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La nonviolenza e' in cammino. 1440
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1440
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 6 Oct 2006 00:12:32 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1440 del 6 ottobre 2006 Sommario di questo numero: 1. Afghanistan 2. Corradino Secondino Scalcagnati: Sette tesi sulla nonviolenza in quanto politica 3. Peter Laufer: L'anima del nostro paese 4. Giulio Vittorangeli: Imperialismo ed antimperialismo 5. Clara Jourdan: I diritti vanno in guerra (1999) 6. Pina Nuzzo: Tra generazioni. Il riconoscimento, la riconoscenza 7. Letture: Elena Liotta, La maschera trasparente 8. Riedizioni: Nazim Hikmet, Poesie 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. AFGHANISTAN L'Italia non puo' svolgere alcuna credibile azione per la pace finche' partecipa alle guerre, finche' fa spedizioni militari, finche' rifornisce di armi regimi criminali. L'Italia non puo' avere alcuna credibilita' internazionale finche' e' parte delle alleanze che stanno eseguendo stragi in Afghanistan e in Iraq. L'Italia aiuta il terrorismo internazionale finche' partecipa a guerre terroristiche che violano il diritto internazionale. L'Italia e' complice del crimine finche' governo e parlamento violano la sua stessa Costituzione. * Cessi la partecipazione italiana alle guerre. La pace si costruisce con la pace. 2. RIFLESSIONE. CORRADINO SECONDINO SCALCAGNATI: SETTE TESI SULLA NONVIOLENZA IN QUANTO POLITICA [Ringraziamo il nostro buon amico Dino Scalcagnati per queste brevi opinioni sue, offerte come contributo alla preparazione del seminario del Movimento Nonviolento che si terra' il 21-22 ottobre 2006 a Verona] 1. La nonviolenza e' innanzitutto una politica: e' lotta e proposta politica. Non staremmo a parlare del messaggio di Gandhi se Gandhi non avesse condotto grandi lotte politiche e non avesse formulato una grande proposta politica. * 2. Essendo una politica, lotta e proposta politica, la nonviolenza e' concreta. Ovvero contrasta la violenza nelle condizioni concrete in cui esercita il conflitto contro di essa. Una nonviolenza ideale, astratta, non si da'. * 3. O la nonviolenza e' una politica, lotta e proposta politica, o non e' nulla. Chi la confonde con una sorta di psicoterapia casalinga, o una mistica laica, o un modesto galateo, o la ragionevole condotta di quell'idealtipico "buon padre di famiglia" di cui si legge sui contratti, ebbene, non sa quel che si dice. * 4. O la nonviolenza, lotta e proposta politica, e' opposizione alla violenza, opposizione la piu' nitida e la piu' intransigente, la piu' concreta e la piu' limpida, o essa alla violenza e' subalterna. Ed allora e' peggio che nulla, e' complicita'. E poiche' tertium non datur, o la nonviolenza e' la piu' forte e la piu' decisa lotta e proposta politica contro la violenza, o e' violenza e menzogna e vilta' insieme, ovvero: non e' affatto nonviolenza. Non esiste una nonviolenza reticente e astensionista, temperata e accomodante, facilona e compagnona, sussiegosa e perbenista, in frac o all'amatriciana. La nonviolenza e' scelta di lotta ed ascesi, e' conflitto ed incontro nel conflitto, e nel conflitto riconoscimento di umanita', e solo nel conflitto negoziato, e solo sconfitta la violenza e' riconciliazione tra le parti. * 5. Chiamiamo nonviolenza un insieme di esperienze storiche e di riflessioni legate alla prassi. Del movimento delle classi oppresse e dei popoli oppressi, del movimento delle donne, dei movimenti di resistenza ai totalitarismi, dei movimenti di liberazione dell'umanita', dei movimenti di conservazione della natura; esperienze che con minore o maggiore consapevolezza hanno agito il conflitto politico con fini politici e con mezzi politici per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani, per la difesa della biosfera, contro sfruttamento, inquinamento, guerra. Esperienze e riflessioni che hanno assunto come decisivo il principio della dignita' umana di tutti gli esseri umani e si sono adoperate ad inverarlo nella realta'. Nonviolenza non e' per noi un canone di autori, una dogmatica, un ricettario; ma un insieme di esperienze e riflessioni che ti convocano a una critica e a una scelta, a una responsabilita' e ad un cammino. La nonviolenza e' in cammino. * 6. Quali elementi caratterizzano la politica della nonviolenza? L'opposizione alla violenza. L'opposizione concreta alla violenza. L'opposizione costruttiva alla violenza. Ovvero: la scelta giuriscostituente, tale per cui la massima dell'azione nonviolenta, di ogni azione nonviolenta - che e' sempre insieme lotta e proposta politica -, sempre sia fondativa di istituti che consentono e promuovono la convivenza, la convivenza civile, la convivenza civile di tutte e tutti. Ovvero: la coerenza tra mezzi e fini, la scelta della verita', il riconoscimento di umanita', la non distruttivita', la coscienza della comune costitutiva fragilita' e fallibilita', l'etica del limite e della cura, il principio responsabilita'. * 7. "L'opposizione integrale alla guerra" scrive Capitini essere la prima "direttrice d'azione" del movimento nonviolento per la pace. Pertanto la nonviolenza in quanto politica e' innanzitutto opposizione alla guerra, alle sue logiche, ai suoi strumenti ed ai suoi apparati. Questo e' il compito dell'ora. 3. TESTIMONIANZE. PETER LAUFER: L'ANIMA DEL NOSTRO PAESE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento.di Peter Laufer, costituito dalla sua testimonianza il 26 settembre 2006 al forum promosso dalla deputata democratica Lynn Woolsey sull'Iraq. Peter Laufer e' un apprezzato giornalista indipendente, documentarista e saggista, per la sua attivita' ha ricevuto vari rilevanti riconoscimenti; e' autore del libro Missione respinta: i soldati statunitensi che dicono no all'Iraq (Chelsea Greeen, 2006)] Onorevole Woolsey, grazie per avermi dato l'opportunita' di parlare della critica questione che sto studiando. Cio' che voglio condividere qui sono le riflessioni e le esperienze di alcuni coraggiosi uomini e coraggiose donne che ho incontrato l'anno scorso. E' stato un onore, per me, incontrare questi soldati americani, essi si trovano infatti sul fronte di quella che potrebbe essere la loro battaglia piu' importante: la lotta per l'anima del nostro paese. Una delle cose che mi ha sorpreso di piu', mentre tornavo dai viaggi che mi hanno portato dagli Usa in Canada e in Germania, per parlare con i soldati che si oppongono alla guerra in Iraq, e' stato scoprire che ben pochi civili erano a conoscenza della crescente resistenza, all'interno dell'esercito, alle politiche di Bush in Iraq. Moltissime volte, quando qualcuno mi chiedeva a cosa stavo lavorando, ed io spiegavo che stavo raccogliendo queste storie di opposizione, ho sentito commenti del tipo: "Davvero ci sono soldati contrari alla guerra? Non lo sapevo". * La tragedia delle morti dei civili in Iraq e' devastante. Le truppe Usa assegnate al tipo di azioni che feriscono e distruggono civili innocenti sono esse stesse delle vittime. Ne e' la prova il numero crescente dei soldati che ritornano dall'Iraq sofferenti di disagi psichici. Un soldato dopo l'altro, tutti mi hanno parlato dell'essere devastati da ordini che li mettevano in questo dilemma: disobbedire o sparare a quelli che loro percepivano essere non combattenti. Queste testimonianze sono un fattore critico, vanno ascoltate. La loro credibilita' non puo' essere messa in discussione. Si tratta di persone che sono andate volontarie nell'esercito, che hanno visto le cose dall'interno. * Prendiamo ad esempio Darrell Anderson. L'ho incontrato a Toronto. Darrell ha disertato dopo aver combattuto in Iraq, piuttosto di affrontare un secondo invio nel paese. Oltre ad essere stato ferito da una bomba posta su una strada, cosa che gli e' valsa l'onorificenza Purple Heart, Darrell fu spesso coinvolto in scontri a fuoco. Mi ha descritto una battaglia nelle strade di Baghdad che lo ha terrorizzato, al punto tale che ha avuto paura anche di se stesso. Era in un veicolo corazzato. Altri soldati ne stavano uscendo, quando vennero attaccati da qualcuno che sparava granate con un lanciamissili. Uno dei soldati che si trovavano all'esterno del veicolo fu seriamente ferito. Darrell mi ha raccontato che la scena ritorna ossessivamente negli incubi di cui soffre ogni notte: "Lo guardo, sta sanguinando da tutto il corpo, sputa sangue". Darrell scende dal veicolo. "Vado la'. Ci sono esplosioni. Ci dicono sempre che se sei sotto attacco devi sparare a chiunque si trovi per strada. I nostri comandanti dicono che se ci sono persone in strada non sono piu' innocenti. Prendo il fucile e vedo qualcuno che corre. Tiro il grilletto, ma la mia arma ha ancora la sicura". Mentre premeva quel grilletto, Darrell comprese che stava per sparare ad un bambino che cercava di sottrarsi alla violenza, un bambino che si trovava da quelle parti ma che certo non era coinvolto nell'attacco. La cosa piu' traumatica per lui furono le emozioni che provava: "Sono arrabbiato. Il mio compagno sta morendo. Voglio uccidere". Darrell mi ha detto di aver capito di essere diventato un uomo diverso, qualcuno cambiato dalla patologia della guerra e dalla sofferenza degli innocenti. "Quando arrivai in Iraq, dapprima ero disgustato dai miei commilitoni. Ora sono uguale a loro. Potrei uccidere degli innocenti, perche' non sono piu' la persona che ero quando sono andato in Iraq". L'attacco termino', e Darrell sopravvisse, cosi' come il bambino in fuga. * Un altro esempio di come la guerra stia lacerando le coscienze dei soldati sta in una e-mail che ho ricevuto ieri. Me l'ha scritta un riservista dell'esercito, un agente del controspionaggio che ha servito in Afghanistan, dove ha ricevuto due medaglie di bronzo al valore: "La mia unita' potrebbe essere inviata in Iraq in gennaio, ed io sto pensando di non andarci. La cosa e' complicata dal fatto che io non sono riconosciuto come obiettore di coscienza, il che limita le mie opzioni". Il riservista mi ha chiesto assistenza nell'indirizzarlo verso fonti che possano dargli informazioni attendibili sulle alternative che gli si offrono e sulle conseguenze del rifiutare gli ordini. Sempre piu' soldati con un vissuto simile a quello del mio corrispondente stanno considerando l'opportunita' di distruggere le loro carriere e di passare del tempo in prigione perche' si oppongono alla guerra in Iraq. Immaginate il coraggio che ci vuole ad un soldato per rifiutare la missione e rispondere invece al richiamo della propria coscienza, dicendo no alla guerra. Il fatto che sia i marine sia l'esercito stiano pescando a mani piene tra i loro riservisti, per mandarli in Iraq, e' un'altra indicazione che il rifiuto della guerra all'interno delle forze armate sta crescendo. Ora e' importante osservare come molti dei richiamati stiano rifiutando il ritorno al servizio attivo. * Nel suo discorso dell'11 settembre, alcune settimane fa, il presidente Bush si e' appellato nuovamente ai soldati morti nella guerra irachena: ha dichiarato ancora, come ha ormai fatto tante volte, che questa guerra deve continuare e che il loro sacrificio non e' stato vano, ed ha fatto notare che piu' di un milione e mezzo di americani si sono arruolati dopo l'attacco alle Due Torri ed al Pentagono. Ma cosa pensano, oggi, questi volontari? Potremmo fare un'inchiesta e chiederglielo. Nel frattempo, io conosco i sentimenti di alcuni di loro. Ho incontrato ad esempio Joshua Key, che ha combattuto in Iraq, ed ora e' disertore in Canada, in attesa gli venga riconosciuto lo status di rifugiato. La sua famiglia d'origine gli manca, e biasima il governo Bush: "Li biasimo perche' mi hanno fatto fare quello che ho fatto. Si puo' mentire al mondo, ma non si puo' mentire ad una persona che ha visto come stanno le cose. Mi hanno costretto a fare cose che un uomo non dovrebbe mai fare, per il solo scopo del loro profitto, il loro profitto e non quello del popolo, il loro guadagno finanziario". Secondo Joshua Key, il presidente Bush e' colpevole dei crimini commessi in Iraq. "Un giorno paghera' per quel che ha fatto. E il giorno in cui andra' in prigione, io ci andro' con lui. Davvero, sono disposto a farlo. Ma questo non accadra' mai". E Joshua Key ha riso amaramente. Chiedetelo a Steven Casey, che ancora potrebbe essere richiamato dalla riserva dopo essere gia' stato in Iraq. Steven dice che non indossera' mai piu' un'uniforme. "Mi trovera' sulle notizie in cronaca, piuttosto. Non tornero' laggiu'. Diventero' un numero statistico nella lista di quelli che sono spariti". Lo ha ripetuto quietamente, piu' e piu' volte: "Non tornero' laggiu'". Steven Casey ora sta frequentando il college, con il denaro che ha guadagnato nell'esercito: "Ho avuto i miei soldi, e assieme ho avuto quest'ansia continua, e gli attacchi di sudorazione gelida, e probabilmente dovro' portarmeli dietro per sempre. Dal punto di vista sociale sono un disadattato. Non faccio altro che urlare a mia moglie. Non credo che ce la faro' mai ad uscirne. Cio' che ha causato questo e' irreparabile, e per il resto della mia vita lo portero' con me". Mi ha parlato della sua rabbia, della sua angoscia. Si chiede se e' malato psichicamente in modo definitivo, se dovra' affrontare un'esistenza composta di prescrizioni medicinali e psichiatri. "Voglio essere onesto con lei, mi piacerebbe dimenticarmi tutto. Ma non posso. Avrei dovuto andare piuttosto a lavorare da McDonalds e pagarmi gli studi in quel modo". * Oppure chiedetelo a Clifton Hicks, che e' tornato dal suo periodo di servizio in Iraq ed ha ricevuto un congedo onorevole basato sulla sua obiezione di coscienza alla guerra. La guerra in Iraq, dice Clifton, viene combattuta a beneficio dei "ricchi maledetti, che sono troppo vigliacchi per farsela da soli, e che vogliono ancora piu' denaro, e quindi la guerra la fanno combattere a noi, le masse di individui senza istruzione che si ammazzano l'un l'altro". Soldati come lui, che e' stato sullo scenario di guerra in Iraq e vi ha ricevuto medaglie al valore, che hanno visto e fatto cose inimmaginabili dal resto di noi, sono quelli che ci offrono la cronaca reale di cio' che sta accadendo in Iraq. Io credo che le testimonianze di questi soldati possano aiutarci a capire cosa c'e' di sbagliato nella situazione irachena. Grazie ancora per avermi permesso di condividerle oggi. 4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: IMPERIALISMO ED ANTIMPERIALISMO [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'". Giulio Girardi (per contatti: g.girardi at agora.it) e' nato al Cairo nel 1926, filosofo e teologo della liberazione, durante il Concilio Vaticano II partecipo' alla stesura dello schema XIII; membro del Tribunale permanente dei popoli, particolarmente impegnato nella solidarieta' con i popoli dell'America Latina. Opere di Giulio Girardi: presso la Cittadella sono usciti: Marxismo e cristianesimo; Credenti e non credenti per un mondo nuovo; Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe; Educare: per quale societa'?; Il capitalismo contro la speranza; Cristiani per il socialismo: perche'?; presso Borla sono usciti: Sandinismo, marxismo, cristianesimo: la confluenza, (a cura di) Le rose non sono borghesi, La tunica lacerata, Fede cristiana e materialismo storico, Dalla dipendenza alla pratica della liberta', Il popolo prende la parola (con J. M. Vigil), La Conquista dell'America, Gli esclusi costruiranno la nuova storia?, Cuba dopo il crollo del comunismo; presso le Edizioni Associate: Rivoluzione popolare e occupazione del tempio; presso le Edizioni cultura della pace: Il tempio condanna il vangelo; presso Anterem: Riscoprire Gandhi; presso le Edizioni Punto Rosso: Resistenza e alternativa; presso Sperling & Kupfer: Che Guevara visto da un cristiano] Esiste oggi un imperialismo? E se si', esiste un antimperialismo? In caso di risposta affermativa, come questo antimperialismo si coniuga con la lotta per la pace e la nonviolenza? E' evidente che esiste, per quanto fortemente mistificata e nascosta, un'organizzazione imperiale del mondo con tutto il suo carico strutturale devastante. Piu' evidente ai nostri occhi (del "primo mondo") nella guerra in Iraq ed Afghanistan, ma certamente non meno feroce e disumana se guardiamo all'America Latina, con la guerra dei cinquecento anni. Quella che e' stata definita come l'interminabile conquista. Esiste un materiale enorme che documenta la violenza, le ingiustizie, i genocidi, perpetrati attraverso il continente latinoamericano da quel lontano 1492: esso mostra con evidenza che l'imperialismo non e' un'ideologia, ma una realta', la piu' tragica della storia attuale. Questa violenza imperiale poggia su mezzi enormi, ad iniziare dal versante culturale. Non a caso la tecnologia avanzata e' uno strumento di occultazione della violenza, come abbiamo potuto constatare particolarmente durante le guerre (Golfo, Jugoslavia, ecc.) che si sono succedute dopo la fine dell'era della cosiddetta "guerra fredda" e del mondo bipolare. "Il fatto di distruggere e assassinare con metodi estremamente raffinati fa dimenticare cio' che si sta facendo: distruggere e assassinare popoli interi. I meccanismi del sistema capitalista hanno la capacita' di occultare la violenza economica, perche' questa si trova cristallizzata in strutture che si impongono con la necessita' di esigenze 'naturali'. La democrazia liberale e' anch'essa tutto un sistema inteso a nascondere la violenza che si sta esercitando molto spesso sotto le apparenze della legalita'. La guerra del Golfo ne e' un esempio estremamente eloquente, ma si potrebbero moltiplicare gli esempi di 'democrazie' trasformate in strumenti di occultamento della violenza. Come Tribunale permanente dei popoli abbiamo potuto conoscere una serie di denunce che provengono dalla maggior parte dei paesi latinoamericani, e che documentano l'impunita' dei delitti di lesa umanita' commessi in Cile, Argentina, brasile, Colombia, Uruguay, Paraguay, Honduras, El Salvador, Guatemala, Peru', Panama', eccetera, a opera delle forze militari e paramilitari, non solo quando erano al governo, ma anche nel corso del processo di 'democratizzazione'. Ne emerge chiaramente che questo processo non ha realmente soppresso la violenza, ma e' servito unicamente per assicurare l'immunita', per coprirla agli occhi del mondo. E in ciascuno di questi paesi abbiamo dovuto constatare, nella genesi della violenza economica e militare, la responsabilita' fondamentale dell'imperialismo nordamericano" (Giulio Girardi). Davanti a questa situazione abbiamo assistito ad una sorta di cortocircuito, per cui nel primo mondo, da un lato, la parola "imperialismo" e' magicamente scomparsa dal vocabolario della sinistra: usare questo termine significa autodenunciarsi come veteromarxisti. Dall'altro lato, una esigua minoranza "rivendica" orgogliosamente questo termine sciaguratamente sostenendo qualsiasi nefandezza viene commessa da quelle "organizzazioni" che nelle zone di guerra si oppongono certamente all'imperialismo, ma usando gli stessi tragici strumenti di devastazione e morte, ed avallando un orizzonte politico che certamente non e' quello della liberta' dei popoli. Anche nel cosiddetto terzo mondo, per quanto e' possibile osservare, la coscienza antimperialista e' decisamente indebolita. Le analisi della congiuntura latinoamericana, nonostante l'avvento di governi "progressisti", non lasciano aperte molte prospettive al riguardo. A questo punto, il futuro della lotta antimperialista credo, per quanto mi e' possibile molto modestamente osservare, e' cosa che ci riguarda direttamente. Perche' il futuro di una umanita' libera non si decide solo a partire da ragionamenti e analisi (certamente indispensabili), ma anche e soprattutto sulla base di iniziative umane, di mobilitazioni popolari a carattere internazionale. Iniziative e mobilitazioni che possono sorgere solo da una coscienza di massa, di classe e di popolo. Iniziative che non possono prescindere da una chiara scelta nonviolenta e da una altrettanta chiara capacita' di ascolto e di confronto con chi direttamente, drammaticamente, quotidianamente, vive sulla propria pelle l'oppressione imperialista. 5. RIFLESSIONE. CLARA JOURDAN: I DIRITTI VANNO IN GUERRA (1999) [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo il seguente testo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 27 maggio 1999 e successivamente in Luisa Muraro e altre, Guerre che ho visto, Quaderni di Via Dogana, Milano 1999. Clara Jourdan, prestigiosa intellettuale femminista, e' particolarmente impegnata nelle esperienze della Libreria delle donne di Milano e della rivista "Via Dogana"] Ho fatto leggere a una classe di studentesse e studenti delle superiori una frase di Simone Weil: "Tutti i mutamenti intervenuti negli ultimi tre secoli avvicinano gli uomini a una situazione in cui non ci sarebbe piu' assolutamente altra fonte di obbedienza nel mondo intero eccetto l'autorita' dello Stato" (Sulle origini dello hitlerismo, 1939), e ho chiesto se nella loro vita e' presente altra autorita' o sono a conoscenza di mutamenti sociali che vanno in un'altra direzione rispetto a quella individuata dalla giovane filosofa francese sessant'anni fa. Una parte ha scritto "i genitori", qualcuna "gli insegnanti", molte e molti: "no". La guerra Nato contro la Jugoslavia e' fatta probabilmente per far nascere un soggetto sovranazionale, che obbedisce pero' alla stessa idea dello Stato, l'uso della violenza per fare ordine. Per alcuni sarebbe anche giusto e si giustifica questa guerra. Nei due mesi dal primo bombardamento, insieme al moltiplicarsi di prese di posizione pubblica contro la guerra - e prese di posizione piu' di singoli e gruppi che di organizzazioni di massa, piu' articoli, lettere, dimissioni, discussioni che manifestazioni di piazza - dopo lo sconcerto iniziale e' cominciata anche una riflessione sul nuovo di guesta guerra, oltre che sugli elementi di continuita' con il passato. Dal punto di vista militare e' uguale a quella contro l'Iraq. Ma mentre quella guerra aveva come motivazione ufficiale la violazione della sovranita' di un altro Stato, per questa la motivazione e' la violazione dei diritti umani all'interno dello Stato. Un salto che fa sentire la guerra di solo pochi anni fa come lontana. Anche perche', e questo e' il punto, mentre la motivazione di allora era sentita dai piu' come copertura (di interessi economici, di volonta' di dominio ecc.), la motivazione di oggi no. Molti, anche nella sinistra della sinistra, ritengono che davvero la ragione della guerra sia questa, molti naturalmente sospettano che sia un pretesto, ma chi sostiene la guerra e chi si oppone sono d'accordo sul difendere i diritti umani, anche al di sopra dello Stato. Dicono infatti: non e' con la guerra che si difendono i diritti umani (come Paolo Cacciari che sul "Manifesto" del 21 maggio, in nome del movimento pacifista propone "alternative alla guerra"). Insomma, mentre in passato la motivazione umanitaria era stata inventata - con l'invasione di Hitler della Cecoslovacchia (per difendere i diritti della minoranza tedesca) - come un puro e semplice aggiramento dell'accordo tra stati che vietava le guerre aggressive, adesso la motivazione umanitaria sembra rispondere a un sentire diffuso. E' dunque ideologia dominante. Secondo Salvatore Senese ("Il manifesto", 19 maggio), che come altri ha ragionato sulla novita' di questa guerra "di sinistra", la politica fondata sui diritti umani e' la nuova concezione politica, che opera un rovesciamento di fondo rispetto al rapporto con la guerra nell'immaginario collettivo della sinistra: se il prius sono i diritti umani, la pace deve quindi essere giusta, la guerra non e' piu' "flagello dell'umanita'" (come e' scritto nella Carta dell'Onu) ma puo' rivelarsi uno strumento per adempiere al dovere di ingerenza umanitaria. Come dice Luce Irigaray, la guerra non ha neppure piu' l'alibi della legittima difesa, essa e' il mezzo utilizzato affinche' il giusto distrugga l'ingiusto ("la Repubblica", 19 maggio). Per Simone Weil le guerre erano inevitabili a causa del "dogma della sovranita' nazionale", dato che la nozione giuridica di nazione sovrana e' incompatibile con l'idea di un ordine internazionale: al suo posto abbiamo oggi il dogma dei diritti umani al centro di una nuova ideologia? Sembrerebbe di si', dato che i diritti umani sostenuti dalla sinistra sono fatti propri anche dalla destra: la destra infatti, che in Italia come in Usa e in altri paesi Nato e' all'opposizione, non solo non si e' opposta alla guerra ma l'ha sostenuta con le stesse parole della sinistra. Unita' per la guerra in cui d'altra parte non si sono sentiti rappresentati gli elettori e le elettrici, come si vede nelle lettere pubblicate dai giornali: "Di fronte alle stragi Nato mi vergogno di appartenere ad una nazione che partecipa attivamente all'attivita' bellica. Ho sempre votato per partiti moderati e, a questo punto, con le prossime elezioni europee, penso proprio che non andro' a votare" (Lettera firmata, "il Giorno", 22 maggio). E si diffondono le proposte delle associazioni, come la Libera universita' delle donne di Milano che sta facendo una campagna per l'astensione: "Se la guerra non sara' cessata prima del 13 giugno, non andremo a votare" ("Il paese delle donne"). E c'e' perfino chi pensa di votare a destra per restituire la sinistra all'opposizione, in caso di un'altra guerra in futuro (lo stesso D'Alema lo ha involontariamente suggerito dicendo in un'intervista di Enzo Biagi che se non si trovasse al governo sarebbe contro questa guerra). * Discutiamo dunque dei diritti umani. Perche' da parte degli oppositori e delle oppositrici di questa guerra - che, ripeto, sono sempre di piu' - viene quasi sempre affermata e sostenuta contestualmente l'importanza dei diritti, o comunque ne viene utilizzato il linguaggio. Per Senese i diritti umani sono una mirabile costruzione elaborata per proteggere l'individuo, la persona concreta, nei confronti delle astrazioni ipostatizzanti come il trono e l'altare, lo stato come sostanza etica, ecc. Quello che fa problema e' l'introdurli come "un nuovo elemento teologico-assolutizzante nella politica", che rende gli stessi diritti umani "un'astrazione". Contro questo pericolo, Senese ripropone l'interdizione alla guerra, sancita dalla Carta delle Nazioni unite e dalla nostra Costituzione. Penso che i diritti inviolabili dell'uomo siano stati davvero un tentativo di risposta, sul piano giuridico, all'esigenza della parte migliore dell'umanita' (maschile) di significare la dignita' umana e l'indipendenza dell'individuo, cosi' come lo Stato democratico sul piano politico all'esigenza di ordine sociale, ma penso che queste costruzioni simboliche si scontrino, nei fatti, con una contraddizione originaria. La guerra cioe' non e' la conclusione di una interpretazione aberrante del diritto, ma e' sempre in agguato nella concezione dei diritti umani, e questo perche' essi hanno bisogno della forza. E il fatto che in molte continuiamo a sentire insensata questa guerra dovrebbe farci riflettere una volta per tutte su quella mediazione maschile, il diritto, che tante donne hanno ritenuto di poter prendere per buona anche per se'. Io, che insegno diritto nella scuola, da anni non mi stanco di ripetere che il diritto individuale non e' un "di piu'", ma un "di meno" nelle relazioni umane, e lo e' innanzitutto come linguaggio, perche', nella sua semplicita', tende a diventare una lingua vera e propria: se per parlare ho bisogno di dire "ho diritto di parlare", vuol dire che il mio desiderio non conta, c'e' bisogno di una legittimazione astratta e generica (il diritto appunto), e vuol dire che se chi ho di fronte non mi vuole ascoltare io non ho risorse dentro di me per cercare la strada di farmi ascoltare ma devo rinunciare (accontentandomi della soddisfazione di essere dalla parte della ragione) o devo ricorrere alla forza (legittima) di chi ha la forza di intervenire. (La tendenza della cultura scolastica istituzionale e' di "educare alla legalita'" invece che alla liberta'). Il diritto individuale, insomma, ha bisogno di un guardiano. Nonostante abbia avuto un'origine indipendente dallo Stato, anzi contro lo Stato (i diritti umani sono diritti "naturali"), il suo guardiano insormontabile e' stato fino a poco fa lo Stato. Al punto che il linguaggio dei diritti e' diventato la mediazione corrente nel rapporto tra individui e Stato: lo Stato riconosce (se vuole) solo diritti, non esseri, costringendo a diventare giusnaturalisti tutti coloro che vogliono intervenire contro le violenze su donne e uomini. Quando ho chiesto a una responsabile di Amnesty International perche' chiamava violazioni di diritti umani e non violazioni di esseri umani gli assassinii, le incarcerazioni, le torture ecc., lei mi ha risposto che e' perche' il loro intervento e' rivolto agli Stati. La conseguenza di tutto cio' e' pero' una perdita di senso dell'essere umano. Ora che il ruolo di guardiano l'ha preso un'organizzazione internazionale (di fatto sovranazionale) come la Nato, gli effetti della perdita di senso saltano agli occhi, con il balzo di qualita' dato dalla guerra come forma di intervento: per difendere i diritti di alcuni si buttano bombe sui corpi di altri e anche degli stessi di cui si difendono i diritti. "Il diritto si invera con la sanzione", ha ricordato Lia Cigarini durante una riunione a Milano al Circolo della Rosa, il 14 maggio scorso, in cui si discuteva sulla guerra a partire dalla teoria contenuta nel libro di Alessandra Nannei Ragione e sentimenti. Sulla differenza del comunicare (Edizioni Scuola di Cultura Contemporanea, Mantova 1997). Secondo la Nannei la guerra dipende dal venir meno di una gerarchia nei rapporti tra uomini, essendo la gerarchia la risposta al bisogno simbolico maschile di sapere come collocarsi al mondo; secondo Lia Cigarini il nuovo della guerra di oggi e' un risultato anche del femminismo: "E' stato detto che questa guerra e' stata fatta su alcune parole della sinistra: ingerenza umanitaria, diritti umani ecc. C'e' corresponsabilita' politica delle donne in queste parole. Le donne non sono piu' nella situazione della prima e della seconda guerra mondiale, stanno facendo politica da trent'anni 'come soggetto politico'". Si spiega allora "il silenzio delle donne" in questa guerra. E che le piu' silenziose siano proprio le americane: "negli Stati Uniti c'e' un forte movimento femminista che col politicamente corretto ha dato man forte alla possibilita' di intervento armato a difesa dei diritti dell'umanita'". * Se si parla di diritti universali si cancella la differenza. E la differenza e' indispensabile anche per capire che e' maschile il simbolico che prevede un conflitto in cui e' in gioco chi vince e chi perde, e in cui chi perde deve essere tendenzialmente distrutto. La pratica del movimento delle donne non ha proposto un conflitto distruttivo, di distruggere i maschi. Ha tentato un conflitto relazionale, cioe' di modificare la relazione. Questo paradigma nuovo e' una risposta all'alternativa tra lo stare alla forza (richiesto dal sistema dei diritti) e il sottrarsi interiormente alla forza per non perpetuare il meccanismo del dominio, che proponeva Simone Weil. Si tratta dell'autorita' che si genera nella pratica delle relazioni. E' la scoperta della politica delle donne, vedere che la politica e', propriamente, cio' che riesce a contrastare o sospendere il meccanismo dei rappporti di forza, in assoluto (senza, cioe', dover ricorrere al meccanismo dei rapporti di forza) (Luisa Muraro, in Oltre l'uguaglianza, Liguori, Napoli 1995). La cultura dei diritti frena la presa di coscienza di questa forma di autorita', femminile. 6. RIFLESSIONE. PINA NUZZO: TRA GENERAZIONI. IL RICONOSCIMENTO, LA RICONOSCENZA [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip/) riprendiamo il seguente intervento di Pina Nuzzo tenuto alla Scuola estiva della differenza, una esperienza che propone itinerari culturali, politici e spirituali promossa a Lecce dal primo al 5 settembre 2006 dall'Universita' di Lecce, l'Universita' Roma Tre e la Comunita' delle Benedettine. Pina Nuzzo, apprezzata pittrice, e' una delle figure piu' prestigiose dell'Unione delle Donne in Italia (Udi)] C'e' stato un momento, diciamo alla fine degli anni '90, in cui la politica mi e' apparsa confusa e sfuggente. Posso dire che si era esaurito un dibattito serrato, iniziato negli anni '80, che aveva interessato femministe storiche di diversa provenienza e pensatrici raffinate. Io, come tante altre, ne ero rimasta affascinata e coinvolta e avevo cercato di seguire un pensiero che si spostava sempre piu' dai luoghi della politica per insediarsi nelle universita', nei centri, negli studi di genere, nelle pari opportunita'. Ma ad un certo punto ho dovuto decidere se continuare sulla strada dei convegni, delle scuole e delle comunita' o fermarmi per capire che cosa mi era necessario. Mi era - mi e' - necessaria la politica delle donne perche' e' lo spazio simbolico in cui riesco a pensarmi e a rappresentarmi. La politica delle donne per me e' sempre stata il luogo in cui si realizza una socialita' femminile che prescinde dall'economia dei rapporti familiari e da quella mondanita' che e' governata dalla rappresentazione dei ruoli. E' anche uno spazio fisico, perche' io vengo dall'Udi dove la gestione e la cura delle sedi sono strettamente intrecciate con la gestione e la cura dei rapporti. Per uscire dalla confusione ho dovuto rinominare me stessa dentro un percorso collettivo, cosi' come l'Udi insegnava, e perfino obbligava, a fare. E ancora insegna. Non potevo piu' percepirmi, o lasciare che le altre mi percepissero, come "la giovane dell'Udi", dovevo accedere ad una forma adulta della politica assumendo delle responsabilita' politiche in prima persona: verso di me, verso il luogo politico e verso le donne con cui avevo diviso gran parte di quella storia. Tanto piu' che questo sconcerto non affliggeva soltanto me ma l'intero corpo dell'associazione. Per riconoscermi ho dovuto rileggere gli ultimi venti anni di politica e decidere cosa tenere e cosa invece era meglio abbandonare. Non e' stato facile, non e' stato indolore perche' si trattava degli anni centrali della mia vita e rivedere le scelte politiche che li avevano contraddistinti poteva voler dire rompere equilibri o mettere in discussione relazioni fondamentali per me. Ho deciso di prendere in mano la situazione, di fare la responsabile della sede nazionale autoproponendomi per questo incarico, ho dichiarato che l'avrei fatto in modo diverso da quanto era avvenuto fino ad ora, ho trovato su questo delle corrispondenze. Avere l'ambizione di segnare la politica dell'Udi ha voluto dire dover mettere una distanza tra me e la sua storia di sessant'anni, che puo' travolgerti e annichilirti. Ho dovuto accettare il rischio di essere al di sotto delle mie precedenti esperienze, delle mie stesse aspettative e di una tradizione che ha avuto, ed ha, donne straordinarie. Alcune sono ancora oggi presenti, non mollano, e ti obbligano a conquistarti lo statuto di adulta. Guardandomi intorno mi ero resa conto che l'Udi era l'unica aggregazione politica che, proprio in virtu' della sua lunga storia, poteva trovare lo scatto necessario per dare fiato ai nuovi soggetti che si facevano avanti: le giovani, le immigrate, le nuove emancipate. Percepivo - per esempio osservando la quantita' e il tipo delle partecipanti ai primi corsi di formazione politica delle pari opportunita' della provincia di Lecce - che da loro veniva una domanda ma era necessario che quelle donne fossero in grado di formularla e che l'Udi fosse in grado di accoglierla con tutti gli elementi di novita' e di imprevisto di cui erano portatrici. Dovevamo per questo ripensare la nostra visibilita', farci individuare e renderci riconoscibili. Ma anche non cedere su questioni fondamentali per un malinteso senso dell'accoglienza. * Per esempio: il separatismo. Questa parola nel corso di questi anni, e' stata sospinta, insieme alla sua pratica, nelle soffitte del femminismo e da li' ogni tanto viene tirata fuori per qualche cena dell'otto marzo. Questa parola viene nominata di sfuggita o con fastidio. Quelle che non l'hanno cancellata dal proprio vocabolario si affrettano ad aggiungere che il separatismo e' solo uno strumento ed e' pure fuori moda. Ma nell'Udi le parole vengono scritte nello statuto percio' siamo lente nell'assumere le nuove pratiche, ma anche molto attente nel rimuovere quelle vecchie... e di conseguenza e' una associazione di donne separatista. Cosa si intende allora per separatismo? Cosa intendo io per separatismo? Il separatismo non e' una pratica occasionale, lo si impara giorno per giorno ed e' un modo di essere. Va da se' che questo modo di intendere la politica non intacca e non ostacola gli amori e le scelte nelle singole vite, ma ha molto a che vedere con il rapporto che le donne vogliono avere tra loro e, a partire da questo, con il maschile in tutte le sue configurazioni. La forza scardinante di questa pratica non sta nell'assenza fisica dell'uomo, ma nel riconoscere anche la sola presenza fisica - il corpo - delle donne con cui ci si trova. E a tutto questo dare senso, valore e nome. Il separatismo si impara e diventa un modo di essere, di percepire il mondo, di comunicare. Io sono qui e parlo davanti a tutti, ma non sto parlando a tutti. Sto parlando a tutte ma non con tutte: sto comunicando con quelle che sono predisposte a riconoscere nelle mie parole un loro bisogno o una loro necessita'. Da questo consegue che l'Udi , da molto tempo ormai, da quel 1982 in cui abbiamo solennemente azzerato l'originaria forma organizzativa, non e' il luogo di un generico "tutte le donne" ma quello a cui puo' accedere ogni donna che lo voglia. Non si diventa dell'Udi perche' si fa parte di un'area politica o di un sistema di relazioni o di un ceto. * Alle giovani donne ho mostrato chi io sono e dove sono. Le ho guardate, ascoltate e ho colto in alcune la nostalgia per qualcosa che, per ragioni anagrafiche, non hanno conosciuto direttamente ma di cui hanno solo sentito parlare. Hanno nostalgia del femminismo, a volte vivono una sorta di invidia per quello che immaginano che noi abbiamo vissuto e che loro non hanno. Attraverso le nostre memorie e perfino attraverso il racconto dei nostri conflitti guardano a noi come a una generazione di donne compatta e solidale. E non importa se sia vero, importa che partano da questo confronto per nominare una solitudine che nasce da quelli che io, prima di conoscerle, avrei nominato come vantaggi. Mi ha sorpreso rendermi conto che tutto quello che noi abbiamo conquistato e che ha contribuito alla costruzione della liberta' nostra e pensavamo di tutte, si configura nelle loro vite come una faticosa gestione. Le lotte in cui ci siamo impegnate, le leggi che abbiamo conquistato sono state un nostro personale guadagno e ci hanno reso riconoscibili, tra noi ma anche socialmente. A partire da quanto abbiamo realizzato, e di cui siamo giustamente orgogliose, non sappiamo come comportarci di fronte a certe scelte delle nostre figlie o di giovani conoscenti che ci sembrano in aperta contraddizione non solo con la liberta' ma anche con la dignita'. Forse dobbiamo riflettere su quanto di questa liberta' che noi abbiamo perseguito si e' trasformato in un vero e proprio prendersi delle liberta' per un compagno apparentemente infragilito, su quanto lo ha rafforzato, su quanto lo ha reso invasivo. Il punto non e' tornare indietro ma capire che la lotta non e' finita e che anche la liberta' e' un processo collettivo delle donne, che va governato insieme. Se una giovane donna pensa di dover fare da sola perche' si sente continuamente sollecitata - dalla madre carnale e/o dalle madri simboliche - ad essere all'altezza, a noi non svela dove si annidano oggi gli inganni del patriarcato e i nuovi conflitti che si sono determinati tra i generi, alle sue coetanee si rende irriconoscibile. Capire qualcosa delle donne giovani con cui mi trovo a contatto, in gran parte perche' vengono a consultare l'archivio dell'Udi, e' uno sforzo notevole perche' devo continuamente agire su di me per non cadere nel pregiudizio o peggio ancora nel maternalismo. Se qualcuna mi racconta gli appassionamenti per il suo partito io non posso leggerli con la categoria che a suo tempo abbiamo chiamato doppia militanza. I partiti non sono certo cambiati ma siamo cambiate noi e si tratta di riconoscere in quella donna la novita'. Ho sentito l'insofferenza di alcune che, pur sentendosi attaccate personalmente di fronte all'ipotesi di una modifica della legge 194, non sopportavano i miei discorsi sulla contraccezione. Ho riconosciuto in queste donne una paura che avevamo anche noi e che poi abbiamo accantonato e che ciascuna ha imparato a gestire per come poteva e per come sapeva. La contraccezione libera le donne dalla paura dell'aborto ma non migliora automaticamente la sessualita' e puo' dare il senso che il corpo delle donne sia sempre disponibile e lasciare a loro tutte le responsabilita', almeno fino al concepimento, perche' abbiamo visto che le cose cambiano. Che la contraccezione fosse pensata per una sessualita' che corrisponde ad una idea maschile del sesso ci era chiaro anche negli anni '70, ma noi avevamo il problema della paura di morire d'aborto clandestino. Oggi che questa paura si puo' evitare - molte lo sanno - dobbiamo leggere in alcuni modi di essere e in alcuni comportamenti delle giovani un modo per nominare l'integrita' del proprio corpo. Ascoltare questo bisogno e ricordarsi cosa puo' significare ci aiuta a rileggere i nostri corpi di donne di diverse generazioni per come sono oggi. In comune abbiamo il dovere di ripensare come rappresentare i nostri corpi e la loro inviolabilita', e per le giovani questo e' piu' urgente. Non sarei tornata su questo pensiero se non avessi parlato con tutte loro nel corso di questi anni. Di questo sono loro riconoscente. 7. LETTURE. ELENA LIOTTA: LA MASCHERA TRASPARENTE Elena Liotta, La maschera trasparente. Apparire o essere?, La Piccola Editrice, Celleno (Vt) 2006, pp. 144, euro 12. Aperto da una citazione di Ronald D. Laing e concluso da una filastrocca di Gianni Rodari, questo saggio di Elena Liotta - psicoterapeuta, pubblica amministratrice, docente, saggista, amica della nonviolenza - svolge un'ampia trama di riflessioni facendo risuonare le voci di maestre e maestri antichi e recenti ed arricchendone il dettato con le esperienze e riflessioni dell'autrice; un libro che si situa in quella longeva e inesauribile tradizione tanto orientale quanto occidentale delle opere che aiutano a respirare, a considerare la vita, a trovar consolazione nella comune umanita', ma anche - come attesta esplicitamente l'autrice nella premessa e come conferma la bibliografia finale - un omaggio alle autrici e agli autori piu' amati della propria medesima formazione, una paideia preziosa in cui compaiono non pochi volti e voci che anche chi scrive queste righe non cessa di amare. Per richieste: La Piccola Editrice, via Roma 5, 01020 Celleno (Vt), tel. e fax: 0761912591, e-mail: convento.cel at tin.it, sito: www.conventocelleno.it/lapiccola.index.htm 8. RIEDIZIONI. NAZIM HIKMET: POESIE Nazim Hikmet, Poesie, Mondadori, Milano 1963, 2002 (col titolo Poesie d'amore), Gruppo editoriale L'espresso, Roma 2006, pp. XVI + 222, s.i.p. (ma euro 6,90, in supplemento al settimanale "L'espresso"). Nella classica traduzione dell'indimenticabile Joyce Lussu, una scelta dei versi del grande poeta e rivoluzionario turco. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1440 del 6 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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