La nonviolenza e' in cammino. 1440



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1440 del 6 ottobre 2006

Sommario di questo numero:
1. Afghanistan
2. Corradino Secondino Scalcagnati: Sette tesi sulla nonviolenza in quanto
politica
3. Peter Laufer: L'anima del nostro paese
4. Giulio Vittorangeli: Imperialismo ed antimperialismo
5. Clara Jourdan: I diritti vanno in guerra (1999)
6. Pina Nuzzo: Tra generazioni. Il riconoscimento, la riconoscenza
7. Letture: Elena Liotta, La maschera trasparente
8. Riedizioni: Nazim Hikmet, Poesie
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. AFGHANISTAN

L'Italia non puo' svolgere alcuna credibile azione per la pace finche'
partecipa alle guerre, finche' fa spedizioni militari, finche' rifornisce di
armi regimi criminali.
L'Italia non puo' avere alcuna credibilita' internazionale finche' e' parte
delle alleanze che stanno eseguendo stragi in Afghanistan e in Iraq.
L'Italia aiuta il terrorismo internazionale finche' partecipa a guerre
terroristiche che violano il diritto internazionale.
L'Italia e' complice del crimine finche' governo e parlamento violano la sua
stessa Costituzione.
*
Cessi la partecipazione italiana alle guerre.
La pace si costruisce con la pace.

2. RIFLESSIONE. CORRADINO SECONDINO SCALCAGNATI: SETTE TESI SULLA
NONVIOLENZA IN QUANTO POLITICA
[Ringraziamo il nostro buon amico Dino Scalcagnati per queste brevi opinioni
sue, offerte come contributo alla preparazione del seminario del Movimento
Nonviolento che si terra' il 21-22 ottobre 2006 a Verona]

1. La nonviolenza e' innanzitutto una politica: e' lotta e proposta
politica.
Non staremmo a parlare del messaggio di Gandhi se Gandhi non avesse condotto
grandi lotte politiche e non avesse formulato una grande proposta politica.
*
2. Essendo una politica, lotta e proposta politica, la nonviolenza e'
concreta.
Ovvero contrasta la violenza nelle condizioni concrete in cui esercita il
conflitto contro di essa. Una nonviolenza ideale, astratta, non si da'.
*
3. O la nonviolenza e' una politica, lotta e proposta politica, o non e'
nulla.
Chi la confonde con una sorta di psicoterapia casalinga, o una mistica
laica, o un modesto galateo, o la ragionevole condotta di quell'idealtipico
"buon padre di famiglia" di cui si legge sui contratti, ebbene, non sa quel
che si dice.
*
4. O la nonviolenza, lotta e proposta politica, e' opposizione alla
violenza, opposizione la piu' nitida e la piu' intransigente, la piu'
concreta e la piu' limpida, o essa alla violenza e' subalterna. Ed allora e'
peggio che nulla, e' complicita'.
E poiche' tertium non datur, o la nonviolenza e' la piu' forte e la piu'
decisa lotta e proposta politica contro la violenza, o e' violenza e
menzogna e vilta' insieme, ovvero: non e' affatto nonviolenza.
Non esiste una nonviolenza reticente e astensionista, temperata e
accomodante, facilona e compagnona, sussiegosa e perbenista, in frac o
all'amatriciana. La nonviolenza e' scelta di lotta ed ascesi, e' conflitto
ed incontro nel conflitto, e nel conflitto riconoscimento di umanita', e
solo nel conflitto negoziato, e solo sconfitta la violenza e'
riconciliazione tra le parti.
*
5. Chiamiamo nonviolenza un insieme di esperienze storiche e di riflessioni
legate alla prassi. Del movimento delle classi oppresse e dei popoli
oppressi, del movimento delle donne, dei movimenti di resistenza ai
totalitarismi, dei movimenti di liberazione dell'umanita', dei movimenti di
conservazione della natura; esperienze che con minore o maggiore
consapevolezza hanno agito il conflitto politico con fini politici e con
mezzi politici per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli
esseri umani, per la difesa della biosfera, contro sfruttamento,
inquinamento, guerra. Esperienze e riflessioni che hanno assunto come
decisivo il principio della dignita' umana di tutti gli esseri umani e si
sono adoperate ad inverarlo nella realta'.
Nonviolenza non e' per noi un canone di autori, una dogmatica, un
ricettario; ma un insieme di esperienze e riflessioni che ti convocano a una
critica e a una scelta, a una responsabilita' e ad un cammino. La
nonviolenza e' in cammino.
*
6. Quali elementi caratterizzano la politica della nonviolenza?
L'opposizione alla violenza.
L'opposizione concreta alla violenza.
L'opposizione costruttiva alla violenza.
Ovvero: la scelta giuriscostituente, tale per cui la massima dell'azione
nonviolenta, di ogni azione nonviolenta - che e' sempre insieme lotta e
proposta politica -, sempre sia fondativa di istituti che consentono e
promuovono la convivenza, la convivenza civile, la convivenza civile di
tutte e tutti.
Ovvero: la coerenza tra mezzi e fini, la scelta della verita', il
riconoscimento di umanita', la non distruttivita', la coscienza della comune
costitutiva fragilita' e fallibilita', l'etica del limite e della cura, il
principio responsabilita'.
*
7. "L'opposizione integrale alla guerra" scrive Capitini essere la prima
"direttrice d'azione" del movimento nonviolento per la pace.
Pertanto la nonviolenza in quanto politica e' innanzitutto opposizione alla
guerra, alle sue logiche, ai suoi strumenti ed ai suoi apparati. Questo e'
il compito dell'ora.

3. TESTIMONIANZE. PETER LAUFER: L'ANIMA DEL NOSTRO PAESE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento.di
Peter Laufer, costituito dalla sua testimonianza il 26 settembre 2006 al
forum promosso dalla deputata democratica Lynn Woolsey sull'Iraq. Peter
Laufer e' un apprezzato giornalista indipendente, documentarista e saggista,
per la sua attivita' ha ricevuto vari rilevanti riconoscimenti; e' autore
del libro Missione respinta: i soldati statunitensi che dicono no all'Iraq
(Chelsea Greeen, 2006)]

Onorevole Woolsey, grazie per avermi dato l'opportunita' di parlare della
critica questione che sto studiando. Cio' che voglio condividere qui sono le
riflessioni e le esperienze di alcuni coraggiosi uomini e coraggiose donne
che ho incontrato l'anno scorso. E' stato un onore, per me, incontrare
questi soldati americani, essi si trovano infatti sul fronte di quella che
potrebbe essere la loro battaglia piu' importante: la lotta per l'anima del
nostro paese.
Una delle cose che mi ha sorpreso di piu', mentre tornavo dai viaggi che mi
hanno portato dagli Usa in Canada e in Germania, per parlare con i soldati
che si oppongono alla guerra in Iraq, e' stato scoprire che ben pochi civili
erano a conoscenza della crescente resistenza, all'interno dell'esercito,
alle politiche di Bush in Iraq. Moltissime volte, quando qualcuno mi
chiedeva a cosa stavo lavorando, ed io spiegavo che stavo raccogliendo
queste storie di opposizione, ho sentito commenti del tipo: "Davvero ci sono
soldati contrari alla guerra? Non lo sapevo".
*
La tragedia delle morti dei civili in Iraq e' devastante. Le truppe Usa
assegnate al tipo di azioni che feriscono e distruggono civili innocenti
sono esse stesse delle vittime. Ne e' la prova il numero crescente dei
soldati che ritornano dall'Iraq sofferenti di disagi psichici. Un soldato
dopo l'altro, tutti mi hanno parlato dell'essere devastati da ordini che li
mettevano in questo dilemma: disobbedire o sparare a quelli che loro
percepivano essere non combattenti. Queste testimonianze sono un fattore
critico, vanno ascoltate. La loro credibilita' non puo' essere messa in
discussione. Si tratta di persone che sono andate volontarie nell'esercito,
che hanno visto le cose dall'interno.
*
Prendiamo ad esempio Darrell Anderson. L'ho incontrato a Toronto. Darrell ha
disertato dopo aver combattuto in Iraq, piuttosto di affrontare un secondo
invio nel paese. Oltre ad essere stato ferito da una bomba posta su una
strada, cosa che gli e' valsa l'onorificenza Purple Heart, Darrell fu spesso
coinvolto in scontri a fuoco. Mi ha descritto una battaglia nelle strade di
Baghdad che lo ha terrorizzato, al punto tale che ha avuto paura anche di se
stesso. Era in un veicolo corazzato. Altri soldati ne stavano uscendo,
quando vennero attaccati da qualcuno che sparava granate con un
lanciamissili. Uno dei soldati che si trovavano all'esterno del veicolo fu
seriamente ferito.
Darrell mi ha raccontato che la scena ritorna ossessivamente negli incubi di
cui soffre ogni notte: "Lo guardo, sta sanguinando da tutto il corpo, sputa
sangue". Darrell scende dal veicolo. "Vado la'. Ci sono esplosioni. Ci
dicono sempre che se sei sotto attacco devi sparare a chiunque si trovi per
strada. I nostri comandanti dicono che se ci sono persone in strada non sono
piu' innocenti. Prendo il fucile e vedo qualcuno che corre. Tiro il
grilletto, ma la mia arma ha ancora la sicura".
Mentre premeva quel grilletto, Darrell comprese che stava per sparare ad un
bambino che cercava di sottrarsi alla violenza, un bambino che si trovava da
quelle parti ma che certo non era coinvolto nell'attacco. La cosa piu'
traumatica per lui furono le emozioni che provava: "Sono arrabbiato. Il mio
compagno sta morendo. Voglio uccidere". Darrell mi ha detto di aver capito
di essere diventato un uomo diverso, qualcuno cambiato dalla patologia della
guerra e dalla sofferenza degli innocenti.
"Quando arrivai in Iraq, dapprima ero disgustato dai miei commilitoni. Ora
sono uguale a loro. Potrei uccidere degli innocenti, perche' non sono piu'
la persona che ero quando sono andato in Iraq". L'attacco termino', e
Darrell sopravvisse, cosi' come il bambino in fuga.
*
Un altro esempio di come la guerra stia lacerando le coscienze dei soldati
sta in una e-mail che ho ricevuto ieri. Me l'ha scritta un riservista
dell'esercito, un agente del controspionaggio che ha servito in Afghanistan,
dove ha ricevuto due medaglie di bronzo al valore: "La mia unita' potrebbe
essere inviata in Iraq in gennaio, ed io sto pensando di non andarci. La
cosa e' complicata dal fatto che io non sono riconosciuto come obiettore di
coscienza, il che limita le mie opzioni". Il riservista mi ha chiesto
assistenza nell'indirizzarlo verso fonti che possano dargli informazioni
attendibili sulle alternative che gli si offrono e sulle conseguenze del
rifiutare gli ordini.
Sempre piu' soldati con un vissuto simile a quello del mio corrispondente
stanno considerando l'opportunita' di distruggere le loro carriere e di
passare del tempo in prigione perche' si oppongono alla guerra in Iraq.
Immaginate il coraggio che ci vuole ad un soldato per rifiutare la missione
e rispondere invece al richiamo della propria coscienza, dicendo no alla
guerra. Il fatto che sia i marine sia l'esercito stiano pescando a mani
piene tra i loro riservisti, per mandarli in Iraq, e' un'altra indicazione
che il rifiuto della guerra all'interno delle forze armate sta crescendo.
Ora e' importante osservare come molti dei richiamati stiano rifiutando il
ritorno al servizio attivo.
*
Nel suo discorso dell'11 settembre, alcune settimane fa, il presidente Bush
si e' appellato nuovamente ai soldati morti nella guerra irachena: ha
dichiarato ancora, come ha ormai fatto tante volte, che questa guerra deve
continuare e che il loro sacrificio non e' stato vano, ed ha fatto notare
che piu' di un milione e mezzo di americani si sono arruolati dopo l'attacco
alle Due Torri ed al Pentagono. Ma cosa pensano, oggi, questi volontari?
Potremmo fare un'inchiesta e chiederglielo. Nel frattempo, io conosco i
sentimenti di alcuni di loro.
Ho incontrato ad esempio Joshua Key, che ha combattuto in Iraq, ed ora e'
disertore in Canada, in attesa gli venga riconosciuto lo status di
rifugiato. La sua famiglia d'origine gli manca, e biasima il governo Bush:
"Li biasimo perche' mi hanno fatto fare quello che ho fatto. Si puo' mentire
al mondo, ma non si puo' mentire ad una persona che ha visto come stanno le
cose. Mi hanno costretto a fare cose che un uomo non dovrebbe mai fare, per
il solo scopo del loro profitto, il loro profitto e non quello del popolo,
il loro guadagno finanziario". Secondo Joshua Key, il presidente Bush e'
colpevole dei crimini commessi in Iraq. "Un giorno paghera' per quel che ha
fatto. E il giorno in cui andra' in prigione, io ci andro' con lui. Davvero,
sono disposto a farlo. Ma questo non accadra' mai". E Joshua Key ha riso
amaramente.
Chiedetelo a Steven Casey, che ancora potrebbe essere richiamato dalla
riserva dopo essere gia' stato in Iraq. Steven dice che non indossera' mai
piu' un'uniforme. "Mi trovera' sulle notizie in cronaca, piuttosto. Non
tornero' laggiu'. Diventero' un numero statistico nella lista di quelli che
sono spariti". Lo ha ripetuto quietamente, piu' e piu' volte: "Non tornero'
laggiu'". Steven Casey ora sta frequentando il college, con il denaro che ha
guadagnato nell'esercito: "Ho avuto i miei soldi, e assieme ho avuto
quest'ansia continua, e gli attacchi di sudorazione gelida, e probabilmente
dovro' portarmeli dietro per sempre. Dal punto di vista sociale sono un
disadattato. Non faccio altro che urlare a mia moglie. Non credo che ce la
faro' mai ad uscirne. Cio' che ha causato questo e' irreparabile, e per il
resto della mia vita lo portero' con me". Mi ha parlato della sua rabbia,
della sua angoscia. Si chiede se e' malato psichicamente in modo definitivo,
se dovra' affrontare un'esistenza composta di prescrizioni medicinali e
psichiatri. "Voglio essere onesto con lei, mi piacerebbe dimenticarmi tutto.
Ma non posso. Avrei dovuto andare piuttosto a lavorare da McDonalds e
pagarmi gli studi in quel modo".
*
Oppure chiedetelo a Clifton Hicks, che e' tornato dal suo periodo di
servizio in Iraq ed ha ricevuto un congedo onorevole basato sulla sua
obiezione di coscienza alla guerra. La guerra in Iraq, dice Clifton, viene
combattuta a beneficio dei "ricchi maledetti, che sono troppo vigliacchi per
farsela da soli, e che vogliono ancora piu' denaro, e quindi la guerra la
fanno combattere a noi, le masse di individui senza istruzione che si
ammazzano l'un l'altro".
Soldati come lui, che e' stato sullo scenario di guerra in Iraq e vi ha
ricevuto medaglie al valore, che hanno visto e fatto cose inimmaginabili dal
resto di noi, sono quelli che ci offrono la cronaca reale di cio' che sta
accadendo in Iraq. Io credo che le testimonianze di questi soldati possano
aiutarci a capire cosa c'e' di sbagliato nella situazione irachena.
Grazie ancora per avermi permesso di condividerle oggi.

4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: IMPERIALISMO ED ANTIMPERIALISMO
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento.
Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo
notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre
nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'".
Giulio Girardi (per contatti: g.girardi at agora.it) e' nato al Cairo nel 1926,
filosofo e teologo della liberazione, durante il Concilio Vaticano II
partecipo' alla stesura dello schema XIII; membro del Tribunale permanente
dei popoli, particolarmente impegnato nella solidarieta' con i popoli
dell'America Latina. Opere di Giulio Girardi: presso la Cittadella sono
usciti: Marxismo e cristianesimo; Credenti e non credenti per un mondo
nuovo; Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe; Educare: per quale
societa'?; Il capitalismo contro la speranza; Cristiani per il socialismo:
perche'?; presso Borla sono usciti: Sandinismo, marxismo, cristianesimo: la
confluenza, (a cura di) Le rose non sono borghesi, La tunica lacerata, Fede
cristiana e materialismo storico, Dalla dipendenza alla pratica della
liberta', Il popolo prende la parola (con J. M. Vigil), La Conquista
dell'America, Gli esclusi costruiranno la nuova storia?, Cuba dopo il crollo
del comunismo; presso le Edizioni Associate: Rivoluzione popolare e
occupazione del tempio; presso le Edizioni cultura della pace: Il tempio
condanna il vangelo; presso Anterem: Riscoprire Gandhi; presso le Edizioni
Punto Rosso: Resistenza e alternativa; presso Sperling & Kupfer: Che Guevara
visto da un cristiano]

Esiste oggi un imperialismo? E se si', esiste un antimperialismo? In caso di
risposta affermativa, come questo antimperialismo si coniuga con la lotta
per la pace e la nonviolenza?
E' evidente che esiste, per quanto fortemente mistificata e nascosta,
un'organizzazione imperiale del mondo con tutto il suo carico strutturale
devastante.
Piu' evidente ai nostri occhi (del "primo mondo") nella guerra in Iraq ed
Afghanistan, ma certamente non meno feroce e disumana se guardiamo
all'America Latina, con la guerra dei cinquecento anni. Quella che e' stata
definita come l'interminabile conquista.
Esiste un materiale enorme che documenta la violenza, le ingiustizie, i
genocidi, perpetrati attraverso il continente latinoamericano da quel
lontano 1492: esso mostra con evidenza che l'imperialismo non e'
un'ideologia, ma una realta', la piu' tragica della storia attuale.
Questa violenza imperiale poggia su mezzi enormi, ad iniziare dal versante
culturale. Non a caso la tecnologia avanzata e' uno strumento di
occultazione della violenza, come abbiamo potuto constatare particolarmente
durante le guerre (Golfo, Jugoslavia, ecc.) che si sono succedute dopo la
fine dell'era della cosiddetta "guerra fredda" e del mondo bipolare.
"Il fatto di distruggere e assassinare con metodi estremamente raffinati fa
dimenticare cio' che si sta facendo: distruggere e assassinare popoli
interi. I meccanismi del sistema capitalista hanno la capacita' di occultare
la violenza economica, perche' questa si trova cristallizzata in strutture
che si impongono con la necessita' di esigenze 'naturali'. La democrazia
liberale e' anch'essa tutto un sistema inteso a nascondere la violenza che
si sta esercitando molto spesso sotto le apparenze della legalita'. La
guerra del Golfo ne e' un esempio estremamente eloquente, ma si potrebbero
moltiplicare gli esempi di 'democrazie' trasformate in strumenti di
occultamento della violenza. Come Tribunale permanente dei popoli abbiamo
potuto conoscere una serie di denunce che provengono dalla maggior parte dei
paesi latinoamericani, e che documentano l'impunita' dei delitti di lesa
umanita' commessi in Cile, Argentina, brasile, Colombia, Uruguay, Paraguay,
Honduras, El Salvador, Guatemala, Peru', Panama', eccetera, a opera delle
forze militari e paramilitari, non solo quando erano al governo, ma anche
nel corso del processo di 'democratizzazione'. Ne emerge chiaramente che
questo processo non ha realmente soppresso la violenza, ma e' servito
unicamente per assicurare l'immunita', per coprirla agli occhi del mondo. E
in ciascuno di questi paesi abbiamo dovuto constatare, nella genesi della
violenza economica e militare, la responsabilita' fondamentale
dell'imperialismo nordamericano" (Giulio Girardi).
Davanti a questa situazione abbiamo assistito ad una sorta di cortocircuito,
per cui nel primo mondo, da un lato, la parola "imperialismo" e' magicamente
scomparsa dal vocabolario della sinistra: usare questo termine significa
autodenunciarsi come veteromarxisti. Dall'altro lato, una esigua minoranza
"rivendica" orgogliosamente questo termine sciaguratamente sostenendo
qualsiasi nefandezza viene commessa da quelle "organizzazioni" che nelle
zone di guerra si oppongono certamente all'imperialismo, ma usando gli
stessi tragici strumenti di devastazione e morte, ed avallando un orizzonte
politico che certamente non e' quello della liberta' dei popoli.
Anche nel cosiddetto terzo mondo, per quanto e' possibile osservare, la
coscienza antimperialista e' decisamente indebolita. Le analisi della
congiuntura latinoamericana, nonostante l'avvento di governi "progressisti",
non lasciano aperte molte prospettive al riguardo.
A questo punto, il futuro della lotta antimperialista credo, per quanto mi
e' possibile molto modestamente osservare, e' cosa che ci riguarda
direttamente. Perche' il futuro di una umanita' libera non si decide solo a
partire da ragionamenti e analisi (certamente indispensabili), ma anche e
soprattutto sulla base di iniziative umane, di mobilitazioni popolari a
carattere internazionale.
Iniziative e mobilitazioni che possono sorgere solo da una coscienza di
massa, di classe e di popolo. Iniziative che non possono prescindere da una
chiara scelta nonviolenta e da una altrettanta chiara capacita' di ascolto e
di confronto con chi direttamente, drammaticamente, quotidianamente, vive
sulla propria pelle l'oppressione imperialista.

5. RIFLESSIONE. CLARA JOURDAN: I DIRITTI VANNO IN GUERRA (1999)
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente testo apparso sul quotidiano "Il manifesto" del 27
maggio 1999 e successivamente in Luisa Muraro e altre, Guerre che ho visto,
Quaderni di Via Dogana, Milano 1999. Clara Jourdan, prestigiosa
intellettuale femminista, e' particolarmente impegnata nelle esperienze
della Libreria delle donne di Milano e della rivista "Via Dogana"]

Ho fatto leggere a una classe di studentesse e studenti delle superiori una
frase di Simone Weil: "Tutti i mutamenti intervenuti negli ultimi tre secoli
avvicinano gli uomini a una situazione in cui non ci sarebbe piu'
assolutamente altra fonte di obbedienza nel mondo intero eccetto l'autorita'
dello Stato" (Sulle origini dello hitlerismo, 1939), e ho chiesto se nella
loro vita e' presente altra autorita' o sono a conoscenza di mutamenti
sociali che vanno in un'altra direzione rispetto a quella individuata dalla
giovane filosofa francese sessant'anni fa. Una parte ha scritto "i
genitori", qualcuna "gli insegnanti", molte e molti: "no".
La guerra Nato contro la Jugoslavia e' fatta probabilmente per far nascere
un soggetto sovranazionale, che obbedisce pero' alla stessa idea dello
Stato, l'uso della violenza per fare ordine. Per alcuni sarebbe anche giusto
e si giustifica questa guerra. Nei due mesi dal primo bombardamento, insieme
al moltiplicarsi di prese di posizione pubblica contro la guerra - e prese
di posizione piu' di singoli e gruppi che di organizzazioni di massa, piu'
articoli, lettere, dimissioni, discussioni che manifestazioni di piazza -
dopo lo sconcerto iniziale e' cominciata anche una riflessione sul nuovo di
guesta guerra, oltre che sugli elementi di continuita' con il passato. Dal
punto di vista militare e' uguale a quella contro l'Iraq. Ma mentre quella
guerra aveva come motivazione ufficiale la violazione della sovranita' di un
altro Stato, per questa la motivazione e' la violazione dei diritti umani
all'interno dello Stato. Un salto che fa sentire la guerra di solo pochi
anni fa come lontana. Anche perche', e questo e' il punto, mentre la
motivazione di allora era sentita dai piu' come copertura (di interessi
economici, di volonta' di dominio ecc.), la motivazione di oggi no. Molti,
anche nella sinistra della sinistra, ritengono che davvero la ragione della
guerra sia questa, molti naturalmente sospettano che sia un pretesto, ma chi
sostiene la guerra e chi si oppone sono d'accordo sul difendere i diritti
umani, anche al di sopra dello Stato. Dicono infatti: non e' con la guerra
che si difendono i diritti umani (come Paolo Cacciari che sul "Manifesto"
del 21 maggio, in nome del movimento pacifista propone "alternative alla
guerra"). Insomma, mentre in passato la motivazione umanitaria era stata
inventata - con l'invasione di Hitler della Cecoslovacchia (per difendere i
diritti della minoranza tedesca) - come un puro e semplice aggiramento
dell'accordo tra stati che vietava le guerre aggressive, adesso la
motivazione umanitaria sembra rispondere a un sentire diffuso. E' dunque
ideologia dominante.
Secondo Salvatore Senese ("Il manifesto", 19 maggio), che come altri ha
ragionato sulla novita' di questa guerra "di sinistra", la politica fondata
sui diritti umani e' la nuova concezione politica, che opera un
rovesciamento di fondo rispetto al rapporto con la guerra nell'immaginario
collettivo della sinistra: se il prius sono i diritti umani, la pace deve
quindi essere giusta, la guerra non e' piu' "flagello dell'umanita'" (come
e' scritto nella Carta dell'Onu) ma puo' rivelarsi uno strumento per
adempiere al dovere di ingerenza umanitaria. Come dice Luce Irigaray, la
guerra non ha neppure piu' l'alibi della legittima difesa, essa e' il mezzo
utilizzato affinche' il giusto distrugga l'ingiusto ("la Repubblica", 19
maggio).
Per Simone Weil le guerre erano inevitabili a causa del "dogma della
sovranita' nazionale", dato che la nozione giuridica di nazione sovrana e'
incompatibile con l'idea di un ordine internazionale: al suo posto abbiamo
oggi il dogma dei diritti umani al centro di una nuova ideologia?
Sembrerebbe di si', dato che i diritti umani sostenuti dalla sinistra sono
fatti propri anche dalla destra: la destra infatti, che in Italia come in
Usa e in altri paesi Nato e' all'opposizione, non solo non si e' opposta
alla guerra ma l'ha sostenuta con le stesse parole della sinistra. Unita'
per la guerra in cui d'altra parte non si sono sentiti rappresentati gli
elettori e le elettrici, come si vede nelle lettere pubblicate dai giornali:
"Di fronte alle stragi Nato mi vergogno di appartenere ad una nazione che
partecipa attivamente all'attivita' bellica. Ho sempre votato per partiti
moderati e, a questo punto, con le prossime elezioni europee, penso proprio
che non andro' a votare" (Lettera firmata, "il Giorno", 22 maggio). E si
diffondono le proposte delle associazioni, come la Libera universita' delle
donne di Milano che sta facendo una campagna per l'astensione: "Se la guerra
non sara' cessata prima del 13 giugno, non andremo a votare" ("Il paese
delle donne"). E c'e' perfino chi pensa di votare a destra per restituire la
sinistra all'opposizione, in caso di un'altra guerra in futuro (lo stesso
D'Alema lo ha involontariamente suggerito dicendo in un'intervista di Enzo
Biagi che se non si trovasse al governo sarebbe contro questa guerra).
*
Discutiamo dunque dei diritti umani. Perche' da parte degli oppositori e
delle oppositrici di questa guerra - che, ripeto, sono sempre di piu' -
viene quasi sempre affermata e sostenuta contestualmente l'importanza dei
diritti, o comunque ne viene utilizzato il linguaggio. Per Senese i diritti
umani sono una mirabile costruzione elaborata per proteggere l'individuo, la
persona concreta, nei confronti delle astrazioni ipostatizzanti come il
trono e l'altare, lo stato come sostanza etica, ecc. Quello che fa problema
e' l'introdurli come "un nuovo elemento teologico-assolutizzante nella
politica", che rende gli stessi diritti umani "un'astrazione". Contro questo
pericolo, Senese ripropone l'interdizione alla guerra, sancita dalla Carta
delle Nazioni unite e dalla nostra Costituzione.
Penso che i diritti inviolabili dell'uomo siano stati davvero un tentativo
di risposta, sul piano giuridico, all'esigenza della parte migliore
dell'umanita' (maschile) di significare la dignita' umana e l'indipendenza
dell'individuo, cosi' come lo Stato democratico sul piano politico
all'esigenza di ordine sociale, ma penso che queste costruzioni simboliche
si scontrino, nei fatti, con una contraddizione originaria. La guerra cioe'
non e' la conclusione di una interpretazione aberrante del diritto, ma e'
sempre in agguato nella concezione dei diritti umani, e questo perche' essi
hanno bisogno della forza. E il fatto che in molte continuiamo a sentire
insensata questa guerra dovrebbe farci riflettere una volta per tutte su
quella mediazione maschile, il diritto, che tante donne hanno ritenuto di
poter prendere per buona anche per se'. Io, che insegno diritto nella
scuola, da anni non mi stanco di ripetere che il diritto individuale non e'
un "di piu'", ma un "di meno" nelle relazioni umane, e lo e' innanzitutto
come linguaggio, perche', nella sua semplicita', tende a diventare una
lingua vera e propria: se per parlare ho bisogno di dire "ho diritto di
parlare", vuol dire che il mio desiderio non conta, c'e' bisogno di una
legittimazione astratta e generica (il diritto appunto), e vuol dire che se
chi ho di fronte non mi vuole ascoltare io non ho risorse dentro di me per
cercare la strada di farmi ascoltare ma devo rinunciare (accontentandomi
della soddisfazione di essere dalla parte della ragione) o devo ricorrere
alla forza (legittima) di chi ha la forza di intervenire. (La tendenza della
cultura scolastica istituzionale e' di "educare alla legalita'" invece che
alla liberta').
Il diritto individuale, insomma, ha bisogno di un guardiano. Nonostante
abbia avuto un'origine indipendente dallo Stato, anzi contro lo Stato (i
diritti umani sono diritti "naturali"), il suo guardiano insormontabile e'
stato fino a poco fa lo Stato. Al punto che il linguaggio dei diritti e'
diventato la mediazione corrente nel rapporto tra individui e Stato: lo
Stato riconosce (se vuole) solo diritti, non esseri, costringendo a
diventare giusnaturalisti tutti coloro che vogliono intervenire contro le
violenze su donne e uomini. Quando ho chiesto a una responsabile di Amnesty
International perche' chiamava violazioni di diritti umani e non violazioni
di esseri umani gli assassinii, le incarcerazioni, le torture ecc., lei mi
ha risposto che e' perche' il loro intervento e' rivolto agli Stati. La
conseguenza di tutto cio' e' pero' una perdita di senso dell'essere umano.
Ora che il ruolo di guardiano l'ha preso un'organizzazione internazionale
(di fatto sovranazionale) come la Nato, gli effetti della perdita di senso
saltano agli occhi, con il balzo di qualita' dato dalla guerra come forma di
intervento: per difendere i diritti di alcuni si buttano bombe sui corpi di
altri e anche degli stessi di cui si difendono i diritti.
"Il diritto si invera con la sanzione", ha ricordato Lia Cigarini durante
una riunione a Milano al Circolo della Rosa, il 14 maggio scorso, in cui si
discuteva sulla guerra a partire dalla teoria contenuta nel libro di
Alessandra Nannei Ragione e sentimenti. Sulla differenza del comunicare
(Edizioni Scuola di Cultura Contemporanea, Mantova 1997). Secondo la Nannei
la guerra dipende dal venir meno di una gerarchia nei rapporti tra uomini,
essendo la gerarchia la risposta al bisogno simbolico maschile di sapere
come collocarsi al mondo; secondo Lia Cigarini il nuovo della guerra di oggi
e' un risultato anche del femminismo: "E' stato detto che questa guerra e'
stata fatta su alcune parole della sinistra: ingerenza umanitaria, diritti
umani ecc. C'e' corresponsabilita' politica delle donne in queste parole. Le
donne non sono piu' nella situazione della prima e della seconda guerra
mondiale, stanno facendo politica da trent'anni 'come soggetto politico'".
Si spiega allora "il silenzio delle donne" in questa guerra. E che le piu'
silenziose siano proprio le americane: "negli Stati Uniti c'e' un forte
movimento femminista che col politicamente corretto ha dato man forte alla
possibilita' di intervento armato a difesa dei diritti dell'umanita'".
*
Se si parla di diritti universali si cancella la differenza. E la differenza
e' indispensabile anche per capire che e' maschile il simbolico che prevede
un conflitto in cui e' in gioco chi vince e chi perde, e in cui chi perde
deve essere tendenzialmente distrutto. La pratica del movimento delle donne
non ha proposto un conflitto distruttivo, di distruggere i maschi. Ha
tentato un conflitto relazionale, cioe' di modificare la relazione. Questo
paradigma nuovo e' una risposta all'alternativa tra lo stare alla forza
(richiesto dal sistema dei diritti) e il sottrarsi interiormente alla forza
per non perpetuare il meccanismo del dominio, che proponeva Simone Weil. Si
tratta dell'autorita' che si genera nella pratica delle relazioni. E' la
scoperta della politica delle donne, vedere che la politica e',
propriamente, cio' che riesce a contrastare o sospendere il meccanismo dei
rappporti di forza, in assoluto (senza, cioe', dover ricorrere al meccanismo
dei rapporti di forza) (Luisa Muraro, in Oltre l'uguaglianza, Liguori,
Napoli 1995).
La cultura dei diritti frena la presa di coscienza di questa forma di
autorita', femminile.

6. RIFLESSIONE. PINA NUZZO: TRA GENERAZIONI. IL RICONOSCIMENTO, LA
RICONOSCENZA
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip/) riprendiamo il
seguente intervento di Pina Nuzzo tenuto alla Scuola estiva della
differenza, una esperienza che propone itinerari culturali, politici e
spirituali promossa a Lecce dal primo al 5 settembre 2006 dall'Universita'
di Lecce, l'Universita' Roma Tre e la Comunita' delle Benedettine. Pina
Nuzzo, apprezzata pittrice, e' una delle figure piu' prestigiose dell'Unione
delle Donne in Italia (Udi)]

C'e' stato un momento, diciamo alla fine degli anni '90, in cui la politica
mi e' apparsa confusa e sfuggente. Posso dire che si era esaurito un
dibattito serrato, iniziato negli anni '80, che aveva interessato femministe
storiche di diversa provenienza e pensatrici raffinate. Io, come tante
altre, ne ero rimasta affascinata e coinvolta e avevo cercato di seguire un
pensiero che si spostava sempre piu' dai luoghi della politica per
insediarsi nelle universita', nei centri, negli studi di genere, nelle pari
opportunita'. Ma ad un certo punto ho dovuto decidere se continuare sulla
strada dei convegni, delle scuole e delle comunita' o fermarmi per capire
che cosa mi era necessario.
Mi era - mi e' - necessaria la politica delle donne perche' e' lo spazio
simbolico in cui riesco a pensarmi e a rappresentarmi. La politica delle
donne per me e' sempre stata il luogo in cui si realizza una socialita'
femminile che prescinde dall'economia dei rapporti familiari e da quella
mondanita' che e' governata dalla rappresentazione dei ruoli. E' anche uno
spazio fisico, perche' io vengo dall'Udi dove la gestione e la cura delle
sedi sono strettamente intrecciate con la gestione e la cura dei rapporti.
Per uscire dalla confusione ho dovuto rinominare me stessa dentro un
percorso collettivo, cosi' come l'Udi insegnava, e perfino obbligava, a
fare. E ancora insegna.
Non potevo piu' percepirmi, o lasciare che le altre mi percepissero, come
"la giovane dell'Udi", dovevo accedere ad una forma adulta della politica
assumendo delle responsabilita' politiche in prima persona: verso di me,
verso il luogo politico e verso le donne con cui avevo diviso gran parte di
quella storia. Tanto piu' che questo sconcerto non affliggeva soltanto me ma
l'intero corpo dell'associazione.
Per riconoscermi ho dovuto rileggere gli ultimi venti anni di politica e
decidere cosa tenere e cosa invece era meglio abbandonare. Non e' stato
facile, non e' stato indolore perche' si trattava degli anni centrali della
mia vita e rivedere le scelte politiche che li avevano contraddistinti
poteva voler dire rompere equilibri o mettere in discussione relazioni
fondamentali per me.
Ho deciso di prendere in mano la situazione, di fare la responsabile della
sede nazionale autoproponendomi per questo incarico, ho dichiarato che
l'avrei fatto in modo diverso da quanto era avvenuto fino ad ora, ho trovato
su questo delle corrispondenze.
Avere l'ambizione di segnare la politica dell'Udi ha voluto dire dover
mettere una distanza tra me e la sua storia di sessant'anni, che puo'
travolgerti e annichilirti. Ho dovuto accettare il rischio di essere al di
sotto delle mie precedenti esperienze, delle mie stesse aspettative e di una
tradizione che ha avuto, ed ha, donne straordinarie. Alcune sono ancora oggi
presenti, non mollano, e ti obbligano a conquistarti lo statuto di adulta.
Guardandomi intorno mi ero resa conto che l'Udi era l'unica aggregazione
politica che, proprio in virtu' della sua lunga storia, poteva trovare lo
scatto necessario per dare fiato ai nuovi soggetti che si facevano avanti:
le giovani, le immigrate, le nuove emancipate.
Percepivo - per esempio osservando la quantita' e il tipo delle partecipanti
ai primi corsi di formazione politica delle pari opportunita' della
provincia di Lecce - che da loro veniva una domanda ma era necessario che
quelle donne fossero in grado di formularla e che l'Udi fosse in grado di
accoglierla con tutti gli elementi di novita' e di imprevisto di cui erano
portatrici. Dovevamo per questo ripensare la nostra visibilita', farci
individuare e renderci riconoscibili. Ma anche non cedere su questioni
fondamentali per un malinteso senso dell'accoglienza.
*
Per esempio: il separatismo. Questa parola nel corso di questi anni, e'
stata sospinta, insieme alla sua pratica, nelle soffitte del femminismo e da
li' ogni tanto viene tirata fuori per qualche cena dell'otto marzo.
Questa parola viene nominata di sfuggita o con fastidio. Quelle che non
l'hanno cancellata dal proprio vocabolario si affrettano ad aggiungere che
il separatismo e' solo uno strumento ed e' pure fuori moda.
Ma nell'Udi le parole vengono scritte nello statuto percio' siamo lente
nell'assumere le nuove pratiche, ma anche molto attente nel rimuovere quelle
vecchie... e di conseguenza e' una associazione di donne separatista. Cosa
si intende allora per separatismo? Cosa intendo io per separatismo?
Il separatismo non e' una pratica occasionale, lo si impara giorno per
giorno ed e' un modo di essere. Va da se' che questo modo di intendere la
politica non intacca e non ostacola gli amori e le scelte nelle singole
vite, ma ha molto a che vedere con il rapporto che le donne vogliono avere
tra loro e, a partire da questo, con il maschile in tutte le sue
configurazioni. La forza scardinante di questa pratica non sta nell'assenza
fisica dell'uomo, ma nel riconoscere anche la sola presenza fisica - il
corpo - delle donne con cui ci si trova. E a tutto questo dare senso, valore
e nome.
Il separatismo si impara e diventa un modo di essere, di percepire il mondo,
di comunicare. Io sono qui e parlo davanti a tutti, ma non sto parlando a
tutti. Sto parlando a tutte ma non con tutte: sto comunicando con quelle che
sono predisposte a riconoscere nelle mie parole un loro bisogno o una loro
necessita'.
Da questo consegue che l'Udi , da molto tempo ormai, da quel 1982 in cui
abbiamo solennemente azzerato l'originaria forma organizzativa, non e' il
luogo di un generico "tutte le donne" ma quello a cui puo' accedere ogni
donna che lo voglia.
Non si diventa dell'Udi perche' si fa parte di un'area politica o di un
sistema di relazioni o di un ceto.
*
Alle giovani donne ho mostrato chi io sono e dove sono. Le ho guardate,
ascoltate e ho colto in alcune la nostalgia per qualcosa che, per ragioni
anagrafiche, non hanno conosciuto direttamente ma di cui hanno solo sentito
parlare. Hanno nostalgia del femminismo, a volte vivono una sorta di invidia
per quello che immaginano che noi abbiamo vissuto e che loro non hanno.
Attraverso le nostre memorie e perfino attraverso il racconto dei nostri
conflitti guardano a noi come a una generazione di donne compatta e
solidale. E non importa se sia vero, importa che partano da questo confronto
per nominare una solitudine che nasce da quelli che io, prima di conoscerle,
avrei nominato come vantaggi. Mi ha sorpreso rendermi conto che tutto quello
che noi abbiamo conquistato e che ha contribuito alla costruzione della
liberta' nostra e pensavamo di tutte, si configura nelle loro vite come una
faticosa gestione.
Le lotte in cui ci siamo impegnate, le leggi che abbiamo conquistato sono
state un nostro personale guadagno e ci hanno reso riconoscibili, tra noi ma
anche socialmente. A partire da quanto abbiamo realizzato, e di cui siamo
giustamente orgogliose, non sappiamo come comportarci di fronte a certe
scelte delle nostre figlie o di giovani conoscenti che ci sembrano in aperta
contraddizione non solo con la liberta' ma anche con la dignita'.
Forse dobbiamo riflettere su quanto di questa liberta' che noi abbiamo
perseguito si e' trasformato in un vero e proprio prendersi delle liberta'
per un compagno apparentemente infragilito, su quanto lo ha rafforzato, su
quanto lo ha reso invasivo. Il punto non e' tornare indietro ma capire che
la lotta non e' finita e che anche la liberta' e' un processo collettivo
delle donne, che va governato insieme.
Se una giovane donna pensa di dover fare da sola perche' si sente
continuamente sollecitata - dalla madre carnale e/o dalle madri simboliche -
ad essere all'altezza, a noi non svela dove si annidano oggi gli inganni del
patriarcato e i nuovi conflitti che si sono determinati tra i generi, alle
sue coetanee si rende irriconoscibile. Capire qualcosa delle donne giovani
con cui mi trovo a contatto, in gran parte perche' vengono a consultare
l'archivio dell'Udi, e' uno sforzo notevole perche' devo continuamente agire
su di me per non cadere nel pregiudizio o peggio ancora nel maternalismo.
Se qualcuna mi racconta gli appassionamenti per il suo partito io non posso
leggerli con la categoria che a suo tempo abbiamo chiamato doppia militanza.
I partiti non sono certo cambiati ma siamo cambiate noi e si tratta di
riconoscere in quella donna la novita'.
Ho sentito l'insofferenza di alcune che, pur sentendosi attaccate
personalmente di fronte all'ipotesi di una modifica della legge 194, non
sopportavano i miei discorsi sulla contraccezione. Ho riconosciuto in queste
donne una paura che avevamo anche noi e che poi abbiamo accantonato e che
ciascuna ha imparato a gestire per come poteva e per come sapeva.
La contraccezione libera le donne dalla paura dell'aborto ma non migliora
automaticamente la sessualita' e puo' dare il senso che il corpo delle donne
sia sempre disponibile e lasciare a loro tutte le responsabilita', almeno
fino al concepimento, perche' abbiamo visto che le cose cambiano.
Che la contraccezione fosse pensata per una sessualita' che corrisponde ad
una idea maschile del sesso ci era chiaro anche negli anni '70, ma noi
avevamo il problema della paura di morire d'aborto clandestino. Oggi che
questa paura si puo' evitare - molte lo sanno - dobbiamo leggere in alcuni
modi di essere e in alcuni comportamenti delle giovani un modo per nominare
l'integrita' del proprio corpo.
Ascoltare questo bisogno e ricordarsi cosa puo' significare ci aiuta a
rileggere i nostri corpi di donne di diverse generazioni per come sono oggi.
In comune abbiamo il dovere di ripensare come rappresentare i nostri corpi e
la loro inviolabilita', e per le giovani questo e' piu' urgente. Non sarei
tornata su questo pensiero se non avessi parlato con tutte loro nel corso di
questi anni. Di questo sono loro riconoscente.

7. LETTURE. ELENA LIOTTA: LA MASCHERA TRASPARENTE
Elena Liotta, La maschera trasparente. Apparire o essere?, La Piccola
Editrice, Celleno (Vt) 2006, pp. 144, euro 12. Aperto da una citazione di
Ronald D. Laing e concluso da una filastrocca di Gianni Rodari, questo
saggio di Elena Liotta - psicoterapeuta, pubblica amministratrice, docente,
saggista, amica della nonviolenza - svolge un'ampia trama di riflessioni
facendo risuonare le voci di maestre e maestri antichi e recenti ed
arricchendone il dettato con le esperienze e riflessioni dell'autrice; un
libro che si situa in quella longeva e inesauribile tradizione tanto
orientale quanto occidentale delle opere che aiutano a respirare, a
considerare la vita, a trovar consolazione nella comune umanita', ma anche -
come attesta esplicitamente l'autrice nella premessa e come conferma la
bibliografia finale - un omaggio alle autrici e agli autori piu' amati della
propria medesima formazione, una paideia preziosa in cui compaiono non pochi
volti e voci che anche chi scrive queste righe non cessa di amare. Per
richieste: La Piccola Editrice, via Roma 5, 01020 Celleno (Vt), tel. e fax:
0761912591, e-mail: convento.cel at tin.it, sito:
www.conventocelleno.it/lapiccola.index.htm

8. RIEDIZIONI. NAZIM HIKMET: POESIE
Nazim Hikmet, Poesie, Mondadori, Milano 1963, 2002 (col titolo Poesie
d'amore), Gruppo editoriale L'espresso, Roma 2006, pp. XVI + 222, s.i.p. (ma
euro 6,90, in supplemento al settimanale "L'espresso"). Nella classica
traduzione dell'indimenticabile Joyce Lussu, una scelta dei versi del grande
poeta e rivoluzionario turco.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1440 del 6 ottobre 2006

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