Nonviolenza. Femminile plurale. 89



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 89 del 9 novembre 2006

In questo numero:
1. Il nudo, il velo, il morto
2. Guido Rampoldi: Dietro il velo
3. Annamaria Rivera: Sotto il velo, un volto
4. Ida Dominijanni intervista Etienne Balibar
5. Bia Sarasini: Il velo, la liberta' femminile, la differenza
6. Alcune letture utili

1. EDITORIALE. IL NUDO, IL VELO, IL MORTO

E' lo sguardo maschile, che e' unghiuto, uncinato, rapace.
E' il potere maschile che e' violento e assassino.
In quanto imposti alle donne dal potere dei maschi, sia la forzata nudita'
che il forzato coprire il corpo sono atto di dominazione, gesto violento,
che reifica e aliena, che mercifica e schiavizza, che denega liberta', che
lacera e sbrana umanita'.
Il nocciolo della questione non e' dunque in astratto la sovrapposizione al
corpo di una stoffa o di essa l'assenza, e' in concreto il patriarcato
assassino.
La lotta contro il patriarcato, la lotta contro l'oppressione, la lotta
contro la violenza, la lotta contro la guerra: e' il compito dell'ora
dell'intera umanita', dell'unica umanita', fatta di donne e di uomini, ogni
persona differente da ogni altra, ogni persona ad ogni altra uguale in
diritti e dignita'.

2. DOCUMENTAZIONE. GUIDO RAMPOLDI: DIETRO IL VELO
[Dal sito della "Libreria delle donne" di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso sul quotidiano "La
Repubblica" del 22 ottobre 2006. Guido Rampoldi e' inviato speciale ed
editorialista del quotidiano "La Repubblica". Opere di Guido Rampoldi:
L'innocenza del male. Il volto dello sterminio, Laterza, 2002; L'innocenza
del male. Dalla guerra fredda all'Iraq, Laterza, 2004; I giacimenti del
potere. A chi appartiene oggi il potere, Mondadori, 2006]

Sul litorale a nord di Tunisi quella strana pudicizia modaiola si manifesto'
intorno all'anno 2000, quando alcune ragazze presero a indossare braghette
da ciclista sopra il bikini. L'anno seguente le braghette nere erano ancora
popolari; allora si diffuse l'abitudine di fare il bagno con quelle e con
una t-shirt abbastanza corta da lasciar vedere l'ombelico. Poi comparve il
foulard, bianco e stretto come una cuffietta da nuotatore. L'estate scorsa,
nei giorni della guerra del Libano, a braghette, t-shirt e cuffietta s'e'
aggiunto un velo nero, il nero adesso di gran moda, il "nero Hezbollah".
L'ombelico e' ancora conteso tra l'eros e la morale, ma in una spiaggia dove
dieci anni fa tutte le ragazze portavano il due pezzi, in agosto Leila e le
sue amiche erano le uniche a resistere, attruppate come un plotone sul punto
di soccombere. Altrove l'avversario e' numericamente esiguo: nel centro di
Tunisi raramente vedi una donna con il capo coperto, e da una settimana la
polizia e' tornata a sorvegliare che il velo non entri in uffici pubblici,
ospedali, scuole e universita'.
Ma non saranno misure repressive a bloccare un cambio d'atmosfera per il
quale anche la Tunisia si sta allineando alla tendenza islamizzante. I piu'
misurano il dilagare di questi costumi giovanili al tempo stesso spensierati
e penitenziali, civettuoli e bigotti, con le foto ingiallite del presidente
Bourghiba mentre aiuta una tunisina a togliersi il velo: per sempre, si
pensava allora. La nazione era nata, nel 1956, secolare e socialista. Oggi
si discute se fuori dalla capitale le ragazze velate siano ormai
maggioranza.
Quando si domanda cosa sia accaduto in questo mezzo secolo al suo Paese,
tuttora la piu' laica tra le nazioni arabe, ma sempre meno diversa da
quelle, Leila cerca risposte negli eventi successivi all'11 settembre: la
guerra in Iraq, Gaza, la crisi dell'Olp che affonda il laicismo arabo,
l'ascesa di Hamas e di Hezbollah, adesso il Libano... ma piu' spesso Leila
trova spiegazioni sull'altra sponda del Mediterraneo, nel continente che
fornisce alla Tunisia nuove braghette e nuove frustrazioni, foulard e
rabbia, veli e islam in varia foggia: la nostra Europa.
*
Siamo nel centro di Tunisi, a due passi da piazza dell'Indipendenza, dove la
cattedrale cattolica e la statua del filosofo musulmano Ibn Khaldoum
convivono serenamente sotto un cielo oggi molto tunisino, d'un azzurro cosi'
acceso da sembrare verniciato di fresco. In strada un altoparlante
inarrestabile fiotta versetti del Corano sul viavai di teste davanti alla
stazione centrale. "Un anno fa non c'era, adesso non tace neppure di notte",
dice Leila chiudendo la finestra. Poi torna a raccontare di quell'islam
nuovo che arriva in Tunisia ogni estate. Arriva durante le vacanze, con gli
emigranti che tornano dalle periferie francesi e tedesche, da un'Europa in
cui non riescono a trovare un avvenire. Sono giovani e incolti. La fede
dolorosa che portano come un cilicio, la religione appresa dai missionari
islamici nelle aspre terre dell'emigrazione, insegna che "tutto e' peccato",
dunque la vita e' amara, il piacere indebito, il male ovunque e l'inferno
sempre in agguato. Quell'islam cupo attecchisce rapidamente nelle citta'
tunisine, colonizza luoghi di culto, snatura la tradizione, stravolge la
dottrina. Cosi' il padre di Leila, che pure e' molto pio, non va piu' in
moschea. "Non riesce piu' a riconoscere la sua fede in quella religione
della paura, della durezza e della proibizione". Tutte controllate dalla
polizia, le moschee non osano incitare le donne a mettere il velo. A questo
provvedono reti di beghine. Avvicinano le ragazze e le invitano a coprirsi
perche' cosi' vogliono, ammoniscono, la religione e il decoro. "Nei villaggi
e nei quartieri dove in maggioranza le donne sono velate chi decide di
resistere alla pressione sociale deve mettere nel conto d'essere molestata
dai maschi, segnata a dito. Non e' facile".
Piu' spesso sono decisivi fratelli e fidanzati. Leila insegna in una
facolta' della Manouba', la piu' cosmopolita universita' tunisina, e un
terzo delle sue studentesse portano il velo islamico, in genere drappeggiato
secondo la moda del momento. Quando Leila le prende da parte e chiede
perche', perche' da un anno all'altro siano passate dalla minigonna
all'uniforme islamica, di solito quelle premettono: nessuno m'ha costretta.
"Quasi sempre e' la prova del contrario". Piu' raro che a obbligarle siano i
padri. "Con le giovanissime accade l'opposto: mettono il velo per contestare
i genitori, che invece lo rifiutano. Per l'ultima generazione il velo sta
diventando ovvio come i blue-jeans". Poi influisce la televisione. Le grandi
tv satellitari. Le soap-opera egiziane con le attrici velate. E i
telepredicatori, innanzitutto l'egiziano Amr Khaled, un teologo incravattato
come un piazzista che ipnotizza i ceti medi col suo pietismo perbenista. Ma
soprattutto pesa, dice Leila, "la stupidita', mi scusi, di voi europei". "Al
di la' di ogni limite", s'incupisce una sua collega, anche lei docente
universitaria a Tunisi. Cosa abbiamo combinato? "Quel vostro modo grossolano
di discutere del velo: allucinante. A me il velo ripugna, ci vedo qualcosa
di fascista. Ma se in Europa lo proibite nel modo piu' rozzo e punitivo, ne
fate inevitabilmente un simbolo dell'identita' araba: a quel punto metterlo
diventa un punto d'onore, non metterlo una vilta'. Per vietarlo finirete per
imporlo ad un'intera generazione d'immigrate".
*
Avremo pure qualche attenuante. Da quasi venti secoli il velo e' una
faccenda molto complicata. Coinvolge l'assoluto. I conflitti tra culture,
come si dice adesso. E molto piu' la politica, i conflitti tra classi e tra
generazioni. Perche' durante l'impero le prime cristiane cominciarono a
coprirsi la testa, proprio su questi litorali? Per manifestare contro
un'oligarchia corrotta e unirsi per scalzarla, lo stesso motivo per cui
molti secoli dopo s'e' velata la piccola borghesia egiziana ostile a
Mubarak? Per distinguersi dalle scarmigliate contadine, cosi' come in
seguito le borghesi tunisine si misero il velo bianco poi abolito da
Bourghiba? Per devozione? Per rivendicare un'identita' etnica, latina,
contro i berberi nativi? Perche' convinte da santi predicatori? Per paura
della Chiesa e dei suoi ulema tonanti?
Comunque sia andata, nel settimo secolo, quando apparve Maometto, le donne
delle terre oggi arabe erano gia' intabarrate: dunque l'islam non invento'
il velo, lo eredito'. E con quello eredita' una tricomachia, o guerra delle
chiome, in cui s'erano distinti alcuni grandi teologi cristiani.
Innanzitutto Tertulliano, che studio' e forse insegno' proprio qui a Tunisi
quando questo era il secondo porto dell'impero (si chiamava Cartagine, la
Cartagine ricostruita da Augusto sulle rovine di quella rasa al suolo da
Scipione). A cavallo tra il secondo e il terzo secolo, Tertulliano scrisse
parole roventi sulle scostumate che mostrano il viso agli sconosciuti.
Invito' soprattutto le sposate a rigar dritto. "Noi vi ammoniamo... a non
deviare dalla disciplina del velo, neppure un attimo, perche' non potete
rifiutarlo... a giudicarvi saranno le donne dell'Arabia (la penisola
arabica, all'epoca pagana, cristiana o giudaica) che coprono non solo la
testa, ma anche la faccia, cosi' interamente che preferiscono guardare con
un occhio solo che prostituire l'intera faccia. Una donna dovrebbe guardare
piuttosto che essere guardata". E sul fatto che le vergini non dovessero
mostrarsi in giro: "L'essere esposte allo sguardo altrui... e' come uno
stupro... e anzi la violenza carnale e' meno malvagia perche' e' naturale".
Tertulliano era cosi' arcigno perche' non solo la morale del tempo, ma
soprattutto le Scritture, da Timoteo alle Lettere ai Corinzi, negavano alle
donne gli stessi diritti dell'uomo; e i suoi precetti ("ad una donna non e'
permesso parlare in una chiesa, ne' insegnare, ne' battezzare, ne'
officiare") sono tuttora nella dottrina cattolica. Dunque non ha tutti i
torti Islamonline, il sito web che perfidamente ripropone i brani di
Tertulliano (in inglese) con lo scopo di dimostrare che il velo e' nel solco
d'una tradizione ne' araba ne' musulmana. Piu' complicato risulta
all'islamismo cibernetico convincere le internaute a coprirsi il capo. Su
Islamonline motivazioni a iosa, ma tutte acrobatiche. Il velo proteggerebbe
diritti cui le occidentali rinuncerebbero rendendosi schiave delle mode, del
trucco, del parrucchiere, del loro corpo. Segnalerebbe il rifiuto di "valori
inaccettabili all'islam, che invece eleva le donne alla posizione di onore e
rispetto". E soprattutto sarebbe lo stendardo della propria "civilta'". Ma
qual e' la "civilta'" della Tunisia?
*
L'universita' dove Leila insegna, La Manouba', e' nota, tra l'altro, per il
suo "Laboratorio di storia plurale", dove docenti e alunni possono smontare
l'identita' nazionale negli elementi che l'hanno composta: la Tunisia e'
stata punica, romana, ebrea, berbera, araba, turca, francese (e mai
pienamente tunisina, aggiunse uno storico). A questo deve la sua preziosa
diversita'. Ma il Laboratorio oggi rischia di diventare un perditempo, una
bizzarria. Come infatti l'Europa tende a chiudersi in un'identita'
"cristiana" o "giudaico-cristiana", impoverendo una storia ben piu' ricca,
cosi' la Tunisia si sta calando dentro un'identita' "arabo-islamica" che
oscura volutamente il resto.
E' una tendenza cui alcuni resistono, come si ricava dai forum ospitati da
internet, cui i laici affidano le proprie apprensioni. L'arabo-islamita' e'
"il cimitero della nostra cultura", scrive uno. E un altro: "Quando le
truppe arabe sono arrivate in Tunisia, hanno trovato o no una popolazione
autoctona, berbera? E dunque, perche' dovremmo sentirci arabi?". Ma questi
appelli a evadere dalla prigione dell'arabo-islamita' sono minoritari.
Comunque non hanno piu' fortuna di quanta ne ebbe Bourghiba quando tento' di
proporsi come il nuovo Giugurta, il re numida che condusse una guerriglia
tenace contro l'impero romano. La metafora non-islamica lascio' freddi i
tunisini e Bourghiba l'abbandono'.
*
Secondo Leila la Tunisia plurale comincio' a perdere la partita con
l'arabo-islamita'' negli anni Ottanta, quando, per effetto d'una
arabizzazione dell'insegnamento necessaria ma condotta in modo imprevidente,
gli insegnanti di filosofia, in genere francofoni, furono sostituiti da
teologi che conoscevano bene l'arabo: inevitabilmente islamizzarono il
pensiero tunisino. Pero' decisivi furono gli eventi successivi. Con uno
stato di polizia tra i piu' occhiuti il presidente Ben Ali, che nel 1987
depose Bourghiba, ha represso l'islamismo ed evitato al Paese una catastrofe
algerina: ma allo stesso tempo ha impedito un'evoluzione verso uno stato di
diritto trasparente. Ufficialmente vince ogni elezione con percentuali tra
il 94 e il 99% ma nella realta' non e' riuscito a fermare il lavorio
dell'islamismo. Ora s'affida alla circolare 108 contro il velo che aveva
promulgato nel 1990, l'anno della caccia ai fondamentalisti, e in seguito
dimenticata nei cassetti, al punto che tre anni fa una sua figlia era
apparsa velata in tv. Ripristina quella proibizione adesso per impedire che
il "nero Hezbollah" dilaghi, o per segnalare ai governi europei che la sua
Tunisia e' dalla loro parte.
Ma non e' piu' uno stato laico che difende la propria identita'. Piuttosto,
comincia a somigliare all'ennesimo regime "moderato" in ritirata che per
sopravvivere cerca di strappare la bandiera dell'"islam autentico" dalle
mani degli islamisti. Cosi' mentre Ben Ali soffiava via la polvere dal
decreto 108 confermando "il nostro attaccamento alla sublime religione
islamica", la sua censura vietava Corpi in ostaggio, una piece teatrale che
racconta il percorso classico d'una tunisina dalla sinistra rivoluzionaria
all'uniforme islamista, in quanto "attenta alla morale e alla religione". E'
assai dubbio che Tunisia ed Europa riescano a fermare il "nero Hezbollah"
con queste misure. Soprattutto se nel frattempo continueranno a velare la
verita' con gli antichi drappi delle religioni e delle "civilta'".

3. RIFLESSIONE. ANNAMARIA RIVERA: SOTTO IL VELO, UN VOLTO
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso sul quotidiano "Il
manifesto" del 9 settembre 2004. Annamaria Rivera (per contatti:
annamariarivera at libero.it), antropologa, vive a Roma e insegna etnologia
all'Universita' di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani
di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la
ricerca con l'impegno sociale e politico. Attiva nei movimenti femminista,
antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi
attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l'analisi delle
molteplici forme di razzismo, l'indagine sui nodi e i problemi della
societa' pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di
concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi. Fra le opere di Annamaria
Rivera piu' recenti: (con Gallissot e Kilani), L'imbroglio etnico, in
quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001; (a cura di), L'inquietudine
dell'Islam, Dedalo, Bari 2002; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza
razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003; La guerra dei simboli. Veli
postcoloniali e retoriche sull'alterita', Dedalo, Bari 2005]

Quando ho incontrato Alma per la prima volta mi sono sorpresa, benche' su
rotocalchi e quotidiani francesi ne avessi visto le foto che la ritraggono
insieme alla sorella Lila. Malgrado l'evidenza di quelle foto, la immaginavo
col capo coperto da un semplice hijeb. Piu' volte abbiamo detto e scritto
contro la drammatizzazione, isterica e interessata, di un pezzo di tessuto:
per questo, forse, il "velo islamico" delle ragazze francesi mi si era
fissato in mente per lo piu' nell'immagine di un banale foulard. Alma,
invece, mi viene incontro avvolta nello jilbeb, un abito costituito da piu'
pezzi che la copre dalla testa ai piedi, fronte compresa. La vivacita' dello
sguardo - grandi occhi verdi - e il sorriso schietto - belle labbra
carnose - spiccano nella cornice del tessuto dai colori spenti: un'icona da
madonna rinascimentale che si trasmuta in un quadro surrealista.
*
La guerra dei simboli
Alma arriva al Meeting antirazzista di Cecina, organizzato come ogni anno
dall'Arci, per partecipare a un convegno sulla "guerra dei simboli". E'
accompagnata dal padre Laurent, un avvocato parigino - ebreo, ateo,
comunista - che ha posto le sue competenze al servizio di un'associazione
antirazzista, il Mrap, e ha messo a repentaglio la sua professione nella
strenua difesa del diritto delle figlie di frequentare la scuola pubblica a
capo coperto. Anche Laurent mi sorprende: l'avevo immaginato un po'
contegnoso e scostante come sanno essere certi intellettuali comunisti e
invece trovo una persona tanto colta quanto umile, diretta e comunicativa,
anticonformista e irriverente verso ogni ortodossia, ironica e affettuosa,
dotata di un senso dell'umorismo travolgente. Affabulatore consumato,
Laurent e' una miniera di blagues d'ambiente ebraico ed e' la perfetta
incarnazione di un cosmopolitismo che affonda le radici in un'antica storia
familiare di mixite'. Saranno state queste doti a salvarlo dalla catastrofe
personale. Dev'essere stato devastante, immagino, fronteggiare l'ondata
d'isteria politica - cosi' l'ha definita Emmanuel Terray - che ha
accompagnato il percorso verso la legge sul velo e al tempo stesso difendere
le figlie, tentare di scongiurare la loro definitiva espulsione dalla scuola
pubblica, proteggerle e proteggersi dall'invadenza mediatica. E il futuro
non e' roseo per i tre Levy: alla riapertura delle scuole, i portoni restano
chiusi per Alma e Lila; per Laurent si sono gia' chiusi non pochi spazi
professionali. E poi il dilemma paradossale con cui misurarsi: escluse le
scuole musulmane, gli unici licei disposti ad accogliere le due ragazze col
velo sono quelli cattolici...
Il paradosso accompagna da alcuni anni la vita di Laurent. "Nel 1989, quando
scoppio' il primo affaire del velo a partire dal caso del liceo di Creil,
chiesero la mia opinione in un'intervista. Risposi, un po' schematicamente,
che portare il velo a scuola mi sembrava un'idiozia ma che non avrei espulso
dalla scuola quelle ragazze. Allora, Alma e Lila avevano due e quattro anni
e mai avrei potuto immaginare che avrebbero scelto quella strada". Fra le
tante appartenenze e culture che popolano il loro universo familiare, Alma e
Lila ne hanno scelta una e l'hanno coerentemente estremizzata attraverso un
segno identitario inequivoco. Ne' piu' ne' meno di quel che fa la gran parte
degli adolescenti alla ricerca, spesso sofferta, di un'identita' autonoma da
quella dei genitori. Non poche volte quella ricerca dolorosa si rappresenta
tramite segni ostentatori i piu' svariati ed estremi. Ma chi potrebbe
sostenere che lo jilbeb di Alma e Lila significhi sottomissione al dominio
maschile e adesione a un'ideologia integralista? E in ogni caso, alla scuola
pubblica non spetta anche aiutare gli adolescenti a elaborare positivamente
i conflitti della crescita attraverso la conoscenza e lo spirito critico? A'
da passa' 'a nuttata, direbbe Laurent se conoscesse il napoletano, ma e'
esattamente questo che vuol dire. Cosi' ragioniamo Laurent ed io, mentre la
luce del tramonto illumina di sfumature rosate il severo jilbeb di Alma che,
sorridente, corre incontro ai giovani amici del Meeting.
Nella cornice di liberta' del Meeting antirazzista, tutto assume un senso
diverso che nell'abituale contesto quotidiano ammorbato da guerre
ideologiche, martellamenti mediatici, ossessiva costruzione di nemici. In
questo spazio pubblico liberato, Alma riacquista la propria umanita', la
propria semplice identita' di diciassettene intelligente, curiosa, inquieta.
Non e' piu' "un caso", e' solo un'adolescente, certo un po' speciale ma non
troppo nel contesto francese: una famiglia in cui sono rappresentate le due
sponde del Mediterraneo, i genitori separati, la ricerca di un proprio
riferimento identitario, "un particolare senso del pudore", come aggiunge
Laurent.
Qui nessuno la guarda con sconcerto o curiosita'. Per i ragazzi e le ragazze
che prestano lavoro volontario nello stand che accoglie i partecipanti, Alma
e' solo una coetanea che ha scelto una "tendenza" originale. Con loro
trascorre molte ore al giorno, scherza, fa da interprete, impara qualche
rudimento della lingua italiana, insegna un po' di francese e di arabo... E
gli adulti del Meeting tutt'al piu' eccedono in atteggiamenti protettivi,
attenti a non mostrarsi sorpresi quando Alma piu' volte al giorno chiede
dove sia la direzione della Mecca e quando talvolta, rapita dalla bellezza
di un tramonto, si raccoglie a salmodiare in arabo.
*
Per le vie di Volterra
Ma basta uscire dal recinto di quello spazio pubblico perche' tutto si
svolga in modo prevedibile. Noi stessi che l'accompagniamo diventiamo meno
sicuri fuori del Meeting e ci comportiamo con un certo imbarazzo. Non del
tutto infondato: un giorno, il direttore dell'alberghetto in cui alloggiano
i Levy non riesce a reprimere sconcerto e irritazione e la tratta in modo
villano se non razzista. E una breve gita a Volterra con Laurent e Alma -
lui che sembra il cliche' d'un bretone, lei quello d'una giovane saudita -
ci costringe a vederci come gli altri ci vedono, girandosi per strada a
guardarci con insistenza: dei vecchi fricchettoni europei che s'accompagnano
con un'adolescente araba e "integralista". In stazione, due suorine gentili
ammirano la mise di Alma - che carina! - e mi chiedono di lei; e quando
racconto in sintesi la sua vicenda deplorano "il razzismo intollerabile
delle societa' europee".
"Un particolare senso del pudore", dice Laurent, alludendo all'idea che lo
jilbeb possa essere anche un modo per sublimare un rapporto complicato col
proprio corpo. I sensi del pudore irrompono nel Meeting e travolgono il
convegno sulla guerra dei simboli. Vi si discute anche di mutilazioni dei
genitali femminili e alcune donne originarie di paesi africani in cui si
praticano non accettano che se ne parli pubblicamente, freddamente e in
presenza di maschi, che oltre tutto osano prendere la parola. In verita', la
controversia, che assume toni assai accesi, non e' soltanto intorno al che
fare, non riguarda solo l'alternativa fra rifiuto assoluto e riduzione del
danno. Chi ha subito mutilazioni, o proviene da un ambiente in cui si
praticano, per pudore preferisce il silenzio oppure una parola che sia
sommessa, rispettosa, partecipe, intima, condivisa: prima di ogni presa di
posizione pubblica.
Pretesa assurda in un universo semantico ove tutto dev'essere svelato, ove i
corpi nudi torturati e pornificati in serie fanno meno scandalo dei corpi
femminili velati, ove gli unici segni ostentatori consentiti sono quelli del
capitale: le marche, le firme, le mode anche estreme, compreso il piercing
piu' mutilante, purche' siano espressione della religione del mercato o da
essa siano benedette. La volonta' d'infliggere all'altro l'impudicizia
radicale, per rubare la formula a Baudrillard: in filigrana si potrebbe
leggere anche questa fra le motivazioni inconsce che hanno spinto la
commissione Stasi a suggerire la legge detta sul velo e il parlamento
francese ad approvarla a larga maggioranza.
Certo, nessuno puo' negare che la Francia sia sinceramente preoccupata di
difendere la laicita'. Ma il caso delle giovani cittadine francesi Alma e
Lila, per quanto peculiare, sintetizza in modo esemplare tutti i dubbi, i
nodi, le aporie di quella legge. E, ben piu' al di la', allude a un intrico
di questioni proprie di societa' sempre piu' complesse e plurali che
rifiutano o stentano a negoziare con la propria crescente pluralita'. E che
esteriorizzano le proprie inquietudini, paure, contraddizioni, problemi
sociali nel fantasma di un islam compattamente e ovunque aggressivo e
minaccioso. Il formalismo radicale della laicita' potrebbe cosi' divenire
l'alibi per eludere la domanda fondamentale: come costruire una convivenza
fra eguali e diversi, non rinunciando ad alcuni principi basilari condivisi?
In uno spazio pubblico temporaneamente liberato da ossessioni e angosce
collettive, da eterofobia e manipolazioni sicuritarie, il velo d'una ragazza
francese un po' speciale e' solo, come nella Vita variopinta di Kandinsky,
un sapiente tocco di pennello che allude alla crescente e vivace varieta'
del mondo.

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA ETIENNE BALIBAR
[Dal sito della Libreria delle donne di Miano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente intervista originariamente apparsa sul quotidiano
"Il manifesto" del 4 settembre 2004 col titolo e l'occhiello seguenti:
"Europa e islam. Quel velo sulla Repubblica. Intervista a Etienne Balibar.
La legge francese sul velo come cartina di tornasole della crisi della
laicita' in una democrazia transnazionale e postcoloniale. Dove i conflitti
sulla differenza sessuale si intrecciano con quelli relativi alle differenze
culturali e religiose e le donne rischiano di diventare una posta in gioco
passiva" .
Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia
sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale
femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di
liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania
Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005.
Etienne Balibar, pensatore francese, nato nel 1942, docente di filosofia
alla Sorbona, collaboratore di Althusser, ha fatto parte del Pcf uscendone
nel 1981 in opposizione alla politica del partito comunista francese iniqua
verso gli immigrati; impegnato contro il razzismo, e' uno degli
intellettuali critici piu' lucidi nella denuncia delle nuove e pervasive
forme di oppressione e sfruttamento. Tra le opere di Etienne Balibar: (con
L. Althusser ed altri), Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano; Le
frontiere della democrazia, Manifestolibri, Roma; La filosofia di Marx,
Manifestolibri, Roma; (con I. Wallerstein), Razza, nazione, classe, Edizioni
Associate, Roma]

"Il problema e' che cosa accadra' in questi giorni col ritorno in classe
delle 'ragazze velate', e la cosa e' largamente imprevedibile.
Indipendentemente dai fatti drammatici dell'ultima settimana, resta evidente
che la legge sulla laicita' non regola nessuno dei problemi di fondo cui
allude: ne' quelli relativi alla concezione della laicita' in una societa'
transnazionalizzata, ne' quelli che riguardano lo statuto individuale e
collettivo dei discendenti degli immigrati in una societa' post-coloniale".
Per biografia e formazione - le sue critiche alla politica del Pcf
sull'immigrazione che gli valsero l'espulsione dal partito nel 1981, la sua
attenzione costante alle lotte dei migranti negli anni Ottanta e Novanta, il
suo lavoro teorico sulla riqualificazione dell'universalismo nelle societa'
solcate dalle differenze etniche e culturali, la sua recente e ricca
elaborazione di un'idea di Europa anti-identitaria e aperta all'alterita' -
Etienne Balibar e' certo uno degli intellettuali francesi piu' attrezzati a
interpretare la fitta trama di questioni che si agitano dentro, sotto e a
lato della legge francese contro l'uso del velo e degli altri segni di
appartenenza religiosa, legge oggi al centro del drammatico ricatto sulla
vita dei due giornalisti francesi sequestrati in Iraq. E infatti alle
valenze simboliche del conflitto sull'uso del velo Balibar e' attento fin
dall'89, quando il preside del Collegio di Creil escluse due studentesse
dalal scuola. E contro la legge voluta da Chirac si e' espresso fin da
subito, firmando con altri intellettuali la petizione "Si' alla scuola
laica, no alle leggi di emergenza". Un suo denso saggio sull'argomento e'
apparso nel volume collettivo Le foulard islamique en question (a cura di
Charlotte Nordmann, Ipam 2004), e sara' pubblicato sul numero di ottobre de
"La Rivista del Manifesto".
*
- Ida Dominijanni: Pensi che il conflitto fra lo Stato francese e le
comunita' islamiche si intensifichera' nei prossimi mesi?
- Etienne Balibar: Non e' detto: gli eventi del Medio Oriente potrebbero al
contrario portare le comunita' a tenere basso il profilo delle
rivendicazioni. Gia' qualche mese fa, quando la legge fu approvata, una
comunita' che si rifa' ad Al Quaeda o si e' presentata come tale, aveva
minacciato la Francia di rappresaglie, ma salvo una piccolissima minoranza
di integralisti i musulmani francesi, anche quelli fondamentalisti, non
apprezzarono la cosa. A maggior ragione oggi la paura dell'assimilazione ai
terroristi - paura in parte indotta dall'islamofobia dilagante - spingera'
la "comunita' musulmana", o meglio i gruppi e i segmenti assai eterogenei
che la compongono, a esplicitare la loro appartenenza alla nazione francese
e a marcare fortemente la loro rottura con il terrorismo, i rapimenti
eccetera. Che d'altronde la maggioranza dei musulmani condanna radicalmente.
Penso che le ragazze reagiranno alla stessa maniera - il che non esclude che
scoppino comunque dei drammi individuali. Tutto questo fa il gioco,
comunque, della politica del governo francese e in particolare del ministro
per l'educazione nazionale. E bisognera' vedere se il governo e il corpo
insegnante, mobilitati su "posizioni di principio", riusciranno a evitare di
fare fronte comune e di pensare che gli avvenimenti diano loro ragione e
facciano loro guadagnare dei punti nel controllo delle ragazze musulmane o
nella eternizzazione del "modello francese".
*
- Ida Dominijanni: Del "modello francese" la laicita' e' un pilastro
cruciale. Nel tuo saggio tu scrivi pero' che la legge sul velo, invece di
rafforzarlo, rischia di mostrarne le crepe irreversibili. Dove sta la crisi
del valore della laicita'?
- Etienne Balibar: Molto dipende dal modo in cui la parola "laicita'" viene
usata - non a caso in tedesco e in inglese si usa piuttosto il termine
"secolarizzazione", che ha un significato diverso. E' noto che lo stato
moderno ha costruito la sua egemonia vincendo sulle guerre di religione,
imponendo una identita' civile e laica su appartenenze e comunita' religiose
che venivano soppresse o quantomeno relativizzate e relegate nella sfera
privata. La costruzione politica dello stato nazionale implica questa
svalorizzazione delle identita' religiose. Ma quello che viene fuori oggi,
con i processi di transnazionalizzazione, e' che il rapporto fra religione e
politica non e' risolto una volta per tutte: l'epoca delle identita'
religiose non e' finita, mente la crisi delle identita' nazionali e' gia'
cominciata. Non e' vero che il teologico-politico appartiene al passato,
come afferma la visione lineare della storia e della secolarizzazione, da
Weber a Durkheim.
*
- Ida Dominijanni: Laicita'" e' una parola controversa. Ma anche la
religione, di questi tempi, non si sa piu' bene che cosa sia. E' una
dimensione soggettiva o un fatto pubblico? Attiene alla coscienza
individuale o alla comunita'?
- Etienne Balibar: La separazione fra individuo e stato, privato e pubblico,
presuppone che la religione sia una questione personale, una pratica
dell'intimita' e della coscienza soggettiva, e dunque che proibendone le
manifestazioni esteriori non la si ostacola ma la si riporta alla sua forma
piu' autentica. Ma questa concezione della religione appartiene alla
tradizione cristiana, non a quella islamica ne' a quella ebraica, le quali
hanno tutt'altro concetto della relazione fra pubblico e privato e ritengono
che il compito essenziale della religiosita' stia precisamente nella
costruzione della comunita' e di un ambiente morale. Capisci bene dunque che
tutta questa discussione sul divieto di "ostentare" i simboli religiosi e'
viziata in partenza da una serie di giudizi e pregiudizi che legano laicita'
dello stato e tradizione cristiana. "Pregate nel segreto del cuore e sarete
cosi' buoni cristiani e insieme buoni cittadini", predica lo Stato laico; ma
questa idea non puo' essere condivisa da islamici ed ebrei. Del resto in
Francia, da Napoleone a De Gaulle, quello che ha vinto non e' una laicita'
ideale, bensi' un compromesso politico fra stato e chiesa cattolica. Il
cattolicesimo in Francia e' largamente dominante e gode di molti privilegi.
Mentre l'Islam rimane una religione discriminata: formalmente i musulmani
godono di tutti i diritti, di fatto la Francia e' piena di chiese ma
costruire una moschea e' difficilissimo. La cosiddetta laicita' e' la
religione civile dello stato francese che maschera riflessi patriottici,
nazionalisti e postcoloniali.
*
- Ida Dominijanni: A questo proposito: si puo' ipotizzare una sorta di
parallelismo fra l'uso che Bush ha fatto dopo l'11 settembre della parola
d'ordine della liberta' e l'uso che Chirac ha fatto della laicita' con la
legge sul velo? Come fossero due armi del rigurgito nazionalista
occidentale, nelle due diverse versioni americana e francese, che a loro
volta si combattono fra loro?
- Etienne Balibar: Di sicuro questo parallelismo l'ha ravvisato bin Laden,
che ha messo la legge francese sul velo sullo stesso piano dell'invasione
americana dell'Iraq. Ed e' vero anche che Bush, anzi tutti gli Stati Uniti,
da Bush ai queer californiani, hanno attaccato la legge, in nome del
principio liberale della liberta' d'espressione - una occasione meravigliosa
di rivincita del nazionalismo americano su quello francese. E del modello
multiculturale americano sul modello assimilativo e integrazionista
francese.
*
- Ida Dominijanni: Senonche' la globalizzazione ha messo in crisi tutti e
due questi modelli, ovvero i due modi di coniugare identita' nazionale e
differenze di la' e di qua dall'Atlantico.
- Etienne Balibar: Infatti. Il modello multiculturale americano finisce col
costruire societa' fatte di comunita' chiuse e incomunicanti. Il modello
integrazionista francese non funziona piu', perche' i popoli ex-coloniali
non si lasciano assimilare come gli italiani o i polacchi in passato. E il
problema non riguarda solo la Francia, riguarda tutta l'Europa.
*
- Ida Dominijanni: Secondo te qual e' la posta in gioco vera della legge
contro il velo, la laicita' dello stato o la liberta' femminile? O tutt'e
due insieme, e legate in che modo?
- Etienne Balibar: Tutt'e due, ma tutt'e due mal tematizzate. Non sono
d'accordo con chi riduce il dibattito su questa legge a un referendum, pro o
contro la laicita'. Chi, come me, ha criticato la legge non intende
attaccare il principio della laicita', ma adattarlo alle condizioni attuali
della Francia e dell'Europa. E nelle attuali condizioni della Francia e
dell'Europa, francamente non vedo contraddizione fra il nocciolo della
laicita' dell'insegnamento scolastico e la possibilita' di entrare in una
scuola con il velo o con un altro segno di appartenenza. E penso che il
divieto avra' conseguenze piu' negative dell'autorizzazione. Quanto alla
liberta' femminile, e' la cartina di tornasole della complessita' di tutta
la questione, e di come essa ci costringa a smarcarci continuamente dagli
schieramenti in campo. Esempio: c'e' chi contesta la legge sul velo in nome
della lotta anticoloniale e pensa che quest'ultima "converga" spontaneamente
con la lotta per l'emancipazione femminile. Cosa sulla quale, ovviamente,
non sono affatto d'accordo: fra queste due rivendicazioni di emancipazione -
quella che combatte il razzismo culturale e l'egemonismo delle vecchie
nazioni coloniali, e quella che lotta contro la soggezione delle donne nei
popoli colonizzati - c'e' una contraddizione drammatica, che dobbiamo saper
guardare in faccia. Non possiamo credere a nessuno dei due discorsi
simmetrici che vorrebbero cancellarla: ne' a quello che accomuna "la lotta
delle donne" e "la lotta dei popoli oppressi" e dei gruppi etnico-religioso
minoritari, ne' a quello che presenta le istituzioni e i valori
dell'"Occidente" come modello e veicolo di emancipazione delle donne in
tutto il mondo, e in particolare nel mondo musulmano: anche l'Occidente ha
sviluppato forme massicce di assoggettamento femminile.
*
- Ida Dominijanni: Personalmente sono del tutto d'accordo con te. Non tutto
il femminismo pero' la pensa cosi'. Molte femministe, in Francia
specialmente, difendono la legge sulla laicita', contro l'obbligo di portare
il velo che il patriarcato islamico impone alle donne, adottando per le
donne non occidentali una fede cieca in quegli stessi diritti occidentali di
cui per noi stesse, all'interno delle nostre democrazie, abbiamo contestato
limiti e finzioni. E offrendo alle donne islamiche quella tutela statale che
abbiamo rifiutato per noi...
- Etienne Balibar: E' la tragedia delle donne islamiche, che si trovano per
un verso a essere vittime del marchio patriarcale della loro cultura, per
l'altro verso a essere stigmatizzate come "le altre" dalle donne
occidentali. Sia chiaro: io penso che l'accesso a diritti universali sia
necessario per aprire a queste donne la possibilita' di sottrarsi ai vincoli
oppressivi delle comunita' d'origine. Quello che rimprovero al laicismo
nazionalista francese e' di trasformare questa possibilita' in una lotta di
potere fra uomini islamici da una parte e uomini (e donne falliche)
occidentali dall'altra, di cui le islamiche sono la posta in gioco passiva.
L'interdizione dell'uso del velo puo' cadere su di loro come un'imposizione
dall'alto uguale e contraria ai comandamenti patriarcali della loro cultura.
Le motivazioni di quelle che sono favorevoli a portare il velo sono molto
diversificate: vanno dalla sottomissione alle pressioni familiari a forme
personali di ricerca femminista volte a esprimere la "doppia differenza"
islamica e femminile, all'adesione all'islamismo militante. Bisognerebbe
garantire a queste donne di studiare nella scuola pubblica francese facendo
le loro esperienze di conflitto fra l'appartenenza alla comunita' di origine
e i valori repubblicani francesi, e trovando da se' le giuste mediazioni.
*
- Ida Dominijanni: Le donne tutte, islamiche e occidentali, rischiano ogni
giorno di diventare la posta in gioco della "guerra al terrorismo", che e'
stata legittimata fin dall'inizio come guerra contro il burqa, contro il
patriarcato islamico, per l'estensione alle "altre" dei diritti di cui
godiamo noi occidentali. Senonche' l'emancipazione e la parita' che vorremmo
esportare genera anche mostri, come lo scenario di guerra dimostra: penso
alle torturatrici di Abu Ghraib. Mi pare che l'attenzione a come si
ridisloca il conflitto fra i sessi sia una chiave importante per capire le
dinamiche di questa guerra.
- Etienne Balibar: Questo e' vero per tutte le guerre, ma oggi, hai ragione,
c'e' qualcosa di piu' profondo in gioco. Tutte le guerre della storia hanno
avuto come bersaglio simbolico le donne: la guerra si fa tra uomini, le
nazioni sono male-nations, e questo mette in partenza le donne nella
posizione di cittadine di secondo rango. Anche il razzismo e' marcato dal
sesso, la comunita' razzista e' una comunita' maschile, perche' il razzismo
e' lotta per la genealogia e dunque per il controllo delle donne, che della
genealogia sono le portatrici. Senonche' oggi questo dispositivo e' entrato
in crisi in tutto il mondo: il controllo collettivo maschile sulle donne non
e' piu' possibile.
*
- Ida Dominijanni: Infatti, e' la liberta' femminile che ha rotto il
dispositivo. Ma la liberta' femminile produce anche - e sanamente -
divisioni fra le donne: per restare all'occidente, ci sono donne che
scelgono percorsi di autonomia, e donne che "si arruolano", alla lettera,
nell'esercito dei diritti universali...
- Etienne Balibar: Perche' e' in corso, come insegna Gayatri Spivak, una
sorta di appropriazione simbolica delle donne da parte dell'egemonismo
occidentale camuffato di universalismo: l'estrema forma di appropriazione
dell'universalismo da parte di interessi particolari di classe, di sesso, di
potere. Una posizione molto difficile per le stesse donne. Prendi un'afghana
che lotta per il suo diritto di studiare, di parlare, di lavorare, e a un
certo punto diventa oggetto di un discorso di conquista occidentale che
pretende di rappresentare i suoi interessi: si ritrova in un double bind
insostenibile.
*
- Ida Dominijanni: Percio' io penso che politicamente l'unica strada
percorribile sia quella della costruzione di solide relazioni fra donne
occidentali libere dai diktat dell'emancipazionismo universalistico e donne
islamiche libere dai vincoli del comunitarismo.
- Etienne Balibar: Io penso piuttosto che l'universalismo bisogna
ricostruirlo, liberandolo dall'eurocentrismo, dal monoteismo, dalla
ripetizione del discorso tradizionale dei diritti, e rilanciandolo nel senso
dell'incontro fra i movimenti di liberta' del mondo di oggi e di domani. Un
universalismo programmatico invece che dogmatico. Non che sia facile, ma
forse potrebbe essere questo il compito di una nuova istituzione mondiale:
un compito di traduzione, messa a confronto e arbitraggio, fra domande
eterogenee.

5. RIFLESSIONE. BIA SARASINI: IL VELO, LA LIBERTA' FEMMINILE, LA DIFFERENZA
[Dal sito "DeA - donne e altri" (www.donnealtri.it) riprendiamo il seguente
intervento del 25 ottobre 2006 dal titolo "Il velo e' anche seduzione e
differenza. Ma la politica pasticciona non lo vede". Bia Sarasini,
prestigiosa giornalista, intellettuale femminista, ha diretto "Noi donne" ed
e' cofondatrice del sito "DeA"]

Si e' riacceso il dibattito sul significato del velo islamico e su eventuali
norme per normarne l'uso. Da segnalare l'intervento del segretario di An
Gianfranco Fini sul "Corriere della sera" di oggi 25 ottobre, nettamente
contrario a ipotesi di legge che limitino la liberta' personale e di culto
sancite dalla Costituzione.
*
Che gran pasticcio il velo islamico, quando ci si mette di mezzo la
politica. Che segue un suo codice, qui in Italia, pieno di ritualita' e
luoghi e comuni, senza mai guardare le questioni nel merito. Anche quando si
tratta di donne e velo. Allora, inevitabile la solidarieta' a Daniela
Santanche', che su Skytv e' stata redarguita dall'iman di Segrate Ali Abu
Shwaima perche' sosteneva con veemenza che nel Corano di velo non si parla.
Lite che ha portato minacce alla parlamentare di An, e l'attribuzione di una
scorta. Sempre in tv, a "Porta a porta", lunedi' 23 ottobre Ali Abu Shwaima
ha sostenuto "nessuno ha mai pensato a una fatwa". Mentre un riflesso
condizionato del genere "noi siamo per la liberta' e solidarizziamo con le
vittime" porta piu' o meno tutti e tutte a dire, "siamo contro il velo".
Ora, avendo molto a cuore la liberta', a cominciare ovviamente da quella di
Daniela Santanche', si puo' pacatamente dire che tutto sembra molto
superficiale, posizioni espresse senza vero pensiero, vero discernimento?
Compresa l'idea, questa volta di Livia Turco, della lobby rosa sul velo.
Cosa significa? Che le donne si devono accordare perche' in Italia venga
proibito? Ma se le donne al governo, o in generale in politica, fossero in
grado di fare lobby non avrebbero obiettivi piu' immediati su cui far valere
la propria efficacia, prima di occuparsi di comportamenti e abitudini di
immigrate e immigrati?
*
Perche' da qui bisognerebbe partire. Distinguere, con nettezza, tra chi vive
in Occidente e chi abita nei propri paesi. E poi ancora, distinguere, tra
paese e paese, tra obblighi e scelte, tra leggi e costumi, tra donne e
donne, tra velo e velo.
A me per esempio piace partire da un aspetto dei piu' controversi, tra
Occidente e Islam, la seduzione femminile. Perche' in un mondo dove tutto e'
visibile e mostrato, un aspetto rimane nascosto. Che queste donne,
soprattutto queste ragazze, si coprono per non mostrarsi agli uomini. E' lo
sguardo maschile il pericolo, il giudice che viene fuggito. Tra donne, oltre
naturalmente nella casa, il velo non si porta.
Insomma, chi e' piu' seducente? Le ragazze tutte coperte da capo a piedi, di
cui si vedono solo gli occhi, o quelle con il pancino scoperto? O non e'
piuttosto la provocazione, il vero obiettivo? Non lusingare, o sottrarsi,
allo sguardo maschile, ma scegliere cio' che piu' infastidisce: mondo,
genitori, insegnanti, in generale i detestati adulti. Perche' in un tempo in
cui non ci sono a portata di mano rivoluzioni, e il nuovo mondo possibile in
questo momento e' perlomeno in stand-by, bisognera' avere la buona grazia di
capire che abiti, veli, niqab, come piercing, magliette striminzite e jeans
inguinali sono strumenti di una guerra vitale per ogni adolescente, la
guerra per la propria identita'. E che l'obiettivo, perseguito con ferocia,
e' proprio quello: farti sobbalzare, metterti a disagio. Sarebbe quasi
l'unico modo, dal punto di vista adolescente, di obbligarti a riconoscere la
propria esistenza. In verita', suggeriscono le varie tipologie di scrutatori
dell'anima, a convincersi ai propri occhi di esistere. Ma oltre gli
psicologismi, non sarebbe cosi' difficile accorgersi dell'odio richiedente
che traspare dalla determinazione vestimentaria di tante ragazze. Se non ci
fosse di mezzo la politica. E la campagna ormai europea che ha fatto del
velo il confine simbolico, la sponda della liberta'.
*
Domenica 22 ottobre su "Repubblica" Nadia Fusini, a proposito Jack Straw,
l'ex.ministro britannico che con il suo dichiarato "malessere" davanti alle
donne velate, ha dato il via a questa nuova ondata di polemiche, ha scritto:
"A me, che insegno all'universita', danno un lieve senso di vertigine le
molte ragazze che si presentano a fare l'esame con l'orecchino infilzato
nella lingua, un altro nel sopracciglio e un tatuaggio sull'orecchio. Anche
in quel caso trovo che il volto sia manipolato in modo sconveniente. Ma non
mi sono mai rifiutata di ascoltarle. E se sono preparate, non importa".
Insomma, bisognerebbe capire che le donne che fanno appello al free-will,
alla libera determinazione per portare il velo, sono parte dell'occidente,
esattamente come in nome della stessa liberta' si invoca la liberta' di
muoversi seminude. Lo sono in senso stretto, considerando che si tratta di
figlie di immigrati di seconda o terza generazione, ragazze, giovani donne a
pieno titolo cittadine del paese dove si trovano. E anche in senso piu'
ampio, perche' nel mondo occidentale secolarizzato non ci sono piu'
prescrizioni di carattere sacro per i comportamenti quotidiani. Negli anni
Cinquanta i cattolici erano tenuti a mangiare - o non mangiare - determinati
cibi in determinati giorni, il venerdi' magro, digiunare in altri. E, le
donne, a vestirsi con modestia. Per esempio non erano ammessi gli abiti
senza maniche - sempre, non solo in chiesa. Perche' sacro e vita erano
un'unica cosa. Come e' ancora per l'Islam, ma anche induismo, ebraismo, per
esempio. Per cui cibo, abiti, coperture - anche maschili -, abluzioni, sono
parte di un sistema di norme che presiede a tutta l'esistenza.
In questo senso considerare il velo, l'hijab, come uno dei molti modi in cui
le donne - in occidente - scelgono di vestirsi, di ornarsi, mutevole, come
sono mutevoli tutte le mode femminili, sarebbe un modo per depotenziare il
conflitto. La parola d'ordine sarebbe: secolarizza.
*
Una via, in realta', che incontra molti ostacoli. Il primo e' politico. Il
radicalismo islamico, soprattutto nella versione terrorista, ha fatto
deflagrare la questione dell'immigrazione. Che per molti aspetti ormai viene
trattata come questione di politica estera. E per questo si perde il lume
della ragione. Per cui, a proposito del velo, non si sa piu' distinguere chi
impone - per legge - a chi e che cosa. In Europa portare il velo non e' un
obbligo, mai. Certo, ci puo' essere una costrizione familiare, ma su questo
si puo' vigilare con attenzione. E, se necessario, intervenire.
Il velo, nelle sue diverse accezioni, in realta' e' obbligatorio - e non
portarlo vuol dire andare incontro a punizioni gravi - solo in alcuni paesi
islamici. L'Iran, e l'Arabia Saudita. Con alcune importanti differenze. Che
in Arabia Saudita le donne sono completamente coperte, compreso il volto, e
non possono fare nulla, in pubblico. In Iran il chador lascia scoperto il
volto, e soprattutto le donne studiano, si muovono, guidano l'auto. In
Europa l'obbligo - in Francia e' gia' in vigore, nei luoghi pubblici- e' a
rovescio, ovvero il divieto di portarlo. Si combatte per il velo, dall'una e
dall'altra parte, a colpi di legge? Come mai non si vede, in Occidente, che
in questo modo si sconfessa quello che sarebbe un proprio principio
fondamentale? Cioe' la liberta'?
Ma, si dice, il velo e' sempre una costrizione. Una prigione mobile, che
aderisce al corpo. Non si puo' ammetterlo, mai. Nessuna donna puo' portarlo
per scelta. E che ne facciamo della riconoscibilita', quando il volto e'
coperto? In effetti, se lo si volesse, gli accorgimenti per permettere
l'identificazione certa sono sempre possibili, basterebbe disporre che ci
siano donne a presiedere a queste operazioni e nessuna musulmana avrebbe
difficolta' a mostrarsi.
*
E' che qui si rivela l'altro grande ostacolo. Oltre il conflitto, percepito
e praticato come una guerra tra stati, dimentichi quindi dei cittadini, di
origine immigrata ma interni, il punto, l'ingombro, e' il corpo. Il corpo
femminile, ma anche le differenze tra donne e uomini. Perche' i paesi
islamici, ma in generale tutti i paesi extraeuropei, propongono una diversa
esperienza delle differenze tra uomini e donne. Che invece di essere
cancellate, in nome dell'uguaglianza, della modernita', vengono esaltate,
naturalmente nella chiave di un patriarcato quasi sempre dispotico. E' come
se il velo - e non solo- diventasse il memento costante del fatto che uomini
e donne sono diversi. Inaccettabile, nel mondo dell'universalismo neutro.
Dell'uguaglianza di principio se non nei fatti. E' come se gli operai
andassero ancora in giro con le tute blu. Il mondo dell'immagine ha
omologato tutto - tutti e tutte- in un indistinto universo di consumatori
piu' o meno casual, proprio come prevedeva Pierpaolo Pasolini.
Ora, penso che sia questo che rende insostenibile - fino al punto di portare
a veri e propri sragionamenti - la presenza del velo nelle societa'
occidentali. Ricorda la differenza, donna e uomo. Una differenza che, anche
nello spazio pubblico dell'Occidente, e' tuttora gerarchica, organizzata
intorno a quella persistente, ancorche' arcaica, formazione sociale che e'
il patriarcato. Un pugno allo stomaco per chi e' convinto - o convinta-
nell'affermazione compiuta della democrazia ugualitaria.
Un punto di vista da cui la politica, che sempre piu' si rifugia nelle
semplificazioni, si tiene lontano come la peste.

6. MATERIALI. ALCUNE LETTURE UTILI

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Assia Djebar, Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Firenze 1988,
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Annamaria Rivera, Estranei e nemici, Derive Approdi, Roma 2003.
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Giuliana Sgrena (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma
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Pierre-Andre' Taguieff, Il razzismo, Cortina, Milano 1999.
Michel Wieviorka, Il razzismo, Laterza, Roma-Bari 2000.

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 89 del 9 novembre 2006

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