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Nonviolenza. Femminile plurale. 85
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 85
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 12 Oct 2006 12:51:33 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 85 del 12 ottobre 2006 In questo numero: 1. "Una citta'" intervista Susan Podziba 2. Giorgio Fornoni intervista Anna Politkovskaja (2003) 3. Giuliana Sgrena: Il mondo oltre l'hijab 4. Beatrice Busi: Un convegno a Trieste 1. ESPERIENZE. "UNA CITTA'" INTERVISTA SUSAN PODZIBA [Dalla rivista "Una citta'", n. 140, giugno-luglio 2006 (disponibile anche nel sito www.unacitta.it) riprendiamo la seguente intervista (dal titolo originale "Il dialogo, senso comune democratico", e preceduta dal seguente sommario redazionale: "Riuscire a far stare insieme operatori israeliani e palestinesi, o attivisti antiabortisti e abortisti laddove c'erano stati gia' degli omicidi, o a risanare una citta' devastata dalla corruzione; sono i miracoli che possono compiere la passione dei cittadini alla soluzione dei problemi e il metodo del dialogo finalizzato a una soluzione che vada bene a tutti; il grande ruolo della persona facilitatrice 'di democrazia'. Intervista a Susan Podziba". Susan Podziba e' una prestigiosa faciltatrice-mediatrice di conflitti con il metodo del consenso. Opere di Susan Podziba: Chelsea story. Come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2006] Il 30 dicembre 1994 un uomo armato di fucile e' entrato nella sede della Planned Parenthood clinic di Brookline, Massachusetts uccidendo l'impiegata alla reception e ferendo altre tre persone. Poi e' risalito in macchina e si e' recato in un'altra clinica dove di nuovo ha ucciso la receptionist e ferito altre due persone. All'indomani di questo drammatico evento Susan Podziba ha iniziato un delicatissimo impegno come facilitatrice del dialogo fra leader del movimento pro-choice e del movimento pro-life. Un'iniziativa promossa dal Public Conversation Project che doveva risolversi in quattro incontri e invece e' durata, in tutta segretezza, per ben sei anni, fino a quando, nel 2001, le partecipanti hanno deciso di renderla pubblica scrivendo tutte assieme un lungo articolo che traccia un bilancio estremamente positivo di questa esperienza, rendendo Susan Podziba probabilmente la facilitatrice di dialoghi piu' nota degli Usa. I resoconti di queste conversazioni sono divenuti un classico, ma lo stesso si potrebbe dire di quasi tutti gli altri casi, estremamente vari, di cui Susan si e' occupata. La sua tesi di Master sulla regolazione negoziata delle risorse acquifere nel West Bank del 1984, redatta in forma di un gioco di simulazione intitolato "Water on the West Bank", e' ancora oggi utilizzata nella formazione di funzionari che si occupano di aree di conflitto, ed e' acquistabile in inglese e tedesco sul sito del Program On Negotiation della Harvard Law School. Infine, e' uscito recentemente in Italia un suo libro, intitolato Chelsea story. Come una cittadina corrotta ha rigenerato la sua democrazia (Bruno Mondadori, 2006) con introduzione di Marianella Sclavi e Vittorio Foa. Questa intervista e' divisa in due parti che corrispondono ai due ruoli che Susan Podziba ha praticato e pratica con tanta bravura: quello di costruttrice di ponti in situazioni di tensione e quello di mediatrice/facilitatrice nella soluzione di problemi multi-attoriali su incarico di organi governativi e come consulente e trainer di amministrazioni pubbliche anche europee; in particolare e' parte di una equipe che sta formando i dirigenti del governo finlandese e del governo olandese. * - "Una citta'": Susan, leggo nei documenti che ti riguardano che alcuni anni fa la prestigiosissima John F. Kennedy School of Government della Harvard University ti ha chiamato in tutta urgenza perche' non sapevano piu' come cavarsela. Avevano organizzato un seminario di incontro fra operatori ospedalieri israeliani e palestinesi, e questi non riuscivano a parlarsi senza offendersi reciprocamente. Arrivi tu e loro non solo imparano ad ascoltarsi, ma al ritorno nelle loro terre, congiuntamente, fondano e gestiscono un centro di assistenza alla maternita' nel West Bank. Come hai fatto? Qual e' il segreto? - Susan Podziba: Non esiste alcun segreto. Mi limito a mettere le parti avverse in condizione di utilizzare quelle capacita' di buona comunicazione che gia' possiedono, ma che evitano di esercitare perche' farlo e' spesso doloroso e complesso. Tutto il mio lavoro consiste nello sfidare la gente a vedere la situazione nella sua complessita', a cominciare dalla complessita' della buona comunicazione in situazioni di tensione. Nel caso degli operatori della sanita' israeliani e palestinesi ad Harvard, che poi erano sette in tutto, ho detto loro che era inutile sforzarsi di comunicare senza avere una idea di quant'era difficile farlo. E quindi li ho invitati a fare il gioco della parafrasi. A turno e a coppie, ognuno doveva raccontare ad un partner della parte avversa un evento o episodio illustrativo dei suoi sentimenti sul conflitto in Medio Oriente e al termine questi doveva ripetere il piu' fedelmente possibile questo racconto. Gli altri osservavano e prendevano nota di quanto incredibilmente penoso fosse ripetere quelle storie, quante erano le dimenticanze, i salti, le distorsioni, le cancellazioni. E si rendevano conto di avere questo problema in comune: la fatica emozionale e il coraggio quasi eroico a cui dovevano attingere per ascoltarsi e darsi reciprocamente spazio. Su questo terreno e questo genere di riflessioni si e' creata una solidarieta', un embrionale mutuo riconoscimento e rispetto che poi si e' rinsaldato grazie ad altri racconti di episodi di vita professionale. Nel caso degli incontri fra donne leader di organizzazioni che appoggiavano o osteggiavano il diritto di aborto, entrambe le parti hanno accettato di vedersi solo nella misura in cui fosse chiaro che lo scopo non era trovare un compromesso o creare un terreno comune, ma semplicemente costruire dei rapporti che consentissero di abbassare i toni del confronto in modo da ridurre il rischio di future sparatorie e uccisioni. Tutte all'inizio erano estremamente ambivalenti: da un lato desiderose di incontrarsi e dall'altro timorose di perdere del tempo prezioso per le proprie organizzazioni. Anche noi facilitatrici -io affiancavo Laura Chasin, direttrice del Public Conversation Project- eravamo molto ansiose. Laura temeva che gli incontri potessero radicalizzare ancora di piu' le posizioni; io invece mi sognavo che qualche pazzo, saputo di questi incontri, tentasse di ucciderci (anche perche' abitavo a pochi passi dal luogo della prima sparatoria). Le tre esponenti "pro-vita" temevano che il solo fatto di incontrarsi con le "pro-abortiste" le esponesse all'accusa di trattare una questione etica alla stregua di una differenza di opinioni. Inoltre, come poi hanno scritto nel resoconto congiunto, la sola idea di sedersi a fianco di donne che erano direttamente impegnate "nel togliere la vita al bambino nascente" le riempiva di una tale angoscia che prima di ogni incontro sentivano la necessita' di riunirsi a pregare. Da parte loro le pro-choice si rifiutavano di chiamare pro-life le altre perche' sarebbe stato come ammettere di non esserlo. E come chiamare cio' che si sviluppa nel grembo materno? Per le une era "un bimbo non nato", per le altre "un feto". Era chiaro che un vero e proprio baratro le divideva e che l'unico modo per iniziare una comunicazione doveva riguardare gli stili della comunicazione. La rottura del ghiaccio e' avvenuta chiedendo a ognuna di parlare dei propri "incubi" nei riguardi di questi incontri, delle cose che temeva sarebbero potute succedere, in termini di linguaggi, comportamenti, ferite alla propria morale e identita'. Questo ha creato momenti di sollievo per il solo fatto di parlarne, talvolta ha suscitato qualche risatina imbarazzata, ma il risultato piu' importante e' stato avviare una discussione franca sulle ground rules, le regole di base dei dialoghi futuri, elaborate col metodo del consenso, cioe' all'unanimita'. Avrebbero cercato di usare solo termini accettabili (o almeno tollerabili) da tutte le partecipanti. Non avrebbero interrotto, ne' pontificato, ne' fatto ricorso ad attacchi personali. Ognuna avrebbe parlato per se stessa e non come rappresentante della propria organizzazione. Gli incontri dovevano rimanere totalmente confidenziali finche' tutte non avessero concordato di renderli in qualche modo pubblici. Infine, faticosissimo: si sarebbero concentrate nel capire e essere capite rinunciando completamente a convincere. Una regola, quest'ultima, fondamentale per spiegare la durata e la qualita' del dialogo; rimaneva il gusto della sfida all'approfondimento delle proprie idee senza il timore di doversi difendere dagli attacchi. In una delle prime riunioni ognuna ha raccontato come mai aveva finito col dedicare cosi' tanto tempo e impegno alla questione dell'aborto e questi racconti, tutti profondamente personali, ci hanno fatto sentire piu' vicine creando un senso di simpatia. * - "Una citta'": Anche voi due facilitatrici naturalmente avevate una posizione su questa questione. L'avete espressa o avete mantenuto un atteggiamento neutrale? - Susan Podziba: Io non credo che un facilitatore possa essere neutrale e neppure che sia utile esserlo. Deve essere imparziale, che e' un'altra cosa. L'imparzialita' nei riguardi delle parti va perfettamente d'accordo con la passione per la metodologia del dialogo e con un atteggiamento pluri-empatico, di comprensione per i sentimenti di ognuno. La passione per la metodologia bilancia le posizioni personali e consente di esplicitarle tranquillamente. Cosi' abbiamo fatto anche in questo caso senza che nessuna (e in particolare le esponenti pro-life, visto che entrambe noi facilitatrici eravamo e siamo sostenitrici del diritto di scelta della donna) se ne risentisse. Anzi, e' successo che in un'occasione, nella turbolenza emotiva degli incontri, nessuna delle partecipanti si ricordava se avessimo espresso le nostre idee e quali fossero! * - "Una citta'": Al di la' del miglioramento dei rapporti personali, ci sono state altre conseguenze pratiche importanti? - Susan Podziba: La differenza di stile nelle dichiarazioni pubbliche e' stata notata e sottolineata a piu' riprese dai mezzi di comunicazione di massa. Inoltre questi dialoghi hanno creato un senso di responsabilita' reciproca che si e' espresso in prese di posizioni anche molto dure all'interno del proprio movimento, alcune con lettere aperte ai giornali, di presa di distanza verso chi accusava l'altro di essere "un assassino". Infine e' stata stabilita una "linea rossa" per avvisarsi a vicenda se si aveva sentore di qualche aggressione e, almeno in un caso, e' stata usata e ha funzionato. * - "Una citta'": Tu attualmente ricopri numerosi incarichi in qualita' di facilitatrice/mediatrice nella soluzione di problemi complessi su incarico di organi governativi. Puoi dirci di cosa si tratta e qual e' il nesso con le esperienze alle quali abbiamo fin qui accennato? - Susan Podziba: Mi occupo di consensus building, ovvero della costruzione del consenso, in decisioni pubbliche che richiedono il coinvolgimento di una quantita' di soggetti sociali e istituzionali diversi e spesso ostili. Costruzione del consenso e dialogo sono collegati, ma non sono la stessa cosa. Lo scopo del dialogo e' la creazione di rapporti sostenibili, la rottura delle barriere psicologiche, il far venire a galla le differenze di premesse implicite per chiarire le opzioni. La costruzione del consenso, cosi' come la pratichiamo noi della scuola di Harvard-Mit, ha come scopo la soluzione di problemi complessi e spinosi. Il risultato e' un accordo scritto che una determinata autorita' istituzionale si assume la responsabilita' di implementare. Il metodo del consenso, quando usato sistematicamente, come sta cominciando ad avvenire in alcuni Paesi (ad esempio in Finlandia) in alcuni settori della pubblica amministrazione e su alcune aree tematiche, cambia in modo stabile i rapporti fra amministrazione pubblica e societa' civile. Il fatto che tutti possano avere voce in capitolo sui problemi che stanno loro a cuore non e' piu' qualcosa che avviene nei momenti di protesta, o al momento del voto, ma e' un diritto-dovere riconosciuto istituzionalmente. L'ideale e' che diventi una possibilita' scontata, ovvia, e quindi condivisa e stabile. E' stato proprio in Medio Oriente che ho deciso che mi sarei dedicata alla costruzione del consenso come metodo per "tirare dentro" le istituzioni nel dialogo, democratizzarle e coinvolgerle. Nel periodo che ho passato in Israele e Palestina per una ricerca sui conflitti relativi al controllo di pozzi e falde acquifere nel West Bank e a Gaza, sono rimasta colpita da quanti dialoghi vi fossero e pero' anche da quanto fossero effimeri, nel senso che non riguardavano mai contemporaneamente le autorita' politiche e la gente, ma o solo gli uni o solo gli altri. Il dialogo, a mio giudizio, e' una premessa al metodo del consenso, ma quest'ultimo rende la necessita' del dialogo senso comune, lo stabilizza, facendolo rientrare nelle dinamiche anche istituzionali. * - "Una citta'": Potresti chiarire le principali differenze fra il modo abituale di agire di una pubblica amministrazione e quello da te seguito, basato sul consenso come metodo? - Susan Podziba: Nella prassi abituale, gli uffici amministrativi, quando devono redigere una certa normativa, fanno affidamento sul proprio personale e su una rete di consulenti indicati dai politici che si occupano di quella normativa. Le preoccupazioni dei soggetti in causa, sociali e istituzionali, vengono raccolte tramite contatti informali di vario tipo e con la pubblicizzazione delle proposte di legge e richiesta di commenti. I soggetti interessati hanno la possibilita' di inviare le loro critiche e obiezioni sia al dirigente responsabile del procedimento che ai politici, i quali ne tengono conto a propria discrezione. In alcuni casi questo tipo di procedimento e' sufficiente e porta a risultati soddisfacenti, in altri no. Il limite principale di questa formula e' che non incoraggia le parti interessate a incontrarsi fra loro e anzi le induce ad accentuare le ragioni dei contrasti. Nella prassi abituale non c'e' spazio per un'indagine condotta in comune fra tutte le parti interessate, basata sul reciproco apprendimento e il ricorso ad esperti, che sia deciso e gestito dalle parti stesse. Dagli anni '80 in poi, un crescente numero di settori dell'amministrazione si e' reso conto che questa dimensione dialogica diventava sempre piu' cruciale per evitare conseguenze e reazioni inattese. Conseguenze inattese, nel senso di veri e propri disastri dovuti a mancata integrazione fra vari livelli e ordini di conoscenze. E reazioni inattese nel senso che sempre piu' spesso delle piccole minoranze inascoltate sono in grado di bloccare l'implementazione delle decisioni. Piu' in generale ci si e' accorti che soggetti ritenuti fruitori passivi dei provvedimenti erano in realta' decisivi sia nel momento dell'indagine, che nella fase della decisione e realizzazione. Sintetizzando, al metodo del consenso ricorrono le dirigenze che si rendono conto che tutte le scelte su quel dato problema sono parziali ed esposte a gravi critiche e nessuna ha un consenso sufficientemente ampio. A quel punto dicono alle parti in causa: elaborate voi stessi una soluzione a titolo consultivo. L'amministrazione che promuove questo processo e ne garantisce l'operativita' fornendo le sedi e i mezzi idonei, fissa anche i tempi massimi entro i quali si deve arrivare a una conclusione, al di la' dei quali si torna alla procedura abituale. L'esito di questi lavori ha un valore non vincolante, consultivo, ma la concentrazione e la qualita' dei saperi e delle capacita' di costruzione di terreni comuni messe in atto e' tale che e' difficile per chiunque buttarlo nel cestino. Quello che e' successo, per esempio, negli Stati Uniti a livello delle disposizioni normative del governo federale, e' che iniziative di questo tipo hanno suscitato un tale entusiasmo fra i partecipanti che e' nato un movimento per rendere questi procedimenti alternativi obbligatori in tutta una serie di casi. Per esempio su alcuni temi legati alle politiche scolastiche ed educative. * - "Una citta'": Mi fai degli esempi di casi e temi di cui ti sei occupata? - Susan Podziba: Negli ultimi anni ho lavorato con varie agenzie del Governo Federale prevalentemente facilitando la stesura negoziata e partecipata di varie normative. Se mi limito ai titoli sembreranno questioni molto tecniche, pero' coinvolgono una quantita' incredibile di categorie diverse e hanno risvolti importantissimi sulla qualita' della vita quotidiana di milioni di persone. Per esempio, nel 2003 ho facilitato la stesura dei criteri di legittimita' per le inchieste sulle aree inquinate; nel 2004 ho seguito la stesura di una proposta consensuale per la revisione degli standard di sicurezza per le gru e le torri di sondaggio e trivellazione; nel 2005 nell'ambito delle leggi anti-terrorismo approvate dopo l'attacco alle Torri Gemelle di Manhattan, ho facilitato la stesura degli standard minimi per il riconoscimento federale delle patenti di guida e dei documenti di identita', su incarico del Dipartimento dei Trasporti, in collaborazione con il Dipartimento della Sicurezza Nazionale. I partecipanti andavano da dirigenti del Ministero dei Trasporti e della Sicurezza Nazionale ai rappresentanti degli immigrati privi di cittadinanza, a quelli dei consumatori, agli uffici statali di rilascio delle patenti e carte di identita', ai gruppi in difesa delle liberta' civili e della privacy, ai poliziotti, agli esperti in materiali e tecnologie per la costruzione di carte di identita' non falsificabili. Prima di accettare ho svolto cinquantasette lunghe interviste sulla base delle quali ho redatto un quadro delle preoccupazioni e posizioni di partenza, sia dei singoli che condivise. Nella revisione dei criteri di sicurezza delle gru (un'esperienza intensissima a livello umano, ma anche sul piano dell'ideazione tecnica, una sfida intellettuale), erano presenti i rappresentanti di quattro sindacati degli operatori delle gru, alcuni dei quali erano sopravvissuti a incidenti terribili dove erano morti dei loro colleghi, poi i tecnici e gli ingegneri progettisti, i rappresentanti dei costruttori e di coloro che usano le gru nei cantieri, e ancora i legali e via dicendo. Eravamo due donne, le due facilitatrici, e ventitre maschi; abbiamo lavorato per un anno con undici incontri di due giorni e mezzo l'uno circa, compresi i panel di esperti, la richiesta di consulenze sui temi piu' delicati e le sedute di vera e propria ideazione: come si fa a impedire incidenti sulle piattaforme oceaniche e marine, dove le gru devono potersi muovere su dei binari, per cui non possono assolutamente essere fisse, e pero' bisogna evitare che si squilibrino? Alla fine mi hanno regalato una decina di miniature delle gru di cui avevamo discusso, che con i loro colori vivaci e questo sguardo dall'alto rallegrano il mio ufficio. * - "Una citta'": La costruzione del consenso richiede che le parti in causa, diffidenti, ciniche, non di rado ai ferri corti, approdino nientedimeno che a delle decisioni unanimi. E' una proposta come minimo sconcertante! Mi viene voglia di ripetere la domanda iniziale: come fai, qual e' il segreto? - Susan Podziba: Quello del consenso e' un approccio che funziona bene quando mette assieme un gruppo di persone che, pur non conoscendosi ed essendo molto diverse fra loro, hanno veramente a cuore il problema di cui si deve discutere, casomai vi hanno dedicato una parte consistente della propria vita lavorativa. Deve essere gente appassionata alla questione, perche' e' dall'elaborazione di quelle passioni che nasce la possibilita' di inventare delle soluzioni creative, alle quali nessuno aveva pensato prima. Il mio lavoro consiste nel socchiudere le porte che erano sbarrate e fare in modo che la pressione delle passioni presenti nella stanza le spalanchi del tutto. Un risultato del genere non si ottiene con una sessione di brainstorming, ma creando fin dall'inizio un clima di eccezionalita'. Come una scritta immaginaria appesa alle pareti che dice: "Qui e' possibile l'impossibile. Dipende da noi". E al tempo stesso rendere ben chiaro che si fa sul serio: le soluzioni da trovare devono funzionare da tutti i punti di vista, tecnico, legale, finanziario e sociale. * - "Una citta'": Quindi esattamente cosa fai? - Susan Podziba: Prima di accettare un incarico e' necessario incontrare di persona gli esponenti degli interessi coinvolti e se scopro che manca qualcuno che dovrebbe esserci lo faccio presente come condizione per accettare l'incarico. Inoltre le parti devono essere convinte che vale la pena cercare una soluzione comune, che non esistono cioe' soluzioni "solitarie". Se una parte ha gia' deciso che una denuncia alla magistratura e' la soluzione migliore, la strada del consenso non e' percorribile. Una volta accettato l'incarico, la prima riunione e' dedicata a formulare le regole di base per rendere piacevole e fruttuoso il lavoro comune; si redige una bozza della missione della commissione, il tipo di impegno etico e la responsabilita' che ci si assume. Si tratta di elaborazioni ad hoc, diverse in ogni caso, che riflettono le specifiche preoccupazioni di quegli specifici partecipanti. La versione finale di queste regole di base e della missione del gruppo e' un primo esempio di costruzione del consenso. Ognuno butta sul tavolo delle idee, delle proposte, poi si scelgono quelle piu' interessanti e si comincia a lavorare, con grande attenzione al linguaggio, alla scelta delle parole, un colpo qui e uno li', proprio come un fabbro sul ferro caldo, finche' il risultato va bene a tutti. L'attenzione del facilitatore/mediatore in tutta la prima fase degli incontri e' concentrata sulla costruzione di un insieme di relazioni fra i partecipanti, per cui a meta' percorso non e' piu' necessario che il facilitatore dica: "Mi rendo conto che questa proposta va molto bene per le categorie che Lei rappresenta, ma come risolviamo i problemi espressi da Giuseppe?". A un certo punto incominciano a dirselo da soli. E' sempre esaltante assistere a questo passaggio, quando uno rileva autonomamente: "Questa potrebbe essere una soluzione, pero' non lo e' perche' non tiene conto delle posizioni di Giuseppe". * - "Una citta'": Mi pare di capire che l'atteggiamento generale e' del tipo "ne'-ne'", nel senso che si assume che nessuna delle posizioni di partenza sara' vincitrice della contesa (ne' la mia, ne' la tua) e questo le svuota e consente la ricerca di ipotesi nuove. - Susan Podziba: Noi usiamo la formula: "Io non ho torto e nemmeno tu hai torto pero' nessuna delle nostre soluzioni funziona per entrambi"; quindi dobbiamo trovarne assieme un'altra che vada bene per tutti e due. * - "Una citta'": Com'e' che il governo finlandese ha cominciato a interessarsi al metodo del consenso? - Susan Podziba: Avevano approvato delle leggi che prevedono il ricorso a metodologie inclusive, di governance vera, in tutti i casi relativi all'uso degli spazi pubblici. Il risultato e' stato un grande successo perche' tutti vogliono avere voce in capitolo, e un grande disastro perche' si sono trovati impelagati in un vespaio di posizioni contrastanti che non sapevano gestire in modo nuovo e costruttivo. E cosi' hanno deciso che tutti gli operatori e professionisti che hanno a che fare con questi problemi dovevano acquisire queste capacita'. E' un modo intelligente di affrontare questo nodo, che rappresenta una trasformazione epocale nei rapporti fra pubblica amministrazione e societa' civile. Negli Stati Uniti per ora si procede a piccoli passi, coinvolgendo i tasselli dell'amministrazione che sono favorevoli e interessati a questo cambiamento; i piu' lo vedono ancora come qualcosa da combattere, come una pura e semplice destituzione dai propri poteri e privilegi professionali e politici. * - "Una citta'": In Chelsea Story, racconti come la popolazione multietnica (50% di origine ispanica e 25% del sud-est asiatico) di una cittadina di 28.000 abitanti, a nord-est di Boston, nel 1995 sia stata messa in condizione di partecipare coralmente alla stesura di un nuovo statuto cittadino inteso a impedire i fenomeni di corruzione che l'avevano devastata finanziariamente e socialmente. Questo testo descrive con grande dettaglio la metodologia adottata, ma anche gli attacchi subiti, in particolare i tentativi di delegittimazione da parte di coloro che temevano di perdere posizioni di potere. - Susan Podziba: Una delle modalita' piu' frequenti, direi quotidiane, di delegittimazione consiste nel far leva sullo scetticismo popolare nei riguardi di questi processi, mettendo in giro voci per cui "tutto e' gia' deciso", il vero scopo dell'operazione e' un altro, molto meno nobile, eccetera. Cioe' fare passare il tutto come un'operazione di manipolazione dell'opinione pubblica. Nel caso di Chelsea la capacita' di reagire con immediatezza e chiarezza ad ogni singolo attacco di questo tipo e' stata decisiva. Non avremmo potuto fare questa esperienza senza l'appoggio incondizionato del commissario (la citta' era commissariata) Harry Spence, che ha avuto l'idea di coinvolgere la popolazione in questa impresa, ma anche la lucidita' di capire che il pericolo maggiore erano le azioni tese a compromettere (o anche solo far sospettare che fosse compromessa) l'integrita' del processo. Proprio perche' la gente e' scettica per davvero e ne ha buone ragioni, bisogna costantemente dar prova che "in questo caso" non e' cosi'. Questi due ingredienti: un appoggio politico potente e la continua attenzione all'integrita' del processo, aggiunti ovviamente a una metodologia adeguata, sono stati decisivi. * - "Una citta'": Sono metodologie che mettono in discussione l'impianto tradizionale dell'autorita' e del potere. Il timore da parte dei poteri costituiti, politici e professionali, di essere scalzati, destituiti, e' molto diffuso e prevedibile. - Susan Podziba: Per me il metodo di costruzione del consenso e' pura e semplice democrazia. La gente e' abituata a pensare alla democrazia come "una testa, un voto", il diritto di votare e il rispetto da parte delle minoranze delle decisioni prese da una maggioranza del 50% piu' uno. Ma per me e' anche qualcosa di piu', direi specialmente qualcosa di piu': e' un costrutto che permette alle persone di parlare a partire dalle proprie differenze senza ricorrere alla violenza; che permette loro di fare per davvero tutto il possibile per venirsi incontro e trovare delle soluzioni reciprocamente accettabili e infine di esercitare il potere pubblico come servizio e in modo provvisorio. L'idea che una struttura del genere destituisca i saperi specialistici e le professionalita' e' del tutto sbagliata. In realta' i professionisti che partecipano ai processi deliberativi inclusivi alla fine riconoscono di aver fatto un'esperienza profondamente gratificante sia sul piano professionale che umano. Quello che salta e' il sistema dell'operare "per bande", per alleanze di subalternita' a poteri costituiti. C'e' sempre chi prova a manipolare anche questi processi, ma potrei portarvi numerosi esempi di come, grazie alla trasparenza di queste metodologie, questi tentativi possono ritorcersi contro chi li mette in atto. 2. MEMORIA. GIORGIO FORNONI INTERVISTA ANNA POLITKOVSKAYA (2003) [Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 ottobre 2006 rirendiamo il seguente estratto dell'intervista a Anna Politkovskaya realizzata da Giorgio Fornoni per Report (Raitre), nell'agosto del 2003. Giorgio Fornoni e' giornalista televisivo e viaggiatore, collaboratore di '"Report", ha realizzato rilevanti reportage di inchiesta e denuncia su tragiche realta' e vicende. Anna Politkovskaja, giornalista russa, nata a New York nel 1958, impegnata nella denuncia delle violazioni dei diritti umani con particolar riferimento alla guerra cecena, e' stata assassinata nell'ottobre 2006. Opere di Anna Politkovskaja disponibili in italiano: Cecenia. Il disonore russo, Fandango, 2003; La Russia di Putin, Adelphi, 2005] - Giorgio Fornoni: Ci parli delle tecniche di terrore di massa usate dai russi sui civili in Cecenia. - Anna Politkovskaya: Non sono d'accordo con il vostro modo di esprimervi. Prima di tutto, non si parla di russi, ma di militari di diverse nazionalita'. Ci sono forze federali contro la popolazione civile nella Repubblica cecena. Tanto la popolazione russa quanto quella ucraina hanno condiviso la stessa sorte di quella cecena in quei territori. Conosco russi che sono stati torturati e altri russi le cui case sono state fatte saltare in aria intenzionalmente, poiche' pensavano che nascondessero guerriglieri ceceni. I metodi utilizzati sono vari, e spesso ci si comporta da bestie piu' che da uomini. Un uomo puo' essere eliminato solo perche' si trovava nelle vicinanze di militari. Un ragazzo di 26 anni, nel 2001, era in giro per le strade di Grozny quando e' stato preso. E' stato pestato mentre veniva portato alla stazione di polizia, e una volta la' gli e' stato detto che per salvarsi doveva diventare un loro agente e indicare dove si trovavano i guierriglieri. Il ragazzo proveniva da una famiglia cecena perbene, era laureato, e si e' rifiutato di collaborare. La cosa particolare e' che ci sono stati dei testimoni di questo arresto. In generale si hanno a disposizione soltanto i risultati di queste violenze, cioe' i corpi torturati. Questo ragazzo ormai agonizzante e' stato gettato in una cella. La cella non era altro che una buca, e quando si venne a sapere che la mattina sarebbe giunto sul posto un procuratore, i militari hanno semplicemente gettato in un pozzo il corpo del giovane che si era rifiutato di diventare un loro agente. Dopo i bombardamenti a Grozny ci sono molti posti cosi', sono come dei pozzi che scendono verso il basso, la' dove c'erano le fognature. Subito dopo hanno lanciato una granata e del corpo non e' rimasta traccia. Lui ha semplicemente cessato di esistere. Questa e' solo una piccola pagina di quello che accade in Cecenia. Ci sono varie tecniche di pulizia etnica, che in sostanza sono operazioni punitive contro villaggi interi. Viene circondato un villaggio, vengono portati via tutti gli uomini, e non tutti vi fanno ritorno. Dicono che viene controllato che fra loro non ci sia nessuno che abbia preso parte ai combattimenti, invece vengono pestati da qualche parte, vengono portati via e dichiarati scomparsi. La violenza di massa sulla popolazione maschile e' un fatto perche' rientra nella mentalita' dei nostri soldati. Vengono portati via dai villaggi tutti gli uomini alti, forti, e vengono lasciati i vecchi e i drogati. In genere dipende tutto dal comandante della divisione. Questa non e' una guerra di generali, ma di colonnelli: la sorte della persone dipende dall'ufficiale che comanda la divisione, che di fatto ha potere di vita e di morte. * - Giorgio Fornoni: Giovani ceceni pieni di odio, donne kamikaze. Cosa spinge a cio'? - Anna Politkovskaya: La domanda e' molto generica. Per prima cosa ci sono due tipi di donne kamikaze. Ci sono quelle della djamahat, le comunita' religiose che ritengono tutto cio' un loro dovere verso Allah. La maggior parte sono persone portate alla disperazione da tutto cio' che ho raccontato prima. Madri, sorelle di scomparsi che hanno bussato alle porte di tutte le sezioni di polizia ricevendo sempre la stessa risposta: "Non ci sono piu', sono scomparsi, rassegnatevi". Dal 2001 queste donne hanno iniziato a dire apertamente che a loro non rimane che farsi giustizia da se'. Se i militari si fanno giustizia da se', in risposta riceveranno lo stesso. Nel 2001 ci sono stati i primi sporadici casi di donne kamikaze. Una donna si avvicina a un generale che ritiene responsabile della morte del marito e si fa esplodere. Muore lei, ma muore anche lui. Sono donne che non hanno un comandante, ma sono unite da una comune disgrazia. Per dirla in modo non militare, e' quasi un "club": non vedono altro senso nella loro vita se non la vendetta. * - Giorgio Fornoni: C'e' qualche legame tra i ceceni e al Qaeda? - Anna Politkovskaya: Come giornalista prima dovrei sapere cos'e' al Qaeda. Dopo l'11 settembre ci e' stato detto "e' responsabile al Qaeda". Ma che sistema e' questo? Senza dubbio l'ex vicepresidente ceceno Zemilhad Dardyev, scappato molto tempo fa dalla Cecenia senza combattere tutta la seconda guerra - e questo per un ceceno e' un disonore - riceveva aiuti da Bin Laden e dalla sua struttura. Ho visto con i miei occhi le tombe degli arabi che hanno combattuto qui nella seconda guerra cecena, ma non so se fossero membri di al Qaeda. Credo che al Qaeda sia un paravento dei nostri potenti per nascondere i propri errori quando non riescono a fronteggiare gli attacchi terroristici. E' come una nuova alleanza dopo la guerra fredda. Per questo alla vostra domanda non posso rispondere ne' si' ne' no. * - Giorgio Fornoni: Lei condivide le scelte del presidente Putin? - Anna Politkovskaya: Ritengo che se siedi al Cremlino la tua responsabilita' principale e' la pace. Personalmente non e' che non mi piaccia Putin, e' che non mi piace cio' che sta facendo. Lui deve mantenere la pace, e' un suo dovere costituzionale. Invece continua la guerra nel Caucaso, con migliaia di morti non solo ceceni, ma anche russi. Gli attentati non possono cessare. Putin deve smetterla con questa guerra suicida e mettersi a trattare anche con quelle persone che non gli piacciono. * - Giorgio Fornoni: La popolazione locale non crede ai dirigenti ceceni. Lei cosa pensa? - Anna Politkovskaya: Anch'io non credo a loro. Per me, come giornalsita, prima di tutto vengono le esigenze della popolazione civile. Loro dicono che non c'e' differenza che arrivi un bandito di Maskhadov o di Putin. Loro vogliono vivere. * - Giorgio Fornoni: Perche' Mosca non vuole osservatori internazionali in Cecenia? - Anna Politkovskaya: E' chiaro che non li vogliono perche' sono stati commessi molto delitti. Gli osservatori vedrebbero i cadaveri, le donne violentate e capirebbero chi e' stato. Per questo l'accesso e' limitato al massimo. Non vogliono testimoni. * - Giorgio Fornoni: Occidente e Usa hanno chiuso un occhio... - Anna Politkovskaya: Il gioco delle sfere alte e' tutto un gioco di compromessi. Il Kosovo, Baghdad, l'Afghanistan. Noi siamo stati co-sponsor degli Stati Uniti. Abbiamo dato il nulla osta per le basi in Uzbekistan e Tagikistan. Ma io rifiuto categoricamente questo tipo di compromessi fatti sul sangue. Putin e Bush sono contenti. Invece io, quando guardo negli occhi queste persone a cui il giorno prima hanno ucciso il figlio, capisco che il prezzo di questo compromesso e' nel dolore di quelle persone e nessuno puo' aiutarle. Il mio lavoro e' sul campo, vedo i risultati di questo sanguinoso compromesso e non posso essere d'accordo, non voglio essere un cinico commentatore politico. * - Giorgio Fornoni: Racconti il fatto piu' feroce perpetrato dai militari russi sui civili ceceni. - Anna Politkovskaya: No, non diro' nulla. Non ho una buona opinione della societa' occidentale. Non siamo nel 2000, quando c'erano grandi speranze che raccontando cio' che stava accadendo l'Occidente avrebbe fatto qualcosa per aiutarci. So da tempo che l'Occidente non si interessa di questi problemi, ha tradito queste persone che pure vivono in Europa. La Cecenia tra l'altro fa parte dell'Europa, geograficamente. Per questo non mi mettero' a solleticare i nervi con racconti di come hanno ucciso, tolto scalpi e tagliato nasi e orecchie. Capitemi bene, non e' quello lo scopo del mio lavoro, ma prevenire atrocita' di questo genere in futuro. * - Giorgio Fornoni: Quanti morti ci sono stati, sia ceceni sia russi? - Anna Politkovskaya: Sapete, la vera tragedia e' che non c'e' una statistica precisa. Ci sono statistiche nei singoli villaggi e nelle unita' militari. Ma chi e' al potere fa di tutto perche' non ci siano dati ufficiali. Per questo, qualsiasi cifra io vi dica, sara' solo la mia cifra, non corretta, e un altro vi dara' la sua. So che sono migliaia a oggi, migliaia, e questa storia non e' ancora finita, sta continuando. * - Giorgio Fornoni: Un rappresentate ceceno a Tblisi parla di 400.000 morti... - Anna Politkovskaya: La cifra esatta non la conosce nessuno e di queste parole sono pronta a rispondere. Si', il signor Aldanov, credo vi riferiate a lui, ha parlato di 400.000 vittime, ma un altro rappresentante di Mashkadov ha parlato di 250.000. Io so che i federali diminuiscono il numero di perdite, mentre i ceceni lo aumentano. Penso comunque che questo sia un problema del futuro. * - Giorgio Fornoni: Ha paura del Cremlino? - Anna Politkovskaya: Tutti hanno paura ora, e anch'io sono una parte del tutto. Anch'io ho paura, ma questa e' la mia professione e avere paura e' una cosa tua, personale. La professione esige che si lavori e si parli di quello che e' il fatto principale nel Paese e la guerra che continua e' il fatto principale. Perche' la' muore la nostra gente. E avere paura o non averne e' il rischio di questa professione. * - Giorgio Fornoni: Non sono d'accordo sul fatto che l'occidente si disinteressi... - Anna Politkovskaya: Non sto parlando di voi. In tutto questo tempo molti giornalisti occidentali hanno tentato di far conoscere quanto sta accadendo. Ma la realta' e' che i leader occidentali si sono messi d'accordo con Putin, e il prezzo di questo compromesso e' la Cecenia. La societa' occidentale non e' riuscita ad essere compatta e ottenere che i propri leader contrastassero Putin. * - Giorgio Fornoni: Perche' la comunita' internazionale non conosce i fatti veri? - Anna Politkovskaya: Il mondo sa. Basta entrare in Internet e vedere cosa scrivono Human rights watch, Amnesty International, che monitorano costantemente la situazione cecena. Ogni volta che Putin fa visita a un leader occidentale, si rivolgono al leader di quel Paese. E come puo' non sapere? Il mondo sa, ma non vuole prendere posizione... Viviamo in un tempo veramente strano, o almeno io non avrei mai pensato che sarebbe arrivato il momento del concetto di terrorismo di stato e terrorismo non dello stato in lotta l'uno contro l'altro. Su che base gli Usa sono entrati in Iraq? Capisco perfettamente chi e' stato Hussein, che il suo regime era terribile, ma su che basi sono entrati la' i soldati americani? Non capisco. Capisco che Basaev in Cecenia e' il tipico terrorista, ma non capisco perche' per quattro anni si risponde con azioni terroristiche che coinvolgono tutta la popolazione. 3. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: IL MONDO OLTRE L'HIJAB [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 ottobre 2006. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005] Sostenere, come ha fatto il ministro britannico Jack Straw, che le relazioni migliorano se ci si guarda in faccia potrebbe apparire quasi una ovvieta', se non mettesse in discussione il velo. Infatti il ministro si riferiva ai colloqui con gli elettori, o meglio con le elettrici, della sua circoscrizione, quella di Blackburn, dove il 30% sono musulmani. Conversazioni che, ha precisato il ministro, avvengono sempre alla presenza di una sua assistente donna. In verita' non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, perche' la donna musulmana e' sempre accompagnata dal marito e in genere e' solo lui a rivolgersi al ministro, quindi la conoscenza sarebbe comunque limitata dalla mediazione maschile. Il problema dell'isolamento della donna trova dunque nel velo solo il simbolo della sua separazione dal mondo esterno. Straw si riferiva peraltro soprattutto al niqab, il velo che lascia aperta solo una fessura all'altezza degli occhi, e non ha affermato di voler imporre la sua richiesta. Ma ormai le polveri sono incendiate. Immediata e' stata la levata di scudi dei leader - tutti maschi - delle moschee e della comunita' musulmane che hanno accusato il ministro di pregiudizi. L'unica voce a favore del dibattito necessario sul velo sollevato da Straw e' quella di una donna, la signora Uddin. La questione non e' nuova, era gia' stata affrontata dopo gli attentati di Londra, quando si chiedeva alle donne di non andare in giro velate per evitare attacchi anti-islamici. Come, il velo non e' considerato una protezione per la donna? I leader delle comunita' islamiche spesso attribuiscono la scelta del velo alla volonta' della donna, non lo vogliamo negare, ma sono donne la cui volonta' generalmente non viene tenuta in grande considerazione: la loro testimonianza (nei paesi musulmani) vale la meta' di quella di un uomo e lo stesso dimezzamento riguarda l'eredita'. Piu' che la religione e' la tradizione a imporre il velo, ma quale tradizione non puo' essere superata? Solo le donne musulmane potranno liberarsi da questa imposizione che permette ai loro maschi di controllare la loro vita sessuale. E liberarsi da quel divieto di seduzione loro imposto per poter godere di tutti i diritti riconosciuti dai principi universali. Si puo' imporre un superamento di simili pregiudizi? Quando fu varata la legge contro i simboli religiosi nelle scuole francesi, pensavo di no. Ma quando l'anno scorso, dopo l'entrata in vigore della legge, sono andata in Francia per verificare l'impatto di tale divieto, ho scoperto che il problema del velo a scuola era stato superato e solo una ventina di ragazze avevano abbandonato l'insegnamento pubblico. Altre ringraziavano per l'aiuto. Certo, la richiesta di cancellare la legge fatta dai rapitori dei due giornalisti francesi Chesnot e Malbrunot aveva contribuito a mettere in evidenza quanta strumentalizzazione si nasconde dietro la questione del velo. 4. INCONTRI. BEATRICE BUSI: UN CONVEGNO A TRIESTE [Dal quotidiano "Liberazione" del 10 ottobre 2006. Beatrice Busi, giornalista e saggista, impegnata nell'esperienza di "A/Matrix", collabora con varie testate] Qualche anno fa, la filosofa Rosi Braidotti immaginava l'Europa come "un luogo di possibile resistenza politica" al nazionalismo, alle guerre e alla xenofobia, un luogo attraversato e risignificato dai movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti. Nella postfazione a Nuovi soggetti nomadi (Luca Sossella Editore), descriveva il progetto di uno spazio sociale europeo aperto e postnazionale che avesse come cardine la politica femminista dei saperi incarnati e situati. Un progetto che ha trovato una risonanza significativa nel convegno "Violenza e patriarcato" che si e' svolto nei giorni scorsi a Trieste organizzato dalla rete femminista El-fem della Sinistra europea. Nel cuore della mitteleuropa, luogo simbolico dei molti confini che restano ancora da superare e oltrepassare, venerdi' 6 e sabato 7 ottobre, si sono incontrate donne, dei partiti e dei movimenti, provenienti da tutta Europa, in particolare dalla Germania, dalla Francia ma anche dai paesi della ex-Jugoslavia, dall'Estonia, dalla Romania, dalla Grecia e dalla Turchia. Due giorni di discussione intensa e appassionata, articolata in quattro sezioni tra loro strettamente intrecciate: violenza e poverta', violenza e guerre, violenza in famiglia e prostituzione che hanno visto una partecipazione numerosa, oltre le stesse aspettative delle organizzatrici. * Come ha sottolineato Elettra Deiana nell'introduzione al workshop sulle guerre, il legame tra la violenza nelle sue varie forme e il patriarcato non e' accidentale. Anzi, il patriarcato e' "un assetto sistemico e funzionale" del quale la violenza e' un elemento strutturale. La recrudescenza della violenza contro le donne a livello globale e locale, pubblico e privato, denuncia sia una crisi di legittimazione dell'ordine patriarcale che un'offensiva contro il nuovo protagonismo politico e sociale delle donne, un'insofferenza e un'incapacita' maschile a misurarsi con l'autonomia femminile ma anche un ostacolo reale ai processi di autodeterminazione e liberta' delle donne. Le guerre sono "fatti sociali", non solo economici, e poggiano su dispositivi di costruzione del mito dell'appartenenza e dell'identita'. Occorre liberarsi dai fondamentalismi e dai nazionalismi come strutture simboliche maschili che poggiano sul controllo del corpo delle donne e che sono anche i principali incubatori di guerre. Le donne sono le prime a fare le spese delle storture delle ideologie comunitariste, e si tratta di lavorare con continuita' non solo nell'urgenza dell'opposizione alla guerra come "strumento di risoluzione dei conflitti", ma anche prevenendo i conflitti attraverso la promozione di un'etica pubblica femminista centrata nella pratica della relazione con l'altro. E' necessario liberarsi della categoria di "nemico" che provoca la disumanizzazione dell'altro da se' e sostituire la categoria della colpa con quella di impegno collettivo nella prevenzione delle guerre: valorizzando i vissuti, opponendo la "sorellanza" all'appartenenza etnica o nazionale, aiutando l'altro nell'elaborazione del lutto, facendo formazione ed educazione all'ascolto. * Di fronte alle vecchie e nuove forme della violenza e al riemergere di culture che tentano di negare soggettivita' alle donne, non si puo' rispondere con politiche repressive o provvedimenti isolati ma solo andando alle radici della violenza e scardinando quelle rappresentazioni che vogliono le donne solo come vittime e oggetti di tutela. Un tema che ha attraversato tutti i momenti di discussione ma sul quale si e' insistito particolarmente nel gruppo di lavoro sulla violenza in famiglia, dove e' emerso il rapporto problematico e la relazione critica che le donne hanno con lo Stato e le istituzioni. Come ha ricordato Angela Azzaro nell'introduzione al workshop, le leggi non sono mai "neutre", anzi storicamente sono state uno degli strumenti privilegiati di perpetuazione del potere patriarcale. Allo stesso modo e' la casa, e non la strada, il luogo piu' pericoloso per le donne, perche' la famiglia produce e riproduce i rapporti di forza patriarcali. E' proprio nella famiglia che si consolidano i tradizionali ruoli maschili e femminili e la "normalita'" della violenza riguarda le nostre relazioni quotidiane. Che risposte dare allora alla violenza? Serve soprattutto una trasformazione culturale della societa' e si devono mettere al centro dell'iniziativa politica la costruzione di nuovi modelli di relazione tra uomini e donne e di un nuovo immaginario sessuale. Secondo Stefano Ciccone il conflitto tra uomini e donne va nominato e c'e' bisogno di una pratica reale che chieda anche agli uomini di interrogarsi su se stessi. Ma c'e' bisogno anche di una rete di appoggio materiale ed economico, senza la quale in condizioni di dipendenza economica diventa impossibile denunciare le violenze, soprattutto se si tratta di donne migranti. * Lo smantellamento del welfare e' stato al centro anche della discussione su violenza e poverta': la poverta' genera esclusione sociale, isolamento e negazione dei diritti di cittadinanza. Per sopravvivere e riprodursi il modello neoliberista genera disuguaglianza e la globalizzazione senza regole erode i diritti. Di fronte all'aumento progressivo della "femminilizzazione della poverta'" si deve uscire una volta per tutte dal modello familista e costruire un nuovo welfare laico e non assistenzialista, che garantisca la liberta' e l'autonomia delle donne. Servono servizi pubblici e politiche di inserimento lavorativo che promuovano un'occupazione di qualita': non solo estendere anche alle istituzioni europee l'esperienza dei bilanci di genere ma soprattutto introdurre forme di reddito sociale o di cittadinanza. * Molto partecipato il workshop sulla prostituzione nel quale il dibattito e' stato particolarmente appassionato e nel quale le opinioni a confronto si sono divise soprattutto riguardo all'opportunita' di riconoscimento legale della prostituzione come lavoro. Se questo tipo di legalizzazione possa essere o meno uno strumento efficace per combattere la violenza contro le sexworkers, rimane il dato drammatico che questa violenza ha certamente origine nello stigma che pesa sulle prostitute determinandone l'isolamento sociale e che questa esclusione e' il terreno su cui si innesta lo sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali. "Quello che chiediamo alle compagne della Sinistra europea e alle tante donne presenti - ha detto Pia Covre del Comitato per i diritti civili delle prostitute - e' di lottare insieme contro la violenza, violenza che e' generata dal sistema sociale delle disuguaglianze in cui si fonda la violenza di genere, ma anche la violenza istituzionale conseguenza delle leggi proibizioniste sulla migrazione e la prostituzione". * La lotta a tutti i dispositivi sociali che generano violenza contro le donne e' certamente la grammatica comune per la costruzione di un'alternativa femminista per un'altra Europa. Un obiettivo non di oggi, ne' forse di domani. Ma che vede tante donne impegnate e che ha visto in questa tappa della rete El-fem un passaggio significativo. "E' l'inizio del confronto tra linguaggi diversi - sottolinea Imma Barbarossa tra le organizzatrici della due giorni -. Ma e' un inizio molto importante anche per la relazione che la rete ha subito stabilito con i movimenti delle donne. Ora si tratta di andare avanti". ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 85 del 12 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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