d'accordo sul fatto che in esso i lavoratori si infortunano dieci volte di piu' e si ammalano cento volte di piu', rispetto a coloro che si situano nel settore formale, come risultato delle condizioni in cui lavorano. Una stima fatta sui paesi sub-sahariani indica che il 19% di questi infortuni sul lavoro da' come risultato una disabilita' permanente. Un altro studio sull'Asia del sud riporta che il 40% dei lavoratori "informali" e' esposto all'azione di solventi tossici o pesticidi. Altre ricerche hanno indicato fra essi alti livelli di malattie muscolari, dello scheletro e respiratorie. Il quadro non e' incoraggiante. * "Una pace duratura non potra' essere raggiunta, sino a che larghi segmenti di popoli non troveranno modi di uscire dalla poverta'", ha detto il comitato per il Nobel, assegnando il premio a Yunus l'anno scorso, "La crescita economica e la democrazia politica non raggiungeranno il loro massimo potenziale sino a che la meta' femminile dell'umanita' non partecipera' ad esse allo stesso livello della meta' maschile". Ci riesce difficile immaginare qualcosa di piu' paternalistico che dare riconoscimento alla necessita' di eguaglianza economica per le donne conferendo un premio ad un economista maschio e conservatore. Cio' marginalizza anche i risultati ottenuti da Sewa (Self-Employed Women's Association of India), la prima organizzazione mondiale guidata da donne ad occuparsi di microcredito. A differenza della Grameen ed altre imprese, Sewa e' diretta da donne povere e si rivolge ad altre donne povere. Organizza le donne che lavorano nei settori informali di modo che esse possono ottenere sicurezza di introito, sicurezza alimentare, assistenza sanitaria, cura dei bambini e rifugi. La sua filosofia e' un'unione fra movimento dei lavoratori, movimento cooperativo e movimento delle donne, che tende ad assicurare alle donne che svolgono attivita' in proprio gli stessi diritti delle salariate, quali una paga minima, condizioni di lavori decenti e leggi per la protezione del lavoro. La prima presidente di Sewa, Ela R. Bhatt, ha ricevuto un premio per i diritti umani nel 2005, un premio che onorava il lavoro del gruppo in favore dei diritti delle donne povere, delle lavoratrici dei settori informali e non organizzati, e l'aiuto fornito a centinaia di venditrici ambulanti, raccoglitrici di stracci, fabbricanti di bastoncini d'incenso, per sconfiggere l'oppressione politica, sociale ed economica che subivano. L'approccio della Grameen Bank viene vantato come la panacea per la poverta' mondiale. Ma Bhatt, e milioni di membri di Sewa, sanno che non e' cosi'. Sanno che e' necessario per le donne definire e costruire le proprie campagne contro lo sfruttamento. Il vincitore del Premio Nobel per la pace e la Grameen Bank alimentano la credibilita' del mito neoliberale che prevede l'uscita individuale dalla poverta' tramite il duro lavoro? Si'. Questi programmi aiutano alcune donne ad uscire dai loro guai? Si'. Questi programmi metteranno fine alla crescente miseria delle donne piu' povere nel mondo? Per niente. * Per maggiori informazioni: - "Liberating Economics": www.press.umich.edu/titleDetailDesc.do?id=11867 - "Women's Union in India Battles State Charges": http://www.womensenews.org/article.cfm/dyn/aid/2610/ - Clean Clothes Campaign: www.cleanclothes.org/index.htm 3. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: IL PENSIERO DELL'ESPERIENZA [Dalla rivista telematica "Per amore del mondo" della comunita' filosofica femminile Diotima, n. 4, autunno 2006 (disponibile nel sito www.diotimafilosofe.it) riprendiamo il testo della relazione di Luisa Muraro al XII Simposio della Iaph, Societa' internazionale delle filosofe, svoltosi dal 31 agosto al 3 settembre 2006, a Roma presso l'Universita' degli studi Roma Tre. Luisa Muraro, una delle piu' influenti pensatrici viventi, ha insegnato all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997"] Un ostacolo che trovo da alcuni anni nel lavoro filosofico (e dunque nell'essere qui) e' costituito dalla tesi tipica di un certo poststrutturalismo, secondo cui "donna" e "donne" sono parole il cui significato appartiene alla cultura patriarcale e sarebbe di conseguenza effetto e tramite del dominio sessista. Mi sembra un nuovo tipo di cancellazione delle donne. Nel patriarcato, per avere esistenza, dovevo conformarmi ad un'immagine accettabile dalla societa' degli uomini, mentre ora sembra che, per disfare il patriarcato, io debba mettere fra parentesi il nome che do alla mia umanita', che e' donna. E' paradossale, perche' il mio interesse per la filosofia e' nato nell'atto stesso in cui ho potuto dire che io sono una donna al mio maestro di filosofia. L'ho gia' raccontato: erano i primi anni Settanta e un giorno lui mi disse: "Luisa, perche' vai con le femministe? tu sei homo". E appena lo disse, fu chiaro a entrambi che questo nome latino era puramente convenzionale, un abito che mi aveva messo con le migliori intenzioni, e che io in realta' ero quella che ero, nel suo come nel mio sentire, una donna. Dico "in realta'" non nel senso del realismo naturalistico, che proprio da lui, Gustavo Bontadini, ho imparato a disfare, ma nel senso del rendere conto fedelmente della propria esperienza mettendola in comune con l'altro grazie alla parola. Se credessi nella dialettica, potrei anche prendere in seria considerazione di negare che "io sono una donna", per attingere, mediante l'antitesi, un pensiero piu' ricco e comprensivo di quella che sono. Ma non ci credo, anzi non mi fido: temo che per questa strada si arrivi al femminismo senza donne. La faccenda e' piu' sofisticata di come la espongo, lo sappiamo, ma cio' non cambia i termini della questione come io me la pongo, ed e' che io non intendo scostarmi da quel modo di pensare nel quale le cose semplicemente capitano, le donne ovviamente esistono e io sono una di loro. Sia chiaro che la mia e' una presa di posizione politica, non filosofica. Ci sono contingenze storiche in cui l'agire politico precede: costatarlo e accettarlo, io la considero buona filosofia. Secondo me, c'e' una lotta da fare per difendere il linguaggio di tipo realistico contro il senso di irrealta' che minaccia la nostra esperienza. Per inciso, e' in questa luce che io vedo l'opera di Iris Murdoch, sia filosofica (Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature) sia letteraria. * Sul tema del senso di irrealta' che incombe sulla nostra esperienza, si e' scritto molto e non mi soffermo, basti un cenno. Consideriamo i ragionamenti con cui i politici europei, sui quali pesa l'eredita' di due guerre mondiali con quello che c'e' stato di mezzo, giustificano i sempre piu' facili bombardamenti contro la popolazione civile, dal 1999 in avanti. S'indovina che la loro mente e' spopolata di esseri viventi e ragiona come se le case e le citta' fossero a loro volta spopolate. Mi si puo' obiettare che io sto confondendo la postmodernita' distruttiva (la guerra) con le decostruzioni operate da un certo pensiero critico. Rispondo che non faccio una totale confusione ma una parziale sovrapposizione, si'. Parlando in maniera figurata, nella mia veduta il pensiero critico della postmodernita' "tiene compagnia" ai profondi cambiamenti della civilta' in corso, con tutto quello che questi hanno di distruttivo (salto le analisi storiche che pure sarebbero necessarie), cercando di portare in essi la luce della consapevolezza. E in questa grande vicinanza quel pensiero resta fatalmente contaminato, come capitava una volta ai direttori dei manicomi, quelli bravi, che diventavano a loro volta un po' pazzi. * Invitata a discutere sulla tesi postmoderna dell'inesistenza simbolica delle donne, in passato ho detto che mi sembra una manifestazione di ubris filosofica, ossia una specie di disprezzo verso il senso comune, cosa che i grandi filosofi hanno sempre saputo evitare. Non dunque un conflitto con il senso comune, che potrebbe essere fecondo, ma uno di quei casi in cui il pensiero ragionante non trova la sua misura e diventa pensiero futile. Ma questo argomento, anche se valido, non va oltre le esigenze di una polemica difensiva. Io stessa non credo che si tratti solo di un abuso filosofico. La cancellazione simbolica delle donne si manifesta anche nella lingua corrente. Mi riferisco in particolare all'Italia, dove, in contrasto con le forme proprie della nostra lingua, si sta diffondendo l'uso di lasciare cadere il genere grammaticale femminile per nomi di cariche e professioni, come avvocata, ministra, sindaca, o, in alternativa, si coniano forme femminili scorrette, come vigilessa, presidentessa. Ci sono donne che sembrano temere il ridicolo del genere femminile, ci sono uomini che non si danno la pena d'imparare le sue forme corrette. I tentativi di arrestare questa deriva verso l'indifferenziato, finora non hanno dato risultati. Il fenomeno in se' potrebbe sembrare di poco conto se confrontato alla guerra o altre distruzioni, come le violenze familiari su donne e bambini, o come le nuove forme di prostituzione. Non lo e' invece, di poco conto, perche' quello che e' pensiero e linguaggio entra in circolo con il reale, come sua interpretazione (perche' ricordiamolo, non c'e' una realta' in se', separata e indipendente dal pensiero, ma una realta' che si mostra e si da' da conoscere secondo le mediazioni che trova). Giustamente, secondo me, la scrittrice Clara Sereni, sul quotidiano "L'unita'", ha creduto di poter stabilire un rapporto diretto tra i titoli al neutromaschile di cui si rivestono le donne che fanno carriera, e le violenze domestiche patite da altre, anonime. * Il problema diventa allora quello di trovare il punto d'arresto, per impedire che la critica risulti un pensare futile e che il campo sia tutto occupato dalla distruzione reale. Io ora sosterro' che questo punto d'arresto e' stato trovato dalla pratica politica delle donne di raccontare l'esperienza, e si trova nel fare riferimento all'esperienza con il sentimento e la fiducia di poterla interpretare da se' e di farne cosi' il mondo comune di un'esperienza personale. Aggiungo, senza potermi soffermare, che questa capacita' di trovare il punto d'arresto del disfieri, e' collegata ad un pensare che non e' mai solo ragionante (vigile) ma sempre anche senziente (dormiente), pena la sua insania, secondo una veduta che mi ha ispirato la lettura di W. R. Bion, Learning from Experience. Il mio argomento consistera' nella lettura e commento di un breve testo, l'ultimo capoverso di un noto saggio di Joan W. Scott, The Evidence of Experience ("Critical Inquiry", 17, Summer 1991, pp. 773-797), che in italiano si traduce con La prova dell'esperienza, senza escludere l'evidenza, stante la polisemia dell'inglese "evidence". Dopo aver analizzato criticamente l'uso della nozione di esperienza, l'autrice, respingendo la conclusione ovvia, scrive: "Non possiamo fare a meno della parola esperienza, pretendere la sua espulsione sarebbe futile" (io sottolineo). Porta poi delle ragioni, ma prima va sottolineata questa schivata (dodge) finale rispetto alla fila di argomenti critici che lei stessa aveva portato, tutti tipicamente strutturalisti (e in parte condivisi da me). Vediamo le ragioni per cui si arresta davanti alla conclusione che sembrava logica di eliminare l'esperienza. Questa parola, scrive, e' intrecciata con il linguaggio quotidiano, e' incastrata nelle nostre narrazioni, ci serve per parlare di quello che accade. Serve (e qui c'e' un richiamo alla pratica femminista) a "reclamare una conoscenza inoppugnabile (unassailable)", citando da un typescript intitolato Experience, Difference and Dominance in the Writings of Women History di Ruth Roach Pierson. Implicitamente, qui si pone la questione se questo reclamare una conoscenza inoppugnabile in nome dell'esperienza, sia una pretesa vana o fondata e valida. La risposta di Joan Scott, poste alcune condizioni che qui non esamino, e' positiva, si tratta di una pretesa valida, e l'argomento che porta e' filosofico, scientifico e politico insieme. Cito: "L'esperienza e' sempre, al tempo stesso, gia' un'interpretazione e qualcosa che ha bisogno di essere interpretato" ("Experience is at once always already an interpretation and something that needs to be interpreted", "Critical Inquiry", 17, Summer 1991, p. 797). Alla luce di questa nozione di esperienza, il pensiero dell'esperienza e' quel pensiero (non necessariamente filosofico, come si e' giustamente detto) che s'innesta fra il gia' interpretato e il non ancora, in un intervallo che e' inesauribile (at once always). Sempre gia' interpretata, l'esperienza domanda sempre di essere interpretata. Non si tratta di un infinito scorrere del tempo dal futuro al passato (come puo' far credere quel "sempre" inteso storicisticamente) ma di un rilancio qui e ora, il cui movente e' la domanda di senso. Domanda che spesso e' non udibile o non sostenibile, purtroppo. Spesso il gia' interpretato satura di se' il non ancora. Spesso, il soggetto che cerca esistenza, soccombe al gia' pensato dell'altro. Percio', quell'innesto del pensiero che dicevo, comporta, spesso o sempre, una vera e propria rottura in una sequenza che di suo andrebbe avanti senza discontinuita' dal gia' interpretato al non ancora, saturandolo e tacitando il soggetto. E' una caratteristica di tutto quello che e' organizzato in funzione di un voler durare; potremmo etichettarla come maternalismo del potere. Una rottura, dunque, rispetto a quello che pretende di essere l'interpretazione giusta, e anche rispetto ai dispositivi simbolici e materiali della "giusta interpretazione". Lo strutturalismo, per esempio un Michel Foucault, e' andato molto a fondo nell'analisi di questi dispositivi. Troppo, mi viene da dire, nel senso che e' andato cosi' avanti da rendere impensabile l'accadimento di un pensiero nuovo. Da questo punto di vista, trovo notevole la schivata di Joan Scott, nell'ultimo capoverso di The Evidence of Experience. Ha saputo trovare il punto di arresto della decostruzione che altrimenti rischia di confondersi con la distruzione. * Per finire, torno sul reclamo ad una conoscenza inoppugnabile fatto in nome dell'esperienza. Esso e' valido e fondato nonostante che non si dia conoscenza di valore assoluto. Il reclamo ha valore assoluto, glielo da' l'esperienza che domanda di essere significata non da una macchina simbolica gia' predisposta ma da un vivente senziente parlante. L'esperienza non fornisce prove, la sua evidenza non e' una prova. Essa semplicemente chiama il soggetto, diciamo pure che lo fa nascere, lo chiama alla presa di parola e lo sostiene nella sua pretesa di dire qualcosa di vero. E non e' un soggetto neutro o neutrale, e' un vivente che, grazie al linguaggio, insieme ad altre, altri, rende conto di cio' che a lui, a lei si manifesta. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 93 del 15 marzo 2007 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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