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Nonviolenza. Femminile plurale. 84
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 84
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 5 Oct 2006 11:26:10 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 84 del 5 ottobre 2006 In questo numero: 1. Emily Dickinson: Parlando 2. Cati Schintu: Il femminicidio guatemalteco 3. Giovanna Providenti: Storia di Nazarena 4. Manuela De Leonardis intervista Farida Benlyazid e Moumen Smihi 5. Riletture: Renate Siebert, Le donne, la mafia 6. Riletture: Renate Siebert, La mafia, la morte e il ricordo 7. Riletture: Renate Siebert, Mafia e quotidianita' 8. Riletture: Renate Siebert (a cura di), Relazioni pericolose 1. MAESTRE. EMILY DICKINSON: PARLANDO [Da Emily Dickinson, Lettere, Bompiani, Milano 2000, p. 182. E' un frammento da una lettera al cugino Perez Cowan dell'ottobre 1869 (la traduzione e' quella, classica, di Margherita Guidacci). Emily Dickinson visse ad Amherst, Massachusetts, tra il 1830 e il 1886; molte le edizioni delle sue poesie disponibili in italiano con testo originale a fronte (tra cui quella integrale, a cura di Marisa Bulgheroni: Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005; ma vorremmo segnalare anche almeno la fondamentale antologia curata da Guido Errante: Emily Dickinson, Poesie, Mondadori, Milano 1956, poi Guanda, Parma 1975, e Bompiani, Milano 1978; e la vasta silloge dei versi e dell'epistolario curata da Margherita Guidacci: Emily Dickinson, Poesie e lettere, Sansoni, Firenze 1961, Bompiani, Milano 1993, 2000); per un accostamento alla sua figura e alla sua opera: Barbara Lanati, Vita di Emily Dickinson. L'alfabeto dell'estasi, Feltrinelli, Milano 1998, 2000; Marisa Bulgheroni, Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson, Mondadori, Milano 2002] Parlando ci facciamo meno male che a scrivere, perche' allora una quieta inflessione di voce addolcisce le parole in se' troppo dure. 2. MONDO. CATI SCHINTU: IL FEMMINICIDIO GUATEMALTECO [Da "A. rivista anarchica", anno 36, n. 320, ottobre 2006, riprendiamo il seguente testo (disponibile anche nel sito www.arivista.org). Cati Schintu, intellettuale femminista e libertaria, scrive su "Donne in viaggio", e' webmaster del sito di "A. Rivista anarchica"] Claudina Isabel Velasquez Paiz aveva 19 anni, studiava giurisprudenza all'Universita' di Citta' del Guatemala. Il 12 agosto 2005 e' uscita da casa per andare all'universita' ed e' stata l'ultima volta che i suoi familiari l'hanno vista viva. Il suo corpo e' stato ritrovato il giorno dopo: era stata stuprata, torturata e poi uccisa con un colpo di pistola alla testa. Quella di Claudine e' una delle tante storie di donne che in Guatemala, ogni anno, vengono uccise. L'ultimo Rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo (1) dedica un capitolo al "femminicidio", termine coniato dai movimenti femministi latinoamericani per differenziare e sottolineare l'aspetto politico degli omicidi contro le donne: nel 2005 in Guatemala sono state assassinate 665 donne su una media di oltre 5.000 omicidi, 527 nel 2004, 2.600 negli ultimi 5 anni, e il dato e' in costante aumento. Quasi tutte sono state prima torturate e violentate. La gran parte degli omicidi rimane impunita, nei rari casi in cui viene aperta un'inchiesta le indagini vengono svolte con superficialita' e negligenza, anche perche', come denunciano le organizzazioni per i diritti umani, in molti casi sono gli stessi poliziotti ad essere coinvolti nei crimini. In continuo aumento anche la violenza domestica: nel 2003 i tribunali hanno esaminato una media di 1.200 denunce al mese, e il numero pur cosi' alto e' sicuramente sottostimato rispetto alla reale portata del fenomeno. Negli ultimi anni sono cresciute le violenze contro le attiviste politiche, un dato reso ancora piu' inquietante dal fatto che in Guatemala sono state proprio le donne a svolgere un ruolo determinante nella costruzione di spazi democratici e nella difesa dei diritti umani. * Forti squilibri economici e sociali Il Guatemala e' uno dei paesi piu' poveri e violenti dell'America Latina, caratterizzato da forti squilibri economici e sociali, dalla violenza della criminalita', quella comune e quella organizzata delle narcomafie e dei gruppi paramilitari. La sua storia recente, come quella di gran parte dei Paesi latinoamericani, e' stata contrassegnata dall'interventismo Usa. Nel 1954 gli Stati Uniti appoggiano un colpo di stato per rovesciare il governo democraticamente eletto del presidente Jacobo Arbenz Guzman, che aveva avviato importanti riforme per modernizzare il Paese. In particolare, aveva promosso una vasta riforma agraria che prevedeva l'esproprio delle terre incolte per ridistribuirle ai contadini. La riforma incontra la dura opposizione dei grandi proprietari terrieri, tra cui la United Fruit Company, la potente multinazionale statunitense proprietaria di piu' di mezzo milione di acri di terra, che in Guatemala controlla la rete telegrafica e ferroviaria e l'unico scalo marittimo sull'Atlantico. Col pretesto del "pericolo comunista", la Cia mette a punto il colpo di stato (nome in codice "Operation Success", come rivelera' quarant'anni piu' tardi la pubblicazione dei documenti segreti dell'agenzia americana), e insedia il dittatore Carlo Castillo Armas, il quale abroga la riforma agraria, bandisce partiti e sindacati, reprime nel sangue l'opposizione politica. Inizia cosi' un periodo di dittature tra le piu' brutali del continente, sostenute militarmente ed economicamente dagli Stati Uniti, che dagli anni '50 in poi attuano una politica di controllo di tutta l'area: e' qui che la Cia addestrera' militarmente alcune migliaia di fuoriusciti cubani anticastristi per l'invasione della Baia dei Porci a Cuba nel 1961, fallita clamorosamente grazie alla reazione dell'esercito e della popolazione. Il culmine del terrore in Guatemala si raggiunge negli anni '80 con le dittature del generale Romeo Lucas Garcia ('78-'82) e del generale Efrain Rios Montt ('82-'83), che oltre alla brutale repressione di qualsiasi forma di opposizione, attuano una politica di genocidio nei confronti degli indigeni Maya. I gruppi della guerriglia, di ispirazione marxista, si uniscono per formare l'Unidad Revolucionaria Nacional de Guatemala (Urng). Dopo il trattato di pace del 1996 che pone fine a 36 anni di conflitto armato tra le forze governative e l'Unita' rivoluzionaria guatemalteca, la societa' civile, tra cui si distinguono le organizzazioni delle donne, chiede a gran voce che venga fatta luce sulle violenze dei militari contro la popolazione. I numeri, documentati dalla Comision para el esclarecimiento historico (Ceh - Commissione per il chiarimento storico), promossa dalle Nazioni Unite, sono impressionanti: 200.000 vittime, quasi tutti indigeni, 75.000 desaparecidos, un milione gli sfollati, centinaia i villaggi bruciati e distrutti. Il ricorso allo stupro da parte dei militari, soprattutto contro le indigene, e' stato massiccio e sistematico. Il rapporto dell'Onu "Memoria del silenzio", quello dell'arcivescovado del Guatemala, "Nunca Mas", costato la vita al vescovo Gerardi, e il libro-denuncia del Nobel per la pace Rigoberta Menchu', hanno documentato e reso pubbliche centinaia di testimonianze sul genocidio. * Indagini sui massacri dei regimi militari Conavigua (Coordinadora Nacional de Viudas de Guatemala), il coordinamento nazionale delle vedove Maya, e' nato nel 1988 con lo scopo di individuare le fosse comuni che raccolgono i resti dei desaparecidos e ottenerne la riesumazione. Si occupa di indagare sui massacri, cerca i sopravvissuti, i testimoni dei fatti, per conoscere i luoghi delle sepolture e i nomi dei carnefici. Le donne di Conavigua lavorano con gli esperti della Fondazione di antropologia forense, che identificano i resti e stabiliscono le cause e le modalita' della morte: soltanto a questo punto i familiari dei desaparecidos possono denunciare all'autorita' giudiziaria i responsabili. Fino ad oggi, grazie all'attivita' di Conavigua che continua ad operare nonostante le intimidazioni e gli ostacoli burocratici, sono stati identificati e riesumati i corpi di oltre 500 desaparecidos. Ma a dieci anni dalla firma del trattato, nessuno dei responsabili dei crimini contro la popolazione e' stato incriminato, la gran parte ricopre ancora incarichi militari e politici. La corruzione del sistema di potere ha raggiunto livelli altissimi e la sostanziale complicita' e continuita' con gli apparati politici ed economici delle precedenti dittature sta devastando una societa' profondamente segnata da 36 anni di conflitto e da una violenza diffusa. L'attuale governo, retto da Oscar Berger, conservatore, latifondista e uomo d'affari, e' formato da una coalizione eterogenea, che rappresenta soprattutto le elite imprenditoriali, latifondiste e militari, e in cui la maggioranza degli eletti proviene dal Frg, il Frente Republicano Guatemalteco, il partito dell'ex dittatore Rios Montt. Nella squadra di governo figurano soltanto due indigeni, che pure rappresentano la maggioranza della popolazione. Eletto nel 2004 grazie a una campagna incentrata sul ripristino della legalita' e sulla difesa delle fasce piu' deboli, Oscar Berger non ha finora affrontato nessuno dei problemi piu' urgenti, e oltre a perpetuare un sistema di potere e di privilegi che condanna all'esclusione gran parte della societa' guatemalteca, ha consolidato politiche neoliberiste e accordi commerciali con gli Stati Uniti che stanno ulteriormente impoverendo il Paese. L'ultimo, in ordine di tempo, e' il trattato di libero Commercio con gli Usa (Tlc-Cafta), ratificato lo scorso anno, contro il quale si sono svolte imponenti manifestazioni di protesta, violentemente represse dalla polizia. * Mano libera alle multinazionali Per aggirare il dissenso crescente dei Paesi latinoamericani alle imposizioni commerciali statunitensi e in particolare all'Alca, il progetto di un'area di libero commercio che richiede l'assenso di tutti gli Stati del Nord, Centro e Sud America (ad eccezione di Cuba), gli Stati Uniti stanno tentando di concludere accordi separati con i singoli Stati, i Tlc appunto. Uno dei grandi pericoli di questi trattati consiste nel fatto che non si limitano a regolare il commercio, ma si estendono a temi come la privatizzazione dei servizi, la proprieta' intellettuale e la brevettabilita' delle forme di vita animale e vegetale. In base agli articoli del Tlc, le multinazionali che investiranno in Guatemala avranno mano libera nell'utilizzo delle risorse e della manodopera, per contro lo Stato non avra' alcun potere di intervento, ne' la societa' civile avra' strumenti per difendere i propri diritti. Esemplificativo e' il caso del Marlin Project, il megaprogetto di estrazione dell'oro della multinazionale mineraria canadese Glamis Gold nel territorio indigeno di San Marcos. Il progetto, sostenuto dalla Banca Mondiale che partecipa con un prestito di 35 milioni di dollari, prevede lo sfruttamento intensivo del territorio per un periodo complessivo di 13 anni, che garantira' all'impresa utili per 707 milioni di dollari. Solo l'1% rimarra' in Guatemala, sotto forma di royalties pagate in cambio della concessione. Agli indigeni restera' un ambiente completamente degradato, con la distruzione delle montagne (secondo lo studio di impatto ambientale verranno polverizzati 38 milioni di tonnellate di rocce) e suoli, fiumi e falde contaminate, in cambio di 1.400 posti di lavoro nel primo anno e 180 nei dieci successivi. Cosi' come sta crescendo progressivamente il numero di maquiladoras, fabbriche di assemblaggio che operano con contratti di subappalto, in gran parte aperte dalle multinazionali che sfruttano mano d'opera a basso costo e dove si lavora senza alcuna garanzia. Secondo l'Unamg, Union Nacional de Mujeres Guatemaltecas, "gli effetti del Tlc colpiranno soprattutto le donne, che gia' pagano un prezzo pesante nel mercato del lavoro, a causa della disoccupazione, della discriminazione, della mancanza di accesso ai servizi di base e dell'estrema poverta'". * Proprieta' della terra e questione indigena Ma il nodo centrale in Guatemala, che vede la mobilitazione del movimento degli indigeni, dei contadini, delle donne, degli studenti, e' quello della proprieta' della terra, indissolubilmente legato alla questione indigena. Secondo le stime ufficiali, si calcola che il 2,2% dei proprietari terrieri possiede il 65,49% della terra coltivabile, mentre l'89,8% dei contadini ne possiede solo il 2,29%. Inoltre, su 10,8 milioni di ettari di terra solo 5,2 milioni sono coltivabili, e di questi circa la meta' sono lasciati incolti dai latifondisti. Le comunita' indigene rivendicano la proprieta' legittima delle loro terre, di cui sono state espropriate perche' non avevano titoli di possesso riconosciuti dalle autorita'. La storia degli espropri delle terre ai Maya e' intessuta di violenze e intimidazioni da parte dei grandi latifondisti, che con la protezione della polizia e dell'esercito hanno usurpato le terre comunitarie degli indigeni - ridotti a lavorare come manodopera a basso costo e in condizioni di sfruttamento brutale - fino ad arrivare ai massacri ordinati dai passati regimi. Il ritorno a governi democraticamente eletti non ha modificato in modo sostanziale le condizioni di vita degli indigeni, che ancora oggi subiscono i maggiori livelli di discriminazione, marginalizzazione e poverta', ne' e' riuscito a garantire un giusto risarcimento alle vittime dei 36 anni di conflitto interno per i crimini commessi dall'esercito, rimasti totalmente impuniti. Negli ultimi decenni le comunita' indigene hanno creato forme di lotta organizzata per il riconoscimento dei loro diritti sulla terra e per riaffermare la dignita' della loro lingua e della loro cultura, rivendicano un equo accesso alla sanita' e all'istruzione in un sistema scolastico che sia multiculturale. Un interessante laboratorio democratico e' costituito dall'esperienza delle Cpr, le Comunita' popolari di resistenza, create durante gli anni del genocidio dagli indigeni che per sfuggire ai massacri si rifugiavano nelle montagne e nelle foreste. La gran parte delle Cpr si e' sciolta dopo gli accordi di pace del 1996, altre ancora sono rimaste e hanno formato nuove organizzazioni comunitarie e di mutuo soccorso che gestiscono insieme le risorse della terra, curano progetti di alfabetizzazione, studiano e fanno informazione sugli effetti devastanti del libero mercato. Le organizzazioni indigene del Guatemala oppongono alle politiche liberiste del governo una concezione comunitaria dell'uso delle risorse, una pratica che ha consentito finora la salvaguardia dell'ambiente e delle numerose biodiversita' colturali. Una pratica in cui le donne occupano un ruolo importante: e' a loro che tradizionalmente e' affidata la responsabilita' della selezione delle sementi per il consumo domestico, di quelle da utilizzare per la nuova semina e di quelle destinate a essere vendute o barattate. Le modalita' di selezione e stoccaggio delle sementi, che si trasmettono oralmente di madre in figlia, hanno permesso ai discendenti dei Maya di conservare una straordinaria gamma di varieta' di mais, la loro pianta sacra. Come ha affermato Vandana Shiva, fisica, ambientalista, direttrice della Research Foundation for Science, Technology and Ecology (India), durante l'ultimo vertice mondiale sull'alimentazione organizzato dalla Fao, "Chi nutre concretamente il mondo sono le donne rurali, perche' sono piu' numerose, producono di piu' e con minori risorse. Le donne rurali sono le guardiane della biodiversita'. Non hanno bisogno del sostegno patriarcale: esse, e la loro esperienza, sono le risorse del futuro". * Note 1. www.amnesty.it/pressroom/ra2006/index.html?page=ra2006 3. PROFILI. GIOVANNA PROVIDENTI: STORIA DI NAZARENA [Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) riprendiamo il seguente articolo. Giovanna Providenti (per contatti: providen at uniroma3.it) e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha", Firenze-Pisa 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori] Le grate, che la separavano dal resto del monastero e rivestite di telo, le consentivano di comunicare "solo il necessario". Invece la finestra, da cui entravano i rumori del mondo in un periodo storico che ha visto incredibili trasformazioni nei costumi e nelle abitudini di uomini e donne, era sempre aperta. E queste due componenti, da una parte di deserto e silenzio e, dall'altra, di apertura massima al mondo, si colgono bene in cio' che e' rimasto di lei: lettere scritte alla madre superiora e al padre spirituale, e ricordi di poche monache con cui talvolta condivideva - separata dalla grata - il lavoro manuale della preparazione delle palme. E' la storia di Nazarena, nata il 15 ottobre 1907 nel Connecticut e morta a Roma nel 1990, nella stessa cella dove ha vissuto da reclusa gli ultimi 45 anni della sua intensa vita. In un periodo storico in cui le donne hanno raggiunto la liberazione attraverso il femminismo, Nazarena sceglie un percorso di liberta' molto differente, perseguendo una ricerca spirituale assoluta, non solo eremitica, ma da anacoreta, come lei stessa specificava. "Sgombrare il cuore da tutto", nutrirsi solo con acqua e pane con qualche goccia d'olio, dormire sopra una croce su una tavola di legno, vestire con abiti di sacco cuciti alla bene e meglio e ricoperti di velo bianco, stare sempre senza calze, intrecciare palme per almeno dieci ore al giorno e fare uso di "strumenti di penitenza", e' stato il modo che Nazarena ha trovato per essere libera, dedicandosi solo all'essenziale, e amando con tutta se stessa: "disposta ad accettare con amore forte e generoso, checche' possa essere". Nel 1988 cosi' si rivolgeva, attraverso la grata, ad una sua consorella: "E' quello che desideravo, qui: soffrire tanto. Io l'accetto ben volentieri. E' essenziale perche' dia frutto la mia vita. Il pensiero che Dio guarda il mondo, che guarda con compiacenza all'anima, e' una grande consolazione, e mi aiuta a distaccarmi da tutto e a seguire questo cammino fedelmente... Si diviene sempre piu' poveri. In ogni momento o si va avanti o si va indietro - dipende dall'intensita' con la quale si agisce. E si deve ricordare che ogni piccola cosa ha il suo valore. Ma poi, quanta pace!". * Ma perche' raccontare, in una rivista come "Noidonne", lontana da afflati religiosi, la storia di una monaca camaldolese, che assomiglia piu' a una mistica medievale che a una nostra contemporanea? La risposta non risiede soltanto nell'indiscutibile interesse che suscita la storia di Nazarena: al secolo, Giulia Crotta, figlia di contadini, emigrati dalla provincia di Piacenza, negli Stati Uniti d'America, dove, promettente musicista, diplomata al conservatorio e laureata in lettere, vive i primi trenta anni della sua vita. Una giovane donna attiva, emancipata e istruita, che, per mantenersi agli studi, aveva persino lavorato come ballerina in un locale di New York. "Tutt'altro che predisposta all'estasi mistica e alle visioni", come ci informa Thomas Matus, il suo biografo, intorno ai ventisei anni Giulia fa un'esperienza che le avrebbe cambiata la vita: nella notte tra il venerdi' ed il sabato santo del 1934 rimane sola nella cappella buia del collegio universitario da lei frequentato. Dopo molte ore di silenzio e di buio, sente chiamare il suo nome, e voltandosi alla voce che la invitava a seguirla nel deserto: "vide l'amore - un amore cosi' grande non lí'aveva mai conosciuto in vita sua". Dopo questa esperienza Giulia inizia a frequentare la chiesa con piu' assiduita' e a praticare gli esercizi spirituali. In seguito, sempre piu' decisa a intraprendere la via monacale che porta al deserto, inizia una estenuante ricerca, irta di ostacoli e grandi incomprensioni. Ritenuta "dalla mentalita' non normale e lo spirito facile alla illusione", come recita la relazione negativa trasmessa al vaticano da parte del Convento delle Carmelitane scalze di Newport, Rhode Island, da cui viene cacciata via per la prima volta nel 1937, viene (dopo essersene dovuta andare altre volte da altri conventi sia americani che italiani) infine accolta, nel 1945, in una Roma affamata e occupata, nel poverissimo convento camaldolese dell'Aventino, in cui la sua presenza silenziosa e amorevole viene ancora oggi ricordata come uno dei maggiori contributi alla crescita spirituale della comunita'. * Perche' raccontare? Non e' solo curiosita'. Mi interessa il portato simbolico, caro al femminismo, di ricerche di vita, e di liberta' femminile, cosi' radicali. Certamente il primo riferimento dovuto e' a "Il Dio delle donne" di Luisa Muraro, che individua nella mistica femminile (da lei definita teologia in lingua materna) un "pensiero di donne che avevano (e hanno) con Dio un rapporto di straordinaria confidenza e di suprema liberta'". Il secondo e' a Carla Lonzi che in "E' gia' politica" si dichiarava attratta dall'esperienza della clausura: "astratta come l'amore, concreta come la sofferenza". Scrive Lonzi: "non vedevo limiti alla loro capacita' di indagare e dubitare: le risorse erano cercate dentro di se' pur nella coscienza che non esistono risorse adeguate... sebbene sembra che rinuncino a tutto, mi e' chiaro che non hanno rinunciato all'essenziale. Anzi, mi hanno rivelato qual e' questo essenziale". Leggendo le lettere di questa monaca, ho capito che ci voleva il femminismo per comprendere che l'insistente ricerca di svolgere la propria vocazione in maniera cosi' intensa, "prendendo l'abitudine di vivere con tutte le forze solo il momento presente, gettando in questo tutto l'amore di cui si e' capace... cercando solo il necessario e ricominciando continuamente da capo" (Nazarena), non era frutto di una mente malata e "facile alle illusioni". Era piuttosto l'esperienza di una donna in grado di "raccapezzarsi nelle sottigliezze che distinguono l'inganno dalla verita' in un vissuto" e di dare "senso all'hic et nunc di qualsiasi scoperta" (Lonzi). Per Nazarena, come per Carla Lonzi, l'essenziale sta nella liberta' e autenticita' dell'essere: nello stare sempre al limite, in pienezza di liberta' e amore. Uno dei capitoli del libro di Muraro si intitola "L'intelligenza dell'amore", intesa come cio' che sta alla base della disponibilita' al continuo cambiamento di se', al far spazio al desiderio piuttosto che alla volonta', e al dare primato alla relazione, all'apertura all'altro. Tale "intelligenza", diviene uno strumento prezioso di trasformazione, per la sua capacita' di cogliere l'interconnessione tra me e l'altro/a ed il valore di ogni piccola azione. In una lettera del 1977 Nazarena scrive: "forse la mia povera vita nascosta, sterile e sprecata in apparenza, ha aperto e apre le porte eterne a tante anime la cui vita fu trascorsa in stato di peccati mortali, appunto perche', ben consapevole che tutto cio' che faccio e' difettoso e merita di essere rigettato, io lo valorizzo e divinizzo, mediante una fede vivissima, una speranza sconfinata e un amore ardente...". Soffrendo, umiliandosi, e facendo vuoto dentro e fuori, Nazarena tocca le parti piu' profonde e dolorose di se', entrando cosi' in contatto con il dolore di ciascun essere umano: "viveva nel proprio corpo la condizione dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati, delle vittime di ogni guerra", scrive il suo biografo. E Nazarena stessa: "Piu' mi ritiro in Dio, nel silenzio piu' profondo, in Lui e con Lui, piu' mi sento vicina a tutti; piu' trovo tutti; piu' desidero di fare i miei piccoli sforzi per aiutare tutti secondo la mia vocazione, senza che si veda qualsiasi frutto. Deve essere una vita di fede pura e nuda: devo dare tutto senza vedere nulla, senza sapere nulla di quella donazione per amore". * Io credo che quello di Giulia-Nazarena assomigli a una sorta di viaggio vissuto, dopo la scelta anacoretica, tutto all'interno della circonferenza esistenziale. Come se dopo aver girato intorno volesse scoprire cosa ci fosse dentro l'universo esistenziale di una donna: e ci avesse trovato una relazione privilegiata con Dio. Attraversando la sua biografia, ci si accorge che Giulia-Nazarena aveva come una sorta di dono suo particolare: un misto tra caparbieta' e umilta', determinazione e sottomissione, in conciliazione tra loro invece che in opposizione. Un dono che l'ha aiutata a creare una possibilita' altra per la sua vita, ad essere fondatrice di un nuovo ordine monacale, come lei stessa si proponeva nelle sue lettere. E anche a dare a tutte noi una possibilita' ancora di "allargare l'orizzonte, alzare il cielo" (come dice Luisa Muraro). E un esempio in piu' di liberta' femminile. * Bibliografia - Thomas Mathus, Nazarena, una monaca reclusa nella comunita' camaldolese, Ed. Camaldoli-Pazzini, Camaldoli, 1998. - Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003. - Carla Lonzi, "Itinerario di riflessioni", in E' gia' politica, Rivolta femminile, Milano 1977. 4. RIFLESSIONE. MANUELA DE LEONARDIS INTERVISTA FARIDA BENLYAZID E MOUMEN SMIHI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 settembre 2006. Manuela De Leonardis si occupa di arti visive. Farida Benlyazid, intellettuale marocchina, e' sceneggiatrice e regista cinematografica. Moumen Smihi (Tangeri 1945), intellettuale marocchino, studi di semiologia, antropologia e cinema a Parigi, e' regista cinematografico, docente e saggista] Farida Benlyazid, regista di un altro Marocco Sopra il campanello c'e' scritto Farida in stampatello, nero su bianco. Il portone e' nella strada del vecchio consolato italiano, appena fuori dalla kasbah. Farida Benlyazid (nata a Tangeri nel '48) avanza nel giardino quadrato facendo ondeggiare la collana d'argento sulla lunga jallaba a righe bianche e grigie, sobria ed elegantissima. I capelli molto corti e appena un vezzo di femminilita' quando si alza per andare a mettere gli orecchini di fronte alla macchina fotografica. Un te' - Early Grey della piu' nota marca inglese - nelle tazze di porcellana nel salottino del primo piano di questa antica dimora che ricorda la scenografia di una piece teatrale. Una scala di legno scuro porta piu' su. Dopo aver vissuto per anni a Parigi, dove dal '74 ha studiato lettere all'universita' e cinema all'Institut des hautes etudes cinematographiques (Idhec), oggi la Benlyazid non ama molto spostarsi da Tangeri. Nei mesi estivi abita in questa grande abitazione che appartiene alla famiglia del marito, d'inverno invece si trasferisce in una casa piu' piccola e calda nella vicina kasbah. E' lei l'autrice delle sceneggiature di Una breche dans le mur ('77) e Poupees de roseaux ('81), del regista marocchino Jillali Ferhati, suo maestro e compagno ai tempi di Parigi. Il debutto come regista avviene qualche anno dopo con Une porte sur le ciel ('88), seguito da Ruses de femmes ('99) e Casablanca, Casablanca (2003). Nel '91 ha fondato la Tangitania Films che produce per il cinema e per la televisione. Juanita de Tanger, dopo San Sebastian (2005), Tangeri, Milano (2006), e' stato selezionato per il gran premio dell'Ima (Istitut du Mond Arabe) alla VIII biennale del cinema arabo di Parigi nel luglio scorso, ed e' stato in gara al Festival international du film de femmes di Sale' (5-9 settambre), presso Rabat, seconda edizione di un festival internazionale delle donne (che quest'anno le ha reso omaggio assieme all'attrice tunisina Hind Sabri). - Manuela De Leonardis: In Juanita de Tanger ha detto che Tangeri funziona come specchio. Alla giovinezza della protagonista corrisponde una citta' di feste e balli in tutto il suo splendore; alla sua vecchiaia, invece, una citta' decadente e abbandonata che vive solo nel ricordo... - Farida Benlyazid: Il film e' basato sul romanzo di Angel Velasquez, La vida perra de Juanita Narboni, del '76. Velasquez e' uno scrittore di Tangeri che conosco da trent'anni, e' stato lui a darmi questo bellissimo libro. Pero' c'e' voluto parecchio tempo per trasformarlo in film. Grazie al programma Medea, uno scambio tra la riva sud e quella nord del Mediterraneo, e un accordo tra la tv spagnola e il Centro cinematografico marocchino, la parte finanziaria e' stata risolta. Il film e' stato girato in sei settimane, nell'estate 2004. Il romanzo e' un monologo e quindi tutti i personaggi si costruiscono sulla base stessa del monologo. La narrazione non e' continua, e' un continuo andare avanti e tornare indietro nel tempo. Percio' la costruzione del film, in fase di montaggio, e' stata abbastanza difficile. Anche la sceneggiatura e' stata riscritta piu' volte, nel corso di quattro anni. - Manuela De Leonardis: Il film e' in lingua spagnola? - Farida Benlyazid: Prevalentemente si', anche se e' lo spagnolo di Tangeri e non quello che si parla in Spagna. Ma c'e' anche l'inglese, l'arabo e il francese perche' il film e' stato girato appunto a Tangeri, citta' cosmopolita. Del resto anche nel libro c'e' questo cosmopolitismo tangerino. E poi a Tangeri tutti sono strani! Ho conosciuto Paul Bowles, ero amica di Mohammed Choukri, autore del romanzo Il pane nudo. Burroughs lo vedevo in giro, come pure Beckett. Una volta ho incontrato Jean Genet in treno... Non c'era una forma di mito verso queste persone, era normale vederli per Tangeri. - Manuela De Leonardis: Come nasce il suo amore per il cinema? - Farida Benlyazid: Quando ero piccola Tangeri era una citta' internazionale. A mia mamma piaceva molto il cinema e ci andavamo spesso. Guardavo film americani, francesi, italiani, indiani, egiziani e da ciascuno ho preso qualcosa. Tra gli italiani sicuramente Fellini, Antonioni, Rossellini. Certo, all'epoca, decidere poi di andare a studiare cinema a Parigi non fu facile. La mia famiglia non era assolutamente contenta. Ovviamente da filmaker, come nel caso di Juanita de Tanger, prediligo storie "al femminile" (e' normale, e' il mio mondo) e che, come nel caso del mio film d'esordio Une porte sur le ciel, non abbiamo timore a confrontarsi con l'Islam. - Manuela De Leonardis: Non sono molte le registe in Marocco... - Farida Benlyazid: Prima ero da sola, ma adesso ce ne sono molte. Ad esempio Narjiss Najjar, la regista di Les yeux secs; Yasmine Kassari che con il suo L'enfant endormi ha vinto parecchi premi internazionali; Leila Marrakchi la regista di Marock, Zakia Tahiri... - Manuela De Leonardis: Circa la situazione attuale in Marocco pensa che effettivamente ci sia stata una svolta culturale con il nuove re Mohammed VI, salito al trono nel 1999? - Farida Benlyazid: Penso di si'. Dopo un lungo periodo in cui la cultura non ha avuto un grande sviluppo ne' appoggi ora sta succedendo qualcosa di importante. Mohammed VI sta cambiando molte leggi a favore della donna, sul codice di famiglia, sul matrimonio, sul divorzio... - Manuela De Leonardis: I registi marocchini girano film a Ouarzazate? - Farida Benlyazid: Gli studi cinematografici di Ouarzazate sono adatti solo ai kolossal, alle grandi produzioni per lo piu' straniere. Girare la' e' costosissimo perche' vuol dire costruire scenografie e, dato che non ci sono molti soldi, i registi marocchini preferiscono girare in ambienti naturali. - Manuela De Leonardis: I suoi progetti futuri? - Farida Benlyazid: Con Juanita de Tanger mi sono un po' stancata. Ora sto girando alcuni documentari. In particolare lavoro sulla ristrutturazione, e cambio d'uso, della vecchia casa del Pasha Glawi di Marrakech, che diventera' un museo archeologico di pezzi provenienti da tutto il mondo, grazie alla donazione di una ricca magnate americana. * Incontro con il regista Moumen Smihi L'edificio nella zona dell'ambasciata spagnola e' moderno, dal terrazzo un raggio in lontananza: il bianco della kasbah di Tangeri e l'azzurro del Mediterraneo. Moumen Smihi (nato a Tangeri nel '45) apre la porta. E' lui l'autore del corto Si Moh Pas-de-Chance (1970) e di Chergui ('76), che, scrivono gli storici, segnano la nascita del cinema marocchino. Sulle pareti del corridoio sono appesi i poster dei suoi film, Caftan d'amour, Chroniques marocaines, 44 Les Recits de la nuit... in un angolo anche la locandina della Mostra del nuovo cinema di Pesaro '93, una delle importanti rassegne internazionali a cui il regista e cineasta marocchino ha partecipato. Nel salotto l'ambiente e' piu' intimo, calibrato nei colori: pareti bianche essenziali, tappeti di lana e cuscini del Rif sulle tonalita' rosso e arancio. Su un ripiano della libreria di vimini un fez e tre vecchie fotografie sono per Smihi l'emblema del paese. Due sono cartoline postali fin de siecle, da una parte il volto barbuto di un modernista in jallaba, dall'altra quello di una splendida ragazza berbera, al centro - a colori - il cantante arabo piu' famoso, Abdel Halim Hafez, "l'usignolo del Nilo". Quanto al cinema, nella nostra chiacchierata ricorre spesso il nome di Rossellini, del neorealismo italiano, di Fellini, punti di riferimento del suo lavoro insieme allo strutturalismo francese anni '60, movimento filosofico, scientifico e letterario che allargo' poi il suo campo d'interesse anche all'antropologia, alla psicoanalisi e all'epistemologia. - Manuela De Leonardis: Anche in El Ayel (Le Gosse de Tanger), il suo ultimo film, c'e' un'attenta ricerca antropologica e psicologica... - Moumen Smihi: Nel mio lavoro guardo sempre al neorealismo, che ha creato una rottura nella cultura moderna. Secondo la lezione di Rossellini ritengo che il cinema sia la forma artistica essenziale dell'epoca contemporanea. Un'arte che sintetizza pittura, sociologia, scienze moderne. A Parigi, dove ho studiato, sono entrato in contatto con Claude Levi-Strauss, Roland Barthes, Jacques Lacan... penso che lo strutturalismo sia la continuazione del neorealismo. Rossellini parlava dell'importanza della scienza nella messinscena, tra i suoi film c'e' anche il documentario di nove ore L'eta' del ferro. La storia era importante per lui, il cristianesimo, Luigi XIV... Allo stesso modo intendo lavorare sulla cultura araba, guardando da una parte alla tradizione italiana del cinema con il neorealismo e dall'altra a quella intellettuale francese con lo strutturalismo. - Manuela De Leonardis: Quanto al dualismo tra tradizione e modernita'? - Moumen Smihi: E' la problematica essenziale della cultura araba. In Europa, e in occidente in generale, si pensa che il nostro passato sia affidato solamente alla tradizione orale, invece abbiamo una ricca tradizione letteraria. Il problema dell'intellettuale arabo oggi e' di mettere in relazione la tradizione letteraria, filosofica, artistica, musicale, con la religione. L'occidente vede solo un aspetto del mondo arabo, la religione. E' come se dell'Europa si conoscesse solo il cristianesimo! Sarebbe un grave errore. - Manuela De Leonardis: Negli anni '70 ha studiato cinema all'Idhec di Parigi, ha insegnato e lavorato come giornalista e critico... - Moumen Smihi: Vivo tuttora tra Parigi e Tangeri. Sono spesso anche al Cairo, dove ho lavorato negli Studios. A Parigi come allievo di Barthes alla pratica cinematografica ho affiancato anche una ricerca teorica. Prima si chiamava semiologia del cinema, oggi e' piu' indirizzata all'antropologia culturale in generale. - Manuela De Leonardis: Da qualche anno il Marocco e' un punto di riferimento per il cinema mondiale grazie agli studi di Ouarzazate. E' una realta' utile anche ai giovani cineasti marocchini? - Moumen Smihi: Gli studi di Ouarzazate, creati soprattutto per le produzioni straniere in Marocco, aiutano la nostra economia, perche' danno molto lavoro, ma producono soprattutto film commerciali, non culturali. E' come Hollywood, che pero' mori' con il neorealismo italiano, come del resto Cinecitta'. Solo un genio come Fellini e' riuscito a fare di Cinecitta' qualcosa di personale. Ma Fellini era Fellini. A Ouarzazate si fabbrica cine ma come fosse sapone. Per me oggi, nella cultura moderna, impera una produzione di platitude, qualcosa di volgare, banale, svuotato di contenuti, appiattito, massificato. Prodotti piatti per un divertimento generale, facile, ma di cui non ci si ricordera' in futuro. - Manuela De Leonardis: Per il cinema di ricerca esiste pero' in Marocco un Fondo di aiuto alla produzione. Anche al suo "El Ayel" nel 2005 e' stato assegnato un contributo pubblico di circa due milioni di dirham (200.000 euro), come pure a "Juanita de Tanger", di Farida Benlyazid... - Moumen Smihi: Il cinema di ricerca non e' un cinema povero, fatto male o senza pubblico... La ricerca del significato e' questo il suo obiettivo, di qualcosa che abbia un contenuto contro l'appiattimento e la cialtroneria dei cinema hollywoodiani. - Manuela De Leonardis: Spesso i suoi film sono ambientati e girati a Tangeri... - Moumen Smihi: Tangeri e' l'immagine della citta', nel senso di una citta' italiana del Rinascimento, una sorta di citta'-stato che sintetizza la cultura del Mediterraneo. E' stata una citta' greca, poi romana, araba, inglese, italiana, spagnola, francese... con un'incredibile produzione culturale. Negli anni '40 era particolarmente cosmopolita, con una presenza di genti, religione, lingua, pensiero diverso che viveva insieme. Il fatto che vi ho girato dei film, malgrado io sia di qui, e' un caso. Non c'e' premeditazione. - Manuela De Leonardis: Ha tratto "Caftan d'amour" da un romanzo di Bowles, che ha conosciuto personalmente. Come ricorda lo scrittore americano? - Moumen Smihi: Bowles era un concittadino di Tangeri. Una persona molto distinta, raffinata, colta, interessante. Non so esattamente il valore letterario del suo lavoro, ma trovo che siano particolarmente interessanti i racconti brevi che scriveva sul Marocco. Frequentava anche una cerchia di scrittori e artisti di grande cultura. E' stato Bowles a presentarmi, ad esempio, Gavin Lambert, uno sceneggiatore americano con cui ho lavorato al copione di Caftan d'amour, dal romanzo The Big Mirror di Paul Bowles e Mohammed M'Rabet. E' strano come Tangeri sia nello stesso tempo molto locale e cosi' internazionale. - Manuela De Leonardis: Conosceva William Burroughs? - Moumen Smihi: Non l'ho conosciuto direttamente, ma da ragazzo nella medina vedevo questo personaggio misterioso, strano. Bowles mi parlava di lui. Burroughs viveva nella medina e aveva una macchina tipografica tutta sua con cui stampava i suoi scritti. Quello che mi ricordo bene e' la piazzetta del Petit Sokko che, negli anni '60, era piena di giovani americani hippies. Ragazzi e ragazze che stavano nel caffe' della piazza a tutte le ore, a mangiare, parlare, fumare proprio come a piazza Navona o in una qualsiasi altra citta' internazionale. - Manuela De Leonardis: Parliamo della distribuzione dei suoi film in Marocco. Come mai non si trovano in dvd? - Moumen Smihi: In Marocco ci sono i festival, c'e' l'universita' e ci sono incontri e colloqui tra intellettuali, ma data la dominazione del cinema della cialtroneria e' molto difficile per i cineasti marocchini riuscire a fare film ogni anno e farsi vedere. Del resto non e' facile neanche per altri cineasti occidentali. Oggi sono pochi i registi che fanno un cinema interessante, Woody Allen, Pedro Almodovar, Ken Loach, i fratelli Taviani. - Manuela De Leonardis: Quali sono i cineasti arabi piu' importanti? - Moumen Smihi: Un regista egiziano, straordinario, morto giovane, Shadi Abdel Salam, e' il fondatore del cinema arabo. Ha diretto La mummia (Al Momia), '69, sull'antica cultura egiziana. Nel mondo arabo questo film e' stato veramente rivoluzionario, perche' per gli arabi la storia comincia con l'Islam. Possiamo paragonare il cinema di Shadi Abdel Salam a quello del neorealismo, per il tipo di rottura che ha determinato. Il cinema egiziano precedente era quello dei telefoni bianchi, fatuo e fascista come il cinema italiano prima del neorealismo. E' solo dopo il '70 con l'indipendenza che e' nato il cinema arabo. Non dimentichiamo che il film, per la societa' araba, e' un qualcosa di totalmente nuovo per la "questione dell'immagine". La tradizione pittorica araba e' astratta, iconoclasta, non c'e' la rappresentazione del corpo umano, della nudita'. - Manuela De Leonardis: "Marock" di Leila Marrakchi, invitato a Cannes nel maggio del 2006 ha avuto grande successo e anche qui... - Moumen Smihi: E' un film nella tradizione dei "pied noir", i colonizzatori bianchi che avevano un piede in Africa, percio' "nero". Questo e' un altro aspetto del dramma della societa' araba che non ha conosciuto direttamente i valori dell'occidente, ma solo il razzismo del colonialismo europeo. Che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione francese, il rinascimento italiano, la letteratura inglese, Goethe in Germania... Purtroppo la societa' araba aspira alla cultura dei "pied noir": una casa moderna, l'auto, parlare una lingua straniera. Marock mi fa pensare a questo, ma non l'ho visto. Bei film sul Marocco sono quelli di Andre' Zwoboda; La Septieme porte e Noces de sable; lo straordinario Otello di Orson Welles, L'uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock... - Manuela De Leonardis: Progetti futuri? - Moumen Smihi: Tra le tante idee quella predominante e' lavorare sulla cultura araba in relazione alla modernita'. Mi piacerebbe fare un film su due personaggi che hanno vissuto a Tangeri nell'XI secolo, personalita' chiave del Rinascimento europeo: Ibn Tufail e Ibn Rushd, il nome arabo di Averroe'. Loro due, insieme al famoso Ibn Hamdis, un poeta arabo-siciliano, hanno tradotto tutti i classici greci e romani nel Medioevo. Una cultura che stava scomparendo e che grazie a loro e' potuta sopravvivere. Malgrado fossero musulmani, e mettendo a rischio la propria vita perche' parlare di greci e romani era un'eresia, riuscirono nel loro intento. Credo che sia molto attuale parlare di tutto questo, perche' e' l'affermazione della cultura araba che, come dicevo, non e' una cultura esclusivamente religiosa. * Due cineasti nella citta' di Averroe' e Choukri Tangeri, citta' di grande atmosfera. Uno sguardo all'Europa e le radici in Africa, nel Maghreb. La storia racconta di sovrapposizioni culturali, etniche, linguistiche: fenici, cartaginesi, romani, vandali, arabi, portoghesi, spagnoli, inglesi. Continue contaminazioni che sopravvivono ancora oggi all'indomani del 1956, data ufficiale dell'indipendenza del Marocco. Artisti e scrittori si sono nutriti nel tempo della sua luce intensa, delle sue storie, tra amori, eccentricita', ispirazione... Qualche nome illustre che salta fuori a casaccio tra le righe della storia: Delacroix e Matisse, Gertrude Stein, William Burroughs e Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Jean Genet, Tennessee Williams, Samuel Beckett, Paul Bowles e la moglie Jane Auer. A lui - Bowles - la medaglia del piu' celebrato, con quel bel ritratto fotografico in bianco e nero che troneggia nel ristorante dell'Hotel Continental, storico albergo della citta' dove Bertolucci ha girato alcune scene di The Sheltering Sky (Il te' nel deserto, 1990), tratto dal romanzo dello stesso Bowles, in affascinante cameo. Dal 1995 la citta' e' sede del Festival nazionale di Tangeri: una relazione intensa quella tra Tangeri e il cinema, che va molto piu' indietro nel tempo, a partire dal 1919 con il film francese Mektoub di Jean Pinchon e Daniel Quintin. Seguono oltre cinquanta titoli da Los misterios de Tanger (Spagna 1946) a Mission a' Tanger (Francia 1949), Agguato a Tangeri (Italia-Spagna 1955)... A partire dagli anni '70 l'elenco si arricchisce con i film di produzione marocchina, che affiancano i capolavori sconosciuti di questo cinema, come Le mille e una mano di Souheil Ben Barka ('72), Wechma di Hamid Bennami, Trances di Ahmed El Manouni (sulla band arabo-rock Nass El Giwhan, '81) e Il barbiere dei quartieri poveri di Mohamed Reggab: Chergui ('76) e Caftan d'amour ('87) di Moumen Smihi ('76), Brache dans le mur ('77) e Poupee de roseau di Jillali Ferhati ('81), Le grand voyage di Mohamed A. Tazi ('82)... Gli ultimi due ambientati nella Tangeri anni '50 sono diretti nel 2005 da Smihi e Benlyazid, tra i piu' impegnati e innovativi registi marocchini contemporanei, entrambi di Tangeri: El Ayel (Le Gosse de Tanger) di Smihi e Juanita de Tanger (La vida perra de Juanita Narboni) di Benlyazid. 5. RILETTURE. RENATE SIEBERT: LE DONNE, LA MAFIA Renate Siebert, Le donne, la mafia, Il saggiatore, Milano 1994, Est, Milano 1997, pp. 464, lire 10.000. Un libro fondamentale. 6. RILETTURE. RENATE SIEBERT: LA MAFIA, LA MORTE E IL RICORDO Renate Siebert, La mafia, la morte e il ricordo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995, pp. 56, lire 10.000. Una meditazione acutissima e struggente. Con una postfazione di Anna Rossi-Doria. 7. RILETTURE. RENATE SIEBERT: MAFIA E QUOTIDIANITA' Renate Siebert, Mafia e quotidianita', Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 128, lire 10.000. Un utile testo introduttivo. 8. RILETTURE. RENATE SIEBERT (A CURA DI): RELAZIONI PERICOLOSE Renate Siebert (a cura di), Relazioni pericolose. Criminalita' e sviluppo nel Mezzogiorno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000, pp. 300, euro 15,49. Un'ampia ricognizione; con contributi, oltre che della curatrice, di Umberto Santino, Ercole Giap Parini, Rocco Sciarrone, Sonia Floriani, Felia S. Allum, Dorothy Louise Zinn, Monica Massari, Stefano Becucci, Paola Monzini, Alessandra Dino, Tonio Tucci, Assunta Lucanto, Paola Maria Fiocco. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 84 del 5 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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