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La nonviolenza e' in cammino. 1450
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1450
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 16 Oct 2006 01:10:02 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1450 del 16 ottobre 2006 Sommario di questo numero: 1. Afghanistan 2. Maso Notarianni: Prima del sequestro 3. Il premio Nobel per la letteratura a Orhan Pamuk 4. Irene Bignardi ricorda Gillo Pontecorvo 5. Pietro Ingrao ricorda Gillo Pontecorvo 6. Enrico Ghezzi ricorda Daniele Huillet 7. Letture: Stefania Limiti, "Mi hanno rapito a Roma" 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. AFGHANISTAN Gia', quell'Afghanistan, dove l'Italia partecipa alla guerra terrorista e stragista. Gia', quell'Afghanistan, dove gia' innumerevoli sono le vittime in una guerra che perdura da decenni, e tra esse anche italiani: uccisi, feriti, rapiti. * Cessi l'illegale e criminale partecipazione militare italiana alla guerra terrorista e stragista. L'Italia rientri nel'alveo della legalita' costituzionale e del diritto internazionale. Cessi l'attuale scellerata e infame politica italiana della guerra e delle uccisioni, ed inizi finalmente una politica della pace, del disarmo, della smilitarizzazione dei conflitti, dell'aiuto a tutte le vittime, del riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani. 2. TESTIMONIANZE. MASO NOTARIANNI: PRIMA DEL SEQUESTRO [Dal sito di Peacereporter (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente articolo. Maso Notarianni, giornalista, e' impegnato in Emergency e dirige "Peacereporter". Gabriele Torsello, giornalista, fotografo e documentarista freelance, collaboratore di movimenti umanitari, impegnato contro le violazioni dei diritti umani, e' stato rapito in Afghanistan sabato 14 ottobre 2006] Era appena tornato da Musa Qala, Gabriele Torsello. Una citta' a nord di Lashkargah, sopra il distretto di Sangin. Una citta' sconosciuta al mondo ma ben inquadrata nel mirino dei cacciabombardieri Nato-Isaf. E' stato la con la sua Nikon D200, ed e' tornato con delle foto importanti. Musa Qala non c'era piu'. Al posto dei palazzi e delle case, solo degli enormi crateri. Persino l'ospedale e' stato raso al suolo dai bombardieri in missione di pace e di stabilizzazione. E questo aveva molto colpito gli operatori di un altro ospedale, quello di Emergency a Lashkargah. Colpiti e indignati: "Possibile che si possa bombardare un ospedale?". Possibile, se si accettano le regole della guerra. Che sono le stesse sia che la guerra si faccia con cinture esplosive o che la si faccia con i bombardieri. Lo scopo e' uno solo: terrorizzare i civili, colpirli, massacrarli quanto piu' possibile. Salvo poi farli passare per effetti collaterali. O salvo poi mettere di fianco ai cadaveri dei kalashnikov e travestirli cosi' da combattenti talebani. Gira solo, senza alcun autista, Gabriele. Conosce bene quelle zone. Conosce la gente del sud, e vuole raccontare quello che, nascosto ai riflettori delle televisioni, alla gente del sud sta succedendo. Per questo, nonostante tutti lo avessero sconsigliato, un mese fa era partito per le zone piu' colpite dalle aviazioni occidentali. "E' molto appassionato - racconta Marina Castellano, infermiera di Emergency - e per nulla sprovveduto. Parla anche Pashto, la lingua dei talebani. Me lo sono ritrovato fuori dall'ospedale un mesetto fa. Era appena stato rilasciato dalla polizia locale". Lo avevano scambiato per un terrorista talebano - vedi la sorte - perche' era vestito da afgano, ma aveva tutte le borse e i marsupi che un fotografo si porta appresso. Si era fermato a bere una bibita nella via parallela a quella della residenza del governatore, e le guardie del corpo gli erano saltate addosso, buttandolo a terra e tenendolo a faccia in giu' con le canne dei fucili mitragliatori puntate in faccia. Pericoloso fermarsi in quella via, dove hanno sede le "organizzazioni non governative" collegate ai militari inglesi e americani. "Voglio andare a vedere cosa stiamo combinando nelle province colpite dai raid aerei" aveva annunciato. Ed e' partito. Facendo in tempo a fotografare l'attentato che a Lashkargah lo scorso 26 settembre aveva colpito proprio la strada delle "Ong" facendo 20 vittime, 8 poliziotti e 12 civili. "Alla fine e' partito davvero, non c'e' stato verso di fermarlo", racconta ancora Marina. "Gli abbiamo lasciato i nostri numeri di telefono. Gli abbiamo chiesto di tenerci aggiornati, di farci sapere come andava. Francamente eravamo un po' in ansia per Gabriele che, nonostante tutte le nostre preoccupazioni, se ne stava andando in posti davvero pericolosi per poter documentare gli orrori della guerra". Poi e' tornato: "Martedi' scorso mi e' arrivato un messaggio: sono qui, sono tornato, tutto bene". Gabriele e' ripassato dall'ospedale di Emergency. E ha mostrato il suo lavoro. "Non aveva piu' soldi, ma voleva continuare a documentare lo schifo che gli occidentali stanno combinando in quelle province. Cosi' ha deciso di tornare a Kabul, per provare a vendere da li' le sue foto, e poi ripartire". "L'ultimo momento in cui l'ho visto, mercoledi' scorso, l'ho accompagnato al cancello. Aveva sulla spalla il tappeto per la preghiera che, a lui musulmano, aveva appena regalato Rahmat, il consulente afgano della sicurezza del nostro ospedale. Era gia' vicino al cancello, e io l'ho richiamato. Gli ho detto 'ti prego stai attento, non mi fare preoccupare, che sei gia' diventato la mia fonte di ansia'. Lui si e' voltato e mi ha detto: 'Tranquilla, appena arrivo a Kabul ti chiamo'". Ha chiamato, Gabriele, proprio l'ospedale di Emergency, probabilmente l'unico numero occidentale nella memoria del suo telefono afghano. Ma non ha chiamato da Kabul. 3. PROFILI. FABIO SALOMONI: IL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA A ORHAN PAMUK [Dal quotidiano "Liberazione" del 13 ottobre 2006 riportiamo ampi stralci del seguente articolo. Fabio Salomoni e' corrispondente da Istanbul per l'Osservatorio sui Balcani. Orhan Pamuk, 54 anni, coraggioso scrittore turco, gravemente minacciato dai nazionalisti e duramente perseguitato dal regime per aver nelle sue opere denunciato i massacri commessi dalla stato turco - il genocidio degli armeni, la feroce repressione dei curdi -, e' stato quest'anno insignito del premio Nobel per la letteratura. Dal sito www.unita.it riprendiamo la seguente scheda: "Un autore 'in cerca della malinconica anima della sua citta' natale ha scoperto nuovi simboli dello scontro e dell'intreccio tra le culture'. Cosi' l'accademia svedese spiega le motivazioni con cui si e' giunti ad assegnare il premio Nobel per la letteratura allo scrittore turco Orhan Pamuk. Nato nel 1952 in una famiglia borghese benestante di alterne fortune (il padre fu il primo dirigente della sezione turca dell'Ibm), tranne una breve parentesi trascorsa negli States, ha sempre vissuto a Istanbul. Ha iniziato a scrivere romanzi nel '74 ma il successo popolare arriva nel 1990 con il romanzo Il libro nero, che diventa rapidamente una delle letture piu' controverse della letteratura turca, grazie alla notevole complessita' e ricchezza narrativa. La reputazione internazionale di Pamuk cresce, nel 2000, in seguito alla pubblicazione di Benim Adim Kirmizi (Il mio nome e' rosso). Il romanzo, ambientato nell'Istanbul del sedicesimo secolo, mescola mistero, passione e filosofia. Viene tradotto in 24 lingue e vince, nel 2003, il piu' remunerativo dei premi letterari internazionali: l'International Impac Dublin Literary Award. Nonostante sia considerato, anche in Turchia, uno dei maggior autori contemporanei, una significativa parte dell'opinione pubblica turca si e' schierata contro di lui quando, alla fine del 2005, viene incriminato per violazione del famigerato articolo 301 del codice penale contro 'l'oltraggio all'identita' turca'. 'In un'intervista per una rivista svizzera ho detto che in Turchia sono stati uccisi un milione di armeni e 30.000 curdi. E anche che penso che nel nostro paese non si parli di queste cose perche' rappresentano un tabu'' racconta Pamuk in un articolo. Forse, proprio grazie alla sua popolarita' internazionale, alla fine le accuse contro di lui cadono. Nonostante questo un sottoprefetto della citta' di Isparta ordino' addirittura la distruzione dei suoi romanzi nelle librerie e biblioteche. Molto noto come commentatore politico e sociale, Pamuk rivendica pero' di essere in primis uno scrittore senza alcuna 'agenda politica'. Vero e' che, oltre alla condanna della censura sul genocidio di armeni e curdi, Pamuk ha preso posizioni anche su altri argomenti ed e' stato anche il primo autore nel mondo musulmano a condannare pubblicamente la 'fatwa' contro Salman Rushdie". Tra le opere di Orhan Pamuk: Cevdet Bey Ve Ogullary (Il signor Cevdet e i suoi figli, 1982); La casa del silenzio (1983, in Italia pubblicato da Frassinelli); Il castello bianco (1991, in Italia pubblicato da Einaudi); Il libro nero (1994, in Italia pubblicato da Frassinelli); La nuova vita (1997, in Italia pubblicato da Einaudi); Il mio nome e' Rosso (2001, in Italia pubblicato da Einaudi); Neve (2004, in Italia pubblicato da Einaudi); Istanbul (2005, in Italia pubblicato da Einaudi)] Lo scrittore turco Orhan Pamuk ha vinto il Nobel per la letteratura 2006. Indicato da giorni come possibile favorito insieme al siriano Adonis, Pamuk, il cui nome era gia' entrato in passato nella rosa dei candidati, e' il primo scrittore turco ed il secondo scrittore, dopo Nagib Mahfuz, proveniente da un paese islamico, ad aver ottenuto il prestigioso riconoscimento. Nel passato prima di Pamuk almeno altri due autori turchi, il poeta Nazim Hikmet ed il romanziere Yasar Kemal erano stati candidati alla vittoria del Nobel. Nella motivazione si parla "dell'arte del romanzo, dell'abilita' di destreggiarsi attraverso identita' e personalita' plurime". Il segretario dell'Accademia Reale ha tenuto a precisare che motivazioni di ordine politico non hanno influenzato la scelta di premiare Pamuk. Il riferimento esplicito era alle sue disavventure giudiziarie vissute in patria. (...) * Orhan Pamuk e' figlio di una facoltosa famiglia borghese del quartiere di Nisantas a Istanbul. Dopo aver coltivato a lungo, ai tempi dell'Universita', il sogno di diventare un pittore, a 23 anni ha deciso di diventare scrittore. Come mi raccontava in un'intervista di alcuni anni fa "mi sono chiuso dentro casa e ne sono uscito solo dopo aver finito il mio primo romanzo". Si tratta del monumentale Il Signor Cevdet e figli, la storia, chiaramente autobiografica, di una famiglia borghese di Istanbul vista attraverso tre generazioni, un ideale punto di osservazione per raccontare il tribolato passaggio dal crollo dell'mpero ottomano alla nascita della repubblica kemalista. Il romanzo e' l'unico a non essere stato tradotto in italiano e del resto verso questo romanzo Pamuk ha a lungo avuto un atteggiamento ambivalente: "Per molto tempo non ho voluto che fosse tradotto - ha detto lo scrittore - perche' non mi sembrava abbastanza postmoderno". A seguire una lunga serie di romanzi che gli hanno fatto guadagnare la notorieta' internazionale: La casa del silenzio, Roccalba, il Libro nero, la Nuova vita, Il mio nome e' Rosso. Romanzi spesso di ambientazione ottomana nei quali, con un stile ed una scrittura raffinata, Pamuk scandaglia i grandi temi del suo paese. La cultura orientale, l'incontro con la tradizione occidentale, gli effetti che questo incontro produce, i conflitti dentro l'identita' turca. Parlando de Il mio nome e' Rosso, forse il suo romanzo migliore, Pamuk raccontava del tarlo che lo rodeva: "Io voglio una Turchia occidentalizzata, io sono per la cultura occidentale ma quello che mi interessa e' capire le sofferenze ed i drammi che la sua introduzione ha portato nel paese". Pamuk non e' pero' uno scrittore politico, egli stesso nega di esserlo. Anche in un romanzo ambientato nella Turchia moderna come La nuova vita, che narra dei travagli di giovani universitari, le scottanti questioni dell'attualita' politica rimangono sullo sfondo. A prevalere e' ancora il tema dell'identita' culturale e degli effetti dell'occidentalizzazione. Alla fine pero' arriva anche il romanzo politico, Neve, del 2002, "Il mio primo e ultimo romanzo politico". Ambientato a Kars, una cittadina di montagna al confine con l'Armenia, il romanzo, che forse non il migliore dal punto di vista letterario, si tuffa nel cuore dell'attualita' politica e sociale turca. Gli strascichi delle contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra ma soprattutto la questione della crescita dell'islam politico, la questione del velo e la condizione femminile. Un romanzo che ha avuto l'innegabile merito di aver fatto conoscere ad una opinione pubblica internazionale a corto di informazioni, uno spaccato dei travagli che attraversano la societa' turca. * Se quest'ultimo romanzo consacrava il nome di Pamuk nell'Olimpo della letteratura mondiale, in patria la figura di Pamuk e' pero' rimasta abbastanza controversa. Molto letto certo, Pamuk e' stato pero' spesso accusato di scrivere "per l'Occidente" e di usare una lingua molto ricca, a volte difficile da capire. Molti poi, e non soltanto tra i suoi colleghi, di fatto semplicemente non gli hanno mai perdonato di essere molto popolare all'estero e di vendere molto. Questo groviglio di sentimenti ed invidie ha avuto l'occasione di venire apertamente allo scoperto all'indomani delle sue dichiarazioni sul genocidio ameno. Nel 2005 ad un inserto culturale svizzero Pamuk ha dichiarato che "i turchi hanno ucciso un milione di armeni e 30.000 curdi. Nessuno ha il coraggio di dirlo e allora lo faccio io". Come ha raccontato poi in un articolo al quotidiano "Radikal" le conseguenze sono state una valanga di minacce di morte e campagne d'odio orchestrate della stampa nazionalista che lo accusava "di aver svenduto il paese per qualche copia in piu'". Di fatto il solito refrain servito ora in chiave nazionalista: Pamuk per essere cosi' popolare all'estero racconta quello che gli occidentali vogliono ascoltare e denigra il nostro paese. Un vero e proprio linciaggio morale che lo ha costretto ad un lungo silenzio ed all'esilio su una delle isolette che stanno di fronte ad Istanbul. * Non e' bastato pero' per calmare le acque perche' su iniziativa dell'avvocato Kerincsiz, un vero e proprio professionista della provocazione nazionalista nei confronti degli intellettuali turchi, un tribunale ha aperto un procedimento contro di lui in base ad un famigerato articolo del riformato codice penale, il 301, quello che parla di "oltraggio alla turchita'". Concetto astratto dai contorni quasi esoterici che si presta alle piu' disinvolte interpretazioni, esso rappresenta da tempo una vera e proprio spada di Damocle che pende sulla liberta' di pensiero e di espressione in Turchia. Le udienze del processo Pamuk, che i nazionalisti hanno saputo trasformare in una gazzarra indegna, hanno pero' permesso di riportare il tema della liberta' di espressione ed il contenuto dell'articolo 301 al centro dell'agenda politica ed anche dell'attenzione internazionale. La notorieta' di Pamuk ha di fatto trasformato lo scrittore in un simbolo ed ha permesso che si parlasse anche delle decine di scrittori ed editori meno noti costretti a comparire davanti ad un tribunale per difendersi dall'accusa di aver violato questo articolo. L'ultimo caso, poche settimane fa, quello della scrittrice Elif Safak, prosciolta, come prosciolto e' stato anche Pamuk. L'articolo 301 e' diventato cosi' uno dei temi caldi delle relazioni turco-europee. Nell'ultimo rapporto sullo stato delle riforme, l'Unione Europea chiedeva esplicitamente al governo turco di abolire questo articolo. A lungo il governo Erdogan ha resistito a queste richieste, temendo di apparire debole di fronte alle pressioni europee. Il primo ministro ha sempre chiesto che si guardasse non al contenuto dell'articolo ma alle decisioni dei tribunali. Se e' vero che gran parte degli accusati e' stata assolta, ve ne sono alcuni che sono stati condannati, come lo scrittore armeno Hrant Dink. E poi come ha ricordato Hans Georg Kretschmer, rappresentante dell'Unione uropea in Turchia, in nessun paese europeo gli scrittori sono trascinati davanti ai tribunali per i loro scritti. 4. MEMORIA. IRENE BIGNARDI RICORDA GILLO PONTECORVO [Dal sito del quotidiano "La repubblica" (www.repubblica;it) riprendiamo il seguente ricordo del 13 ottobre 2006. Su Irene Bignardi dal sito www.festivaletteratura.it riprendiamo la seguente scheda: "Irene Bignardi e' inviata speciale e critica cinematografica de 'La Repubblica'. Si occupa di letteratura inglese e americana. Per dieci anni ha tenuto una rubrica di cinema su 'L'Espresso' e ha condotto molte trasmissioni televisive dai maggiori festival internazionali. Dal 1986 al 1989 ha diretto il 'MystFest' e dal 1993 e' stata responsabile, con Giorgio Gosetti, della sezione 'Notti veneziane' della Mostra del cinema di Venezia. Attualmente dirige il Festival di Locarno". Opere di irene Bignardi: Il declino dell'impero americano, 50 registi e 101 film, Feltrinelli, Milano 1996; Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo, Feltrinelli, Milano 1999; Le piccole utopie, Feltrinelli, Milano 2003; Americani. Un viaggio da Melville a Brando, Marsilio, Venezia 2005. Gillo Pontecorvo (1919-2006), antifascista, resistente, regista cinematografico di forte impegno civile, e' stato autore di soli cinque lungometraggi, ma tra essi vi sono due capolavori, Kapo' (1960) e La battaglia di Algeri (1966), e altri due film che anch'essi costituiscono rlevanti - ed inquieti, ed aperti - contributi alla riflessione su ineludibili questioni morali e politiche, Queimada (1969) e Ogro (1979). Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006 riprendiamo la seguente scheda di Silvana Silvestri: "Un compagno di cinema, un punto di riferimento, e' scomparso con Gillo Pontecorvo. Se vale l'equazione per cui le filmografie dei registi piu' sono scarne piu' sono eloquenti, quella di Gillo Pontecorvo in questo e' esemplare, un regista diventato negli ultimi anni simbolo di un cinema italiano che non gli e' stato concesso di fare, corteggiato e posto nei vari luoghi di comando piu' prestigioso, come la presidenza dell'Ente Cinema, di Cinecitta' Holding, dopo la direzione del festival di Venezia dal 1992 al 1996 e chi la frequenta sa che e' ancora oggi ricordato per quella amicizia fraterna con tutti i grandi (Spielberg, e' stato ricordato, gli dono' il suo Leone d'oro perche' quello che lui aveva ricevuto nel '66 per la Battaglia di Algeri l'aveva venduta all'asta per beneficenza). La battaglia di Algeri e' il suo film feticcio, quello per cui e' costantemente ricordato e che in Francia si e' potuto vedere solo da poco tempo per motivi di censura, nonostante le nomination all'Oscar. Lo sguardo del regista era vasto come l'internazionalismo teorizzato dai comunisti. Pisano, studi di chimica, fratello del famoso scienziato Bruno Pontecorvo, iscritto al partito comunista in Francia durante la guerra, ha avuto una formazione giornalistica e da documentarista. Rossellini e' stato il suo primo punto di riferimento con Paisa' e poi Joris Ivens di cui fu assistente. Il suo lavoro nel cinema inizia come attore nel primo film voluto dall'associazione partigiani (l'Anpi), Il sole sorge ancora ('46) di Vergano, e prosegue come documentarista (Pane e zolfo, Cani dietro le sbarre, Uomini del marmo) con uno dei rari film sul lavoro in fabbrica, argomento intoccabile nel nostro cinema, Giovanna, storia di un'operaia in sciopero boicottata dal marito metalmeccanico comunista. Con Franco Solinas come sceneggiatore stabilisce un grande sodalizio creativo, realizza film come La grande strada azzurra ('57) ambientato tra i pescatori sardi, premiato al festival di Karlovy Vary, competizione severissima in fatto di contenuti politici. Uno dei suoi film mai fatti sarebbe stato Confino Fiat sui sindacalisti che in epoca scelbiana erano messi in un reparto speciale, un film impossibile da produrre anche nei disinvolti anni '60. Come anche e' abbandonato un progetto sui poteri paranormali, sciamanici, nato dai colloqui con Ernesto De Martino e dalle sue ricerche in vari paesi. Puo' invece realizzare Kapo' ('60) grazie alla presenza di dive come Susan Strasberg e Emanuelle Riva (delle fabbriche non si poteva parlare, ma i campi di concentramento erano concessi) e fu il suo primo successo internazionale. Solo dopo sei anni arriva La battaglia di Algeri, la messa in scena della guerra di popolo. L'indipendenza dell'Algeria e' del '62 e Yacef Saadi in persona, il comandante militare del Fronte di liberazione viene in Italia a cercare un regista che racconti l'epopea del suo paese. Il film sara' uno dei piu' grandi film di liberazione ('abbiamo raccontato lucidamente come nasce, come si organizza e come si combatte una guerriglia' diceva Solinas) punto di riferimento anche per il cinema maghrebino. Un film che i militari americani (del tutto inesperti di repressione, interrogatori e tortura negli anni '60, cosi' dicevano) avevano l'obbligo di vedere e rivedere per imparare qualcosa (lo hanno imparato) su suggerimento dei colleghi dell'Oas, i loro trainer. I francesi hanno sempre considerato i massacri compiuti un falso storico, il film fatto uscire clandestinamente in Francia nel '71 e poi ritirato per attentati nel cinema, e' stato rieditato solo nel 2004. Quando poco tempo fa Pontecorvo annuncio' che sarebbe stato a Genova al G8, ricordando che il tipo di riprese da farsi sarebbe stato proprio come quello che facevano una volta, con l'Arriflex da salvaguardare, il tono dei suoi interventi era quello che aveva da giovane nei suoi primi film, tra i movimenti di massa. E' questo il regista che vogliamo ricordare, piu' che il direttore dei grandi antidivi come Marlon Brando in Queimada, di Volonte' in Ogro, il film sull'Eta, sull'attentato a Carrero Blanco: a dispetto della tematica importante, e' da ricordare anche il regista dei film non realizzati perche' nessun produttore li avrebbe fatti e nessuna censura approvati: i film sull'Italia dell'autunno caldo, la strategia della tensione, gli attentati fascisti. O del film su Cristo come 'eroe del suo tempo', rivoluzionario di un'epoca di passaggio, un'idea che sarebbe piaciuta a Rossellini (si sarebbe intitolato I tempi della fine, ma i produttori vogliono una star e il film non si fa), sugli indiani d'America nel Sud Dakota. Dietro il suo sorriso enigmatico certo si svolgevano costantemente le scene dei suoi film immaginati". Opere di Gillo Pontecorvo: La grande strada azzurra (1957); Kapo' (1960); La battaglia di Algeri (1966); Queimada (1969); Ogro (1979). Opere su Gillo Pontecorvo: Massimo Ghirelli, Gillo Pontecorvo, Il castoro cinema, Milano; Irene Bignardi. Memorie estorte a uno smemorato. Vita di Gillo Pontecorvo, Feltrinelli, Milano 1999] Oltre che nelle storie del cinema, oltre che nel ricordo allegro degli amici che hanno condiviso con lui un pezzo della sua straordinaria vita, oltre che nella memoria della sua famiglia, Gillo Pontecorvo dovrebbe restare anche nel Guinness dei primati. Perche' credo non ci sia un altro autore di cinema che sia riuscito a girare cos' pochi film nell'arco di una cosi' lunga e bella vita, cinque e mezzo in tutto, per rubare la modalita' di calcolo a Fellini. E che sarebbe comunque rimasto nella storia del cinema e nella memoria collettiva per un film che torreggia su tutti gli altri, che tutti ricordano, che ha parlato a tutto il mondo: La battaglia di Algeri (Leone d'oro a Venezia nel 1966) e che, ogni volta che lo si vede, sorprende per la potenza, l'onesta', la profondita', l'intelligenza politica, la capacita' di emozionare - qualcosa che solo il grandissimo cinema sa dare. Gillo Pontecorvo e' morto ieri a Roma, a 87 anni. Aveva avuto un infarto alcuni mesi fa. Ma ricordare Gillo (devo dirlo: il "mio" amico Gillo, con cui ho lavorato, chiacchierato, litigato, e passato molte ore a "estorcergli", cosi' lui diceva, le sue memorie di vero o finto smemorato per la sua biografia che andavo scrivendo), ricordare Gillo vuol dire parlare non solo del regista ma di una persona e di una avventura umana uniche e speciali, di una vita divisa in tante tranche avvincenti e avventurose. Da quando, figlio pigro e, per sua ammissione, un po' sconclusionato di una famiglia della grande borghesia ebraica pisana, nello scenario di fratelli sapienti, brillanti e politicamente connotati (citiamo per tutti il nome di Bruno, il grande fisico che abbandonera' l'Occidente per andare a lavorare in Urss), si era ritagliato il ruolo di campione di tennis. Ci avrebbero pensato le leggi razziali a spedirlo a Parigi, dove si sarebbe compiuta, ma sempre alla maniera di Gillo, allegramente, la sua educazione politica alla scuola di Amendola e di Negarville. E saranno gli amici del Pci in esilio a coinvolgerlo nella lotta clandestina di Liberazione, mentre Gillo, fuggito da Parigi all'arrivo dei nazisti, viveva di pesca subacquea e di lezioni di tennis a Saint Tropez. Una lotta che il nostro, poco piu' che ventenne (era nato il 19 novembre del 1919 a Pisa), intraprese con il consueto mix di voglia di gioco, di coscienza civile e di incoscienza personale, operando prima come collegamento tra la Francia e l'Italia, poi nella Milano occupata dai tedeschi e infine come capo di una brigata partigiana. Sarebbe gia' un film. A cui si unisce quello del suo lavoro nel Pci negli anni successivi alla guerra, al lavoro come fotografo e giornalista per l'Avas, l'agenzia di stampa francese, infine all'innamoramento per il cinema, ai primi documentari, al lavoro come assistente di Mario Monicelli sul set di "Toto' e Carolina", alla vita in una celebre comune di scapolacci. Ma ci sarebbe voluto un incontro fatale - quello con Franco Solinas, avvenuto molto pontecorvianamente in un night club - per far decollare l'avventura cinematografica di Gillo Pontecorvo. Il primo film di Gillo regista e Franco Solinas sceneggiatore e' il mezzo dei cinque e mezzo cui accennavamo sopra: "Giovanna", 1956, 45 minuti in un film collettivo firmato anche da Joris Ivens e da Cavalcanti, una storia operaia girata in una fabbrica dismessa (e un film che difficilmente si riesce a trovare). Poi e' stata la volta di "La lunga strada azzurra", da un romanzo dello stesso Franco Solinas ("Squarcio'"), di cui Gillo diceva sempre di non essere mai stato soddisfatto, costretto come era stato a scegliere, per una storia di pescatori sardi, un divo come Yves Montand e una gran dama del cinema, e improbabile moglie di proletario, come Alida Valli. Sempre tormentato nella stesura delle sceneggiature con il dioscuro Solinas, con cui erano amorosi litigi e continue rappacificazioni, Pontecorvo nel 1960 realizzo' in Jugoslavia un interessante, emozionante e discusso film sull'olocausto, "Kapo'", con Susan Strasberg e Laurent Terzieff: un film che scateno' piu' tardi una insensata polemica innescata maramaldescamente da Jacques Rivette - che accusava un certo "carrello" che seguiva la mano di Emmanuelle Riva aggrappata alla rete del campo di essere "amorale" - e ripresa successivamente da Serge Daney e da alcuni imitatori nostrani: una polemica che, a dire il vero, turbava e indignava di piu' i suoi amici (me compresa) che Pontecorvo, portato a ridere di attacchi e polemiche ridicolmente ideologiche. Nel 1965, infine, dopo una gestazione lunga e complicata che vide scendere in campo, accanto a Pontecorvo e a Solinas, anche i veri protagonisti della vicenda, trasformati in interpreti o in coproduttori, ebbe inizio la lavorazione de "La battaglia di Algeri", un film genialmente impostato su quella che era stata, apparentemente, una sconfitta del Fronte di Liberazione Algerino e che sarebbe rimasta invece come un momento di presa di identita' collettiva dell'Algeria contro il colonizzatore francese. Uno straordinario film da outsider, siglato dai ritmi algerini e dalle musiche bellissime di Ennio Morricone e dello stesso Gillo, che vinse il Leone d'oro a Venezia, conquisto' tre nomination agli Oscar, e divenne leggendario: tanto che, anni dopo, l'Fbi sosteneva che le Black Panther studiavano le loro tecniche di guerriglia urbana analizzando il film di Pontecorvo. E anche il Pentagono lo prese come esempio prima dell'invasione dell'Iraq. Tre anni dopo, questa volta scritto con Solinas e con Giorgio Arlorio, fu la volta di un bel film che non ebbe il successo dovuto, e che la produzione americana (la Warner) smonto' e mal distribui': "Queimada" (un titolo voltato in portoghese dall'originale spagnolo dopo che gli spagnoli, offesi dall'immagine del colonialismo che il film stigmatizzava, minacciarono di boicottarne la distribuzione in tutti i paesi di lingua castigliana), in cui Marlon Brando, meravigliosamente bravo e avventurosamente a confronto con un indigeno, Evaristo Marquez, che Pontecorvo aveva scovato in un villaggio e trasformato in un attore, era un avventuriero al soldo degli inglesi che agitava le gia' agitate acque di un piccolo paese dei Caraibi per sostituire al vecchio dominio coloniale il "moderno" dominio britannico. Nel 1979, infine, quello che sarebbe rimasto l'ultimo film di Gillo, "Ogro", sull'attentato che in Spagna uccise Carrero Blanco: un film appassionante e teso, ma molto tormentato in fase di sceneggiatura, e che non soddisfece mai del tutto il suo regista. * Poi, tanto lavoro politico - che Pontecorvo ha sempre continuato a fare dai tempi della sua militanza con Berlinguer dopo la guerra, senza interromperlo neanche quando nel 1956 usci', in silenzio, dal Pci, a cui rimase vicino tutta la vita. Un po' di pubblicita'. La direzione della Mostra del cinema di Venezia, dal 1992 al 1996, che svelti' e rese piu' giovane e popolare. La presidenza di Cinecitta'. Ma niente piu' cinema. Perche'? A chi glielo chiedeva Pontecorvo rispondeva con uno dei suoi sorrisi che gli illuminavano gli occhi chiari che per fare cinema lui doveva innamorarsi: del progetto, naturalmente. Qualche volta aveva creduto di innamorarsi (per un progetto su Cristo, per un film sull'arcivescovo Romero), ma le cose non erano andate in porto. E lui, Gillo, serenamente pigro, innamorato della vita, dei suoi piccoli rituali, dei suoi tre figli, di sua moglie Picci, dei fiori che coltivava con rimarchevole pollice verde e con un paio di cesoie sempre in tasca destinate soprattutto a rubare bulbi e talee in casa altrui, non aveva voglia di combattere, con la sua amabilita' da folletto e la sua cocciutaggine da pasionario, per qualcosa che non fosse un grande progetto emozionante. Era capace di vivere con poco. La sua colorata casa di Roma, gestita con gentilezza poetica da Picci, e' sempre stata un approdo di amicizie e sentimenti, lontana da qualsiasi mondanita' romana. E la sua storia e' la storia di un uomo che ha saputo vivere la vita fino in fondo, testardamente godereccio con poco, cercando sempre di pensare in grande. 5. MEMORIA. PIETRO INGRAO RICORDA GILLO PONTECORVO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006. Pietro Ingrao e' nato nel 1915 a Lenola (Latina), laureato in giurisprudenza e lettere, partecipa alla lotta clandestina antifascista e alla Resistenza. Giornalista, direttore de "L'Unita'" dal 1947 al 1957, dal 1948 deputato del Pci al Parlamento per varie legislature e tra il 1976 e il 1979 presidente della Camera dei Deputati. Sono di grande rilievo le sue riflessioni sui movimenti, le istituzioni, la storia contemporanea e le tendenze globali attuali. Tra le opere di Pietro Ingrao: Masse e potere, Editori Riuniti, Roma 1977; Crisi e terza via, Editori Riuniti, Roma 1978; Tradizione e progetto, De Donato, Bari 1982; Il dubbio dei vincitori, Mondadori, Milano 1986; Le cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990; Interventi sul campo, Cuen, Napoli 1990; L'alta febbre del fare, Mondadori, Milano 1994; (con Rossana Rossanda ed altri), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; Variazioni serali, Il Saggiatore, Milano 2000; (con Franco Fortini, Alberto Olivetti, Gianni Scalia), Conversazioni su Il dubbio dei vincitori, Cadmo, Roma 2002; (con Alessandro Zanotelli), Non ci sto!, Piero Manni, Lecce 2003; La guerra sospesa, Dedalo, Bari 2003; Una lettera di Pietro Ingrao, Cadmo, Roma 2005; Volevo la luna, Einaudi, Torino 2006. Opere su Pietro Ingrao: Antonio Galdo, Pietro Ingrao. Il compagno disarmato, Sperling & Kupfer, Milano 2004, 2006; Lorenzo Benadusi, Giovanni Cerchia (a cura di), L'archivio di Pietro Ingrao, Ediesse, Roma 2006] Ho conosciuto Gillo Pontecorvo in una giornata memorabile dell'estate del 1943. Vivevo allora clandestino a Milano in una casa sita a corso di Porta Nuova, che condividevo con il compagno Salvatore Di Benedetto - uno degli organizzatori della lotta antifascista a Milano - e con due operai siciliani venuti a trovare pane e lavoro nella citta' meneghina. Uno di essi s'era unito con un'operaia del bergamasco - si chiamava la Santina - giunta anch'essa a trovare pane nella metropoli milanese gia' incendiata dalla guerra. E presto quell'operaia era diventata la capofamiglia di quel gruppo di maschiacci. La sera del 25 luglio s'era prodotto il grande evento. Mentre dormivo, con i fratelli Impiduglia, in un grande e sommario lettuccio, attorno alla mezzanotte era entrato di corsa nella stanza Salvatore Di Benedetto, e spalancata la finestra s'era messo a gridare nella notte buia: "Abbasso Mussolini, a morte il fascismo, viva la liberta'...". Risvegliati di brusco, per un istante avevamo creduto che Toto' Di Benedetto fosse impazzito. Poi Toto' ci aveva dato la grande notizia dell'arresto di Mussolini, e ci eravamo precipitati nelle strade di Milano invase dalla gente che inneggiava alla liberta', tripudiava nelle piazze, assaliva e devastava le sedi del partito fascista. All'alba ci ritirammo stremati nella casa di corso di Porta Nuova. Ma presto Elio Vittorini ci chiamo' dalla sede della Bompiani, da cui - mentre a piazza del Duomo gia' teneva un breve comizio Roveda - lavorammo a preparare una grande manifestazione di popolo per il pomeriggio. E - alle quattordici circa - gia' un mare di gente sfilava dinanzi alle carceri invocando la liberazione dei detenuti antifascisti. Presto, poco lontano da Porta Venezia, dal tetto di un rozzo camioncino tenevo il primo comizio della mia vita, invocando pace e liberta'. Poi irruppe la fila dei tanks che aveva in testa un tenentino livido, e comincio' un dialogo serrato tra quei soldati silenziosi e sconvolti, e la folla che premeva alle loro spalle; finche' una donna giovanissima riusci' a rompere la filiera dei muti soldati e ad arrampicarsi sul tetto di un carro armato. Per i soldati fu il segnale della ritirata. Io presto mi ritrovai, poco distante da Porta Venezia, nella casa di Vittorini e Ferrara, di fronte a Celeste Negarville, uno dei dirigenti comunisti riusciti a penetrare a Milano, che con un sorriso un po' ironico mi diceva: "so che hai tenuto un grande comizio a Porta Venezia...". In quella casa di Vittorini e nel crepuscolo estivo di quella giornata frenetica conobbi Gillo Pontecorvo: giovanissimo e sorridente. Gia' da mesi faceva la spola tra un brano del gruppo dirigente comunista adunato nel sud della Francia, e un altro nucleo del Pci clandestino gia' entrato in Italia e diretto da Umberto Masala. Quella dolce serata estiva pero' non fu tranquilla. Venne la polizia. Porto' via in manette Di Benedetto, Vittorini e Giansiro Ferrata; e per alcune ore tememmo che fosse scattata la controrivoluzione fascista. Non fu cosi'. Seguirono scioperi infiammati nella citta' operaie, scontri nelle piazze e urti tra gli sgherri badogliani e popolo dimostrante. * Di colpo Gillo Pontecorvo ed io fummo chiamati a formare la redazione de "l'Unita'", il giornale di Gramsci che risorgeva. Direttore era Girolamo Li Causi: il quale pero' era preso da altre gravi incombenze e lasciava fare quell'"Unita'" semiclandestina a noi giovanotti di assoluta inesperienza: Gillo ed io. Cosi' vissi mesi palpitanti, allocati in corso di Porta Nuova e la sera fuggenti verso Monza, arrampicati su qualche camionetta amica, per salvarci dai bombardamenti angloamericani che seminavano morte e rovine nella citta'. Presto a Milano ci raggiunse una bellissima fanciulla: francese, di nome Henriette, e allora innamorata di Gillo. E il nostro sodalizio si allargo'. Gillo sprizzava fantasia e freschezza da ogni gesto.Decidemmo di cambiare caratteri e disegno a quei due fogli de "l'Unita'", e ci servimmo dell'ausilio di un artista d'allora: Albe Steiner. Sotto il suo consiglio mutammo anche la testata di quella "Unita'" clandestina. In verita' io ero piu' cauto. Gillo invece gia' mostrava il suo gusto per l'incastro dei segni. Incalzava Steiner per cavarne proposte grafiche. A Roma protestarono perche' cambiavamo il volto de "l'Unita'" di Gramsci... E difatti io ero piu' prudente. Gillo no. Si vedeva che gli piaceva la sfida, l'intreccio inedito delle forme. Piu' tardi scoprii che era uno splendido giocatore di tennis, e mi dissi -ma era una fantistacheria - che anche da questo si vedeva quanto gli piacesse l'intreccio dei segni. * In verita', i primi film che fece a Italia liberata, non mi convinsero molto (e io pretendevo di intendermene molto di cinema). Poi venne la folgorazione della Battaglia di Algeri, quel film che rivelo' la vera vena di quel giovanissimo regista. Perche' ci trascino', ci affascino' quell'opera? A mio avviso si intrecciavano parecchi fattori: e in primo luogo il rigore scabro della narrazione poetica. In verita' quell'asciuttezza cruda del messaggio sociale stava gia' nella vicenda di tanta parte del cinema italiano. E tuttavia anche nei grandi classici - da De Sica a Rossellini, per non dire di Visconti - sia pure senza mai enfasi si sfiorava sempre la soglia del romanzo: della grande tradizione del romanzo cresciuta in Europa e dilatatasi poi sino alla lontane Americhe. Rispetto a questa tradizione, cosi' forte anche nelle opere filmiche, per me La Battaglia di Algeri segno' una svolta. L'urto, il conflitto armato, le devastazioni umane, la morte erano scritte nel film nel modo piu' nudo. Lo stesso attacco al gruppo dirigente che aveva nelle sue mani la Francia sembrava avere un che di ineluttabile. E nonostante l'evidenza delle figure singole, nella sequenza filmica l'allusione al soggetto collettivo, ai "protagonisti della storia" era palese. Non a caso l'asciutta tensione tornava cosi' forte in un altro film - per me tra i piu' interessanti di Gillo: Quemada... In questo senso il suo cammino nell'espressione artistica venne come asciugandosi. Ricordo i colloqui di quella nostra giovinezza: e l'elogio che egli mi faceva - senza persuadermi- dell'inno sovietico. Poi ebbi l'impressione che il rituale politico delle sue passioni della fine degli anni Trenta fu sottoposto a un vaglio rigoroso. Ed egli inizio' la costruzione di un suo linguaggio, pregno di simbolico e al tempo stesso severo. Oggi noi ragioniamo molto e con asprezza (io fra gli altri) - sugli errori e le sconfitte del sovietismo (si potrebbe dire anche: del leninismo): e abbiamo motivi seri e duri per farlo, dopo la sconfitta grave che abbiamo patito. Pero' quando se ne va uno sguardo nudo e scabro come quello di Gillo Pontecorvo, bisogna chiamare in causa il vocabolario dell'esistere con cui tutta una parte della cultura italiana s'e' misurato con le terribili novita' del Novecento. Non siamo stati cosi' provinciali come taluni raccontano. C'era di piu'. 6. MEMORIA. ENRICO GHEZZI RICORDA DANIELE HUILLET [Dal quotidiano"Il manifesto" del 12 ottobre 2006, li' col titolo "Cronaca di Daniele H., una severita' leggendaria". Enrico Ghezzi (Lovere, Bergamo, 1952) e' studioso di cinema, responsabile della programmazione cinematografica di Raitre, ha ideato "Fuori orario" - la cosa migliore della televisione italiana. Tra le opere di Enrico Ghezzi: Stanley Kubrick, Il castoro cinema, Milano. Daniele Huillet, nata a Parigi nel 1936, deceduta nell'ottobre 2006, cineasta francese, autrice in collaborazione col marito Jean-Marie Straub (nato a Metz nel 1933, abbandono' la Francia condannato in contumacia a un anno di prigione dal tribunale delle forze armate di Metz per essersi rifiutato di fare il servizio militare in Algeria) non solo di film imprescindibili, di grande potenza euristica e preziosa qualita' espressiva, ma tout court di un cinema di straordinario valore sia formale che politico. Una filmografia delle opere di Daniele Huillet e Jean-Marie Straub e' nel n. 1448 di questo stesso foglio. In volume: Testi cinematografici, Editori Riuniti, Roma 1992. Opere su Daniele Huillet e Jean-Marie Straub: Piero Spila (a cura di), Il cinema di Jean Marie Straub e Daniele Huillet, Bulzoni, Roma] Stavo cominciando a raccontare dei nostri incontri (frequenti ma troppo poco frequenti, visto che li ricordo tutti, istante per istante). Ma ora sento solo la passione e l'insoddisfazione di non averti mai chiesto del vostro segreto. Si parlava di cinema, di immagini, di film distanti che si avvicinano, di film vicini che gridano di colpo la loro distanza. Quasi sempre o troppo spesso e troppo raramente d'accordo, ma non d'accordo su un giudizio, piuttosto in un senso musicale dell'accordarsi. Sentivo sento sempre quest'accordo, anche nei momenti piu' litigiosi tra te e Jean-Marie. Mi pareva di stare quasi automaticamente in quell'accordo, che si parlasse di lotta di classe o che si giudicassero le parole con la stessa attenzione con cui soppesavate insieme e distinti un fotogramma sapendo quanto pesante sia la leggerezza dell'immagine che appare trasparente. Ho sentito molte volte con voi due diventare piu' luminosa la difficolta' e l'importanza del confronto con la materia: la materia dell'immagine, la materia/immagine, la sua traduzione, la sua riproduzione. Di questo spesso si trattava: il lavoro di edizione, i sottotitoli, il trasferimento della pellicola nei vari gradi dell'elettronico e del digitale. Mai il lavoro tecnico mi e' parso meno disgiunto dall'amore, dalla passione, dall'entusiasmo o dallo scoramento per quanto trattenuti. Il segreto del vostro amore mi e' sempre apparso cosi' intenso e protetto da risultare impersonale, estremo da non poterne dir nulla. (Ou git votre sourire enfoui?). Trovare la stessa forma della passione nel vostro lavorare, nel vostro filmare, nel vostro stare insieme, nel vostro litigare, nel vostro stare con le altre persone, nel vostro parlare, non era per me monotonia ma persistenza (e assistere a essa) di una forma amorosa estrema. Che sapeva in se' di essere non scissa ma la scissione, non innamoramento ma l'amore, non linguaggio ma la parola. Quante volte avete detto, con intensita' kafkiana assoluta, che forse nella vostra vita avevate davvero conosciuto o che sareste arrivati a conoscere o capire quattro o tre libri, ma no forse due, anzi uno e neanche quello. Lo stesso, e piu', si puo' dire delle persone. Piu' che santi, vi trovavo e vi trovo angeli, o "giusti" talmudici invisibili. Perche' il santo e' riconosciuto e in qualche modo (auto)canonizzato. L'angelo e' invisibile e mascherato. Per me (e non perche' sia citato esplicitamente - come e' - in uno dei vostri capolavori piu' lancinanti, Il fidanzato, l'attrice e il ruffiano, dedicato anche al "maggio impossibileª del '68), il libro "solo" che (mi) basterebbe per investire tutto il vostro cinema segreto assomiglia molto all'opera di San Juan de la Cruz. La vostra severita' (e la tua, perche' piu parca di parole, specialmente leggendaria) era quasi censoria verso l'autoindulgenza di ogni tipo. La vostra torsione politica partiva da un sentire che anche la piu' semplice delle situazioni delle immagini delle parole e' un jekyll&hyde, che la realta' stessa lo e' nell'istante in cui si pretende o la pretendiamo tale. Certa bellezza dei volti o delle parole o degli alberi o delle cose o dei suoni filmati era costante grido silenzioso contro l'impossibilita' dell'accordo. Mentre il vostro lavoro era un gioco di accordo alto e impossibile, l'oggetto di esso, e la regola, era il dolore per il costante tradirsi dell'accordo, per il deludersi atroce dell'umano, delusione senza illusione, ritorno senza andata. Von Heute Auf Morgen, il vostro sguardo anticipato sugli eyeswideshut del culmine borghese e capitalistico dell'amore, e' il condensato piu' nitido sulla catastrofe amorosa. Non e' un'analisi questa, Daniele H., ne' un'invocazione a saperne di piu', del segreto d'amore. Non me lo perdoneresti ne' quindi me lo perdonerei mai. E' un sapere inutile, un sentire senza codice, un capire - nel momento in cui un "due" (si puo' davvero dire "una coppia"?) sembra dividersi nel modo piu' radicale e irrimediabile (la vita, la morte) - che questa divisione e raddoppiamento e' stata costante. Ogni film raddoppiato e diviso, ogni volta affidato al racconto al testo alla musica (infine, al "mondo") di altri, e poi/insieme da riconoscere in questa trasparenza dialogica del confronto critico (come si dice: punto critico), in questo "loro incontro" che si puo' solo provare a dire a ripetere a tradurre a sottotitolare agli umani, e che pure nel loro incontrarsi ottuso estatico gia' dissolto a ogni istante oppure ripetuto in indicibile noia o passione della ripetizione (in queste passioni ottuse insomma, non sentimentali ma impersonali per l'intensita', tale da non esser certo in grado di sentirsi) possono, gia' mutati in immagini, suscitare l'invidia degli dei indifferenti e l'accanimento della macchina estatica. ("L'Amato e' le montagne,/ le valli solitarie e ricche d'ombra,/ le isole remote,/ le acque rumorose,/ il sibilo delle aure amorose..."). In questo momento, Jean-Marie, mentre ti abbraccio quasi invidio il modo in cui ora siete ancor piu' e meno "due". Ciao. 7. LETTURE. STEFANIA LIMITI: "MI HANNO RAPITO A ROMA" Stefania Limiti, "Mi hanno rapito a Roma". Mordechai Vanunu sequestrato dal Mossad. La bomba atomica israeliana. Una spy story, Nuova iniziativa editoriale, Roma 2006, pp. 126, euro 5,90 (in supplemento al quotidiano "L'Unita'"). Una ricostruzione giornalistica della drammatica vicenda del rapimento di Mordechai Vanunu in Italia nel 1986, nel contesto della tragedia nascosta del continuo riarmo atomico (e deila lunga serie criminale di oscuri rapimenti avvenuti in Italia per alcuni dei quali e' certa la responsabilita' di servizi segreti). Con una prefazione di Vincenzo Vasile. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1450 del 16 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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