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La domenica della nonviolenza. 95
- Subject: La domenica della nonviolenza. 95
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 15 Oct 2006 13:20:05 +0200
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 95 del 15 ottobre 2006 In questo numero: 1. Tiziana Plebani: Un appello 2. "La violenza contro le donne ci riguarda" 3. Stefano Ciccone: Una violenza strutturale 4. Ettore Mo: La rivoluzione paziente di Shirin Ebadi 5. Sabina Morandi: Il Nobel al banchiere dei poveri 1. RIFLESSIONE. TIZIANA PLEBANI: UN APPELLO [Ringraziamo di cuore Tiziana Plebani (per contatti: tiplebani at libero.it) per averci messo a disposizione la traccia della sua presentazione dell'incontro sul tema "Una differente civilta' maschile. L'appello di uomini: 'La violenza contro le donne ci riguarda'" svoltosi in occasione del Salone dell'editoria di pace 2006, a Venezia, sabato 7 ottobre; incontro cui hanno partecipato, con Tiziana Plebani, Marco Cazzaniga e Adriana Sbrogio' (associazione culturale "Identita' e differenza" di Spinea). Tiziana Plebani, prestigiosa intelletuale, bibliotecaria e storica, e' attiva nella Rete di donne per la pace di Mestre e Venezia; tra le sue opere: Il genere dei libri, Angeli, Milano 2001; Corpi e storia, Viella, Roma 2002] Ho organizzato questo incontro perche' sono rimasta molto colpita nel leggere l'appello di questi uomini ["La violenza contro le donne ci riguarda" - ndr]. Colpita e sollevata, come se improvvisamente un peso enorme venisse sollevato dalle mie spalle, dalle spalle delle donne. Era cio' che attendevamo da tempo. Qualche anno fa in un saggio per Donne disarmanti, il volume curato da Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo, scrivendo di "corpi di pace e corpi di guerra", ribadivo che le donne non sono pacifiste o nonviolente per natura ma che il movimento politico delle donne aveva scelto di lavorare sul simbolico, sugli apparati di decodificazione e rappresentazione della realta' presenti all'interno di noi stessi. E annotavo: "Uomini e donne su questo piano hanno cose diverse da esplorare, da indagare a partire dalla relazione del corpo con le dinamiche aggressive e violente che coinvolgono l'uso del corpo, il modo di percepire piacere. Possiamo iniziare a domandarci, ad esempio, quanto l'accettazione o meno dello scenario della guerra dipenda dalle caratteristiche dell'immaginario maschile, quanto il desiderio ancora pulsa col contatto con le armi, con lo scontro diretto, con il dominio su corpi inermi? Si tratta di un un nodo simbolico centrale di cui non si parla, di cui poco, pochissimo, la 'differenza' maschile parla e si interroga a partire dalle proprie strutture simboliche e dalla propria sessualita'". Ecco invece che questi uomini rompono finalmente il mutismo su se stessi, questa omerta' pesante che ricadeva sulle nostre spalle. E non lo fanno dal piedistallo del singolo pensatore, del filosofo o attraverso la competenza sociologica, rompono il silenzio a partire dal loro coinvolgimento diretto e cio' che e' ancora piu' nuovo e importante e' che lo fanno attraverso un atto pubblico. Mettersi dentro questa scena (la scena della violenza sessuale), dire "io c'entro" e' un atto straordinario di assunzione di responsabilita' da parte di uomini che non sono certo stupratori ma che sanno vedere, certamente con sofferenza e grande coraggio, la relazione esistente tra la sessualita' maschile e la violenza, tra il corpo come strumento di potere e sottomissione su altre/i e il godimento. Non hanno fatto spicciola o grande sociologia questi uomini: hanno parlato della paura per la liberta' femminile; non hanno allontanato da loro stessi questa terribile scena dello stupro, hanno accettato di inserirla nell'orizzonte maschile, nominandola. Certo questo appello non e' in grado di fermare la violenza sulle donne ma il lavoro iniziato da questi uomini, che spero coinvolga molti e molti altri, instaura un percorso diverso, un lavoro sul simbolico e sui linguaggi del corpo. E auguriamoci che conduca presto, per il bene di tutti, alla separazione del godimento dalla violenza su altre e altri, e alla liberazione dell'eros. 2. DOCUMENTI. "LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE CI RIGUARDA" [Riproponiamo il testo dell'appello "La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini". Per adesioni: appellouomini at libero.it; per ulteriori informazioni e contatti: tel. 3385243829, 3477999900] La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo la parola come uomini Assistiamo a un ritorno quotidiano della violenza esercitata da uomini sulle donne. Con dati allarmanti anche nei paesi "evoluti" dell'Occidente democratico. Violenze che vanno dalle forme piu' barbare dell'omicidio e dello stupro, delle percosse, alla costrizione e alla negazione della liberta' negli ambiti familiari, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile. Una recente ricerca del Consiglio d'Europa afferma che l'aggressivita' maschile e' la prima causa di morte violenta e di invalidita' permanente per le donne in tutto il mondo. E tale violenza si consuma soprattutto tra le pareti domestiche. Siamo di fronte a una recrudescenza quantitativa di queste violenze? Oppure a un aumento delle denunce da parte delle donne? Resta il fatto che esiste ormai un'opinione pubblica e un senso comune, che non tollera piu' queste manifestazioni estreme della sessualita' e della prevaricazione maschile. Chi lavora nella scuola e nei servizi sociali sul territorio denuncia poi una situazione spesso molto critica nei comportamenti degli adolescenti maschi, piu' inclini delle loro coetanee femmine a comportamenti violenti, individuali e di gruppo. Forse il tramonto delle vecchie relazioni tra i sessi basate su una indiscussa supremazia maschile provoca una crisi e uno spaesamento negli uomini che richiedono una nuova capacita' di riflessione, di autocoscienza, una ricerca approfondita sulle dinamiche della propria sessualita' e sulla natura delle relazioni con le donne e con gli altri uomini. La rivoluzione femminile che abbiamo conosciuto dalla seconda meta' del secolo scorso ha cambiato radicalmente il mondo. Sono mutate prima di tutto le nostre vite, le relazioni familiari, l'amicizia e l'amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Sono cambiate consuetudini e modi di sentire. Anche le norme scritte della nostra convivenza registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento. L'affermarsi della liberta' femminile non e' una realta' delle sole societa' occidentali. Il moto di emancipazione e liberazione delle donne si e' esteso, con molte forme, modalita' e sensibilita' diverse, in tutto il mondo. La condizione della donna torna in modo frequente nelle polemiche sullo "scontro di civilta'" che sarebbe in atto nel mondo. Noi pensiamo che la logica della guerra e dello "scontro di civilta'" puo' essere vinta solo con un "cambio di civilta'" fondato in tutto il mondo su una nuova qualita' del rapporto tra gli uomini e le donne. Oggi attraversiamo una fase contraddittoria, in cui sembra manifestarsi una larga e violenta "reazione" contraria al mutamento prodotto dalla rivoluzione femminile. La violenza fisica contro le donne puo' essere interpretata in termini di continuita', osservando il permanere di un'antica attitudine maschile che forse per la prima volta viene sottoposta a una critica sociale cosi' alta, ma anche in termini di novita', come una "risposta" nel quotidiano alle mutate relazioni tra i sessi. Un altro sintomo inquietante e' il proliferare di mentalita' e comportamenti ispirati da fondamentalismi di varia natura religiosa, etnica e politica, che si accompagnano sistematicamente a una visione autoritaria e maschilista del ruolo della donna. Queste stesse tendenze sono pero' attualmente sottoposte a una critica sempre piu' vasta, soprattutto - ma non esclusivamente - da parte femminile. La recente cronaca italiana ci ha offerto alcuni casi drammatici, eclatanti che rivelano anche modi diversi di accanirsi sul corpo e sulla mente femminile. Una ragazza incinta viene seppellita viva dall'amante, che non vuole affrontare il probabile scandalo. Un fratello insegue e uccide la sorella, rea di non aver obbedito al diktat matrimoniale della famiglia. Un immigrato pakistano uccide la figlia, aiutato da altri parenti maschi, perche' non segue i costumi sessuali etnici e religiosi della comunita'. In alcune citta' si susseguono episodi di stupro da parte di giovani immigrati ma anche di maschi italiani. Sono italiani gli stupratori di una ragazza lesbica a Torre del Lago. Italiano l'assassino che a Parma ha ucciso con otto coltellate la ex fidanzata, che perseguitava da qualche anno. Ultimo caso di una lunga scia di delitti commessi in questi ultimi anni in Italia da uomini contro le ex mogli o fidanzate, o contro compagne in procinto di lasciarli. Il clamore e lo scandalo sono alti. In un contesto di insicurezza (in parte reale, in parte enfatizzata dai media e da settori della politica), di continua emergenza e paura per le azioni del terrorismo di matrice islamica e per le contraddizioni prodotte dalla nuova dimensione dei flussi di immigrazione, nel dibattito pubblico la matrice della violenza patriarcale e sessuale e' stata spesso riferita a culture e religioni diverse dalla nostra. Molte voci pero' hanno insistito giustamente sul fatto che anche la nostra societa' occidentale non e' stata e non e' a tutt'oggi immune da questo tipo di violenza. E' anzi possibile che il rilievo mediatico attribuito alla violenza sessuale che viene dallo "straniero" risponda a un meccanismo inconscio di rimozione e di falsa coscienza rispetto all'esistenza di questo stesso tipo di violenza, anche se in diversi contesti culturali, nei comportamenti di noi maschi occidentali. Si e' parlato dell'esigenza di un maggiore ruolo delle istituzioni pubbliche, sino alla costituzione come parti civili degli enti locali e dello stato nei processi per violenze contro le donne. Si e' persino messo sotto accusa un ipotetico "silenzio del femminismo" di fronte alla moltiplicazione dei casi di violenza. Noi pensiamo che sia giunto il momento, prima di tutto, di una chiara presa di parola pubblica e di assunzione di responsabilita' da parte maschile. In questi anni non sono mancati singoli uomini e gruppi maschili che hanno cercato di riflettere sulla crisi dell'ordine patriarcale. Ma oggi e' necessario un salto di qualita', una presa di coscienza collettiva. La violenza e' l'emergenza piu' drammatica. Una forte presenza pubblica maschile contro la violenza degli uomini potrebbe assumere valore simbolico rilevante. Anche convocando nelle citta' manifestazioni, incontri, assemblee, per provocare un confronto reale. Siamo poi convinti che un filo unico leghi fenomeni anche molto distanti tra loro ma riconducibili alla sempre piu' insopportabile resistenza con cui la parte maschile della societa' reagisce alla volonta' che le donne hanno di decidere della propria vita, di significare e di agire la loro nuova liberta'. Il corpo femminile e' negato con la violenza. Ma viene anche disprezzato e considerato un mero oggetto di scambio (come ha dimostrato il recente scandalo sulle prestazioni sessuali chieste da uomini di potere in cambio di apparizioni in programmi tv ecc.). Viene rimosso da ambiti decisivi per il potere: nella politica, nell'accademia, nell'informazione, nell'impresa. Lo sguardo maschile - pensiamo anche alle organizzazioni sindacali - non vede ancora adeguatamente la grande trasformazione delle nostre societa' prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Chiediamo che si apra finalmente una riflessione pubblica tra gli uomini, nelle famiglie, nelle scuole e nelle universita', nei luoghi della politica e dell'informazione, nel mondo del lavoro. Una riflessione comune capace di determinare una sempre piu' riconoscibile svolta nei comportamenti concreti di ciascuno di noi. * Primi firmatari: Alberto Leiss, Marco Deriu, Stefano Ciccone, Jones Mannino, Massimo Michele Greco, Sandro Bellassai, Claudio Vedovati. Adesioni: Davide Rossi, Umberto Varischio, Gianfranco Proietti, Luca Proietti, Giuseppe Colosi, Lino Giaccone, Diego Bortolameotti, Francesco Lauria, Beppe Pavan, Daniele Barbieri, Roberto Poggi, Massimiliano Luppino, Andrea Baglioni, Luigi Zoja, Fausto Perozzi, Alessio Surian, Gianluca Borghi, Mattia Toscani, Eugenio Caggiati, Marcello Acquarone, Attilio Mangano, Roberto Illario, Daniele Bouchard, Luciano Sartirana, Corrado Roncaglia, Franco Toscani, Giacomo Mambriani, Marco Cazzaniga, Gianni Ferronato, Livio Dal Corso, Carlo Marchiori, Marco Sacco, Vanni Bertolini, Francesco Camattini, Luciano Marmocchia, Giuseppe De Nigris, Marco Cervino, Gianni Caligaris, Domenico Matarozzo, Sandro Mezzadra, Stefano Sarfati Nahmad, Alberto Moreni, Enrico Ottolini, Vittorio Cotesta, Alessandro Bosi, Franco Caldera, Ettore Lo Maglio Silvestri, Goffredo Fofi, Cesare Del Frate, Daniele Licheni, Nicola Sinopoli, Enrico Euli, Roberto Verdolini, Antonio D'Andrea, Silvano Cogo, Christian Carmosino, Sandro Coccoi, Giacomo Truffelli, Gianfausto De Dominicis, Michele Citoni, Franco Insalaco, Gigi Malaroda, Andrea Rigon, Nicola Negretti, Nicola Ricci, Mario Gritti, Gianfranco Neri, Osvaldo Pieroni, Andrea Lavagnoli, Antonio Cinquantini, Paolo Scatena, Antonio Canova, Michele Poli, Domenico Rizzo, Stefano Montali, Fernando Lelario, Alessio Miceli, Alessandro Quintino, Gabriele Galbiati, Renato Sebastiani, Giuliano Dalle Mura, Stefano Vinti, Pietro Craighero, Rino Genovese, Giampiero Bernard, Lorenzo Di Santo. * Le ragioni di questo appello L'appello che diffondiamo in questi giorni reca le firme di uomini provenienti dai piu' disparati percorsi politici, culturali, religiosi, e dei diversi orientamenti sessuali, che hanno deciso di reagire in qualche modo ai terribili fatti di violenza alle donne che le cronache hanno riportato alla nostra attenzione negli ultimi mesi. Alcuni vengono da esperienze politiche tradizionali, altri vengono da movimenti studenteschi, pacifisti e ambientalisti, altri ancora hanno cominciato a riflettere su questi temi a partire da relazioni affettive o di amicizia o da scambi con il movimento delle donne. Si tratta di percorsi semplicemente individuali. Ma anche di esperienze, spesso informali, di gruppi di autocoscienza e di discussione su diverse questioni (stupro, guerra, prostituzione, pedofilia, omosessualita'). Esistono attualmente in Italia gruppi di uomini di questo genere in diverse citta': "Uomini in cammino" di Pinerolo, "Maschile plurale" di Roma, "Maschile plurale" di Bologna, il "Gruppo uomini" di Verona, il "Gruppo uomini" di Viareggio, il "Gruppo uomini" di Torino, il "Gruppo uomini di Agape", "Il cerchio degli uomini" di Torino, l'"Associazione uomini casalinghi" di Pietrasanta, a cui si aggiungono gruppi misti di uomini e donne: "Identita' e differenza" di Spinea, "La merlettaia" di Foggia, il "Circolo della differenza" di Parma, il "Gruppo sui generis" di Anghiari, il "Gruppo sul patriarcato" di Roma promosso dal "Forum donne del Prc". Queste occasioni di riflessione hanno dato vita a un'ampia produzione di articoli, libri, incontri, convegni, sui temi della maschilita' e dei rapporti tra i sessi (anche se finora con scarsa attenzione da parte dei media). Negli ultimi anni si sono infittite le occasioni di incontro e confronto a livello nazionale tra uomini e anche tra uomini e donne con alcuni appuntamenti oramai riconosciuti (ad Agape, Asolo, Anghiari fra gli altri). Gli uomini che hanno attraversato queste esperienze non rivendicano estraneita' rispetto alla storia a cui appartengono e non cercano rivincite riesumando vecchi trofei e valori patriarcali. Assumono la liberta' conquistata dalle donne grazie al loro pensiero e alla loro pratica, come occasione per interrogarsi e scoprire cose nuove su di se'. Ci auguriamo che questo appello non sia semplicemente un atto formale: ne proporremo la lettura e la discussione agli uomini che operano nella politica e nelle istituzioni, nelle universita' e nelle scuole, nei media, nei sindacati, nell'associazionismo, nei servizi, nelle comunita' di immigrati, nelle realta' religiose. A tutti gli interessati diamo appuntamento per un incontro pubblico il 14 ottobre a Roma, per scambiare opinioni e elaborare ogni possibile ulteriore iniziativa. Intanto ci auguriamo che le adesioni continuino ad arrivare. Chi volesse aggiungersi ai firmatari puo' scrivere all'indirizzo e-mail: appellouomini at libero.it Per contatti telefonici: 3385243829, 347999900. 3. RIFLESSIONE. STEFANO CICCONE: UNA VIOLENZA STRUTTURALE [Dal quotidiano "Liberazione" del 12 ottobre 2006. Forse alcuni punti di questo testo a una lettura frettolosa possono essere equivocati: e' evidente che alcune vicende e condotte qui citate sono palesemente patologiche e criminali ben al di la' della pur violenta quotidianita', e gli interventi legislativi, amministrativi e giudiziari di repressione degli atti di violenza sono necessari: ad esempio quando scrive in riferimento a una condotta criminale e patologica che "non e' frutto di una patologia" l'autore intende sottolineare la strutturalita' di quella violenza e - in forme certo parossistiche - la sua omogeneita' alla violenza maschilista socialmente accettata e ferocemente dominante; e nella critica ai provvedimenti "emergenziali" ne contesta alcuni caratteri ideologici ma certo non nega l'esigenza di interventi da parte dei pubblici poteri che siano adeguati ed efficaci nel fronteggiare il dispiegarsi della violenza. Stefano Ciccone, intellettuale e militante della sinistra critica, e' da sempre impegnato per la pace e i diritti umani, e in una profonda e acuta riflessione individuale e collettiva sull'identita' sessuata e nell'analisi critica e trasformazione nonviolenta dei modelli e delle culture del maschile all'ascolto del pensiero e delle prassi dei movimenti delle donne; e' uno dei promotori dell'appello "La violenza contro le donne ci riguarda"] La cronaca delle nostre citta' e' di nuovo segnata dalla violenza contro le donne, l'ultimo caso a Roma. Donne picchiate e segregate dai mariti, donne violentate per strada, nelle loro case, nei locali notturni "bene", donne provenienti da altri paesi ridotte in schiavitu' e costrette a prostituirsi, donne sottoposte a ricatti sessuali sul lavoro. Nessuna area della nostra societa' e' esente da questa tensione distruttiva e oppressiva. E' possibile continuare a relegarla in cronaca nera? O non e' necessario farne il centro di un'iniziativa politica e culturale? Dico politica perche' credo che la violenza sulle donne sia espressione di un sistema di valori, di un modello di relazioni, di un'idea della sessualita', che deve essere posto al centro di una pratica collettiva di trasformazione. Se la politica non e' solo gestione delle istituzioni ma conflitto nella societa' e' necessario aprire nelle nostre scuole, nelle nostre citta', nei luoghi collettivi di partecipazione un grande conflitto per una diversa civilta' delle relazioni tra donne e uomini. Un conflitto che come uomo sento non come una minaccia ma come un'opportunita', uno spazio per aprire anche per me occasioni di liberta'. Per questo con altri uomini abbiamo lanciato un appello ad una presa di parola maschile sulla violenza contro le donne che non si fermi alla denuncia e per sabato prossimo [il 14 ottobre - ndr], a Roma, proponiamo un incontro nazionale per rilanciare questa ricerca e l'iniziativa collettiva. Al contrario la risposta emergenziale a queste violenze ha l'effetto di marginalizzare il fenomeno, di occultarne il carattere strutturale e pervasivo, di rappresentarlo come frutto di devianza, di patologie da porre sotto controllo, da reprimere. La violenza contro le donne dimostra cosi' radici talmente profonde nella nostra cultura, nelle forme di organizzazione della nostra societa', nel nostro immaginario che anche le strategie istituzionali, le nostre reazioni indignate, le nostre condanne rivelano una inconsapevole complicita' con l'universo che la genera. L'allarme porta il governo e i comuni a una rincorsa a iniziative basate sul controllo e la repressione, videocamere nelle strade, sistemi di allarme per le donne, inasprimento delle pene. Ma considerato che in Europa la violenza dei partner e' la prima causa di morte e invalidita' delle donne tra i 25 e i 44 anni e che piu' del 90% delle violenze avviene nelle nostre famiglie, e' evidente come queste iniziative risultino, non solo per molti versi inutili, ma fuorvianti e anzi tese ad alimentare un clima che condivide lo stesso universo culturale in cui la violenza si genera. Quando la cronaca scopre il velo sulla storia di una donna picchiata per anni dal marito che si sente in diritto di imporle di non avere rapporti con altre persone, di tenere gli occhi bassi al ristorante, di non leggere riviste a lui sgradite, tutti inorridiamo all'ascolto di anni di violenze e sevizie: si tratta di una gelosia patologica, e' un malato o un immaturo incapace di stare in una relazione percependo il proprio limite e riconoscendo l'altra. Eppure non e' cosi'. Non e' frutto di una patologia. Non e' una storia estrema, isolata. * Il desiderio maschile segna quotidianamente gli spazi sociali, oggettivizza i corpi delle donne e riduce il loro diritto di cittadinanza nei luoghi pubblici. E' un motore che muove montagne e attorno al quale ruotano miliardi di dollari l'anno. Si fa leva sul desiderio maschile per vendere auto, bibite, settimanali di politica ed economia. Per soddisfare il mercato indotto dal "desiderio" maschile nelle citta' dell'occidente, ogni anno migliaia di giovani donne vengono ridotte in schiavitu'. Quando leggiamo della ragazza rumena portata con l'inganno in Italia, spesso da un amico di famiglia che la violenta, la costringe a prostituirsi per poi venderla, rimane in ombra il fatto che se i "gestori" sono stranieri i "consumatori" sono italiani. E italiani di tutte le classi, di tutte le eta' che pagano per poter fare sesso senza la "fatica" di una relazione, per sentirsi forti, per chiedere e ottenere quello che vogliono, per complicita' col gruppo di amici con cui si passa insieme la serata, per un'idea di sesso che e' bisognoso di uno sfogo frettoloso, in una strada di periferia. Ma non solo la violenza contro le donne e' sessuata. Anche le esplosioni di violenza che segnano la cronaca quotidiana delle nostre citta' parlano di uomini che uccidono per un banale diverbio, che sterminano la famiglia dopo un licenziamento o per un conflitto economico. Anche in questo caso si tratta di una violenza fatta da uomini strettamente legata al loro essere uomini. Un uomo che subisca un'offesa, perde l'onore su cui si fonda la sua virilita'. Non puo' sopportarlo, come non puo' sopportare una donna che gli dica di no o che lo lasci. Ogni storia ha una svolta quando quella donna smette di essere e di percepirsi vittima, la donna picchiata che chiede il divorzio, la ragazza rumena che denuncia il suo "protettore". Eppure la legge, l'immagine televisiva, il senso comune continuano a vederle vittime: donne e bambini bisognosi di tutela piu' che portatrici e portatori di diritti. Le donne vittime e gli autori di violenza ridotti a marginalita', devianza, patologia. Resta invisibile il sottile filo che lega tutti alla comune appartenenza a un universo maschile, comune nella sua variabilita'. * Che immagine del maschile emerge da queste storie? Uomini incapaci di stare in una relazione con una donna riconoscendone l'autonomia e la liberta' e portati a esprimere la propria frustrazione in una violenza che paradossalmente diviene misura della propria passione o del proprio dolore. Non basta denunciare la violenza, non basta stigmatizzarla, ridurre in una prospettiva di "civilizzazione dei costumi" quella che e' invece, per me, una domanda di senso sulle relazioni tra le persone e degli uomini con se stessi. Non possiamo combattere la violenza con il richiamo a una virilita' che ne e' stretta complice ridefinendo un ordine che interdica il "naturale istinto predatorio maschile" o ne regoli l'espressione, ma esplorare, reinventare e rivivere questo desiderio, senza rinunciarvi. Costringere una donna ad un rapporto sessuale, comprare sesso lungo un viale di periferia, vivere la sessualita' come il portato di un bisogno fisiologico "basso" e per sua natura predatoria: cosa mi dicono queste cose, oltre alla dimensione di violenza che le segna e all'inscindibile legame col potere, se non una desolante miseria? Dobbiamo riuscire a leggere questa miseria e proporre a noi e agli altri uomini un'altra vita, un'altra qualita' delle relazioni e della sessualita'. Per uscire dalla violenza, ma anche per noi. 4. PROFILI. ETTORE MO: LA RIVOLUZIONE PAZIENTE DI SHIRIN EBADI [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo originariamente apparso sul "Corriere della sera" del 24 settembre 2006. Ettore Mo e' stato per oltre vent'anni inviato speciale del "Corriere della sera", testata alla quale tuttora collabora. Tra le opere di Ettore Mo: Sporche guerre, Rizzoli, Milano 2000; Gulag e altri inferni, Rizzoli, Milano 2002; Kabul, Rizzoli, Milano 2003; I dimenticati, Rizzoli, Milano 2004. Shirin Ebadi, giurista iraniana, gia' magistrata, impegnata nella difesa dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 2003. Riportiamo di seguito alcun stralci da un articolo di Sara Sesti gia' riprodotto su questo foglio: "Il 9 ottobre 2003 e' stato assegnato ad Oslo il Nobel per la pace all'iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata, madre di due figlie. Il premio le e' stato conferito "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si e' concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei bambini". Ebadi e' l'undicesima donna a vincere il Nobel per la pace, da quando il riconoscimento e' stato istituito nel 1903, ed e' la prima musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, e' stata la prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel 1969 all'Universita' di Teheran, e' stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 e' stata costretta a dimettersi per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Con l'avvento di Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne sono troppo emotive per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999. E' stata tra i fondatori dell'Associazione per la protezione dei diritti dei bambini in Iran, di cui e' ancora una dirigente. Nel 1997 ha avuto un ruolo chiave nell'elezione del presidente riformista Khatami. E' stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato ad una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che provoco' grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran. Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 e' stata sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale che secondo l'accusa 'disturbava l'opinione pubblica'. Arrestata, ha subito 22 giorni di carcere. Il Comitato del Nobel e' lieto di premiare 'una donna che fa parte del mondo musulmano', si legge nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi 'non veda conflitto fra Islam e i diritti umani fondamentali'. 'Per lei e' importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi', prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente. 'La sua arena principale e' la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna societa' merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati' prosegue la nota. 'E' un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna che e' parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo puo' essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano'". Su Shirin Ebadi cfr. anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e Marina Forti apparsi nei nn. 701 e 756 di questo foglio. Dal "Corriere della sera" riprendiamo anche la seguente scheda: "Shirin Ebadi, 59 anni, sposata con due figlie, e' diventata giudice nel 1970. Dopo la rivoluzione islamica del '79 ha perso il posto. Nel '93 ha avuto l'autorizzazione per svolgere l'attivita' di avvocato. Prima personalita' iraniana a ricevere il Nobel per la pace (nel 2003). Ebadi difende gratis dissidenti e donne vessate dalla legislazione iraniana. Ora le autorita' le hanno intimato di sospendere le attivita': 'Possono arrestarmi in ogni momento'"] "Le donne stanno ormai occupando tutte le trincee, che fino ad ora erano nelle mani degli uomini, i quali volevano anche l' esclusiva su Dio. Ma Dio appartiene a tutti, a uomini e donne. Ed io sono certa che verra' il tempo in cui il massimo trono della spiritualita' del mondo sara' occupato da una donna. Io forse non assistero' a questo avvenimento straordinario ma sono sicura che sul soglio di San Pietro siedera' una donna papa. In questo o nel prossimo secolo avremo un papa donna". Lo afferma senza enfasi e con assoluta disinvoltura la signora Shirin Ebadi, iraniana, premio Nobel per la pace nel 2003, in visita a Roma, che da anni difende i diritti delle donne nel suo Paese ed era stata prima della rivoluzione islamica uno dei cento giudici donna dell'Iran fino all'arrivo dell'ayatollah Khomeini e del suo governo religioso, per il quale assoluzione o condanna dovevano essere gestiti da un tribunale di soli uomini. Ero a Teheran in quei giorni di rabbia dopo la fuga dello scia' Reza Pahlavi e dopo una rivoluzione breve e incruenta, pero' ricordo che una donna in processione con altre hostess, per protestare contro il chador, venne accoltellata da un uomo che insieme ad altri esagitati maschilisti definiva puttane o con altri termini osceni quello schieramento femminile. Khomeini e i suoi successori hanno fatto di tutto per irrigidire il Paese dentro la camicia di forza del piu' severo regime islamico. A Shirin Ebadi, giurista di prestigio, che presiedeva allora una sezione civile, venne offerto un posto nell'amministrazione che lei rifiuto', senza esitazione. Una decisione che al momento le costo' molto cara ma al tempo stesso le consenti' di affermarsi come uno dei piu' aggressivi e competenti avvocati nell'ambiente legale dell'Iran. E anche uno dei piu' scomodi, perche' si sta battendo per la parita' dei diritti in un Paese in cui la Costituzione e i codici sono ispirati non solo al Corano ma all'interpretazione degli imam che sono succeduti a Khomeini. Ho appreso che Shirin significa "dolce" letteralmente ma questa signora che da anni si sta battendo per i diritti umani e per l'emancipazione delle donne - in un Paese dove la legge prevede che una bambina di 9 anni sia gia' in eta' di matrimonio e dove l'uomo puo' avere quattro mogli e puo' sciogliere il vincolo matrimoniale con ciascuna di esse senza dimostrare un valido motivo - ha una tempra e un carattere d'acciaio e non sembra turbata dalle minacce di morte che le son piovute addosso da parte dei suoi concittadini estremisti dopo il Nobel per la pace. "Anche se lentamente, la condizione delle donne in Iran sta migliorando - dice -. Hanno preso coscienza di dover affrontare e superare l'ostacolo di una cultura maschilista ma e' un fatto rincuorante e positivo che piu' del 65% delle donne frequenti l'universita'. Mia figlia si e' laureata in giurisprudenza e il 70% dei laureati in quell'anno e in quella sezione erano donne. Le donne iraniane hanno avuto diritto al voto prima delle donne svizzere e abbiamo 13 donne in Parlamento". Il Corano prevede delle leggi primarie come l' obbligo del digiuno nel mese di Ramadan, ma ci sono anche leggi secondarie ideate dagli uomini per affrontare la realta' quotidiana senza rinnegare lo spirito islamico: "Ma oggi le donne sono piu' forti che in passato per il grado di istruzione che hanno ricevuto - sostiene la signora Ebadi -, e questa nuova struttura sociale consente loro di opporsi e combattere alcune di queste leggi che le hanno avvilite e oppresse per secoli. Secondo la nostra legge, la vita di una donna vale la meta' di quella dell'uomo". * "Una vita di rivoluzione e speranza" e' il sottotitolo del libro "Il mio Iran" (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer) in cui Shirin Ebadi racconta la sua avventurosa e pericolosa esistenza. Come si legge nel risvolto di copertina, "E' il 2000 quando Shirin Ebadi viene a sapere di essere sulla lista dei condannati a morte dal regime di Teheran". Appena ventitreenne, nel 1970, Shirin era diventata giudice di tribunale nella capitale iraniana. Regnava ancora Reza Pahlavi, che aveva occidentalizzato il suo Paese ed era percio' amato all'estero, mentre era odiato in casa per via della Savak, la polizia segreta che torturava e ammazzava chiunque avesse osato criticare il regime monarchico sostenuto dagli Stati Uniti. E' in questo clima che la giovane avvocatessa fa le sue prime esperienze e scopre l'ingiustizia e l'aggressivita' del potere ai danni del popolo. Ma nel '79 arriva a Teheran l'ayatollah Khomeini fino ad allora esule a Parigi che instaura la teocrazia, un regime dispotico e disumano. "Inizialmente - ricorda la signora Ebadi - mi trovai a simpatizzare con chi acclamava l'ayatollah, non vedevo alcuna contraddizione nel sostenere un'opposizione che ammantava di religione le sue battaglie contro le sofferenze dei cittadini". Un'illusione che dura poco. Il fervore rivoluzionario si affievolisce di settimana in settimana e la gente deve fare i conti con la realta' quotidiana imposta dal nuovo tiranno. Che obbliga le donne a portare il velo, il chador, e bandisce le cravatte, la musica, le discoteche, i pub, i locali notturni. Bandito l'alcol. I grandi empori di vini pregiati vengono sfasciati a colpi di mitra. E tutto quel bendidio liquido scorre per le strade e gonfia le fogne. Teheran diventa una lugubre capitale dove ogni giorno si compiono arresti, epurazioni, esecuzioni capitali. Alla fine del 1980 il comitato di epurazione destituisce Shirin dalla sua carica di giudice distrettuale. "Ero una donna - commentera' poi la grande giurista - e la vittoria di quella rivoluzione esigeva la mia sconfitta". L'ayatollah Khomeini muore il 3 giugno del 1989 e per tutti gli anni Novanta il numero di donne laureate aumenta in maniera costante, superando addirittura quello dei maschi: ma il tasso di disoccupazione femminile e' tre volte piu' alto. "Il privilegio di una laurea - scrive la Ebadi - non elimino' la discriminazione sessuale, ma installo' nelle donne iraniane qualcosa che nel tempo trasformera' il nostro Paese: una viscerale consapevolezza della loro condizione di oppresse". Qualcosa che ha colpito nel profondo anche Shirin, che decidera' di mettere al servizio delle donne tutto il suo tempo e la sua capacita' di giurista. Gratuitamente. Nel suo piccolo ufficio al piano terra arrivano ogni giorno le mamme di bambine violentate o uccise, le mogli di uomini torturati o uccisi, le figlie di genitori fatti assassinare dal regime. Si tratta di cause difficilissime da difendere e che le costano una grande sofferenza. Per due mesi viene rinchiusa nel carcere di Evin, definito "luogo di tortura e di morte", ma neanche questa esperienza riuscira' a bloccare il suo slancio nella battaglia intrapresa a favore delle donne, vittime di ogni tipo d'ingiustizia. 5. PROFILI. SABINA MORANDI: IL NOBEL AL BANCHIERE DEI POVERI [Dal quotidiano "Liberazione" del 14 ottobre 2006. Sabina Morandi (Roma, 1961) e' giornalista free-lance esperta in divulgazione scientifica, fa parte del comitato scientifico dell'associazione "Verdi ambiente e societa'", collabora con il quotidiano "Liberazione". Opere di Sabina Morandi: La filosofia morale della bicicletta, Zelig, 1997; (con Mariella Bussolati), Il gene nel piatto, Tecniche Nuove, 2000; In movimento. Da Seattle a Firenze, DeriveApprodi, 2003; Petrolio in paradiso, Ponte alle Grazie, 2005. Muhammad Yunus e' l'ideatore e fondatore della Grameen Bank; nato e cresciuto a Chittagong, principale porto mercantile del Bangladesh, economista, docente universitario negli Usa poi in Bangladesh; fondatore nel 1977 della Grameen Bank, un istituto di credito indipendente che pratica il microcredito senza garanzie, grazie a cui centinaia di migliaia di persone - le piu' povere tra i poveri - si sono affrancate dalla miseria e dall'usura e sono riuscite a prendere nelle proprie mani il proprio destino. Opere di Muhammad Yunus: Il banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano 1998. Opere su Muhammad Yunus e la Grameen Bank: Federica Volpi, Il denaro della speranza, Emi, Bologna 1998. Una intervista a Muhammad Yunus e' nel n. 396 di questo foglio] Pare che l'annuncio abbia preso tutti di sorpresa. Normalmente i Nobel per la pace vengono assegnati a personalita' di rilievo del mondo politico e diplomatico, con una spiccata tendenza a preferire i peggiori - ricordate Kissinger? - mentre questa volta il Comitato ha voluto assegnare il sostanzioso premio da un milione di dollari a uno che, per mestiere, presta i soldi ai poveri piu' poveri del mondo. Da sottolineare l'importante novita' introdotta nella liturgia dei Nobel da questa decisione: il riconoscimento che pace e giustizia economica vanno insieme, e chi lavora per sradicare la poverta' a volte puo' essere piu' importante di un ambasciatore. Non esiste dunque Nobel piu' meritato di quello assegnato a Muhammad Yunus, fondatore nel 1976 della Grameen Bank (la banca dei contadini, in bengalese) e sostanzialmente l'inventore del microcredito cioe' della prassi di concedere prestiti e supporto organizzativo ai piu' poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. La piccola grande idea di questo bengalese di buona famiglia che, invece di mettere a frutto i suoi studi nelle migliori universita' statunitensi andando a dirigere qualche ricca banca occidentale e' tornato nel suo poverissimo paese, ha dato risultati incredibili. La Grameen, che opera accordando minuscoli prestiti ai diseredati, negli ultimi venti anni ha consentito a dodici milioni di persone - il 10% della popolazione del Bangladesh - di acquisire gli strumenti per uscire dalla miseria piu' nera. Inoltre, una volta che il modello ha cominciato a venire replicato altrove, si e' scoperto che poteva funzionare anche per i poveri di altri paesi, e non solo in quelli in via di sviluppo. Oggi ci sono "banche dei poveri" anche in Canada, Finlandia, Francia, Norvegia, Olanda e Stati Uniti, dove danno una mano ai diseredati dei ghetti neri, e si vanno diffondendo anche in Sudafrica, in Cina e in Russia. * Tutto ebbe inizio quando Muhammad Yunus, allora docente universitario di economia, visito' le zone rurali del suo poverissimo paese durante la terribile carestia del 1974. Il professore di buona famiglia rimase sconvolto e si mise in testa di fare qualcosa di concreto per restituire un po' di speranza ai contadini messi in ginocchio dalla fame. Cosi', in spregio a tutte le regole della finanza, Yunus riusci' a convincere una banca della sua regione ad aprire una linea di crediti molto esigui (massimo venti dollari) senza alcuna richiesta di garanzia e senza neppure la necessita' di riempire un modulo (visto che tanto la maggior parte dei clienti erano analfabeti). Il risultato e' stato incredibile: non solo i poveri riuscivano a mettere a frutto quei pochi soldi per lanciare attivita' redditizie le piu' diverse - dalla vendita di focacce alla coltivazione del riso passando per il piccolo artigianato - per sfuggire alla miseria e al ricatto degli usurai, ma rimborsavano puntualmente i prestiti, cosa che raramente avviene con i "normali" clienti delle banche tradizionali. La spiegazione di Yunus e' semplicissima: "Chi sta bene non teme la legge e sa come manipolarla a proprio vantaggio", aveva dichiarato in una delle numerose interviste, mentre "i piu' poveri fra i poveri sanno invece che non avranno un'altra occasione". Il ragionamento e' meno paradossale di quello che sembra se e' vero che in Bangladesh ci sono banche la cui percentuale di recupero dei crediti non supera il 10% (alla Grameen siamo sul 98%) e che la moratoria sui prestiti non rimborsati diventa regolarmente un cavallo di battaglia in ogni campagna elettorale del paese. Ma il banchiere filantropo non doveva superare soltanto le resistenze dei suoi colleghi. La filosofia del microcredito imponeva di andare a cercare proprio gli ultimi, quelli che non avevano piu' speranza. E nella societa' del Bangladesh, cosi' come in molti altri paesi asiatici o africani, non c'e' nessuno che stia peggio di una vedova o di una donna abbandonata o semplicemente maltrattata dal marito. Ma come raggiungerle in un paese musulmano tradizionalista dove vige la rigida separazione fra i sessi? Semplicemente andandole a cercare. Ecco perche' per anni Yunus e i suoi hanno percorso in lungo e in largo le zone piu' depresse del Bangladesh cercando di convincere le donne ad accettare prestiti da rimborsare a piccole rate. Inutile dire che le autorita' religiose di ogni villaggio hanno cercato in tutti i modi di scoraggiare sia la banca che le sue possibili clienti. Alla fine, pero', la Grameen e' riuscita a spuntarla: non solo ha cominciato a funzionare a pieno ritmo - pare che le donne siano infatti le piu' affidabili in materia di debiti a ogni latitudine - ma ha anche messo in moto un processo di emancipazione femminile che ha fatto impallidire i costosissimi progetti foraggiati dalle organizzazioni internazionali. Non dovete comunque pensare che Muhammad Yunus sia un rivoluzionario. Al contrario ha tratto dalla teoria economica classica - che individua nella mancanza di capitale il principale ostacolo al decollo dello sviluppo economico - l'ispirazione a intervenire per rompere il circolo vizioso di chi, disponendo soltanto della propria forza lavoro, e' sottoposto allo sfruttamento del committente che fornisce le materie prime e si prende il prodotto lasciando al lavoratore una remunerazione cosi' bassa da non permettergli mai di accantonare qualcosa per ampliare la sua base economica. Inoltre, una parte importante dei prestiti viene destinata dalla Grameen Bank a finanziare l'acquisto o la costruzione delle abitazioni, dando la possibilita' a migliaia di persone di vivere e lavorare in condizioni salubri. Come si evince dai dati forniti dalla banca stessa, l'impatto del microcredito sulle condizioni di vita e' stato evidente: una crescita del 9% del livello nutrizionale pro-capite, il 18% in piu' di soldi destinati a vestiti, educazione e medicinali, cosa che ha abbassato di molto la mortalita' per malattia fra la popolazione rurale. La sintesi di questi progressi e' espressa da un dato: il 54% dei clienti Grameen supera la soglia della poverta' in cinque anni, gli altri nell'arco di dieci. * Abbiamo gia' detto dello stratosferico tasso di solvibilita' che sta attirando l'attenzione di tutte le banche del mondo. Alla base, oltre alla disperazione dei poveri, c'e' in realta' anche un'altra geniale idea dell'economista bengalese: l'introduzione dei contratti di prestito collettivo che mettono al centro del meccanismo di erogazione e di recupero dei prestiti non gli individui ma i gruppi. La loro caratteristica basilare e' l'utilizzo della cosiddetta joint-liability, ovvero il meccanismo che tramite la responsabilita' di gruppi ristretti di debitori (massimo 5 persone) consente di ridurre i rischi in circostanze in cui i beneficiari dei prestiti sono troppo poveri per poter offrire garanzie. Il dibattito in merito all'esperienza della Grameen ha univocamente riconosciuto che proprio la joint-liability costituisce la chiave del suo successo insieme ad altri meccanismi innovativi come il sistema di rimborso a cadenza settimanale, la crescita progressiva nell'importo dei prestiti concessi e la prevalenza delle donne che sono ormai il 94% della clientela della banca. Inoltre il programma di microcredito della Grameen si articola utilizzando una serie di diversi strumenti finanziari - dai fondi di risparmio mutualistici ai fondi assicurativi passando per i contratti di leasing destinati all'acquisto di attrezzature e veicoli - che consentono alla banca di fornire un servizio finanziario integrale. Perche', sia chiaro, la Grameen Bank non e' un'associazione di beneficenza ma una vera e propria attivita' bancaria alquanto redditizia che, da quando e' stata fondata, non ha fatto che espandersi e aprire nuove succursali in tutto il pianeta. * Con l'interessamento delle grandi banche e gli studi delle organizzazioni internazionali come la Banca mondiale, che ha verificato il successo del microcredito nell'abbattere la poverta' e migliorare le condizioni di vita, il modello Grameen ha cominciato a venire imitato un po' ovunque. Nel 1980 in Olanda e' nata la Triodos Bank, diretta emanazione di una cooperativa di credito che nel 1995 aveva gia' un volume di attivita' di 165 miliardi di lire. Nel 1988, sulla spinta del movimento ambientalista, in Germania e' nata la Oekobank mentre in Svizzera, nel 1990, ha visto la luce la Banque alternative Bas che promuove progetti nel campo dell'economia non profit. Poi, a ruota, sono arrivate la Citizen Bank in Giappone, Merkur in Danimarca, Eko Osuuspankii in Finlandia, South Shore Bank negli Stati Uniti e la Banque Populaire du Haut Rhin in Francia, solo per citarne alcune. Oggi il contributo del microcredito alla lotta alla poverta' e' universalmente riconosciuto dalle istituzioni mondiali deputate a sostenere lo sviluppo. Nel giugno 1995 la Banca Mondiale ha avviato un proprio programma mentre le Nazioni Unite hanno approvato nel 1997 una risoluzione che riconosceva ufficialmente l'importanza del microcredito come strumento per sradicare la poverta'. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 95 del 15 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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