[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Nonviolenza. Femminile plurale. 86
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 86
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 19 Oct 2006 11:25:32 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 86 del 19 ottobre 2006 In questo numero: 1. Simona Forti: Per amore del mondo. L'anomalia di Hannah 2. Ida Dominijanni: Vedere l'evento, pensare la nascita 3. Diana Sartori: Un testamento fuori canone e le sue eredi: Hannah e le sorelle 4. Adriana Cavarero: Il punto di vista della vittima inerme 1. MEMORIA. SIMONA FORTI: PER AMORE DEL MONDO. L'ANOMALIA DI HANNAH [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006, che presenta questo, i seguenti ed altri articoli in un inserto tutto dedicato ad Hannah Arendt con la seguente nota redazionale: "Hannah Arendt, un'eredita' fuori squadra nel centenario della nascita. Una biografia intellettuale che ha vissuto e restituito tutto il dramma del Novecento, dalla Repubblica di Weimar alla guerra del Vietnam, dal nazismo alla guerra fredda, dallo sterminio all'atomica, leggendo filosoficamente i fatti del presente. Nel corpo a corpo con la tradizione, la critica della politica, la teoria della rivoluzione, il primato della liberta': un lascito piu' normalizzato che raccolto nelle sue conseguenze dirompenti in tempi di crisi della democrazia. E le controverse tesi sul totalitarismo rilette alla luce della violenza globale di oggi. Esiliata, ebrea non sionista, donna in un universo maschile, libertaria non liberale ne' liberista: le avventure di un pensiero della realta' capace di scompaginare costantemente confini disciplinari, ortodossie teoretiche e appartenenze politiche". Simona Forti e' docente universitaria di storia del pensiero politico; laureatasi in filosofia presso l'Universita' di Bologna, ha conseguito il dottorato di ricerca nel 1989 in storia del pensiero politico presso l'Universita' di Torino; ha svolto attivita' di ricerca e didattica presso l'Universita' di Bologna, di Torino e presso la Graduate Faculty della New School for Social Research di New York. Fa parte del comitato di redazione di "Filosofia politica" e collabora a numerose riviste tra cui "Teoria politica", "Il Mulino", "L'Indice dei libri", "MicroMega", "Iride". E' nel comitato di redazione della rivista internazionale "Arendt's Newsletter"; e' autrice di numerosi saggi sulla filosofia politica contemporanea e sul pensiero di Hannah Arendt. Tra le opere di Simona Forti: Vita della mente e tempo della polis. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Franco Angeli, Milano 1994, 1996; (a cura di), Filosofia e politica. Saggi su Hannah Arendt, Bruno Mondadori, Milano 1999; Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001; (a cura di), La filosofia di fronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004. Ha curato e introdotto i due volumi: Archivio Arendt 1, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2, Feltrinelli, Milano 2003; ha curato anche la "Bibliografia delle opere di e su Hannah Arendt", in Hannah Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987 (poi ristampata in Roberto Esposito (a cura di), La pluralita' irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Quattroventi, Urbino 1987). Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001; Julia Kristeva, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 2005. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] Hannah Arendt non amava le celebrazioni. Addirittura sosteneva che anche nelle occasioni piu' serie, come ad esempio nel bel mezzo di una cerimonia funebre, la retorica commemorativa poteva farla esplodere in un'irrefrenabile risata. In che modo, rispettando la sua sensibilita' ironica, idiosincraticamente elegante, possiamo ricordarla, oggi, nel centen ario della sua nascita? Forse rivisitando il suo pensiero in maniera per cosi' dire laterale; percorrendo velocemente i momenti piu' significativi che hanno segnato la sua progressiva centralita' nel dibattito politico e culturale. Se fino alla fine degli anni Sessanta era conosciuta soltanto come la discussa studiosa del totalitarismo o l'ideatrice della contestata formula della "banalita' del male", Arendt si trova oggi a dover contrastare gli eccessi di una notorieta' che l'ha portata al limite della banalizzazione. Nell'ultimo decennio, in particolare, il circuito mediatico in cui, purtroppo o per fortuna, e' stata risucchiata anche la filosofia, e' stato infatti inflazionato da immagini di Hannah Arendt forse troppo a buon mercato. * Prima di considerare alcune delle conseguenze che forse sono derivate dagli eccessi di questa "pubblicita'", vale la pena ricordare che l'autrice ha ricevuto la sua consacrazione a "classico" della riflessione filosofico-politica esattamente trent'anni fa. In un articolo apparso in tedesco nel 1976, e velocemente tradotto in inglese, francese, italiano e spagnolo, Juergen Habermas individuava in The Human Condition - la grande opera arendtiana del 1958 - il testo fondatore del rilancio della filosofia pratica, in generale, e della "teoria dell'agire comunicativo" in particolare. Vita Activa aveva sistematicamente elaborato gli argomenti per riscattare la prassi, l'azione politica, dalla sua funzione strumentale e subordinata ad altri ambiti dell'agire umano. L'erede della scuola di Francoforte, tuttavia, scorgeva un forte limite nella filosofia politica della Arendt: un normativismo troppo rigido, nutrito dalla fede ingenua in una "intersoggettivita' inalterata" e da un anacronistico ritorno al pensiero greco della politica. L'"ipostatizzazione dell'immagine della polis", proiettata nell'essenza stessa della politica, e "la morsa di una teoria aristotelica dell'azione" farebbero pagare all'autrice il prezzo di una mancata comprensione dello stato e della societa' moderni. Per rendere utilizzabile la grande intuizione sulla dignita' e l'autenticita' della politica - auspicava Habermas - bisognerebbe in qualche modo "bonificare" il terreno arendtiano: espungerne gli elementi piu' estremi e irrazionalistici, anti-moderni e nostalgici, cosi' da "urbanizzarlo" e renderlo compatibile con il cosiddetto progetto moderno, rivisto secondo i parametri di una razionalita' critica post-kantiana. Nel contesto della filosofia tedesca di matrice post-kantiana-habermasiana, cosi' come del resto nell'ambito della cultura statunitense segnata da presupposti neo-aristotelici, le valutazioni di Habermas si strutturano in un vero e proprio paradigma interpretativo, dal quale non sara' e non e' tuttora facile liberare la comprensione della filosofia di Hannah Arendt. (Per i riferimenti precisi alla storia e ai protagonisti della sua recezione rimando, assai poco elegantemente, alla nuova edizione del mio Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori 2006). Nonostante la raffinatezza e la varieta' delle interpretazioni, arricchite via via dalla pubblicazione di nuovo materiale, questa "prima ondata" del dibattito e' abbastanza concorde nel ritenere la riflessione di Arendt un modello teorico che fa capo a un progetto normativo sostanzialmente anti-moderno, al quale aderire o dal quale prendere le distanze. Certo, all'autrice si attribuiscono tendenze politiche anche tra loro contrastanti: la si accusa di essere aristocratico-elitaria e al contempo populista rivoluzionaria; vi si scorge un atteggiamento conservatore, mentre la si dipinge come paladina della liberal-democrazia; le si attribuisce la riabilitazione del repubblicanesimo e allo stesso tempo la si accusa di anarchismo. Sempre comunque si segnala come limite costitutivo del suo pensiero il precludersi la comprensione "realistica" della differenza specifica tra antico e moderno. Il suo concetto di politica, in sostanza, pone requisiti troppo restrittivi per la realizzazione della propria autenticita'. Ed eliminando ogni elemento strategico e strumentale dalla definizione di potere si dimostra inadeguato sia a pensare fino in fondo la natura del potere sia, di conseguenza, a delineare una concezione efficacemente alternativa al dominio. Certo, se si vuole vedere nell'autrice una teorica normativa, gli habermasiani e i comunitari hanno avuto ragione a segnalarne le forti ambiguita', le mancanze, le contraddizioni. Ma il punto e' proprio questo. Che forse a tutti questi fautori di teorie normative, moderne o post-antiche, e' "sfuggito" l'elemento strategico e insieme polemico della critica arendtiana alla politica: elemento implicito nel totale rifiuto di considerare costitutiva del concetto di prassi la relazione mezzi-fini, e nell'assoluta diffidenza nei confronti delle filosofie desiderose di fornire un modello regolativo della convivenza politica. Per cui il tentativo intrapreso tanto dai post-kantiani quanto dai post-aristotelici di "urbanizzazione della provincia arendtiana", si e' rivelata una vera e propria operazione di normalizzazione. * A partire dalla meta' degli anni Ottanta (si pensi ad esempio in Italia soltanto ai lavori e alle edizioni di Boella, Dal Lago, Esposito, Flores, Galli, Portinaro e in Francia a quelli di Enegren, Collin, Taminiaux, Nancy e Lacoue-Labarthe) la "seconda ondata", per cosi' dire, della recezione fa invece finalmente i conti, in maniera produttiva, con le aporie, le contraddizioni e le ambivalenze del pensiero di Hannah Arendt. Anzi, di queste fa un elemento di grandezza di quel pensiero; un pensiero che risolutamente si mantiene in quello spazio incollocabile, abitato dalle tante figure di pariah che visitano i suoi scritti. E se in questo ambito viene riconosciuto che la filosofia arendtiana muove dalla grande requisitoria novecentesca istruita nei confronti della cosiddetta metafisica e della dialettica - in particolare dalla decostruzione nietzscheana e heideggeriana - si prende tuttavia atto che mai puo' essere ricondotta ad un'unica scuola di pensiero. La fenomenologia e la filosofia dell'esistenza rimangano si' i punti di riferimento filosofici cruciali, ma interagiscono con una lealta' agli avvenimenti del mondo che scompagina i confini disciplinari e le traiettorie delle ortodossie teoretiche. E diventa quasi fuorviante una precisa definizione dell'appartenenza politica dell'autrice. * Credo che oggi si possa dare per acquisito che qualsiasi analisi dell'opera arendtiana che non tenga conto della sua duplice origine - gli eventi storici e tragici vissuti anche in prima persona dall'autrice e l'orizzonte aperto dalla filosofia heideggeriana - non possa che risultare riduttiva. Tuttavia, insieme a raffinatissime letture che continuano a complicarne i nodi problematici, assistiamo anche ad una "ri-normalizzazione" della filosofia di Hannah Arendt; alla diffusione di una sorta di senso comune, assai radicato, che ritiene, in fondo, che il suo pensiero sia riducibile ad un paio di formule, buone in molte occasioni, sull'autenticita' e la relazionalita' di una vita politica egualitaria e democratica, sulla ricerca di uní intesa intersoggettiva che salvaguardi e riconosca le differenze. * A fronte di questa doxa quasi "buonista", credo che la Arendt vada di nuovo presa sul serio. Credo cioe' che sia importante ricollocare la sua indiscutibile e cosi' spesso menzionata "anomalia" - di esiliata, di ebrea non sionista, di donna che pensa in un cosmo intellettuale totalmente maschile, di filosofa che vuole lasciarsi alle spalle la metafisica, di libertaria che non sposa mai il liberalismo, di critica del marxismo che attacca gli ex-comunisti pentiti e accusa di tendenze totalitarie gli Stati Uniti del maccartismo e della guerra del Vietnam - nella profondita' teorica e nel rigore concettuale che le ineriscono. Credo insomma vada ancora con forza ribadito come la sua ridefinizione del concetto di potere - fatta spesso passare, appunto, come propedeutica ad una politica consensuale e conciliatoria - sia in realta' "agonistica" e per molti aspetti "tragica", in quanto aporetica. E proprio perche' legata a filo doppio con una critica di quella tradizione filosofica che ha denegato il reale e le sue dissonanze sotto i congegni teorici della reductio ad unum, tanto metafisica quanto politica. Penso sia inoltre importante ricordare che per la Arendt decostruire la tradizione filosofica e politica non equivale tanto ad indagare criticamente una concatenazione storica di idee e dottrine, legate, le une alle altre, dal comune oblio del significato autentico dell'essere. Significa anche e soprattutto assumere queste come segni estremi, ma quotidiani e normali ad un tempo, di quel rapporto che in occidente si e' venuto a istaurare tra individuo e mondo, tra costruzione del Se' e percezione dell'altro da se'. In altre parole, la mente del "filosofo di professione" non soltanto non e' una modalita' d'accesso privilegiata alla comprensione dell'essere, ma non e' nemmeno un'attitudine isolata. E' piuttosto, in una forma sui generis, l'emblema di un atteggiamento denegante tipico e frequente della soggettivita' moderna. Un approccio, questo, per molti versi analogo a quello di buona parte della riflessione filosofica "continentale" della seconda meta' del XX secolo, e che avvicina Hannah Arendt piu' a pensatori come Foucault o Derrida che a teorici come Habermas. Forse e' da qui che si deve ripartire per intendere la ricchezza, ma anche le difficolta', della politica arendtiana. Cosi' come e' da qui che si deve procedere per pensare insieme a Arendt ma andando oltre Arendt, per cogliere le sfide che oggi il mondo, in parte diverso dal suo, ci sta ponendo. Solo cosi', sono convinta, possiamo "onorare" la sua eredita' e celebrare la sua grandezza di pensatrice, che mai ci chiederebbe di continuare ad essere esegeti della sua lettera, ne' di cercare di tradurre in pratica quotidiana i suoi pensieri. Anche perche' al cuore della sua riflessione sta il senso di una realta' che costantemente supera e scompagina i progetti che la teoria ha su di essa. 2. MEMORIA. IDA DOMINIJANNI: VEDERE L'EVENTO, PENSARE LA NASCITA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] Per quanto convenzionale sia celebrare gli anniversari, per nessuno il centenario della nascita avrebbe lo stesso senso che acquista nel caso di Hannah Arendt: data la centralita' che la categoria della nascita ha nel suo pensiero, singolare eccezione a quell'ossessione della morte propria di tutta la main tradition filosofica e politica con la quale lei non smise per un minuto di dialogare e questionare; e data la coincidenza anch'essa singolare del centenario in questione con l'arco di tempo in cui si dispiega tutt'intera quella crisi della politica e dello stato moderni a cui lei non smise per un momento di cercare risposte e alternative. Questi due dati sono tutt'altro che slegati fra loro: come scrive Julia Kristeva nel volume ad Arendt dedicato della sua trilogia sul genio femminile, "all'ombra della Shoah e' significativo che sia una donna, una donna ebrea, ad aver preso l'iniziativa di riaprire il problema della nascita dando un senso nuovo alla liberta' di essere. Questo e' lo scandalo piu' grande del suo genio, che arriva al cuore della crisi della cultura moderna, la' dove si gioca il suo destino di vita o di morte". Inizio casuale della vita che sempre si rinnova nella vicenda individuale e nella storia collettiva, la nascita e' insieme l'evento che ci mette (e ci rimette) al mondo liberi di agire e l'azione che libera la politica dall'ordine mortifero e dalla violenza annichilente in cui essa non smette di cacciarsi e di cacciarci 70 anni dopo l'esperienza estrema del totalitarismo e dello sterminio. Ma e' anche lo sguardo che sempre ci consente di vedere cio' che dentro, a lato o nonostante quell'ordine e quella violenza viene al mondo, accade, scombina i giochi costituiti, apre all'imprevisto. E forse e' vero che sta proprio qui lo "scandalo" piu' grande di Hannah Arendt, il nocciolo inaddomesticabile e irriducibile alle successive ondate di recezione, attribuzione, normalizzazione del suo pensiero, di cui qui accanto parla Simona Forti. Cosi' come e' vero che sta qui la ragione piu' radicale della sua rilettura da parte di molto pensiero femminista internazionale: non una santificazione rituale ne' un'appropriazione indebita e acritica, come qualcuno sospetta anche su queste pagine, ma un incontro illuminante lungo quel filo rosso di eccedenza femminile dalla politica tradizionale che attraversa il Novecento, disponendo in genealogia alcune pensatrici pre- (e perfino anti-) femministe e il femminismo che della critica della politica ha fatto il suo centro dagli anni Settanta in poi. * Di questo, come di altre interpretazioni piu' o meno convinte dell'eredita' di Hannah Arendt e piu' o meno rivolte a farla sporgere, oltre il suo e nostro passato che non passa novecentesco, sul nostro presente globale, trovate in queste pagine ampi assaggi. Ma poiche' questo e' un giornale, e con il giornalismo Hannah Arendt - che non si voleva filosofa ma "pensatrice politica", e che di tutto del '900 fu testimone e interprete, da Weimar a Kennedy, dai campi di concentramento alla guerra in Vietnam, da Eichmann agli image-maker dell'amministrazione americana - molto ebbe a che fare nel suo lavoro di interpretazione del presente, e' opportuno ricordare di lei anche come si atteggiava e ci chiedeva di atteggiarci di fronte agli eventi, e alla "difficolta' di comprendere", secondo il titolo di un suo saggio degli anni '50, il loro accadere. Difficolta' inevitabile, perche' si da' davvero evento solo quando ci sentiamo spiazzati dalle nostre categorie e dai nostri pre-giudizi; e mentre siamo pronti a trovare nomi nuovi per quello che accade, per rassicurarci siamo ancora piu' pronti a ricondurli automaticamente a significati vecchi, cosi' come siamo portati a ricondurre l'evento alle sue cause, come se la storia fosse una concatenazione prevedibile di cause ed effetti, una "piatta monotonia dell'identico". Laddove invece "l'evento illumina il proprio passato, ma non puo' mai esserne dedotto", rivelando "un panorama inatteso di azioni, sofferenze e nuove possibilita' umane che trascendono la somma di tutte le intenzioni deliberate"; e per quanto ci sforziamo di pre-vedere e prepararci, ne' le paure ne' le speranze ci preparano davvero al cambiamento che ogni accadere mette in moto. Ancora l'evento, ancora la nascita. Di Hannah Arendt questo certo ancora fa luce, per aprire gli occhi sul presente e per aprire il presente all'imprevisto. 3. MEMORIA. DIANA SARTORI: UN TESTAMENTO FUORI CANONE E LE SUE EREDI. HANNAH E LE SORELLE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006. Diana Sartori e' filosofa e lavora da sempre con la comunita' filosofica femminile di Diotima; insieme a Barbara Verzini coordina la rivista on-line di Diotima "Per amore del mondo" (www.diotimafilosofe.it); fa parte anche della comunita' scientifica femminile "Ipazia". Ha contribuito a vari volumi collettanei, tra cui: Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990; Autorita' scientifica, autorita' femminile, Editori Riuniti, Roma 1992; Oltre l'uguaglianza, Liguori, Napoli 1995] Non sono la prima a dichiarare insieme alla soddisfazione per il riconoscimento che Arendt ha avuto in questi anni anche un certo sconcerto per quella che ha le dimensioni quasi di una beatificazione. Tanto piu' che ben ricordo tempi non poi cosi' lontani, quando il dire di lei che era una outsider della filosofia e della teoria politica era inteso in senso letterale e senza la compiaciuta benevolenza che usa ora. Le cose sono cambiate, non sto a indagare perche', e lo prendo come un buon segno, quantomeno per il fatto che per la filosofia e la teoria politica nelle quali era davvero una outsider e' diventato impossibile ignorarla e piu' difficile liquidarla con quella qualifica. Ci sono volute montagne di pagine , spesso pazientemente accumulate da donne, e lo sfilacciarsi inesorabile del filo di una tradizione che gia' lei denunciava spezzato, ma e' successo che Arendt sembra essere entrata a far parte del canone. Se dapprima era forse solo per il non poter fare a meno delle sue analisi del totalitarismo o della "banalita' del male", poi sono diventate indispensabili la rottura con la tradizione, l'analisi dell'agire, la narrazione, il giudizio, la pluralita', il pensare in termini di condizione umana... e la riflessione sulla politica. Appunto, la politica. E' pensando a questo che il mio sentimento di sconcerto per la canonizzazione di Arendt tende a virare in diffidenza: si', non si puo' negare che la sfida portata dalla concezione arendtiana di politica sia stata registrata dal canone del pensiero filosofico sulla politica, colta nella sua natura di radicalita', analizzata, criticata, combattuta, rifiutata, trasformata e neutralizzata, ripresa e moderata o persino rilanciata. Tuttavia un dubbio mi resta, che si tratti della registrazione di un testamento troppo esplicito e consistente perche' lo si possa ignorare, ma di cui pare non potersi accogliere l'eredita'. Se forse Hannah Arendt non ha fatto altro che tornare sul problema dell'eredita' senza testamento di quella politica cui solo avrebbe riconosciuto di avere questo nome, qui parrebbe quasi essere di fronte ad un testamento senza eredita'. Quasi, dico, pensando al dibattito filosofico-politico mainstream e alla concezione dominante di politica, per i quali quell'eredita' sembra - probabilmente e' - inassumibile, se non a parole. Quasi, perche' c'e' almeno un discendente che ha ad alta voce rivendicato la titolarita' di quell'eredita', e lo ha fatto non solo a parole, ma nella sua azione politica, ed e' il femminismo. * Arendt, sconfortata dalla monotonia e pochezza della tradizione, diceva che forse per capire qualcosa della politica conveniva chiedere agli uomini d'azione; e di sicuro non immaginava che avrebbe fatto meglio a rivolgersi all'agire delle donne. Il suo rapporto con il femminismo, si sa, fu problematico. E' noto come rifiutasse di definirsi femminista dicendo di odiare gli "ismi": "essere una "ista" significa far parte di un gruppo, di una folla, di un pacco". Un duro giudizio su quella che parlando di Rosa Luxemburg definiva "l'eguaglianza delle suffragette": al movimento di emancipazione imputava un difetto di reale politicita', restando esso sul piano di rivendicazioni sociali e economiche. E' un giudizio che oggi sottoscrive di cuore il femminismo della differenza sviluppatosi negli anni '70, e si puo' forse immaginare che sia guardando a quegli sviluppi che, come testimonia Virginia Held, Arendt dicesse di aver mutato parere negli ultimi anni della sua vita. Resta pero' che la condizione di esser nata femmina nel giorno che oggi ricordiamo non venne assunta da Hannah Arendt al centro della sua riflessione sulla condizione umana. Sebbene dopo la natalita' sia la pluralita' esemplificata dalla creazione di Adamo ed Eva ad essere nominata in Vita activa come la seconda marca della condizione umana, Arendt non assunse mai la differenza sessuale come prima pluralita'. Ne' interrogo' mai le implicazioni politiche della reclusione femminile, storica e simbolica, in quella sfera "impolitica" dell'oikos che confermo' tale nel suo insistere sulla distinzione tra pubblico e privato. E' qui l'ostacolo che ha fatto piu' problema nella ricezione femminista di Arendt: se c'e' stato un punto di accordo costante nel pensiero e nell'azione politica delle donne, e' stato proprio il superamento della dicotomia tra la dimensione personale e privata e quella pubblica e politica. Da cio' le ripetute accuse a Arendt di aver disegnato una visione interna ad una concezione e a una pratica tutte maschili della politica, addirittura una visione "machista", fino a parlare per lei di autentico "anti-femminismo". Non c'e' da stupirsi, quindi, che le parti del pensiero arendtiano che hanno goduto della prima rivalutazione femminile siano state quelle piu' "filosofiche" (penso soprattutto alla natalita' e alla costituzione relazionale e narrativa della soggettivita') o quelle che contribuivano a sciogliere alcuni annosi nodi del dibattito femminista, come l'approccio in termini di "condizione" piuttosto che di "natura" umana che taglia alla radice il nodo del cosiddetto essenzialismo. Decisamente piu' controverse le vicende della ripresa di altri punti, piu' apertamente politici, del pensiero di Arendt: se le sue critiche alla dimensione politica come rappresentazione del che cosa piuttosto che del chi hanno incontrato ampio consenso, le conseguenze anti-identitarie che se ne ricavavano sono andate a ricadere su un terreno di vivo confitto nella politica delle donne. Come pure e' avvenuto per quanto riguarda il ruolo che in quest'ultima e' da assegnarsi alle questioni sociali ed economiche tradizionale terreno dell'emancipazionismo di contro al femminismo che ha affermato la priorita' della liberta' femminile come cuore dell'agire politico. Lo stesso si puo' dire per la concezione del potere come agire di concerto, che da un lato ha avuto interpretazioni femministe in chiave di etica della comunicazione che ne hanno edulcorato la radicalita' politica, dall'altra e' stato sviluppato nel senso di una pratica femminista performativa e agonistica. * Insomma anche tra le donne la questione dell'eredita' arendtiana diventa tanto piu' conflittuale quanto piu' si avvicina al terreno della visione del potere e delle pratiche politiche. Su questo terreno si e' visto che gli aspiranti eredi tendono a dileguarsi, e le eredi tendono a dividersi. Il che conferma due punti tra loro interconnessi: che il "tesoro perduto" dell'agire politico arendtiano tanto duro da ereditare nella politica e' il senso stesso su cui si gioca la politica, e che la contesa sul senso politico del femminismo sta nel cuore del conflitto sul senso della politica stessa. Cio' che costantemente Arendt ha cercato e' stato quel tesoro, quello che la politica ha perso consegnandosi alla logica della strumentalita' e del gover no, a un'idea del "fare" che inesorabilmente e' finito nel realismo di chi sottoscrive l'antico proverbio che "bisogna rompere le uova se si vuole fare la frittata", dimenticando, come diceva, le ragioni delle uova. Cerco' i momenti quando "le uova alzano la voce" e li riconobbe emergere e poi sparire, nelle rivoluzioni, nelle esperienze consiliari, nei momenti di felicita' politica che avevano saputo rinnovare in nome della liberta' il senso dell'umano agire politicamente. Ne riconobbe la fragilita' e l'intermittenza, ne vide il cedere di fronte al senso accreditato della politica e alla sua forza, ma mai cedette all'idea che quella, e non l'altra fosse davvero la politica. Canonizzata o meno, questo resta il problema del suo testamento ma soprattutto il conflitto sulla sua eredita' nella politica. Un conflitto che in buona sostanza ripropone la questione dell'assumibilita' di quella eredita' nei termini della stessa esistenza della politica come Arendt la ha intesa. Non esiste, e' irrealistica, non puo' esistere e comunque non puo' durare, ribadisce il coro del vecchio e del nuovo realismo politico. Ma, molto realisticamente, quella politica e' reale, esiste, torna e permane. La politica dell'agire di concerto che non vira in ricerca del dominio e non esercita la forza, che non vuole rappresentare interessi o identita', la politica del riconoscimento non di cosa ma di chi si e', la politica che non rivendica potere o diritti ma riconosce autorita', che vive dell'esercizio della liberta' e del suo puntuale rinnovarsi, che ordina e orienta ma non costituisce gerarchie di dominio o strutture di appartenenza, la politica che si regola sulla contestualita' delle situazioni e non regolamenta i contesti in cui puo' darsi, che sta alla necessita' di una pluralita' che domanda la relazione, la politica che si alimenta dello scambio simbolico e scommette sul senso dell'agire comune del mondo, che non sfugge dalla condizione umana immaginando un'onnipotente presa sulla realta', che non teme la rischiosita' e la fragilita' dell'agire e nemmeno la sua impermanenza, questa politica esiste, e' reale. Forse e' sempre apparsa e ricomparsa, come dice Arendt, come una fata Morgana, come un fantasma di liberta' ricorrente che si e' dubitato persino fosse reale, come una sorta di miracolo. Ma certo e' apparsa ed e' venuta al mondo ed e' viva, miracolosamente chissa', come quella "politica che non aveva nome di politica" che hanno fatto le donne con il femminismo. Buon compleanno. 4. MEMORIA. ADRIANA CAVARERO: IL PUNTO DI VISTA DELLA VITTIMA INERME [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006. Adriana Cavarero e' docente di filosofia politica all'Università di Verona; dal sito "Feminist Theory Website: Zagreb Woman's Studies Center" ospitato dal Center for Digital Discourse and Culture at Virginia Tech University (www.cddc.vt.edu/feminism), copyright 1999 Kristin Switala, riportiamo questa scheda bibliografica delle sue opere pubblicate in volume: a) libri: Dialettica e politica in Platone, Cedam, Padova 1974; Platone: il filosofo e il problema politico. La Lettera VII e l'epistolario, Sei, Torino 1976; La teoria politica di John Locke, Edizioni universitarie, Padova 1984; L'interpretazione hegeliana di Parmenide, Quaderni di Verifiche, Trento 1984; Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma1990. (traduzione tedesca: Platon zum Trotz, Rotbuch, Berlin 1992; traduzione inglese: In Spite of Plato, Polity, Cambridge 1995, e Routledge, New York 1995); Corpo in figure, Feltrinelli, Milano 1995; Platone. Lettera VII, Repubblica: libro VI, Sei, Torino 1995; Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997; Adriana Cavarero e Franco Restaino (a cura di), Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999; A piu' voci. Filosofia dell'espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003. b) saggi in volumi collettanei: "Politica e ideologia dei partiti in Inghilterra secondo Hume", in Per una storia del moderno concetto di politica, Cleup, Padova 1977, pp. 93-119; "Giacomo I e il Parlamento: una lotta per la sovranita'", in Sovranita' e teoria dello Stato all'epoca dell'Assolutismo, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 47-89; "Hume: la politica come scienza", in Il politico. Da Hobbes a Smith, a cura di Mario Tronti,Feltrinelli, Milano 1982, vol. II, pp. 705-715; "Il principio antropologico in Eraclito", in Itinerari e prospettive del personalismo, Ipl, Milano 1987, pp. 311-323; "La teoria contrattualistica nei Trattati sul Governo di John Locke", in Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, a cura di Giuseppe Duso, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 149-190; "Per una teoria della differenza sessuale", in Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, pp. 43-79. (traduzioen tedesca: "Ansatze zu einer Theorie der Geschlechterdifferenz", in Diotima. Der Mensch ist Zwei, Wiener Frauenverlag, Wien 1989); "L'elaborazione filosofica della differenza sessuale", in La ricerca delle donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, pp. 173-187. (traduzione inglese: "The Need for a Sexed Thought", in Italian Feminist Thought, ed. by S. Kemp and P. Bono, Blackwell, Oxford 1991); "Platone e Hegel interpreti di Parmenide", in La scuola Eleatica, Macchiaroli, Napoli 1988, pp. 81-99; "Dire la nascita", in Diotima. Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990, pp. 96-131. (traduzione spagnola: "Decir el nacimiento", in Diotima. Traer al mundo el mundo, Icaria y Antrazyt, Barcelona 1996); "Die Perspective der Geschleterdifferenz", in Differenz und Gleicheit, Ulrike Helmer Verlag, Frankfurt 1990, pp. 95-111; "Equality and Sexual Difference: the Amnesias of Political Thought", in Equality and Difference: Gender Dimensions of Political Thought, Justice and Morality, edited by G. Bock and S. James, Routledge, London 1991, pp. 187-201; "Il moderno e le sue finzioni", in Logiche e crisi della modernita, a cura di Carlo Galli, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 313-319; "La tirannia dell'essere", in Metamorfosi del tragico fra classico e moderno, a cura di Umberto Curi, Laterza, Rma-Bari 1991, pp. 107-122; "Introduzione" a: B. Head, Una questione di potere, El, Roma 1994, pp. VII-XVIII; "Forme della corporeita'", in Filosofia, Donne, Filosofie, Milella, Lecce 1994, pp. 15-28; "Figures de la corporeitat", Saviesa i perversitat: les dones a la Grecia Antiga, coordinacio de M. Jufresa, Edicions Destino, Barcelona 1994, pp. 85-111; "Un soggetto femminile oltre la metafisica della morte", in Femminile e maschile tra pensiero e discorso, Labirinti 12, Trento, pp. 15-28; "La passione della differenza", in Storia delle passioni, a cura di Silvia Vegetti Finzi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 279-313; "Il corpo e il segno. Un racconto di Karen Blixen", in Scrivere, vivere, pensare, a cura di Francesca Pasini, La Tartaruga, Milano 1997, pp. 39-50; "Schauplatze der Einzigartigkeit", in Phaenomenologie and Geschlechterdifferenz, edd. Silvia Stoller und Helmuth Vetter, WUV-Universitatsverlag, Wien 1997, pp. 207-226; "Il pensiero femminista. Un approccio teoretico", in Le filosofie femministe, a cura di Franco Restaino e Adriana Cavarero, Paravia, Torino 1999, pp. 111-164; "Note arendtiane sulla caverna di Platone", in Hannah Arendt, a cura di Simona Forti, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 205-225] Uno dei motivi per rileggere Hannah Arendt oggi sta nella necessita' di dare nomi adeguati alla violenza contemporanea senza forzarla nella gabbia inefficace di vecchi concetti. E' orami accertato che la categoria di "guerra" spiega ben poco, e altrettanto si puo' dire per il termine "terrorismo" e per l'esperienza del terrore che dovrebbe giustificarne l'etimologia. Sulle varie scene, piu' o meno militarizzate, che vedono il massacro di civili inermi, l'orrore soppianta infatti di gran lunga il terrore. Ne Le origini del totalitarismo e, ancor di piu', nel paragrafo dedicato ai lager, pur ricorrendo molto spesso al termine orrore, Arendt non ne fornisce una precisa definizione. Sviluppa pero' un'analisi complessa che, passando per la categoria di terrore totale, va a individuare il punto di divaricazione, ma anche la perversa parentela, fra terrore e orrore. Il terrore - scrive - "in quanto mezzo per intimidire gli individui e indurli cosi' alla sottomissione, puo' apparire in forme straordinariamente variegate e puo' presentarsi in un gran numero di sistemi politici e partitici che il tempo ci ha reso familiari". Detto altrimenti, il terrore e' un noto strumento politico usato a scopo intimidatorio. Cio' non toglie, come Arendt tiene a sottolineare, che esso si articoli storicamente in forme diverse, e che la scienza politica debba saper distinguere i vari "regimi terroristici" che le riguardano, siano questi impersonati da poteri istituzionali, da movimenti rivoluzionari oppure da piccoli gruppi di cospiratori. Tale esercizio di distinzione rimanda comunque sempre ad una certa concezione del terrore che lo descrive come una strategia politica con scopi precisi, finalizzata, in vario modo o per gradi piu' o meno intensi di violenza, a diffondere la paura e a gestirne gli effetti. Il terrore politico appartiene, insomma, alla logica dei mezzi rispetto ai fini. E' esecrabile, ma non incomprensibile. * Proprio questa logica, tuttavia, e' nella violenza totalitaria straordinariamente assente. Cio' risulta tanto piu' evidente, argomenta Arendt, quando si consideri che anche i regimi totalitari, prima di diventare tali, ossia al loro inizio, impiegano il terrore, non diversamente da altri regimi, "per sbaragliare gli avversari e rendere impossibile ogni opposizione". Il vero terrore totalitario incomincia infatti quando non c'e' piu' nessuna opposizione da distruggere o intimidire, ossia quando viene superato questo primo stadio di ordinaria violenza. Tipico del totalitarismo e' il ricorso a un "terrore che ha perso il suo scopo e non e' piu' lo strumento per incutere paura alla gente". Arendt lo chiama terrore totale, nuova categoria del suo gia' anomalo lessico politico, volto a indicare il paradosso di un terrore che non e' piu' strategico perche' e' uscito dalla logica dei mezzi e dei fini. Si tratta di un terrore non piu' utile, anzi, al limite, inutile, controproducente. E, in questo senso, dal punto di vista della storia stessa del terrore, inspiegabile. Per comprendere l'assurdita' del terrore totale, Arendt rivolge cosi' la sua attenzione a forme di violenza che vanno sintomaticamente ad evocare la sfera dell'orrore. Vengono innanzitutto elencati i casi storici che mettono in atto il principio secondo il quale "tutto e' permesso". Oltre alle guerre di aggressione, l'elenco nomina il "massacro delle popolazioni nemiche" e lo "sterminio dei popoli indigeni" perpetrato dai colonizzatori delle Americhe, dell'Australia e dell'Africa. L'approdo alla categoria di orrore estremo ha pero' ancora bisogno di un passo ulteriore: quello che supera il principio per cui "tutto e' permesso", abbracciando e mettendo in atto l'inaudito principio per cui "tutto e' possibile". Che fosse possibile manipolare la natura umana, riducendo gli uomini ad esseri assolutamente superflui, solo il laboratorio infernale del lager l'ha pensato e portato a realizzazione. Ed e' precisamente in questo inferno che il terrore totale, ossia il terrore che ha "perso il suo scopo" e non e' piu' strumento per incutere paura alle gente, va finalmente a coincidere con la forma estrema dell'orrore. La vita nei campi di sterminio e' tale che "il suo orrore non puo' mai essere interamente percepito dall'immaginazione, perche' rimane al di fuori della vita e della morte". Esso consiste nella perversione di un vivere e di un morire che, nel lager, afferiscono ormai a un vivente inteso come "esemplare della specie animale uomo" nel quale e' stata annientata l'unicita'. Si tratta di un attacco alla materia ontologica che, trasformando esseri unici in una massa di esseri superflui "il cui omicidio e' impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara", toglie ad essi anche la loro propria morte. A differenza del terrore, che e' sempre terrore della morte, l'orrore riguarda insomma una singolarita' resa superflua da una violenza che la uccide come vittima spersonalizzata e casuale. E qui sta, appunto, il lato per noi drammaticamente interessante della questione. * Esiste un curiosa espressione nella lingua inglese che indica le vittime, dovute a morte violenta, come casualities. Il termine si applica in diversi contesti: uragani, inondazioni, crolli di edifici, guerre, attentati e altri ancora. Come attesta il suo uso in riferimento a disastri naturali, esso tende a suggerire che non si tratta di una violenza finalizzata ad uccidere un preciso individuo, bensi' di una violenza senza obiettivi specifici le cui vittime risultano, appunto, casuali. Sotto un uragano, qualcuno muore, qualcuno si salva, a caso, per fortuna o sfortuna, non per via della sua identita' singolare e, tanto meno, per le sue responsabilita' e le sue colpe. Vittime del caso sono anche i soldati caduti in guerra, ma l'hanno, per cosi' dire, messo nel conto. Per le vittime civili della guerra - la cui percentuale supera ormai il novanta per cento - tale conto e' invece meno ovvio e il caso si fa percio' ancor piu' tragico. Ne' vale la pena segnalare che la predilezione per il massacro degli inermi spetta, oggi, alla cosiddetta galassia jihadista. Rileggendo le pagine arendtiane sull'orrore, potremmo cosi' notare che e' soprattutto la scena globale della violenza odierna a far si' che il termine casualities vada a corrispondere alla realta' delle vittime inermi assumendo un significato particolarmente pregnante e, per cosi' dire, etimologicamente esatto. Piu' che la loro morte, casuale e' infatti cio' che sostanzia il loro stesso statuto di vittime. Colpite proprio perche' casuali, esse non valgono se non per questa casualita' che le rende interscambiabili ed esemplari. Purche', appunto, si decida di rinominare il lessico della violenza posizionandosi dalla prospettiva dei massacrati invece che da quella dei massacratori. E' cio' che ha fatto Hannah Arendt cercando di comprendere, senza giustificare, la realta' del suo presente. Per spiegare la violenza dell'epoca odierna alcuni, oggi, cercano di riadattare al nostro presente la categoria di "totalitarismo". L'operazione non solo e' indebita ma rischia di nascondere un'eredita' arendtiana piu' preziosa. Quel che lei ci ha insegnato e' una rivoluzione prospettica che soppianta il punto di vista del guerriero sostituendolo con quello della vittima inerme. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 86 del 19 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1453
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1454
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1453
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1454
- Indice: