Nonviolenza. Femminile plurale. 85



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 85 del 12 ottobre 2006

In questo numero:
1. "Una citta'" intervista Susan Podziba
2. Giorgio Fornoni intervista Anna Politkovskaja (2003)
3. Giuliana Sgrena: Il mondo oltre l'hijab
4. Beatrice Busi: Un convegno a Trieste

1. ESPERIENZE. "UNA CITTA'" INTERVISTA SUSAN PODZIBA
[Dalla rivista "Una citta'", n. 140, giugno-luglio 2006 (disponibile anche
nel sito www.unacitta.it) riprendiamo la seguente intervista (dal titolo
originale "Il dialogo, senso comune democratico", e preceduta dal seguente
sommario redazionale: "Riuscire a far stare insieme operatori israeliani e
palestinesi, o attivisti antiabortisti e abortisti laddove c'erano stati
gia' degli omicidi, o a risanare una citta' devastata dalla corruzione; sono
i miracoli che possono compiere la passione dei cittadini alla soluzione dei
problemi e il metodo del dialogo finalizzato a una soluzione che vada bene a
tutti; il grande ruolo della persona facilitatrice 'di democrazia'.
Intervista a Susan Podziba". Susan Podziba e' una prestigiosa
faciltatrice-mediatrice di conflitti con il metodo del consenso. Opere di
Susan Podziba: Chelsea story. Come una cittadina corrotta ha rigenerato la
sua democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2006]

Il 30 dicembre 1994 un uomo armato di fucile e' entrato nella sede della
Planned Parenthood clinic di Brookline, Massachusetts uccidendo l'impiegata
alla reception e ferendo altre tre persone. Poi e' risalito in macchina e si
e' recato in un'altra clinica dove di nuovo ha ucciso la receptionist e
ferito altre due persone. All'indomani di questo drammatico evento Susan
Podziba ha iniziato un delicatissimo impegno come facilitatrice del dialogo
fra leader del movimento pro-choice e del movimento pro-life. Un'iniziativa
promossa dal Public Conversation Project che doveva risolversi in quattro
incontri e invece e' durata, in tutta segretezza, per ben sei anni, fino a
quando, nel 2001, le partecipanti hanno deciso di renderla pubblica
scrivendo tutte assieme un lungo articolo che traccia un bilancio
estremamente positivo di questa esperienza, rendendo Susan Podziba
probabilmente la facilitatrice di dialoghi piu' nota degli Usa. I resoconti
di queste conversazioni sono divenuti un classico, ma lo stesso si potrebbe
dire di quasi tutti gli altri casi, estremamente vari, di cui Susan si e'
occupata.
La sua tesi di Master sulla regolazione negoziata delle risorse acquifere
nel West Bank del 1984, redatta in forma di un gioco di simulazione
intitolato "Water on the West Bank", e' ancora oggi utilizzata nella
formazione di funzionari che si occupano di aree di conflitto, ed e'
acquistabile in inglese e tedesco sul sito del Program On Negotiation della
Harvard Law School. Infine, e' uscito recentemente in Italia un suo libro,
intitolato Chelsea story. Come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua
democrazia (Bruno Mondadori, 2006) con introduzione di Marianella Sclavi e
Vittorio Foa.
Questa intervista e' divisa in due parti che corrispondono ai due ruoli che
Susan Podziba ha praticato e pratica con tanta bravura: quello di
costruttrice di ponti in situazioni di tensione e quello di
mediatrice/facilitatrice nella soluzione di problemi multi-attoriali su
incarico di organi governativi e come consulente e trainer di
amministrazioni pubbliche anche europee; in particolare e' parte di una
equipe che sta formando i dirigenti del governo finlandese e del governo
olandese.
*
- "Una citta'": Susan, leggo nei documenti che ti riguardano che alcuni anni
fa la prestigiosissima John F. Kennedy School of Government della Harvard
University ti ha chiamato in tutta urgenza perche' non sapevano piu' come
cavarsela. Avevano organizzato un seminario di incontro fra operatori
ospedalieri israeliani e palestinesi, e questi non riuscivano a parlarsi
senza offendersi reciprocamente. Arrivi tu e loro non solo imparano ad
ascoltarsi, ma al ritorno nelle loro terre, congiuntamente, fondano e
gestiscono un centro di assistenza alla maternita' nel West Bank. Come hai
fatto? Qual e' il segreto?
- Susan Podziba: Non esiste alcun segreto. Mi limito a mettere le parti
avverse in condizione di utilizzare quelle capacita' di buona comunicazione
che gia' possiedono, ma che evitano di esercitare perche' farlo e' spesso
doloroso e complesso. Tutto il mio lavoro consiste nello sfidare la gente a
vedere la situazione nella sua complessita', a cominciare dalla complessita'
della buona comunicazione in situazioni di tensione. Nel caso degli
operatori della sanita' israeliani e palestinesi ad Harvard, che poi erano
sette in tutto, ho detto loro che era inutile sforzarsi di comunicare senza
avere una idea di quant'era difficile farlo. E quindi li ho invitati a fare
il gioco della parafrasi. A turno e a coppie, ognuno doveva raccontare ad un
partner della parte avversa un evento o episodio illustrativo dei suoi
sentimenti sul conflitto in Medio Oriente e al termine questi doveva
ripetere il piu' fedelmente possibile questo racconto. Gli altri osservavano
e prendevano nota di quanto incredibilmente penoso fosse ripetere quelle
storie, quante erano le dimenticanze, i salti, le distorsioni, le
cancellazioni. E si rendevano conto di avere questo problema in comune: la
fatica emozionale e il coraggio quasi eroico a cui dovevano attingere per
ascoltarsi e darsi reciprocamente spazio. Su questo terreno e questo genere
di riflessioni si e' creata una solidarieta', un embrionale mutuo
riconoscimento e rispetto che poi si e' rinsaldato grazie ad altri racconti
di episodi di vita professionale.
Nel caso degli incontri fra donne leader di organizzazioni che appoggiavano
o osteggiavano il diritto di aborto, entrambe le parti hanno accettato di
vedersi solo nella misura in cui fosse chiaro che lo scopo non era trovare
un compromesso o creare un terreno comune, ma semplicemente costruire dei
rapporti che consentissero di abbassare i toni del confronto in modo da
ridurre il rischio di future sparatorie e uccisioni. Tutte all'inizio erano
estremamente ambivalenti: da un lato desiderose di incontrarsi e dall'altro
timorose di perdere del tempo prezioso per le proprie organizzazioni. Anche
noi facilitatrici -io affiancavo Laura Chasin, direttrice del Public
Conversation Project- eravamo molto ansiose. Laura temeva che gli incontri
potessero radicalizzare ancora di piu' le posizioni; io invece mi sognavo
che qualche pazzo, saputo di questi incontri, tentasse di ucciderci (anche
perche' abitavo a pochi passi dal luogo della prima sparatoria). Le tre
esponenti "pro-vita" temevano che il solo fatto di incontrarsi con le
"pro-abortiste" le esponesse all'accusa di trattare una questione etica alla
stregua di una differenza di opinioni. Inoltre, come poi hanno scritto nel
resoconto congiunto, la sola idea di sedersi a fianco di donne che erano
direttamente impegnate "nel togliere la vita al bambino nascente" le
riempiva di una tale angoscia che prima di ogni incontro sentivano la
necessita' di riunirsi a pregare. Da parte loro le pro-choice si rifiutavano
di chiamare pro-life le altre perche' sarebbe stato come ammettere di non
esserlo. E come chiamare cio' che si sviluppa nel grembo materno? Per le une
era "un bimbo non nato", per le altre "un feto". Era chiaro che un vero e
proprio baratro le divideva e che l'unico modo per iniziare una
comunicazione doveva riguardare gli stili della comunicazione. La rottura
del ghiaccio e' avvenuta chiedendo a ognuna di parlare dei propri "incubi"
nei riguardi di questi incontri, delle cose che temeva sarebbero potute
succedere, in termini di linguaggi, comportamenti, ferite alla propria
morale e identita'. Questo ha creato momenti di sollievo per il solo fatto
di parlarne, talvolta ha suscitato qualche risatina imbarazzata, ma il
risultato piu' importante e' stato avviare una discussione franca sulle
ground rules, le regole di base dei dialoghi futuri, elaborate col metodo
del consenso, cioe' all'unanimita'.
Avrebbero cercato di usare solo termini accettabili (o almeno tollerabili)
da tutte le partecipanti. Non avrebbero interrotto, ne' pontificato, ne'
fatto ricorso ad attacchi personali. Ognuna avrebbe parlato per se stessa e
non come rappresentante della propria organizzazione. Gli incontri dovevano
rimanere totalmente confidenziali finche' tutte non avessero concordato di
renderli in qualche modo pubblici. Infine, faticosissimo: si sarebbero
concentrate nel capire e essere capite rinunciando completamente a
convincere.
Una regola, quest'ultima, fondamentale per spiegare la durata e la qualita'
del dialogo; rimaneva il gusto della sfida all'approfondimento delle proprie
idee senza il timore di doversi difendere dagli attacchi. In una delle prime
riunioni ognuna ha raccontato come mai aveva finito col dedicare cosi' tanto
tempo e impegno alla questione dell'aborto e questi racconti, tutti
profondamente personali, ci hanno fatto sentire piu' vicine creando un senso
di simpatia.
*
- "Una citta'": Anche voi due facilitatrici naturalmente avevate una
posizione su questa questione. L'avete espressa o avete mantenuto un
atteggiamento neutrale?
- Susan Podziba: Io non credo che un facilitatore possa essere neutrale e
neppure che sia utile esserlo. Deve essere imparziale, che e' un'altra cosa.
L'imparzialita' nei riguardi delle parti va perfettamente d'accordo con la
passione per la metodologia del dialogo e con un atteggiamento
pluri-empatico, di comprensione per i sentimenti di ognuno. La passione per
la metodologia bilancia le posizioni personali e consente di esplicitarle
tranquillamente. Cosi' abbiamo fatto anche in questo caso senza che nessuna
(e in particolare le esponenti pro-life, visto che entrambe noi
facilitatrici eravamo e siamo sostenitrici del diritto di scelta della
donna) se ne risentisse. Anzi, e' successo che in un'occasione, nella
turbolenza emotiva degli incontri, nessuna delle partecipanti si ricordava
se avessimo espresso le nostre idee e quali fossero!
*
- "Una citta'": Al di la' del miglioramento dei rapporti personali, ci sono
state altre conseguenze pratiche importanti?
- Susan Podziba: La differenza di stile nelle dichiarazioni pubbliche e'
stata notata e sottolineata a piu' riprese dai mezzi di comunicazione di
massa. Inoltre questi dialoghi hanno creato un senso di responsabilita'
reciproca che si e' espresso in prese di posizioni anche molto dure
all'interno del proprio movimento, alcune con lettere aperte ai giornali, di
presa di distanza verso chi accusava l'altro di essere "un assassino".
Infine e' stata stabilita una "linea rossa" per avvisarsi a vicenda se si
aveva sentore di qualche aggressione e, almeno in un caso, e' stata usata e
ha funzionato.
*
- "Una citta'": Tu attualmente ricopri numerosi incarichi in qualita' di
facilitatrice/mediatrice nella soluzione di problemi complessi su incarico
di organi governativi. Puoi dirci di cosa si tratta e qual e' il nesso con
le esperienze alle quali abbiamo fin qui accennato?
- Susan Podziba: Mi occupo di consensus building, ovvero della costruzione
del consenso, in decisioni pubbliche che richiedono il coinvolgimento di una
quantita' di soggetti sociali e istituzionali diversi e spesso ostili.
Costruzione del consenso e dialogo sono collegati, ma non sono la stessa
cosa. Lo scopo del dialogo e' la creazione di rapporti sostenibili, la
rottura delle barriere psicologiche, il far venire a galla le differenze di
premesse implicite per chiarire le opzioni. La costruzione del consenso,
cosi' come la pratichiamo noi della scuola di Harvard-Mit, ha come scopo la
soluzione di problemi complessi e spinosi. Il risultato e' un accordo
scritto che una determinata autorita' istituzionale si assume la
responsabilita' di implementare. Il metodo del consenso, quando usato
sistematicamente, come sta cominciando ad avvenire in alcuni Paesi (ad
esempio in Finlandia) in alcuni settori della pubblica amministrazione e su
alcune aree tematiche, cambia in modo stabile i rapporti fra amministrazione
pubblica e societa' civile. Il fatto che tutti possano avere voce in
capitolo sui problemi che stanno loro a cuore non e' piu' qualcosa che
avviene nei momenti di protesta, o al momento del voto, ma e' un
diritto-dovere riconosciuto istituzionalmente. L'ideale e' che diventi una
possibilita' scontata, ovvia, e quindi condivisa e stabile. E' stato proprio
in Medio Oriente che ho deciso che mi sarei dedicata alla costruzione del
consenso come metodo per "tirare dentro" le istituzioni nel dialogo,
democratizzarle e coinvolgerle. Nel periodo che ho passato in Israele e
Palestina per una ricerca sui conflitti relativi al controllo di pozzi e
falde acquifere nel West Bank e a Gaza, sono rimasta colpita da quanti
dialoghi vi fossero e pero' anche da quanto fossero effimeri, nel senso che
non riguardavano mai contemporaneamente le autorita' politiche e la gente,
ma o solo gli uni o solo gli altri. Il dialogo, a mio giudizio, e' una
premessa al metodo del consenso, ma quest'ultimo rende la necessita' del
dialogo senso comune, lo stabilizza, facendolo rientrare nelle dinamiche
anche istituzionali.
*
- "Una citta'": Potresti chiarire le principali differenze fra il modo
abituale di agire di una pubblica amministrazione e quello da te seguito,
basato sul consenso come metodo?
- Susan Podziba: Nella prassi abituale, gli uffici amministrativi, quando
devono redigere una certa normativa, fanno affidamento sul proprio personale
e su una rete di consulenti indicati dai politici che si occupano di quella
normativa. Le preoccupazioni dei soggetti in causa, sociali e istituzionali,
vengono raccolte tramite contatti informali di vario tipo e con la
pubblicizzazione delle proposte di legge e richiesta di commenti. I soggetti
interessati hanno la possibilita' di inviare le loro critiche e obiezioni
sia al dirigente responsabile del procedimento che ai politici, i quali ne
tengono conto a propria discrezione. In alcuni casi questo tipo di
procedimento e' sufficiente e porta a risultati soddisfacenti, in altri no.
Il limite principale di questa formula e' che non incoraggia le parti
interessate a incontrarsi fra loro e anzi le induce ad accentuare le ragioni
dei contrasti. Nella prassi abituale non c'e' spazio per un'indagine
condotta in comune fra tutte le parti interessate, basata sul reciproco
apprendimento e il ricorso ad esperti, che sia deciso e gestito dalle parti
stesse. Dagli anni '80 in poi, un crescente numero di settori
dell'amministrazione si e' reso conto che questa dimensione dialogica
diventava sempre piu' cruciale per evitare conseguenze e reazioni inattese.
Conseguenze inattese, nel senso di veri e propri disastri dovuti a mancata
integrazione fra vari livelli e ordini di conoscenze. E reazioni inattese
nel senso che sempre piu' spesso delle piccole minoranze inascoltate sono in
grado di bloccare l'implementazione delle decisioni.
Piu' in generale ci si e' accorti che soggetti ritenuti fruitori passivi dei
provvedimenti erano in realta' decisivi sia nel momento dell'indagine, che
nella fase della decisione e realizzazione. Sintetizzando, al metodo del
consenso ricorrono le dirigenze che si rendono conto che tutte le scelte su
quel dato problema sono parziali ed esposte a gravi critiche e nessuna ha un
consenso sufficientemente ampio.
A quel punto dicono alle parti in causa: elaborate voi stessi una soluzione
a titolo consultivo. L'amministrazione che promuove questo processo e ne
garantisce l'operativita' fornendo le sedi e i mezzi idonei, fissa anche i
tempi massimi entro i quali si deve arrivare a una conclusione, al di la'
dei quali si torna alla procedura abituale. L'esito di questi lavori ha un
valore non vincolante, consultivo, ma la concentrazione e la qualita' dei
saperi e delle capacita' di costruzione di terreni comuni messe in atto e'
tale che e' difficile per chiunque buttarlo nel cestino. Quello che e'
successo, per esempio, negli Stati Uniti a livello delle disposizioni
normative del governo federale, e' che iniziative di questo tipo hanno
suscitato un tale entusiasmo fra i partecipanti che e' nato un movimento per
rendere questi procedimenti alternativi obbligatori in tutta una serie di
casi. Per esempio su alcuni temi legati alle politiche scolastiche ed
educative.
*
- "Una citta'": Mi fai degli esempi di casi e temi di cui ti sei occupata?
- Susan Podziba: Negli ultimi anni ho lavorato con varie agenzie del Governo
Federale prevalentemente facilitando la stesura negoziata e partecipata di
varie normative. Se mi limito ai titoli sembreranno questioni molto
tecniche, pero' coinvolgono una quantita' incredibile di categorie diverse e
hanno risvolti importantissimi sulla qualita' della vita quotidiana di
milioni di persone. Per esempio, nel 2003 ho facilitato la stesura dei
criteri di legittimita' per le inchieste sulle aree inquinate; nel 2004 ho
seguito la stesura di una proposta consensuale per la revisione degli
standard di sicurezza per le gru e le torri di sondaggio e trivellazione;
nel 2005 nell'ambito delle leggi anti-terrorismo approvate dopo l'attacco
alle Torri Gemelle di Manhattan, ho facilitato la stesura degli standard
minimi per il riconoscimento federale delle patenti di guida e dei documenti
di identita', su incarico del Dipartimento dei Trasporti, in collaborazione
con il Dipartimento della Sicurezza Nazionale.
I partecipanti andavano da dirigenti del Ministero dei Trasporti e della
Sicurezza Nazionale ai rappresentanti degli immigrati privi di cittadinanza,
a quelli dei consumatori, agli uffici statali di rilascio delle patenti e
carte di identita', ai gruppi in difesa delle liberta' civili e della
privacy, ai poliziotti, agli esperti in materiali e tecnologie per la
costruzione di carte di identita' non falsificabili. Prima di accettare ho
svolto cinquantasette lunghe interviste sulla base delle quali ho redatto un
quadro delle preoccupazioni e posizioni di partenza, sia dei singoli che
condivise.
Nella revisione dei criteri di sicurezza delle gru (un'esperienza
intensissima a livello umano, ma anche sul piano dell'ideazione tecnica, una
sfida intellettuale), erano presenti i rappresentanti di quattro sindacati
degli operatori delle gru, alcuni dei quali erano sopravvissuti a incidenti
terribili dove erano morti dei loro colleghi, poi i tecnici e gli ingegneri
progettisti, i rappresentanti dei costruttori e di coloro che usano le gru
nei cantieri, e ancora i legali e via dicendo. Eravamo due donne, le due
facilitatrici, e ventitre maschi; abbiamo lavorato per un anno con undici
incontri di due giorni e mezzo l'uno circa, compresi i panel di esperti, la
richiesta di consulenze sui temi piu' delicati e le sedute di vera e propria
ideazione: come si fa a impedire incidenti sulle piattaforme oceaniche e
marine, dove le gru devono potersi muovere su dei binari, per cui non
possono assolutamente essere fisse, e pero' bisogna evitare che si
squilibrino? Alla fine mi hanno regalato una decina di miniature delle gru
di cui avevamo discusso, che con i loro colori vivaci e questo sguardo
dall'alto rallegrano il mio ufficio.
*
- "Una citta'": La costruzione del consenso richiede che le parti in causa,
diffidenti, ciniche, non di rado ai ferri corti, approdino nientedimeno che
a delle decisioni unanimi. E' una proposta come minimo sconcertante! Mi
viene voglia di ripetere la domanda iniziale: come fai, qual e' il segreto?
- Susan Podziba: Quello del consenso e' un approccio che funziona bene
quando mette assieme un gruppo di persone che, pur non conoscendosi ed
essendo molto diverse fra loro, hanno veramente a cuore il problema di cui
si deve discutere, casomai vi hanno dedicato una parte consistente della
propria vita lavorativa. Deve essere gente appassionata alla questione,
perche' e' dall'elaborazione di quelle passioni che nasce la possibilita' di
inventare delle soluzioni creative, alle quali nessuno aveva pensato prima.
Il mio lavoro consiste nel socchiudere le porte che erano sbarrate e fare in
modo che la pressione delle passioni presenti nella stanza le spalanchi del
tutto. Un risultato del genere non si ottiene con una sessione di
brainstorming, ma creando fin dall'inizio un clima di eccezionalita'. Come
una scritta immaginaria appesa alle pareti che dice: "Qui e' possibile
l'impossibile. Dipende da noi". E al tempo stesso rendere ben chiaro che si
fa sul serio: le soluzioni da trovare devono funzionare da tutti i punti di
vista, tecnico, legale, finanziario e sociale.
*
- "Una citta'": Quindi esattamente cosa fai?
- Susan Podziba: Prima di accettare un incarico e' necessario incontrare di
persona gli esponenti degli interessi coinvolti e se scopro che manca
qualcuno che dovrebbe esserci lo faccio presente come condizione per
accettare l'incarico. Inoltre le parti devono essere convinte che vale la
pena cercare una soluzione comune, che non esistono cioe' soluzioni
"solitarie". Se una parte ha gia' deciso che una denuncia alla magistratura
e' la soluzione migliore, la strada del consenso non e' percorribile. Una
volta accettato l'incarico, la prima riunione e' dedicata a formulare le
regole di base per rendere piacevole e fruttuoso il lavoro comune; si redige
una bozza della missione della commissione, il tipo di impegno etico e la
responsabilita' che ci si assume. Si tratta di elaborazioni ad hoc, diverse
in ogni caso, che riflettono le specifiche preoccupazioni di quegli
specifici partecipanti.
La versione finale di queste regole di base e della missione del gruppo e'
un primo esempio di costruzione del consenso. Ognuno butta sul tavolo delle
idee, delle proposte, poi si scelgono quelle piu' interessanti e si comincia
a lavorare, con grande attenzione al linguaggio, alla scelta delle parole,
un colpo qui e uno li', proprio come un fabbro sul ferro caldo, finche' il
risultato va bene a tutti. L'attenzione del facilitatore/mediatore in tutta
la prima fase degli incontri e' concentrata sulla costruzione di un insieme
di relazioni fra i partecipanti, per cui a meta' percorso non e' piu'
necessario che il facilitatore dica: "Mi rendo conto che questa proposta va
molto bene per le categorie che Lei rappresenta, ma come risolviamo i
problemi espressi da Giuseppe?".
A un certo punto incominciano a dirselo da soli. E' sempre esaltante
assistere a questo passaggio, quando uno rileva autonomamente: "Questa
potrebbe essere una soluzione, pero' non lo e' perche' non tiene conto delle
posizioni di Giuseppe".
*
- "Una citta'": Mi pare di capire che l'atteggiamento generale e' del tipo
"ne'-ne'", nel senso che si assume che nessuna delle posizioni di partenza
sara' vincitrice della contesa (ne' la mia, ne' la tua) e questo le svuota e
consente la ricerca di ipotesi nuove.
- Susan Podziba: Noi usiamo la formula: "Io non ho torto e nemmeno tu hai
torto pero' nessuna delle nostre soluzioni funziona per entrambi"; quindi
dobbiamo trovarne assieme un'altra che vada bene per tutti e due.
*
- "Una citta'": Com'e' che il governo finlandese ha cominciato a
interessarsi al metodo del consenso?
- Susan Podziba: Avevano approvato delle leggi che prevedono il ricorso a
metodologie inclusive, di governance vera, in tutti i casi relativi all'uso
degli spazi pubblici. Il risultato e' stato un grande successo perche' tutti
vogliono avere voce in capitolo, e un grande disastro perche' si sono
trovati impelagati in un vespaio di posizioni contrastanti che non sapevano
gestire in modo nuovo e costruttivo.
E cosi' hanno deciso che tutti gli operatori e professionisti che hanno a
che fare con questi problemi dovevano acquisire queste capacita'. E' un modo
intelligente di affrontare questo nodo, che rappresenta una trasformazione
epocale nei rapporti fra pubblica amministrazione e societa' civile. Negli
Stati Uniti per ora si procede a piccoli passi, coinvolgendo i tasselli
dell'amministrazione che sono favorevoli e interessati a questo cambiamento;
i piu' lo vedono ancora come qualcosa da combattere, come una pura e
semplice destituzione dai propri poteri e privilegi professionali e
politici.
*
- "Una citta'": In Chelsea Story, racconti come la popolazione multietnica
(50% di origine ispanica e 25% del sud-est asiatico) di una cittadina di
28.000 abitanti, a nord-est di Boston, nel 1995 sia stata messa in
condizione di partecipare coralmente alla stesura di un nuovo statuto
cittadino inteso a impedire i fenomeni di corruzione che l'avevano devastata
finanziariamente e socialmente. Questo testo descrive con grande dettaglio
la metodologia adottata, ma anche gli attacchi subiti, in particolare i
tentativi di delegittimazione da parte di coloro che temevano di perdere
posizioni di potere.
- Susan Podziba: Una delle modalita' piu' frequenti, direi quotidiane, di
delegittimazione consiste nel far leva sullo scetticismo popolare nei
riguardi di questi processi, mettendo in giro voci per cui "tutto e' gia'
deciso", il vero scopo dell'operazione e' un altro, molto meno nobile,
eccetera. Cioe' fare passare il tutto come un'operazione di manipolazione
dell'opinione pubblica. Nel caso di Chelsea la capacita' di reagire con
immediatezza e chiarezza ad ogni singolo attacco di questo tipo e' stata
decisiva. Non avremmo potuto fare questa esperienza senza l'appoggio
incondizionato del commissario (la citta' era commissariata) Harry Spence,
che ha avuto l'idea di coinvolgere la popolazione in questa impresa, ma
anche la lucidita' di capire che il pericolo maggiore erano le azioni tese a
compromettere (o anche solo far sospettare che fosse compromessa)
l'integrita' del processo. Proprio perche' la gente e' scettica per davvero
e ne ha buone ragioni, bisogna costantemente dar prova che "in questo caso"
non e' cosi'. Questi due ingredienti: un appoggio politico potente e la
continua attenzione all'integrita' del processo, aggiunti ovviamente a una
metodologia adeguata, sono stati decisivi.
*
- "Una citta'": Sono metodologie che mettono in discussione l'impianto
tradizionale dell'autorita' e del potere. Il timore da parte dei poteri
costituiti, politici e professionali, di essere scalzati, destituiti, e'
molto diffuso e prevedibile.
- Susan Podziba: Per me il metodo di costruzione del consenso e' pura e
semplice democrazia. La gente e' abituata a pensare alla democrazia come
"una testa, un voto", il diritto di votare e il rispetto da parte delle
minoranze delle decisioni prese da una maggioranza del 50% piu' uno. Ma per
me e' anche qualcosa di piu', direi specialmente qualcosa di piu': e' un
costrutto che permette alle persone di parlare a partire dalle proprie
differenze senza ricorrere alla violenza; che permette loro di fare per
davvero tutto il possibile per venirsi incontro e trovare delle soluzioni
reciprocamente accettabili e infine di esercitare il potere pubblico come
servizio e in modo provvisorio.
L'idea che una struttura del genere destituisca i saperi specialistici e le
professionalita' e' del tutto sbagliata. In realta' i professionisti che
partecipano ai processi deliberativi inclusivi alla fine riconoscono di aver
fatto un'esperienza profondamente gratificante sia sul piano professionale
che umano. Quello che salta e' il sistema dell'operare "per bande", per
alleanze di subalternita' a poteri costituiti. C'e' sempre chi prova a
manipolare anche questi processi, ma potrei portarvi numerosi esempi di
come, grazie alla trasparenza di queste metodologie, questi tentativi
possono ritorcersi contro chi li mette in atto.

2. MEMORIA. GIORGIO FORNONI INTERVISTA ANNA POLITKOVSKAYA (2003)
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 ottobre 2006 rirendiamo il seguente
estratto dell'intervista a Anna Politkovskaya realizzata da Giorgio Fornoni
per Report (Raitre), nell'agosto del 2003.
Giorgio Fornoni e' giornalista televisivo e viaggiatore, collaboratore di
'"Report", ha realizzato rilevanti reportage di inchiesta e denuncia su
tragiche realta' e vicende.
Anna Politkovskaja, giornalista russa, nata a New York nel 1958, impegnata
nella denuncia delle violazioni dei diritti umani con particolar riferimento
alla guerra cecena, e' stata assassinata nell'ottobre 2006. Opere di Anna
Politkovskaja disponibili in italiano: Cecenia. Il disonore russo, Fandango,
2003; La Russia di Putin, Adelphi, 2005]

- Giorgio Fornoni: Ci parli delle tecniche di terrore di massa usate dai
russi sui civili in Cecenia.
- Anna Politkovskaya: Non sono d'accordo con il vostro modo di esprimervi.
Prima di tutto, non si parla di russi, ma di militari di diverse
nazionalita'. Ci sono forze federali contro la popolazione civile nella
Repubblica cecena. Tanto la popolazione russa quanto quella ucraina hanno
condiviso la stessa sorte di quella cecena in quei territori. Conosco russi
che sono stati torturati e altri russi le cui case sono state fatte saltare
in aria intenzionalmente, poiche' pensavano che nascondessero guerriglieri
ceceni. I metodi utilizzati sono vari, e spesso ci si comporta da bestie
piu' che da uomini. Un uomo puo' essere eliminato solo perche' si trovava
nelle vicinanze di militari. Un ragazzo di 26 anni, nel 2001, era in giro
per le strade di Grozny quando e' stato preso. E' stato pestato mentre
veniva portato alla stazione di polizia, e una volta la' gli e' stato detto
che per salvarsi doveva diventare un loro agente e indicare dove si
trovavano i guierriglieri. Il ragazzo proveniva da una famiglia cecena
perbene, era laureato, e si e' rifiutato di collaborare. La cosa particolare
e' che ci sono stati dei testimoni di questo arresto. In generale si hanno a
disposizione soltanto i risultati di queste violenze, cioe' i corpi
torturati. Questo ragazzo ormai agonizzante e' stato gettato in una cella.
La cella non era altro che una buca, e quando si venne a sapere che la
mattina sarebbe giunto sul posto un procuratore, i militari hanno
semplicemente gettato in un pozzo il corpo del giovane che si era rifiutato
di diventare un loro agente. Dopo i bombardamenti a Grozny ci sono molti
posti cosi', sono come dei pozzi che scendono verso il basso, la' dove
c'erano le fognature. Subito dopo hanno lanciato una granata e del corpo non
e' rimasta traccia. Lui ha semplicemente cessato di esistere. Questa e' solo
una piccola pagina di quello che accade in Cecenia. Ci sono varie tecniche
di pulizia etnica, che in sostanza sono operazioni punitive contro villaggi
interi. Viene circondato un villaggio, vengono portati via tutti gli uomini,
e non tutti vi fanno ritorno. Dicono che viene controllato che fra loro non
ci sia nessuno che abbia preso parte ai combattimenti, invece vengono
pestati da qualche parte, vengono portati via e dichiarati scomparsi. La
violenza di massa sulla popolazione maschile e' un fatto perche' rientra
nella mentalita' dei nostri soldati. Vengono portati via dai villaggi tutti
gli uomini alti, forti, e vengono lasciati i vecchi e i drogati. In genere
dipende tutto dal comandante della divisione. Questa non e' una guerra di
generali, ma di colonnelli: la sorte della persone dipende dall'ufficiale
che comanda la divisione, che di fatto ha potere di vita e di morte.
*
- Giorgio Fornoni: Giovani ceceni pieni di odio, donne kamikaze. Cosa spinge
a cio'?
- Anna Politkovskaya: La domanda e' molto generica. Per prima cosa ci sono
due tipi di donne kamikaze. Ci sono quelle della djamahat, le comunita'
religiose che ritengono tutto cio' un loro dovere verso Allah. La maggior
parte sono persone portate alla disperazione da tutto cio' che ho raccontato
prima. Madri, sorelle di scomparsi che hanno bussato alle porte di tutte le
sezioni di polizia ricevendo sempre la stessa risposta: "Non ci sono piu',
sono scomparsi, rassegnatevi". Dal 2001 queste donne hanno iniziato a dire
apertamente che a loro non rimane che farsi giustizia da se'. Se i militari
si fanno giustizia da se', in risposta riceveranno lo stesso. Nel 2001 ci
sono stati i primi sporadici casi di donne kamikaze. Una donna si avvicina a
un generale che ritiene responsabile della morte del marito e si fa
esplodere. Muore lei, ma muore anche lui. Sono donne che non hanno un
comandante, ma sono unite da una comune disgrazia. Per dirla in modo non
militare, e' quasi un "club": non vedono altro senso nella loro vita se non
la vendetta.
*
- Giorgio Fornoni: C'e' qualche legame tra i ceceni e al Qaeda?
- Anna Politkovskaya: Come giornalista prima dovrei sapere cos'e' al Qaeda.
Dopo l'11 settembre ci e' stato detto "e' responsabile al Qaeda". Ma che
sistema e' questo? Senza dubbio l'ex vicepresidente ceceno Zemilhad Dardyev,
scappato molto tempo fa dalla Cecenia senza combattere tutta la seconda
guerra - e questo per un ceceno e' un disonore - riceveva aiuti da Bin Laden
e dalla sua struttura. Ho visto con i miei occhi le tombe degli arabi che
hanno combattuto qui nella seconda guerra cecena, ma non so se fossero
membri di al Qaeda. Credo che al Qaeda sia un paravento dei nostri potenti
per nascondere i propri errori quando non riescono a fronteggiare gli
attacchi terroristici. E' come una nuova alleanza dopo la guerra fredda. Per
questo alla vostra domanda non posso rispondere ne' si' ne' no.
*
- Giorgio Fornoni: Lei condivide le scelte del presidente Putin?
- Anna Politkovskaya: Ritengo che se siedi al Cremlino la tua
responsabilita' principale e' la pace. Personalmente non e' che non mi
piaccia Putin, e' che non mi piace cio' che sta facendo. Lui deve mantenere
la pace, e' un suo dovere costituzionale. Invece continua la guerra nel
Caucaso, con migliaia di morti non solo ceceni, ma anche russi. Gli
attentati non possono cessare. Putin deve smetterla con questa guerra
suicida e mettersi a trattare anche con quelle persone che non gli
piacciono.
*
- Giorgio Fornoni: La popolazione locale non crede ai dirigenti ceceni. Lei
cosa pensa?
- Anna Politkovskaya: Anch'io non credo a loro. Per me, come giornalsita,
prima di tutto vengono le esigenze della popolazione civile. Loro dicono che
non c'e' differenza che arrivi un bandito di Maskhadov o di Putin. Loro
vogliono vivere.
*
- Giorgio Fornoni: Perche' Mosca non vuole osservatori internazionali in
Cecenia?
- Anna Politkovskaya: E' chiaro che non li vogliono perche' sono stati
commessi molto delitti. Gli osservatori vedrebbero i cadaveri, le donne
violentate e capirebbero chi e' stato. Per questo l'accesso e' limitato al
massimo. Non vogliono testimoni.
*
- Giorgio Fornoni: Occidente e Usa hanno chiuso un occhio...
- Anna Politkovskaya: Il gioco delle sfere alte e' tutto un gioco di
compromessi. Il Kosovo, Baghdad, l'Afghanistan. Noi siamo stati co-sponsor
degli Stati Uniti. Abbiamo dato il nulla osta per le basi in Uzbekistan e
Tagikistan. Ma io rifiuto categoricamente questo tipo di compromessi fatti
sul sangue. Putin e Bush sono contenti. Invece io, quando guardo negli occhi
queste persone a cui il giorno prima hanno ucciso il figlio, capisco che il
prezzo di questo compromesso e' nel dolore di quelle persone e nessuno puo'
aiutarle. Il mio lavoro e' sul campo, vedo i risultati di questo sanguinoso
compromesso e non posso essere d'accordo, non voglio essere un cinico
commentatore politico.
*
- Giorgio Fornoni: Racconti il fatto piu' feroce perpetrato dai militari
russi sui civili ceceni.
- Anna Politkovskaya: No, non diro' nulla. Non ho una buona opinione della
societa' occidentale. Non siamo nel 2000, quando c'erano grandi speranze che
raccontando cio' che stava accadendo l'Occidente avrebbe fatto qualcosa per
aiutarci. So da tempo che l'Occidente non si interessa di questi problemi,
ha tradito queste persone che pure vivono in Europa. La Cecenia tra l'altro
fa parte dell'Europa, geograficamente. Per questo non mi mettero' a
solleticare i nervi con racconti di come hanno ucciso, tolto scalpi e
tagliato nasi e orecchie. Capitemi bene, non e' quello lo scopo del mio
lavoro, ma prevenire atrocita' di questo genere in futuro.
*
- Giorgio Fornoni: Quanti morti ci sono stati, sia ceceni sia russi?
- Anna Politkovskaya: Sapete, la vera tragedia e' che non c'e' una
statistica precisa. Ci sono statistiche nei singoli villaggi e nelle unita'
militari. Ma chi e' al potere fa di tutto perche' non ci siano dati
ufficiali. Per questo, qualsiasi cifra io vi dica, sara' solo la mia cifra,
non corretta, e un altro vi dara' la sua. So che sono migliaia a oggi,
migliaia, e questa storia non e' ancora finita, sta continuando.
*
- Giorgio Fornoni: Un rappresentate ceceno a Tblisi parla di 400.000
morti...
- Anna Politkovskaya: La cifra esatta non la conosce nessuno e di queste
parole sono pronta a rispondere. Si', il signor Aldanov, credo vi riferiate
a lui, ha parlato di 400.000 vittime, ma un altro rappresentante di
Mashkadov ha parlato di 250.000. Io so che i federali diminuiscono il numero
di perdite, mentre i ceceni lo aumentano. Penso comunque che questo sia un
problema del futuro.
*
- Giorgio Fornoni: Ha paura del Cremlino?
- Anna Politkovskaya: Tutti hanno paura ora, e anch'io sono una parte del
tutto. Anch'io ho paura, ma questa e' la mia professione e avere paura e'
una cosa tua, personale. La professione esige che si lavori e si parli di
quello che e' il fatto principale nel Paese e la guerra che continua e' il
fatto principale. Perche' la' muore la nostra gente. E avere paura o non
averne e' il rischio di questa professione.
*
- Giorgio Fornoni: Non sono d'accordo sul fatto che l'occidente si
disinteressi...
- Anna Politkovskaya: Non sto parlando di voi. In tutto questo tempo molti
giornalisti occidentali hanno tentato di far conoscere quanto sta accadendo.
Ma la realta' e' che i leader occidentali si sono messi d'accordo con Putin,
e il prezzo di questo compromesso e' la Cecenia. La societa' occidentale non
e' riuscita ad essere compatta e ottenere che i propri leader contrastassero
Putin.
*
- Giorgio Fornoni: Perche' la comunita' internazionale non conosce i fatti
veri?
- Anna Politkovskaya: Il mondo sa. Basta entrare in Internet e vedere cosa
scrivono Human rights watch, Amnesty International, che monitorano
costantemente la situazione cecena. Ogni volta che Putin fa visita a un
leader occidentale, si rivolgono al leader di quel Paese. E come puo' non
sapere? Il mondo sa, ma non vuole prendere posizione... Viviamo in un tempo
veramente strano, o almeno io non avrei mai pensato che sarebbe arrivato il
momento del concetto di terrorismo di stato e terrorismo non dello stato in
lotta l'uno contro l'altro. Su che base gli Usa sono entrati in Iraq?
Capisco perfettamente chi e' stato Hussein, che il suo regime era terribile,
ma su che basi sono entrati la' i soldati americani? Non capisco. Capisco
che Basaev in Cecenia e' il tipico terrorista, ma non capisco perche' per
quattro anni si risponde con azioni terroristiche che coinvolgono tutta la
popolazione.

3. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: IL MONDO OLTRE L'HIJAB
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 ottobre 2006. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

Sostenere, come ha fatto il ministro britannico Jack Straw, che le relazioni
migliorano se ci si guarda in faccia potrebbe apparire quasi una ovvieta',
se non mettesse in discussione il velo. Infatti il ministro si riferiva ai
colloqui con gli elettori, o meglio con le elettrici, della sua
circoscrizione, quella di Blackburn, dove il 30% sono musulmani.
Conversazioni che, ha precisato il ministro, avvengono sempre alla presenza
di una sua assistente donna. In verita' non ce ne sarebbe nemmeno bisogno,
perche' la donna musulmana e' sempre accompagnata dal marito e in genere e'
solo lui a rivolgersi al ministro, quindi la conoscenza sarebbe comunque
limitata dalla mediazione maschile. Il problema dell'isolamento della donna
trova dunque nel velo solo il simbolo della sua separazione dal mondo
esterno. Straw si riferiva peraltro soprattutto al niqab, il velo che lascia
aperta solo una fessura all'altezza degli occhi, e non ha affermato di voler
imporre la sua richiesta. Ma ormai le polveri sono incendiate.
Immediata e' stata la levata di scudi dei leader - tutti maschi - delle
moschee e della comunita' musulmane che hanno accusato il ministro di
pregiudizi. L'unica voce a favore del dibattito necessario sul velo
sollevato da Straw e' quella di una donna, la signora Uddin. La questione
non e' nuova, era gia' stata affrontata dopo gli attentati di Londra, quando
si chiedeva alle donne di non andare in giro velate per evitare attacchi
anti-islamici. Come, il velo non e' considerato una protezione per la donna?
I leader delle comunita' islamiche spesso attribuiscono la scelta del velo
alla volonta' della donna, non lo vogliamo negare, ma sono donne la cui
volonta' generalmente non viene tenuta in grande considerazione: la loro
testimonianza (nei paesi musulmani) vale la meta' di quella di un uomo e lo
stesso dimezzamento riguarda l'eredita'. Piu' che la religione e' la
tradizione a imporre il velo, ma quale tradizione non puo' essere superata?
Solo le donne musulmane potranno liberarsi da questa imposizione che
permette ai loro maschi di controllare la loro vita sessuale. E liberarsi da
quel divieto di seduzione loro imposto per poter godere di tutti i diritti
riconosciuti dai principi universali.
Si puo' imporre un superamento di simili pregiudizi? Quando fu varata la
legge contro i simboli religiosi nelle scuole francesi, pensavo di no. Ma
quando l'anno scorso, dopo l'entrata in vigore della legge, sono andata in
Francia per verificare l'impatto di tale divieto, ho scoperto che il
problema del velo a scuola era stato superato e solo una ventina di ragazze
avevano abbandonato l'insegnamento pubblico. Altre ringraziavano per
l'aiuto. Certo, la richiesta di cancellare la legge fatta dai rapitori dei
due giornalisti francesi Chesnot e Malbrunot aveva contribuito a mettere in
evidenza quanta strumentalizzazione si nasconde dietro la questione del
velo.

4. INCONTRI. BEATRICE BUSI: UN CONVEGNO A TRIESTE
[Dal quotidiano "Liberazione" del 10 ottobre 2006. Beatrice Busi,
giornalista e saggista, impegnata nell'esperienza di "A/Matrix", collabora
con varie testate]

Qualche anno fa, la filosofa Rosi Braidotti immaginava l'Europa come "un
luogo di possibile resistenza politica" al nazionalismo, alle guerre e alla
xenofobia, un luogo attraversato e risignificato dai movimenti femministi,
pacifisti e antirazzisti. Nella postfazione a Nuovi soggetti nomadi (Luca
Sossella Editore), descriveva il progetto di uno spazio sociale europeo
aperto e postnazionale che avesse come cardine la politica femminista dei
saperi incarnati e situati.
Un progetto che ha trovato una risonanza significativa nel convegno
"Violenza e patriarcato" che si e' svolto nei giorni scorsi a Trieste
organizzato dalla rete femminista El-fem della Sinistra europea. Nel cuore
della mitteleuropa, luogo simbolico dei molti confini che restano ancora da
superare e oltrepassare, venerdi' 6 e sabato 7 ottobre, si sono incontrate
donne, dei partiti e dei movimenti, provenienti da tutta Europa, in
particolare dalla Germania, dalla Francia ma anche dai paesi della
ex-Jugoslavia, dall'Estonia, dalla Romania, dalla Grecia e dalla Turchia.
Due giorni di discussione intensa e appassionata, articolata in quattro
sezioni tra loro strettamente intrecciate: violenza e poverta', violenza e
guerre, violenza in famiglia e prostituzione che hanno visto una
partecipazione numerosa, oltre le stesse aspettative delle organizzatrici.
*
Come ha sottolineato Elettra Deiana nell'introduzione al workshop sulle
guerre, il legame tra la violenza nelle sue varie forme e il patriarcato non
e' accidentale. Anzi, il patriarcato e' "un assetto sistemico e funzionale"
del quale la violenza e' un elemento strutturale. La recrudescenza della
violenza contro le donne a livello globale e locale, pubblico e privato,
denuncia sia una crisi di legittimazione dell'ordine patriarcale che
un'offensiva contro il nuovo protagonismo politico e sociale delle donne,
un'insofferenza e un'incapacita' maschile a misurarsi con l'autonomia
femminile ma anche un ostacolo reale ai processi di autodeterminazione e
liberta' delle donne.
Le guerre sono "fatti sociali", non solo economici, e poggiano su
dispositivi di costruzione del mito dell'appartenenza e dell'identita'.
Occorre liberarsi dai fondamentalismi e dai nazionalismi come strutture
simboliche maschili che poggiano sul controllo del corpo delle donne e che
sono anche i principali incubatori di guerre. Le donne sono le prime a fare
le spese delle storture delle ideologie comunitariste, e si tratta di
lavorare con continuita' non solo nell'urgenza dell'opposizione alla guerra
come "strumento di risoluzione dei conflitti", ma anche prevenendo i
conflitti attraverso la promozione di un'etica pubblica femminista centrata
nella pratica della relazione con l'altro. E' necessario liberarsi della
categoria di "nemico" che provoca la disumanizzazione dell'altro da se' e
sostituire la categoria della colpa con quella di impegno collettivo nella
prevenzione delle guerre: valorizzando i vissuti, opponendo la "sorellanza"
all'appartenenza etnica o nazionale, aiutando l'altro nell'elaborazione del
lutto, facendo formazione ed educazione all'ascolto.
*
Di fronte alle vecchie e nuove forme della violenza e al riemergere di
culture che tentano di negare soggettivita' alle donne, non si puo'
rispondere con politiche repressive o provvedimenti isolati ma solo andando
alle radici della violenza e scardinando quelle rappresentazioni che
vogliono le donne solo come vittime e oggetti di tutela. Un tema che ha
attraversato tutti i momenti di discussione ma sul quale si e' insistito
particolarmente nel gruppo di lavoro sulla violenza in famiglia, dove e'
emerso il rapporto problematico e la relazione critica che le donne hanno
con lo Stato e le istituzioni. Come ha ricordato Angela Azzaro
nell'introduzione al workshop, le leggi non sono mai "neutre", anzi
storicamente sono state uno degli strumenti privilegiati di perpetuazione
del potere patriarcale. Allo stesso modo e' la casa, e non la strada, il
luogo piu' pericoloso per le donne, perche' la famiglia produce e riproduce
i rapporti di forza patriarcali. E' proprio nella famiglia che si
consolidano i tradizionali ruoli maschili e femminili e la "normalita'"
della violenza riguarda le nostre relazioni quotidiane.
Che risposte dare allora alla violenza? Serve soprattutto una trasformazione
culturale della societa' e si devono mettere al centro dell'iniziativa
politica la costruzione di nuovi modelli di relazione tra uomini e donne e
di un nuovo immaginario sessuale. Secondo Stefano Ciccone il conflitto tra
uomini e donne va nominato e c'e' bisogno di una pratica reale che chieda
anche agli uomini di interrogarsi su se stessi. Ma c'e' bisogno anche di una
rete di appoggio materiale ed economico, senza la quale in condizioni di
dipendenza economica diventa impossibile denunciare le violenze, soprattutto
se si tratta di donne migranti.
*
Lo smantellamento del welfare e' stato al centro anche della discussione su
violenza e poverta': la poverta' genera esclusione sociale, isolamento e
negazione dei diritti di cittadinanza. Per sopravvivere e riprodursi il
modello neoliberista genera disuguaglianza e la globalizzazione senza regole
erode i diritti. Di fronte all'aumento progressivo della "femminilizzazione
della poverta'" si deve uscire una volta per tutte dal modello familista e
costruire un nuovo welfare laico e non assistenzialista, che garantisca la
liberta' e l'autonomia delle donne. Servono servizi pubblici e politiche di
inserimento lavorativo che promuovano un'occupazione di qualita': non solo
estendere anche alle istituzioni europee l'esperienza dei bilanci di genere
ma soprattutto introdurre forme di reddito sociale o di cittadinanza.
*
Molto partecipato il workshop sulla prostituzione nel quale il dibattito e'
stato particolarmente appassionato e nel quale le opinioni a confronto si
sono divise soprattutto riguardo all'opportunita' di riconoscimento legale
della prostituzione come lavoro. Se questo tipo di legalizzazione possa
essere o meno uno strumento efficace per combattere la violenza contro le
sexworkers, rimane il dato drammatico che questa violenza ha certamente
origine nello stigma che pesa sulle prostitute determinandone l'isolamento
sociale e che questa esclusione e' il terreno su cui si innesta lo
sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali. "Quello che chiediamo
alle compagne della Sinistra europea e alle tante donne presenti - ha detto
Pia Covre del Comitato per i diritti civili delle prostitute - e' di lottare
insieme contro la violenza, violenza che e' generata dal sistema sociale
delle disuguaglianze in cui si fonda la violenza di genere, ma anche la
violenza istituzionale conseguenza delle leggi proibizioniste sulla
migrazione e la prostituzione".
*
La lotta a tutti i dispositivi sociali che generano violenza contro le donne
e' certamente la grammatica comune per la costruzione di un'alternativa
femminista per un'altra Europa. Un obiettivo non di oggi, ne' forse di
domani. Ma che vede tante donne impegnate e che ha visto in questa tappa
della rete El-fem un passaggio significativo. "E' l'inizio del confronto tra
linguaggi diversi - sottolinea Imma Barbarossa tra le organizzatrici della
due giorni -. Ma e' un inizio molto importante anche per la relazione che la
rete ha subito stabilito con i movimenti delle donne. Ora si tratta di
andare avanti".

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 85 del 12 ottobre 2006

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