La nonviolenza e' in cammino. 1441



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1441 del 7 ottobre 2006

Sommario di questo numero:
1. Franco Alasia
2. Afghanistan
3. Verso la quinta Giornata del dialogo cristiano-islamico
4. Barbara Spinelli: Terrorismo, tre guerre perdute
5. Cati Schintu: Donne d'Africa
6. Roberta Ronconi intervista Deepa Metha
7. Clara Sereni intervista Manuela Dviri
8. Riletture: Salwa Salem, Con il vento nei capelli
9. "La politica della nonviolenza", un seminario promosso dal Movimento
Nonviolento il 21-22 ottobre a Verona
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. LUTTI. FRANCO ALASIA

Da Amico Dolci riceviamo la notizia della scomparsa di Franco Alasia, il
grande collaboratore di Danilo, e con Danilo una delle figure piu' vive e
luminose della lotta nonviolenta in Italia.
Ai familiari e agli amici ci uniamo nel cordoglio.
A tutte e tutti coloro che ci leggono, l'invito a raccoglierne l'eredita'.
Non si estingue con la morte il valore delle persone buone, resta dono
perenne all'umanita' intera il bene da loro operato e l'esempio,
l'insegnamento a bene operare.

2. EDITORIALE. AFGHANISTAN

Cessare di partecipare alle guerre, per potersi opporre a tutte le guerre.
Smilitarizzare i conflitti: negoziati invece che stragi.
Disarmare, cominciando noi per porterlo chiedere agli altri.
Cessare di uccidere, ed invece salvare le vite.
Cessare di gettare risorse in armi ed eserciti, ed invece dare aiuto alle
vittime delle guerre: cibo, case, scuole, ospedali, sostegno ad economie
autocentrate con tecnologie appropriate, sostegno alla democrazia di base,
difesa della biosfera.
La pace si costruisce con mezzi di pace.
La nonviolenza e' la via.
*
Cessi la violazione della legalita' costituzionale ed internazionale.
Costringiamo governo e parlamento a tornare nella legalita'.
Occorre l'azione nonviolenta per la pace e la Costituzione, per salvare le
vite e ripristinare la vigenza del diritto.
*
Cessi ogni complicita' con la guerra e con le stragi.

3. INIZIATIVE. VERSO LA QUINTA GIORNATA DEL DIALOGO CRISTIANO-ISLAMICO
[Dal comitato organizzatore della quinta Giornata del dialogo
cristiano-islamico (per contatti: e-mail: redazione at ildialogo.org, sito:
www.ildialogo.org) riceviamo e volentieri diffondiamo]

Cominciano a moltiplicarsi le iniziative in vista della quinta Giornata del
dialogo cristiano-islamico del 20 ottobre prossimo.
Fra queste segnaliamo l'importante iniziativa che si terra' a Roma presso la
grande moschea di Roma e che vedra' la partecipazione del dottor Abdellah
Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d'Italia, di
monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Consiglio della Cei per
l'ecumenismo e il dialogo, della pastora Maria Bonafede, moderatora della
Tavola valdese, di monsignor Piero Coda, dell'Universita' Lateranense,
presidente dell'Associazione teologica italiana, del professor Paolo Naso,
direttore di "Confronti", dell'on. Paolo Ferrero, ministro per la
solidarieta' sociale.
Sempre a Roma prosegue l'iniziativa dei Cantieri del Cipax con incontri tra
cristiani e musulmani.
Altre importanti iniziative curate dai missionari saveriani sono segnalate a
Desio, dove si svolgera' una fiaccolata, a Brescia, dove si terra' un
dibattito.
A Pescara la rete nonviolenta dell'Abruzzo organizza un convegno.
Altre iniziative a Faenza, Parma, Padova, Bari, Avellino ed in provincia di
Messina.
Segnaliamo anche che quest'anno per la prima volta la Commissione episcopale
del Triveneto ha inviato un messaggio ai musulmani del Triveneto per
l'inizio del ramadan.
Per gli aggiornamenti e i dettagli di tutte le adesioni e delle iniziative
in corso consultare il sito www.ildialogo.org
Segnaliamo inoltre che all'indirizzo
www.ildialogo.org/islam/cristianoislamico.htm e' possibile scaricare il nume
ro speciale del periodico "il dialogo" dedicato alla quinta Giornata del
dialogo cristiano-islamico, con materiali utili al dibattito, e la locandina
di quest'anno.
Con un fraterno e cordiale saluto di shalom, salaam, pace
il Comitato organizzatore
*
Sia l'elenco completo dei promotori che le adesioni all'iniziativa sono
consultabili nel sito: www.ildialogo.org

4. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: TERRORISMO, TRE GUERRE PERDUTE
[Dal quotidiano "La stampa" del 2 ottobre 2006. Barbara Spinelli e' una
prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo
particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001, 2004; una
selezione di suoi articoli e' in una sezione personale del sito del
quotidiano (www.lastampa.it)]

A forza di parlare di guerra globale contro il terrorismo, i responsabili
occidentali rischiano di perder di vista le singole battaglie che questa
guerra ha originato, e i risultati concreti che la loro somma ha ottenuto in
cinque anni. Il concetto di guerra totale al terrorismo ha infatti effetti
perversi, sui modi di ragionare e anche di far politica e combattere.
Ha un effetto sulla percezione del tempo, innanzitutto: il tempo si fa
statico, sconnesso dal divenire, e questo per due motivi. Perche'
l'obiettivo si spersonalizza (il bersaglio non e' un nemico ma un metodo,
appunto il terrorismo). E perche' la guerra e' presentata come globale,
totale, dunque infinita e inviolata. Il giorno che si spegnera', si
spegnera' per ragioni che poco hanno a che vedere con gli eserciti
d'Occidente.
Il concetto ha poi un effetto sul nostro modo di valutare le singole
battaglie: tutte le guerre iniziate da Usa o Occidente, compreso lo Stato
d'Israele (Iraq, Afghanistan, Libano) sono viste separatamente, come
esperienze contingenti di una permanente e imperturbata idea generale (la
lotta al terrorismo). Quest'ultima si tramuta in ipostasi, cioe' in qualcosa
che ha una propria consistenza astratta e ideale - cosi' l'ipostasi e'
spiegata nel Devoto e nell'Oxford English Dictionary - al di la' del fluire
fenomenico, degli accidenti e delle ombre del reale. I fatti sul terreno non
si unificano mai, essendo puri riflessi. S'unificano solo nel cielo delle
idee, dove dettagli e accidenti pesano poco, se pesano.
Questa strategia sta fallendo, perche' l'accumularsi di sconfitte
accidentali sta dando preminenza al duro pavimento dei fatti sul cielo delle
idee e perche' nei Paesi stessi dove si guerreggia i fatti vengono
unificati. Siamo soliti dire che una battaglia si puo' perdere, senza che
per questo sia persa la guerra. Arriva pero' un punto in cui un numero
relativamente alto di battaglie fallite fanno una guerra perduta (accanto
alla dura legge del tempo c'e' la legge del numero: fin da quando Aristotele
descrive la visione pitagorica secondo cui il numero "misura la realta' e
permette di penetrarne il significato"). Naturalmente cinque anni sono un
provisorium. Ma sono sufficienti per un primo bilancio, e il bilancio e'
negativo. In questi anni ben tre guerre sono state fatte contro il
terrorismo: una in Afghanistan, una in Iraq, una in Libano contro gli
Hezbollah, e anche se non tutte sono disfatte complete, nessuna e' stata
vinta. A esse potremmo aggiungerne una quarta, condotta dal governo
israeliano nei territori palestinesi e specialmente a Gaza, oggi rioccupata
per far fronte ad attentati terroristi in seguito al ritiro unilaterale
deciso dal governo Sharon.
Queste guerre siamo abituati a esaminarle distintamente, unificandole solo
concettualmente quando si parla di guerra globale al terrore. A intervalli
regolari giornali e politici guardano all'Iraq, o all'Afghanistan, o al
Libano, oscurando le altre guerre come se nel firmamento fossero capaci di
scorgere una stella alla volta. Invece e' ora di vederle tutte assieme, non
fosse altro perche' le forze che pretendiamo combattere in varie regioni
cominciano a classificarle come un unico regolamento di conti. Se non lo
facciamo, e' perche' dire la verita' dei fatti non e' semplice come dire la
verita' delle idee: perche' e' comodo unificare sul piano delle idee quel
che si tiene diviso sul piano della pratica.
*
Resta che i fatti parlano chiaro: dall'11 settembre, tre guerre favorite
dalla superpotenza son degenerate. La lista include la guerra d'Israele in
Libano, perche' senza appoggio Usa difficilmente Olmert avrebbe corso rischi
cosi' grandi. Siamo dunque giunti al punto in cui l'accumularsi quantitativo
di cambiamenti si converte, attraverso un brusco salto, in cambiamento di
qualita': sono quei punti nodali noti anche in fisica, quando ad esempio
l'acqua passa al vapore o al gelo, cessando di esser l'acqua di prima. E' il
motivo per cui non vale il paragone con Hitler, se mai il paragone ha avuto
valore. Per uscire dal marasma e' da qui che occorre ricominciare: dal
riconoscimento che la guerra odierna non e' vinta, e dall'analisi severa del
perche' cio' sia avvenuto. Forse una delle cause e' il modo in cui
l'offensiva e' stata condotta; forse l'errore e' stato dare il nome di
guerra a una lotta al terrorismo che e' totalitario per come sequestra
l'islam, ma che militarmente non e' vincibile. Certo e' che tre battaglie
dissipate creano molta sicurezza nell'avversario. E che se i dati di fatto
vengono occultati anziche' pensati, correre presto ai ripari diventa
impossibile. Correre ai ripari vuol dire riconquistare il senso del tempo e
del numero: riscoprendo che il tempo scorre, che i numeri misurano il reale.
Vuol dire contare tutti questi anni, tutti gli episodi bellici, e uscire
dall'ipostasi. E' praticamente perduta la guerra afghana, perche' i talebani
hanno riconquistato meta' dalla nazione e la popolazione vede ormai le
truppe occidentali (non solo Enduring Freedom lanciata nel 2001 da Bush ma
anche la Forza di sicurezza e assistenza Nato, l'Isaf) allo stesso modo:
come forze unificate, che combattono l'insurrezione senza stabilizzare il
Paese ma anzi destabilizzandolo. E' il fiasco di Enduring Freedom che ha
cambiato la natura dell'Isaf, limitata in origine a opere di
ricostruzione-assistenza: cosa che non viene detta, pur di non ammettere
quel fiasco. Segue l'Iraq: qui, la guerra ha creato un terrorismo prima
inesistente, e ora il Paese e' un caos senza Stato ne' centro. La guerra in
Libano, infine: essa non ha disarmato gli Hezbollah ma ha dato loro piu'
spazio e peso nella politica libanese.
*
Riconoscere la sconfitta non e' disfattismo, sottomissione al dominio
avversario. E' ricostruire gli errori, per correggerli. E' smettere
l'immobilita' del tempo, e l'illusione che questa guerra ipostatizzata possa
esser vinta come fu vinto Hitler. E' capire il momento in cui l'acqua -
riscaldandosi o raffreddandosi - diventa o vapore o ghiaccio, imponendo
strategie assolutamente nuove.
Naturalmente questo senso di sconfitta e' dilatato dalle elezioni americane,
che essendo un voto su Bush accendono tutto il pianeta. Ma i dati che in
questa occasione stanno venendo alla luce sono significativi. Un rapporto di
16 agenzie di intelligence conferma che la minaccia terrorista e' aumentata,
a seguito della guerra in Iraq. Un rapporto dell'Accademia di difesa
britannica sostiene che i soldati Nato in Afghanistan sono "inutili e
rovinosi", come in Iraq. Il rapporto Senlis infine (un centro indipendente
con sedi a Londra, Bruxelles, Parigi, Kabul) documenta come l'intervento in
Afghanistan sia ormai naufragato, divenendo una guerra del tutto simile alle
invasioni inglesi nell'800 e a quelle sovietiche degli anni '80 (Afghanistan
cinque anni dopo - Il ritorno del talebani, primavera-estate 2006). Il
rapporto spiega il modo in cui la missione atlantica Isaf, inizialmente di
pace, si e' tramutata in missione di guerra preventiva contro insorti
combattenti, non tutti talebani (anche qui la quantita' accumulata ha
provocato un salto di qualita'). Si parla di "sinergia", ma in effetti gli
accordi del luglio 2006 predispongono una fusione tra operazioni Nato (cui
l'Italia partecipa) e Enduring Freedom, tra peace-keeping europeo e una
guerra Usa dagli obiettivi sempre piu' astratti e nebbiosi.
Riconoscere gli errori significa anche uscire dai dibattiti occidentali,
guardare finalmente i mondi su cui interveniamo. Le guerre contro il terrore
sono state finora un nostro affare interno: un affare ideologico, che ha
diviso destre e sinistre, pacifisti e non, cristiani conservatori e
innovatori. Urgente e' considerare il punto di vista dei popoli coinvolti
esterni all'Occidente: perche' il nostro interesse dipende anche dal loro
modo di vedere e vederci. Si tratta di ricominciare a far politica,
affrontando le questioni che sorgono a seguito di conflitti degradati. Si
tratta di cominciare un dibattito culturale sull'islam europeo, che
implicitamente tenga conto delle sconfitte: il discorso del papa a Ratisbona
e' forse un primo segno in questa direzione. Si tratta di affrontare l'Iran
di Ahmadinejad, che oggi si sente cosi' forte da poter abbattere due tabu'
al tempo stesso: banalizzando e l'atomica e la Shoah. Non solo: Ahmadinejad
si ripromette di creare un cartello tra produttori di energia, che sara'
sfida impaurente all'Occidente.
Ma soprattutto si tratta di rivedere il principale errore d'un quinquennio
di guerre. Esse avevano come obiettivo la liberta' e la democrazia, ma nei
fatti hanno rafforzato o creato Stati falliti, fino a dare l'impressione di
volere precisamente questo. Nessun state-building e' scaturito dalle guerre,
e quel che e' stato fatto e' piuttosto un failed-state-building, una
deliberata costruzione di Stati disastrati. La svolta potrebbe avvenire in
Libano, se gli europei sotto la guida del governo italiano e francese
svilupperanno idee alternative. Per questo e' importante che il compito di
disarmare gli Hezbollah appartenga allo Stato libanese, non alle forze Onu.
Lo stesso capo degli Hezbollah Nasrallah, il 22 settembre a Beirut, lo ha
affermato: la creazione di uno "Stato libanese forte, capace, giusto"
rendera' vane le milizie sciite indipendenti.
*
Capire che in questione non e' solo la nostra provincia
culturale-ideologica, ma il mondo, significa capire che il conflitto non e'
oggi tra Occidente e islam radicale, ma e' dentro l'islam tra forze molto
contraddittorie. Gli sciiti stanno rinascendo, grazie agli interventi Usa:
Khatami lo ha detto nella visita in America. Ed e' una rinascita al tempo
stesso promettente e micidiale, come illustrato nel prezioso libro di Vali
Nasr, The Shia Revival, Norton 2006. E' promettente perche' gli sciiti hanno
un'idea della democrazia che i sunniti non possiedono: la loro forza e'
nella legge della maggioranza, dell'"un uomo, un voto". Abituati a esser
minoranza perseguitata nell'islam, essi hanno molto in comune con gli ebrei:
sono piu' assimilati, dissimulati, duttili dei sunniti. In passato hanno
aderito al laico nazionalismo arabo pur di sfuggire all'egemonia sunnita. Ma
il loro estremismo e' micidiale, se dominato dalla componente apocalittica.
L'ultimo imam nascosto - il dodicesimo imam al-Mahdi, scomparso nel 939
d.C. - tornera' a vivere e dara' la vittoria: Ahmadinejad aderisce a questo
messianesimo. Ma Ahmadinejad non e' solo un apocalittico: e' un politico che
valuta sconfitte e perdite. Oggi, egli e' convinto che l'America abbia
subito una colossale sconfitta. Che i grandi produttori di energia (Russia,
Venezuela, Iran) possano emarginare l'Occidente puntando sull'enorme
fabbisogno cinese.
Sicche' siamo a un bivio. La causa era forse giusta, nel 2001, ma i
risultati inficiano causa e senso della guerra. Diceva Simone Weil: "La
vittoria di quelli che difendono con le armi una causa giusta non e'
necessariamente una vittoria giusta; una vittoria non e' piu' o meno giusta
in funzione della causa che ha spinto a prendere le armi, ma in funzione
dell'ordine che si stabilisce una volta deposte le armi" (Sulla Germania
Totalitaria, Adelphi, 1990, p. 277). E' questo ordine che non c'e', e che
gran parte dell'Occidente non si preoccupa di stabilire per aggiustare il
disordine che ha creato.

5. INCONTRI. CATI SCHINTU: DONNE D'AFRICA
[Da "Donne in viaggio" (sito: www.donneinviaggio.it). Cati Schintu,
intellettuale femminista e libertaria, scrive su "Donne in viaggio", e'
webmaster del sito di "A. Rivista anarchica"]

"L'Africa non rinuncia a sorridere anche nella tristezza, e il canto diventa
un modo di affrontare un'esistenza difficile". Lo dice Elisabeth Tarira,
medico e direttrice dell'ospedale St. Albert in Zimbabwe, nel suo intervento
al convegno dedicato alle donne africane che si e' svolto alla Triennale di
Milano il 14 giugno. Per questo, prima di riferire la sua esperienza chiede
di poter ascoltare della musica. Parte un brano musicale africano molto
vivace e Elisabeth Tarira inizia a ballare, in mezzo alla sala, presto
seguita dalle altre relatrici e poi dal pubblico. Subito dopo siede al
tavolo e racconta il dramma quotidiano del non poter prestare le cure a
tutti i malati di aids che affollano il suo centro perche' i farmaci
antiretrovirali hanno costi inaccessibili. A fronte dei trecento pazienti
che l'ospedale riesce ad accogliere e curare, la lista d'attesa e' di
tremila. La voce le trema mentre parla e dice di come l'aids stia mettendo
in ginocchio l'Africa e che sono le donne a essere maggiormente colpite:
circa il 57% sul totale dei malati contro il 33% di uomini e il 10% di
bambini.
"Donne d'Africa. Un nuovo inizio", questo il titolo e la cifra del convegno,
organizzato dalle ong Cesvi e Cocis, dal settimanale "Vita" e patrocinato
dal Ministero affari esteri - Direzione cooperazione e sviluppo.
Il senso del convegno lo esplicita Giulio Albanese, collaboratore di "Vita"
e fondatore di "Misna", l'agenzia di notizie online dal Sud del mondo, "voce
di chi non ha voce": "L'elezione in Liberia di Ellen Johnson-Sirleaf, prima
presidente donna del continente, e il Nobel per la pace alla kenyana Wangari
Maathai sono due avvenimenti che hanno avuto risonanza in tutto il
continente e a livello internazionale. Ma un rinnovato protagonismo delle
donne e' in atto gia' da tempo. Le donne hanno un'influenza consolidata alla
guida di associazioni della societa' civile e il loro peso sta crescendo
nella vita politica".
Nei diversi Paesi africani la percentuale di donne parlamentari va dal 49 al
15,3%. Per capire il dato bastera' ricordare che nelle ultime elezioni in
Italia la percentuale di donne elette e' del 15,9%. Ma e' soprattutto la
presenza delle donne nella societa' civile che fa sperare.
*
Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, in apertura del convegno
ricorda l'assoluta centralita' delle donne nel processo di trasformazione
del continente africano: "Donne di grande valore morale e intellettuale che
svolgono un ruolo di mediazione dei conflitti, anche se sono formalmente
escluse dai tavoli della pace dominati dai 'signori della guerra'. In questi
ultimi anni le donne africane sono riuscite a entrare in politica, e il
cammino e' ancora lungo. Sono convinta che aiutarle sia un investimento per
tutti". Per questo la fondazione che dirige e che porta il suo nome ha
erogato negli ultimi cinque anni oltre mille borse di studio a ragazze
africane per dar loro modo di completare la formazione scolastica.
*
Di nuovo inizio, di nuove speranze per l'Africa e di come le donne possono
esserne protagoniste parlano tutte le relatrici, rappresentanti delle
emergenti leadership femminili africane, provenienti da Burkina Faso,
Zimbabwe, Sudafrica, Somalia, Camerun, Guinea.
Ciascuna di loro parte dal proprio vissuto, ma tutte raccontano un percorso
difficile e talvolta doloroso di consapevolezza di se' e dei propri diritti
come modo per dare voce a tutte le donne.
Ne parla Odile Sankara, artista di teatro e cinema, sorella del presidente
del Burkina Faso ucciso nel 1987, che nel suo paese ha fondato
l'associazione "Talent de femmes" per offrire uno spazio e far crescere le
tante capacita' delle donne, artistiche ma non solo. L'associazione,
sostenuta in Italia dalla Libreria delle donne di Milano, organizza
dibattiti per informare le donne dei villaggi sui loro diritti, incoraggia
la scrittura femminile come forma di autocoscienza con concorsi letterari
rivolti alle studentesse, promuove spettacoli teatrali e il festival "Voci
di donne". "Quando l'informazione arriva, le donne partecipano - sottolinea
Odile Sankara - e se si offre loro un luogo in cui possono prendere la
parola e' certo che lo faranno".
Dare voce alle donne e' anche l'impegno della giornalista guineiana Assiatou
Bah Diallo, caporedattrice della rivista "Amina", il periodico femminile
piu' diffuso nel continente africano. Assiatou Diallo e' anche
vicepresidente dell'Upr, principale partito di opposizione in Guinea.
In un continente devastato dalle guerre, dalle malattie, dalla fame, sono le
donne che tengono insieme la societa', che ne mantengono e ricreano il
tessuto associativo attraverso la solidarieta' e la condivisione ma anche
sopportando il carico maggiore dei problemi e delle tante contraddizioni.
"In Somalia il 75% delle famiglie dipende dal lavoro di una sola donna"
ricorda a tutti Maryan Mohamud Gacal, coordinatrice di progetti di percorsi
formativi, di gestione dei conflitti e di sostegno all'inclusione sociale
delle donne. Gacal e' consulente di Swea (Shabeli Women Entrepreneurs
Association), associazione che comprende circa 450 imprenditrici somale. "La
gran parte delle imprese in Somalia sono a conduzione femminile, con la loro
attivita' garantiscono la sopravvivenza delle comunita'".
Tra le tante storie che il convegno ospita, significativa e' quella di
Yvonne Barthies, sudafricana, che da quindici anni guida la comunita' in cui
e' nata, un sobborgo poverissimo di Cape Town, per ottenere i servizi
principali: acqua, elettricita', fognature. Si occupa anche, come
volontaria, di prestare assistenza alle donne vittime di violenza, fenomeno
che in Sudafrica e' diventato una vera emergenza: "La violenza contro le
donne, soprattutto quella domestica, e' in costante aumento, nelle aree
urbane piu' povere la situazione sta diventando esplosiva. Per questo, oltre
ad offrire assistenza alle vittime, lavoriamo anche per un cambiamento
culturale". Le statistiche di People Opposing Women Abuse (www.powa.co.za),
una ong di Johannesburg, dicono che nel Sudafrica ogni 26 secondi una donna
viene stuprata.
*
A sostenere le donne africane nelle loro battaglie ci sono anche le
associazioni delle migranti in Italia. Marian Ismail e' arrivata dalla
Somalia nel nostro paese 24 anni fa, rifugiata politica, racconta di come i
segni della guerra e della diaspora siano ancora parte di lei, ma anche di
come questo le abbia dato forza per organizzare reti di aiuto alle migranti
e alle africane dei paesi d'origine. In Italia ha fondato l'associazione
"Mamme e bimbi somali" con la quale ha promosso una vasta campagna di
sensibilizzazione sul problema dell'infibulazione. E' anche fondatrice di
"Donne in rete per lo sviluppo e la pace" e ha partecipato ai lavori della
Consulta nazionale del Ministero della solidarieta' sociale per i problemi
degli immigrati e delle loro famiglie.
Marguerite Lottin e' invece del Camerun, in Italia da 16 anni lavora per la
Consulta del Comune di Roma per gli immigrati. E' presidente
dell'associazione interculturale Griot, e, come gli antichi cantastorie
africani da cui prende il nome l'organizzazione, si fa portavoce delle
tradizioni culturali del suo paese per trasmetterle alle nuove generazioni
in un percorso di crescita personale e civile, convinta di quanto sia
importante lo scambio tra africani residenti e immigrati. Da questo scambio,
sostiene, puo' nascere un diverso modello di crescita per il continente,
originale e autonomo da quello occidentale, di cui ricorda le
responsabilita', passate e presenti, per i drammi che dilaniano l'Africa.
Alle voci delle relatrici africane se ne aggiungono altre italiane. Quella
di Patrizia Sentinelli, Viceministra per la cooperazione del Ministero degli
esteri, che intende rafforzare il settore della cooperazione, di Savino
Pezzotta, gia' segretario nazionale della Cisl, presidente della Fondazione
Tarantelli, di Vita Cosentino, della Libreria delle donne, e di Manuela
Citterio, giornalista di "Vita".
*
La chiusura della giornata e' affidata alle domande del pubblico, che
arrivano numerose, e che rivelano una partecipazione emotiva insolita in
appuntamenti di questo tipo, anche grazie alle testimonianze offerte dalle
ospiti africane.
Donne straordinarie e coraggiose, che ben rappresentano la vitalita' e
l'impegno delle tante che, come loro, si battono per un futuro migliore, per
il loro Paese e per il mondo.
In tutte una consapevolezza forte: saranno loro, le donne, a salvare
l'Africa.
*
Per saperne di piu':
- www.cesvi.org
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- www.misna.org/
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6. RIFLESSIONE. ROBERTA RONCONI INTERVISTA DEEPA METHA
[Dal quotidiano "Liberazione" del 2 ottobre 2006.
Roberta Ronconi scrive di cinema sul quotidiano "Liberazione".
Deepa Metha, regista indiana, canadese d'adozione, e' autrice di film di
straordinario impegno morale e civile]

Gli estremisti indu' l'hanno piu' volte minacciata di morte. Ma la regista
indiana ce l'ha fatta lo stesso a completare il suo ultimo film Water. Da
venerdi' nelle sale italiane.
Bal Thakeray, leader di uno dei gruppi fondamentalisti indu' di estrema
destra piu' potenti dell'India, lo Shiv Sena, di lei ha detto: "e' la
persona che odio di piu' al mondo". E ha tentato in tutti i modi di
dimostrarglielo. Oggetto di tanto astio e' la regista indiana, ma da venti
anni residente a Toronto, Deepa Metha, che con la sua trilogia di Fire,
Earth e Water (Fuoco, Terra, Acqua, quest'ultimo nelle sale italiane dal
prossimo venerdi', per la distribuzione Videa-Warner) si e' permessa di
mettere il dito nelle piaghe e soprattutto nelle contraddizioni della
societa' indiana. In Water (i cui lavori, a causa delle manifestazioni e
delle minacce degli estremisti indu' sono stati rimandati per cinque anni),
Metha si e' addirittura permessa di toccare la sacra immagine della vedova
rinchiusa nell'ashram. Ovvero, tradotto nella realta', la vita di milioni di
donne indiane, spesso spose bambine che, fino alla fine degli anni Trenta,
alla morte del marito impostogli dalla famiglia avevano tre scelte: bruciare
sul rogo assieme all'"amato", chiudersi in un ashram e vivere di
prostituzione ed elemosine o sposare il fratello minore del defunto, se
questo aveva un fratello.
Water ha una collocazione storica. Si svolge infatti nel 1938, dieci anni
prima dell'uccisione, da parte di un fanatico indu', del Mahatma Gandhi. Ma
gli ashram per le vedove esistono ancora. In India, come una didascalia
indica alla fine del film, nel 2001 sono state censite 34 milioni di vedove.
Quasi la meta' di queste vivono ancora negli ashram, in condizioni di totale
degrado, e secondo regole stabilite da leggi religiose duemila anni fa.
Water di Deepa Metha poche settimane fa ha aperto il festival internazionale
del cinema di Toronto (per la prima volta un film di apertura non in lingua
inglese o francese, ma hindi) e rappresentera' il Canada agli Oscar. E anche
questa e' una prima volta, di cui Metha e il produttore canadese David
Hamilton devono essere grati a Saverio Costanzo e al suo Private che lo
scorso anno, rigettato perche' in lingua non-italiana, sollevo' un tale
scandalo da costringere gli Academy Awards a cambiare le regole. Ieri a Roma
il film e' stato presentato, oltre che dalla regista, dal ministro per le
politiche europee Emma Bonino e da Riccardo Noury, rappresentante di Amnesty
International che patrocina il film nel mondo in occasione della campagna
"Mai piu' violenza sulle donne".
*
- Roberta Ronconi: Deepa Metha, il suo cinema, al contrario di quello che di
solito vediamo arrivare dall'India, non ha nulla dell'intrattenimento. Lei
piuttosto mette il dito nelle piaghe piu' profonde della sua societa'...
- Deepa Metha: Non ho nulla contro il cinema di Bollywood, anzi spesso mi
diverte. Ma non ha niente a che vedere con me. Io faccio cinema per capire,
per interrogarmi, per studiare e cercare delle risposte. Water non e' un
film solo sulla condizione delle donne in India, ma soprattutto sulla
marginalizzazione, sulla ricerca dei motivi religiosi, politici, sociali,
che spingono l'essere umano ad escludere, a schiacciare, un altro essere
umano. E i motivi religiosi, ultimamente, attraverso i fondamentalismi,
stanno riprendendo un temibile vigore.
*
- Roberta Ronconi: Quali crede siano i motivi di questa rinascita degli
estremismi religiosi?
- Deepa Metha: Sicuramente economici e, di conseguenza, politici. Guardiamo
cosa e' successo con la guerra degli Usa in Iraq. Hanno inoltre tentato di
farci credere che il fondamentalismo religioso fosse solo quello islamico,
ma esiste il fondamentalismo cattolico e, come si evince dal mio film per
chi gia' non lo avesse saputo, un fondamentalismo indu'. Il fatto e' che le
religioni sono lo strumento piu' facile ed immediato per far muovere enormi
masse umane in modo irrazionale.
*
- Roberta Ronconi: In che modo i fondamentalisti indu' hanno tentato di
fermare il suo film, e perche', se riesce a sintetizzarci i motivi?
- Deepa Metha: Due giorni prima dell'inizio delle riprese a Benares, lungo
il Gange, un gruppo di estremisti ha imbastito una manifestazione e ha dato
fuoco alle scenografie ricostruite lungo il fiume. Il giorno dopo, il
governo federale ci ha fatto proteggere da trecento militari, ma le
condizioni per girare erano saltate. Abbiamo dovuto rifare tutto da capo,
trasferendoci dopo quattro anni nello Shri Lanka. Ho ricevuto anche molte
minacce e attentati, ma ora sembra si siano calmati. Vediamo cosa succedera'
all'uscita del film in India a novembre. I motivi? Una questione di
immagine. Gli estremisti indu' volevano riconfermare il loro status,
religioso e politico, di unici detentori del vero spirito induista.
*
- Roberta Ronconi: Perche' un film proprio sulle vedove degli ashram? Da
cosa ha preso spunto?
- Deepa Metha: Da un'immagine, come mi capita spesso con i miei film. Da un
momento della mia vita risalente a dieci anni fa, quando vidi una vedova a
Varanasi accucciata sui gradini del fiume. Aveva la bocca sdentata e
piangeva disperatamente allungando le mani nell'acqua. Stava cercando
qualcosa. Ho capito dopo che si trattava dell'unico paio di occhiali,
scivolati nel fiume. L'unico bene che aveva al mondo, senza il quale era
praticamente cieca.
*
- Roberta Ronconi: Molti spettatori potrebbero esorcizzare il suo film e le
tematiche che propone pensando che cio' che vedono sullo schermo, nel loro
paese non accade...
- Deepa Metha: Gia', per questo insisto nel dire che il tema del film non e'
la condizione della donna, ma degli emarginati. Cose simili accadono agli
anziani negli Usa, agli aborigeni in Australia, agli indiani nativi in
Canada. Ovunque la religione, come la politica, viene usata come mezzo di
discriminazione. Il conflitto interiore tra fede e coscienza era quello che
piu' mi interessava mettere in luce e analizzare con Water. Farmi domande e
cercare delle risposte e' il motore interiore che mi spinge a fare dei film.
*
- Roberta Ronconi: E allora, che risposta e' riuscita a darsi di tanto
accanimento, tanta violenza contro le donne, nel suo paese come ovunque?
- Deepa Metha: Nel film viene posta la stessa domanda. E la risposta e'
tanto semplice da sembrare persino banale: "le donne spesso vengono
discriminate nelle famiglie per risparmiare, per avere una bocca in meno da
sfamare e piu' spazio in cui vivere per chi resta". Una ragione economica,
dunque. E' atroce, ma credo si avvicini alla realta'.
*
- Roberta Ronconi: Che effetto le fa essere stata candidata agli Oscar come
"canadese"?
- Deepa Metha: Magnifico. Ne sono felicissima. Mi sento tanto canadese
quanto indiana. Ognuno di noi dovrebbe potersi sentire cittadino del paese
da cui e' ospitato o in cui vive. Dovrebbero esistere dei turchi tedeschi,
degli italiani australiani o degli indiani canadesi, come me. Il Canada,
inoltre, sta diventando davvero la terra del multiculturalismo. In Canada
ognuno di noi puo' vivere, parlare e vestirsi come vuole. Non come negli
Stati Uniti dove per diventare americano si deve rinunciare alla propria
identita'.
*
- Roberta Ronconi: Dopo Water, che segue a Fire e Earth, film altrettanto
impegnati, si prendera' una pausa, magari passando a girare qualcosa di piu'
tranquillo?
- Deepa Metha: No, al contrario, sto realizzando un documentario sulle
violenze domestiche nelle famiglie degli immigrati in Canada. Anche in
questo caso, tutto e' iniziato con una piccola notizia letta sul giornale.
Ho cominciato a studiare e ad investigare e ho scoperto cose mostruose. Una
realta' inimmaginabile, che coinvolge ovviamente non solo il Canada.
*
- Roberta Ronconi: Lei e' una donna impegnata anche fuori dal set?
- Deepa Metha: No. Sono contenta di partecipare politicamente al confronto
sociale, ma credo che farlo attraverso il mio lavoro sia sufficiente. Per il
resto, mi occupo di mia figlia che ha 24 anni ed e' antropologa, e delle
altre cose della vita.

7. RIFLESSIONE. CLARA SERENI INTERVISTA MANUELA DVIRI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente intervista apparsa sul quotidiano "L'Unita'" del 22
settembre 2006.
Clara Sereni, nata a Roma nel 1946, scrittrice tra le maggiori degli ultimi
decenni ed intellettuale di forte impegno civile. Tra le opere di Clara
Sereni: Sigma Epsilon, Marsilio 1974; Casalinghitudine, Einaudi 1987;
Manicomio primavera, Giunti 1989; Il gioco dei regni, Giunti 1993; Eppure,
Feltrinelli 1995; Taccuino di un'ultimista, Feltrinelli 1998.
Manuela Dviri Vitali Norsa, nata a Padova nel 1949, dopo il matrimonio si e'
trasferita in Israele dedicandosi all'insegnamento; giornalista e
scrittrice, e' impegnata nel movimento pacifista israeliano; "Dal giorno
della morte in territorio libanese del figlio ventenne, Jonathan, durante il
servizio di leva, Manuela Dviri e' diventata una importante esponente del
movimento pacifista israeliano e tra i sostenitori del dialogo e la
collaborazione tra la societa' israeliana e palestinese. Giornalista e
scrittrice... e' stata tra le esponenti del gruppo delle 'quattro madri' per
il ritiro delle truppe israeliane dalla striscia di sicurezza libanese, poi
avvenuto nel 2000. Pubblica su vari giornali israeliani e sul 'Corriere
della Sera'" ("Il manifesto"). Opere di Manuela Dviri: La guerra negli
occhi, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 2003; Vita nella terra di latte e
miele, Ponte alle grazie, Milano 2004]

Gli occhi, gia' normalmente bellissimi ed espressivi, adesso mandano lampi.
Manuela Dviri, piu' che triste, mi sembra arrabbiata.
Israeliana nata e vissuta fino a vent'anni in Italia, Manuela Dviri e'
diventata attivista per la pace dopo aver perduto nel 1998, nella striscia
di sicurezza, in Libano, un figlio amatissimo. Il suo progetto "Saving
children", gestito dal Centro Peres per la pace, ha salvato piu' di tremila
vite palestinesi bambine, curate negli ospedali israeliani quando e se in
quelli palestinesi le strutture non erano all'altezza. Ma c'e' anche la
formazione di personale medico, la condivisione di strumenti e di
competenze: salvare un bambino vuol dire tessere relazioni, imparare che
l'altro non e' soltanto il tuo nemico, collaborare, conoscersi.
La sua ostinazione a raccogliere attorno al progetto aiuti ed affiancamenti,
a partire da quelli di molti enti locali italiani (Umbria, Toscana, Marche,
Emilia Romagna, Lazio), da' frutti che travalicano le previsioni, e consente
il dispiegarsi delle diplomazie parallele, quelle nate dal basso, forse alla
fine le piu' efficaci nella complessa geografia mediorientale. Riconoscendo
il valore di quel che fa, le hanno anche conferito numerosi premi e
riconoscimenti. Dunque dovrebbe essere contenta, ma visibilmente non lo e'.
*
- Clara Sereni: Perche' sei cosi' arrabbiata, Manuela?
- Manuela Dviri: Ogni tanto non ne posso piu'. La situazione in Israele, in
questa fragile tregua dopo la guerra, e' molto preoccupante, i pericoli
tanti (dalla classe dirigente che e' in bilico e sotto inchiesta
all'esercito che chiede rivincita, ai rapporti con il mondo arabo e con i
vicini palestinesi), ma continuo a sentir dire dagli ebrei della diaspora
che io, per esempio, non la capisco mica bene, la situazione di Israele. Che
sono pacifista perche' mica li conosco, gli arabi: penso che ci si possa
fidare di loro, e invece... Il piccolo dettaglio, quello che periodicamente
mi manda fuori dalla grazia di Dio, e' che io in Israele ci vivo, e loro no.
Che io conosco questa realta' e pago per le decisioni prese dal governo del
mio paese e loro no. Pensano (suppongo in buona fede) che schierarsi
acriticamente a favore dello Stato di Israele sia il modo migliore per
salvaguardarne non solo l'esistenza, ma la purezza, il suo continuare ad
essere uno Stato speciale, un luogo dello spirito e non uno Stato come tutti
gli altri, con i pregi e i difetti di tanti altri. Criticano me, criticano
molti altri attivisti israeliani (ma non i politici o i capi di stato ,
quelli no...), criticano tutti coloro che cercano di aiutare criticamente il
Paese ad uscire da una situazione di stallo e di rischio, cosi' si sentono a
posto con la coscienza, magari anche raccogliendo fondi per progetti, che
spesso sono anche fuori dal tempo e dalla realta' di Israele oggi.
*
- Clara Sereni: Cosa dovrebbero fare, secondo te, gli ebrei italiani, e in
generale gli ebrei della diaspora?
- Manuela Dviri: Hai presente quei genitori che, chiamati dagli insegnanti
per segnalare un problema serio, concreto (una balbuzie, una dislessia),
difendono a corpo morto il proprio figlio, adducendo ogni serie di
motivazioni, anziche' affrontare il problema vero e tentare di risolverlo?
Ecco, bisognerebbe che si smettesse di fare cosi', di trovare scusanti per
ogni errore o problema. A noi israeliani non serve che ci si trinceri ogni
volta dietro la Shoah, che pure resta un segno tragico e incancellabile
della nostra storia. A noi israeliani serve che ci si aiuti a capire fino in
fondo la realta' in cui viviamo e che determiniamo, e cosa possiamo fare per
uscire dal cul-de-sac in cui ci troviamo. E, per tutti, e' necessario che lo
si capisca in fretta: prima che l'Iran si doti dell'atomica, prima che i
fondamentalismi di ogni tipo trovino armi (non solo militari) ben peggiori
delle attuali.
Un esempio fra tanti: la situazione di Gaza. Una situazione che e' ben poco
definire drammatica, e scandalosa. I cori della diaspora vanno nella
direzione di ignorarla. E io mi chiedo, e lasciamo per il momento da parte
la questione morale, cos'e' piu' utile, per Israele, che si lasci
imputridire la situazione nella Striscia fino all'esplosione, che ci
riempira' tutti di fango, o non invece cominciare noi ad affrontare il
problema, intervenendo fin d'ora per il miglioramento delle condizioni di
vita a Gaza?
*
- Clara Sereni: Sia da parte israeliana che palestinese si insiste
continuamente sulla rivendicazione delle proprie sofferenze, come se la
questione di due popoli e due Stati potesse essere risolta pesando su una
bilancia il dolore degli uni piuttosto che quello degli altri. Come pensi
che se ne possa uscire?
- Manuela Dviri: Anche nella vita quotidiana, e per problemi ben minori di
quelli di cui stiamo parlando, la propria sofferenza e' immancabilmente piu'
"importante" di quella altrui. Per non dire che se si lega il diritto alla
terra a un'investitura divina, l'unica conseguenze puo' essere l'acuirsi dei
contrasti religiosi. Dunque non e' in questa direzione che puo' muoversi la
speranza.
Ci vuole la politica: quella dal basso, fatta di progetti di cooperazione
che aiutano a conoscersi, a misurarsi attorno ai problemi e non alle
ideologie. E la politica "alta", quella dei dirigenti politici e delle
diplomazie.
*
- Clara Sereni: Sui progetti di cooperazione capisco come gli ebrei della
Diaspora, e non solo loro, possano dare il proprio contributo. Ma sulla
politica alta?
- Manuela Dviri: Tutti abbiamo imparato quanto l'opinione pubblica pesi
sulle grandi decisioni. Certo, se la gran parte dell'ebraismo internazionale
si schiera con Bush e la sua guerra preventiva, con l'idea che questo sia il
modo migliore per salvaguardare Israele, e' ben difficile che quel peso sia
positivo. Ma si puo' cambiare. Si puo' aiutare Israele proponendo nuove
idee, e creative, per la risoluzione del conflitto, l'abbiamo visto anche
ultimamente, con l'importante intervento dell'Italia nella sua mediazione
tra le parti. Tutto e' possibile, ma bisogna provarci, non solo commuoversi
e soffrire per noi. Si puo' aiutare Israele cercando di conoscerlo meglio,
seguendo piu' da vicino, ricordandogli come e' nato, uno Stato compiutamente
laico, forte di un progetto che ha prodotto risultati eccezionali (la
rivitalizzazione della lingua ebraica, ad esempio, la costruzione stessa di
un paese cosi' straordinario e unico in meno di sessant'anni) ma che va
sempre piu' smarrendosi nelle secche di problemi tipici di tutte o quasi le
economie post-capitaliste, piu' qualche altro "piccolo" dramma in
sovrannumero. La fine del mito onnipotente di Tzahal come esercito
perennemente vincitore, che produce un netto senso di lutto non solo in
Israele, puo' essere l'occasione per aiutarci a capire fino in fondo che non
c'e' vita per noi - vita fisica e vita comunque degna di essere vissuta -
senza pace.
Israele resta, in Medio Oriente, l'unico Stato con strutture compiutamente
democratiche, e di questo tutti gli ebrei vanno giustamente fieri. Ma se
qualcuno ci aiutasse a studiare fino in fondo quanto la nostra democrazia,
come quella di altri Paesi, si sia deteriorata in tanti anni di guerra,
credo che questo sarebbe molto piu' utile delle pacche sulle spalle,
inevitabilmente complici, che cosi' di frequente ci rifilano.
Io personalmente non so che farmene di pacche sulle spalle. Voglio e devo
pensare al futuro dei miei figli e dei miei nipoti. Voglio vivere in un
Paese in cui tzedaka', giustizia, torni ad essere una parola-chiave: per
tutti quelli che vivono al suo interno - arabi-israeliani inclusi -, e per
tutti quelli che, all'estero, lo sentono come parte della propria identita'.

8. RILETTURE. SALWA SALEM: CON IL VENTO NEI CAPELLI
Salwa Salem, Con il vento nei capelli. Una palestinese racconta, Giunti,
Firenze 1993, 2001, pp. 190, euro 8,50. Una intensa testimonianza, una
lettura necessaria. A cura di Laura Maritano e con una nota di Elisabetta
Donini.

9. INCONTRI. "LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA", UN SEMINARIO PROMOSSO DAL
MOVIMENTO NONVIOLENTO IL 21-22 OTTOBRE A VERONA

Si svolgera' a Verona il 21 e 22 ottobre il seminario sul tema "La politica
della nonviolenza (alla prova della guerra)" promosso dal Movimento
Nonviolento.
*
Programma:
- Sabato 21 ottobre, ore 10: relazione introduttiva. Prima sessione "La
teoria della nonviolenza, sulla guerra" (mattina, ore 10-13). Seconda
sessione "La pratica della nonviolenza, nella politica" (pomeriggio, ore
15-19). Serata libera, con due proposte: a) visita guidata alla mostra
"Mantegna a Verona", b) laboratorio del "Teatro dell'oppresso" sui temi
discussi.
- Domenica 22 ottobre, ore 9. Terza sessione "La strategia della
nonviolenza, le iniziative" (mattina, ore 9-11). Conclusioni (ore 11-13).
Ogni sessione verra' sollecitata da una griglia di domande.
Il Seminario si svolgera' presso la Sala "Comboni" dei padri comboniani, in
vicolo Pozzo 1, Verona.
*
Informazioni logistiche
Il seminario si svolgera' presso la sala "Comboni" dei Padri Comboniani, in
vicolo Pozzo 1 (rione di San Giovanni in Valle, quartiere di Veronetta, nel
centro storico, vicino a Piazza Isolo) a Verona.
Il pernottamento e' previsto presso l'Ostello della gioventu' (15 euro, con
prima colazione), ma e' necessario prenotarsi per tempo, entro il 15
ottobre. L'ostello (in via Fontana del Ferro) si trova a cento metri dalla
sede del seminario. Nelle vicinanza vi sono vari locali a prezzi contenuti
per il pranzo e la cena (cena presso l'ostello, solo per gli ospiti, a 7
euro).
La Sala Comboni e l'Ostello sono situati sulla collina, immersi nel verde.
Ampia possibilita' di parcheggio. Collegamento diretto dalla atazione con
l'autobus n. 73 (frequenza ogni 30 minuti, tempo di percorrenza 20 minuti,
scendere al capolinea di via Ponte Pignolo).
*
Per informazioni e prenotazioni
Casa per la nonviolenza, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax:
0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1441 del 7 ottobre 2006

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