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La nonviolenza e' in cammino. 1436
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1436
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 2 Oct 2006 00:14:58 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1436 del 2 ottobre 2006 Sommario di questo numero: 1. Giovanna Providenti: Il potere trasformativo di nonviolenza e femminismo 2. Tommaso Rondinella e Duccio Zola intervistano Vandana Shiva 3. Cristina Piccino intervista Werner Herzog 4. Clara Jourdan presenta "Il bagaglio invisibile" 5. "La politica della nonviolenza", un seminario promosso dal Movimento Nonviolento il 21-22 ottobre a Verona 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. GIOVANNA PROVIDENTI: IL POTERE TRASFORMATIVO DI NONVIOLENZA E FEMMINISMO [Ringraziamo Giovanna Providenti (per contatti: providen at uniroma3.it) per questo intervento. Giovanna Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni satyagraha", Firenze-Pisa 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori] Il contributo che "La nonviolenza delle donne" [titolo del recente volume dei "Quaderni satyagraha" monografico sul tema, da Giovanna Providenti curato - ndr] intende dare agli studi per la nonviolenza e' stato in parte espresso da Valeria Ando' e Luisa Del Turco [nel seminario appunto su "La nonviolenza delle donne" nell'ambito del convegno di Pisa dell'8-11 settembre 2006 nel centenario della nascita del satyagraha - ndr]: la prima mettendo in rilievo la necessita' che "la nonviolenza assuma un'ottica di genere e renda pertinente la differenza sessuale all'interno del suo impianto strutturale teorico-pratico", e la seconda avendo rilevato come molte pratiche delle donne "a livello individuale e collettivo e in varie aree epoche e aree geografiche" concernano la "gestione non violenta dei conflitti", pur se non sempre sono definibili "nonviolente" nel senso che questo termine ha assunto teoricamente. Sono nonviolente in pratica piu' che in teoria. Cosa aggiungere a questo? Vorrei provare a dire qualcosa in piu' sul significato che ha, e ha avuto finora per me, l'intreccio tra femminismo e nonviolenza che e' un po' la trama sottostante La nonviolenza delle donne. Quello che voglio dire riguarda due tensioni vitali (sia nonviolente sia femministe) che mi stanno particolarmente a cuore e che sono la trama dei miei percorsi di ricerca e di lavoro in questo momento della mia vita. Sono: autenticita' e liberazione. La nonviolenza, come dice giustamente Valeria, e' un percorso di trasformazione di se' e del mondo. Il femminismo e' un percorso di emancipazione e di destrutturazione da condizionamenti culturali tendenti a sopravvalutare il maschile e sottovalutare il femminile e attivi a livello sia consapevole che inconsapevole. Entrambi, femminismo e nonviolenza, sono percorsi di liberazione, sia collettiva che personale, ma solo se svolti con autenticita' e radicalita'. Entrambi sono percorsi di trasformazione della societa' a partire dall'individuo. * Il mio personale percorso di liberazione e "trasformazione" parte dalla nonviolenza. Vivevo allora in Sicilia, ero adolescente, erano gli anni Ottanta. Facevo politica pacifista. Oltre ad occuparci di denuclearizzazione e manifestare contro i missili a Comiso, avevamo formato, a Messina, un piccolo gruppo di studio di amici della nonviolenza: leggevamo Aldo Capitini e alcuni di noi avevamo anche fatto la scelta del vegetarianesimo. Lo ricordo come un periodo della mia vita ricco, intenso e autentico. Ma mancava qualcosa. A me personalmente, intendo. E questa cosa che mi mancava era molto connessa al fatto che, nonostante fossi una donna, sembrava non avessi bisogno di fare il femminismo, dato che i gruppi che frequentavo io, e anche in famiglia, mi trattavano tutti come se fossi un uomo. Inoltre avevo fatto esattamente gli stessi studi (persino la stessa sezione liceale e gli stessi professori, nonostante i due anni di scarto) di mio fratello. Non c'era niente da rivendicare, nessuna ingiustizia. Invece ero, sono, una donna. Come poteva bastarmi essere trattata e formata come un uomo? Ma ho avuto bisogno di molto tempo, e del femminismo, per capire che quello che da mio padre, come da mia nonna e mia madre, era inteso come un privilegio era invece una orribile mutilazione. Ho avuto bisogno di altre donne, molte donne, che mi parlassero, soprattutto attraverso i libri (perche' a differenza della nonviolenza il mio approccio al femminismo e' stato soprattutto attraverso scritti di donne libere e non maschilizzate che ancora adesso ricerco e raccolgo con la passione di una collezionista di opere rare) per capire che la mia liberazione, per essere autentica e compiuta, aveva bisogno di "passare attraverso un'altra donna", una donna che potesse darmi la fiducia di poter fare a meno dei miei privilegi da uomo, una o piu' donne che mi accompagnassero per mano nel pozzo della disgrazia delle donne, e da li' mi aiutassero a risalire piu' ricca e sicura a non volere piu' rinunciare a "tutto quello che si sa quando si viene su dal pozzo" (Alba De Cespedes). * Il femminismo e' lo strumento che ha dato alle donne la possibilita' di risalire, ed anche di uscire, dal pozzo della loro disgrazia culturalmente determinata. Ed ha aiutato donne privilegiate come me a fare quel passaggio in piu' per comprendere cos'e' che mi mancava, dov'era l'inganno dell'essere uguale ad un uomo. Ho imparato non solo a valorizzare la mia differenza in quanto donna, ma anche a decostruire tutto un simbolico fortemente disprezzante del femminile in cui sono cresciuta, e mi sono formata, a tal punto da cascare nell'illusione di credere che potevo essere valida solo se sceglievo di essere "come un uomo". Anzi, di essere uomo. Di accettare che la storia studiata a scuola, fatta di guerre, rivoluzioni, passaggi di potere da una classe sociale all'altra, fosse la mia storia. Mentre invece cosi' non e': fino al Settecento le donne sono state a fare tutt'altro che quello che sta scritto nei libri scolastici di storia; nei due secoli successivi, XIX e XX, sono state protagoniste della storia, faticosa, complessa, per niente lineare e progressiva (anzi con molti sbalzi all'indietro) e piena di fraintendimenti, che e' la storia della liberazione delle donne, o storia del femminismo. * A due secoli dall'inizio della storia del femminismo ancora perdura un simbolico maschilista nel linguaggio per cui sono moltissimi i termini (ad esempio quelli concernenti le professioni) che al femminile assumono un connotato dispregiativo. Ed anche all'interno dell'ambito degli amici della nonviolenza sembra difficile a molti uomini rinunciare alle battutine dispregiative nei confronti delle donne, cosi' come pronunciare parole chiare e forti sia contro la violenza alle donne (con l'importante eccezione dell'appello da parte di un folto gruppo di uomini dal titolo "La violenza contro le donne ci riguarda", su internet da settembre 2006) sia a favore di un percorso di liberazione che tutte e tutti noi dovremmo compiere prima di poterci dichiarare autenticamente amici e amiche della nonviolenza. Mi riferisco alla liberazione dalla cultura patriarcale profondamente radicata dentro di noi. E' a causa di questo radicamento patriarcale dentro la nostra anima che ancora molti degli uomini nostri amici, e amici della nonviolenza, non si accorgono, ad esempio, che parlando di bioetica e di aborto, e pronunciandosi per la responsabilita' da assumere nei confronti della vita, di ogni vita, continuano ad oggettivizzare il corpo della donna, non riuscendo a distinguere e a pronunciare le proprie responsabilita' in quanto maschi, responsabilita' precedenti la presenza di un embrione nel corpo di una donna. Ma la tendenza ad oggettivizzare i corpi, dimenticandosi che si tratta invece di persone umane dotate di capacita' di autodeterminazione, e' diffusa tra scienziati e dottori che nella loro smania di prevenire e curare malattie (e praticare parti cesarei o altre operazioni chirurgiche per estirpare "tumori" anche benigni) sulla base di calcoli temporali e dati statistici dimenticano che la malattia, come la morte, e' parte essenziale della nostra vita, ed esiste perche' noi possiamo metterci in relazione con essa. E anche di questo dovrebbe occuparsi la bioetica. A questo proposito rimando a Barbara Duden, I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, (Boringhieri, 2006). La malattia e' uno strumento potentissimo, ad ogni persona umana, per avere l'occasione di fermarsi con se stessa ed entrare in relazione autentica con parti di se' che fa fatica ad accettare, spesso proprio perche' la cultura non le permette di accettare. La malattia potrebbe essere un potente strumento, per uomini e donne, per osservare in maniera autentica e decostruire quel radicamento patriarcale di cui io sto imparando a liberarmi sia grazie alla nonviolenza sia grazie al femminismo. * E allora, per me personalmente, occuparmi di nonviolenza e femminismo, intrecciandoli insieme in questa trama molto intricata e piena di resistenze (anche coi miei amici uomini sto imparando a discutere per non doverli sempre schivare) e' una sorta di operazione salutare. Invece che prevenire, termine molto in voga oggi tra i medici, sottoponendomi a strumenti diagnostici spesso invasivi e dolorosi, cerco di mettermi in relazione con eventi, persone e condizioni esistenziali per come autenticamente sono. Questo mettermi in relazione autentica ha un forte potere trasformativo. Ho capito che la liberazione da una condizione di ingiustizia e/o di oppressione deve comprendere non tanto il corpo politico, quanto il nostro corpo, sia fisico sia psichico. E a partire da me, da ognuno di noi. Emanciparsi non significa passare a una condizione di privilegio, bensi' trasformare profondamente se stessi, e attraverso se stessi la societa'. Sia la nonviolenza che il femminismo sono strumenti di pratica politica utili (per me lo sono stati) ad assumere consapevolezza rispetto alla necessita' di una tale radicale trasformazione, sia personale che sociale, per potere vivere in modo, e in un mondo, migliore. 2. RIFLESSIONE. TOMMASO RONDINELLA E DUCCIO ZOLA INTERVISTANO VANDANA SHIVA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 settembre 2006. Tommaso Rondinella e' impegnato nell'associazione Lunaria e nella campagna "Sbilanciamoci" per la quale ha curato due rapporti pubblicati nel 2006. Duccio Zola e' un ricercatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione Lunaria di Roma. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006] Quando inizia a parlare Vandana Shiva le sue parole hanno il tono pacato dell'argomentazione. Ma quando arriva al cuore della sua riflessione, il timbro di voce diventa piu' imperioso, come chi e' talmente sicura di cio' che sta sostenendo che deve dirlo con forza e foga. Laureata in fisica quantistica e in economia, ricercatrice per molti anni, Vandana Shiva fa parte di quegli "scienziati dai piedi scalzi" che a un certo punto della loro vita hanno lasciato i laboratori per verificare gli "effetti collaterali", cioe' le conseguenze delle loro ricerche e scoperte. Per questa indiana nata in uno stato nel nord dell'india, il punto di svolta e' stato quando si e' imbattuta in un progetto della Banca mondiale che aveva distrutto l'economia locale di una regione indiana. Da allora, infatti, ha abbandonato la ricerca scientifica per dare vita nel 1982, assieme ad altri ricercatori, al "Centro per la scienza, tecnologia e politica delle risorse naturali". Il primo risultato della sua nuova attivita' di sudiosa e' condensato dal libro Sopravvivere allo sviluppo (Isedi). Da allora ha pubblicato molti saggi, tutti estremamenti critici verso la "globalizzazione neoliberista", di cui vanno ricordati Biodiversita', biotecnologie e agricoltura scientifica (Bollati Boringhieri), Biopirateria. Il saccheggio della natura e saperi locali (Cuen), Vacche sacre e mucche pazze (DeriveApprodi), Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli) e Le guerre dell'acqua (Feltrinelli). In Italia per un ciclo di conferenze - e' stata ospite del forum della campagna Sbilianciamoci e ha partecipato alla rassegna "Torino Spiritualita'" - abbiamo incontrato Vandana Shiva e con lei abbiamo parlato del suo ultimo libro Il bene comune della Terra, da poco uscito per Feltrinelli. * - "Il manifesto": Nel tuo libro descrivi la relazione tra questo modello di globalizzazione economica e il diffondersi di terrorismi e fondamentalismi. Puoi illustrarci questo legame? - Vandana Shiva: Cio' che cerco di evidenziare sono i percorsi che generano una cultura di "sfruttabilita'", basata sul poter disporre di tutto e tutti perche' a ogni cosa e a ognuno e' assegnato un prezzo. Questa condizione, economica e culturale allo stesso tempo, cambia il modo in cui pensiamo l'uno all'altro e in cui ci mettiamo reciprocamente in relazione, ed e' all'origine di innumerevoli conflitti. Essa favorisce l'affermazione di "identita' in negativo", basate su un atteggiamento escludente, che rifiuta l'altro. Questo modello di sviluppo che nega diritti, marginalizza ed espropria e' alla radice di fondamentalismo e terrorismo. Innesca una processo che non e' insito in nessuna cultura, ma che si alimenta quando vengono create persone "usa e getta". Per fare un esempio, la crescita indiana che si legge sui giornali di tutto il mondo nasconde espropri di terra mai visti prima. E la terra sequestrata e' quella dei piccoli contadini, dei piu' poveri. Le terre vengono poi acquistate a prezzi irrisori dalle grandi compagnie transnazionali, che cosi' possono produrre a prezzi stracciati. Questo sta causando massicce migrazioni verso le citta', dove le popolazioni sradicate, senza terra ne' lavoro, si aggiungono alle masse di disperati che affollano le periferie, causando un aumento dell'instabilita'. * - "Il manifesto": Da tempo sostieni la necessita' di un controllo diretto sulle risorse e sui beni comuni attraverso una "localizzazione dell'economia" e una ridefinizione dei confini della democrazia. Cosa implica sul piano politico questa concezione? - Vandana Shiva: Rispetto alla mia idea di democrazia, il modello neoliberista di globalizzazione non e' altro che il dominio di istituzioni sovranazionali non democratiche e ostaggio di poche, potentissime multinazionali. La distanza e' un fattore che isola. Ecco perche' la pratica della localizzazione, del mettere al centro gli interessi e le legislazioni locali, riveste un'importanza fondamentale. La localizzazione permette di assicurare giustizia e sostenibilita'. Cio' non significa che ogni decisione debba essere presa a livello locale, ma che debba essere discussa e approvata anche a livello locale: le decisioni migliori si prendono laddove il loro effetto puo' essere percepito piu' chiaramente. E' importante sottolineare che questo principio costituisce un imperativo ecologico. Le crisi ambientali che affliggono il nostro pianeta derivano da un disconoscimento del ruolo delle risorse naturali. Per risolvere queste crisi e' necessario che le comunita' locali recuperino il controllo delle proprie risorse per costruire un'economia sostenibile. Riconquistare i beni comuni comporta dunque la necessita' di poter esercitare un controllo sulla gestione statale delle risorse, delle decisioni e delle politiche di sviluppo economico. Ma al tempo stesso e' necessario riprendere possesso delle risorse privatizzate dalle multinazionali attraverso gli accordi del Wto e i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. * - "Il manifesto": Nel tuo ultimo libro denunci l'esistenza di un genocidio ai danni di donne e piccoli agricoltori... - Vandana Shiva: In India mancano all'appello 36 milioni di donne a causa dell'aborto selettivo praticato sui feti femminili. Nel mondo la cifra raggiunge i sessanta milioni. Il feticidio e' la diretta conseguenza dell'esclusione delle donne da un sistema produttivo basato sull'agricoltura industriale, sul consumismo, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita umana. Questo avviene nelle regioni agricole, ma soprattutto nelle zone urbane o suburbane. A Dehli troviamo il piu' alto tasso di alfabetizzazione e i redditi piu' elevati di tutta l'India, e allo stesso tempo il maggior numero di violenze sulle donne, a partire da stupri, molestie sessuali e morti per dote. Il censimento del 2001 registra a Dehli 140.000 bambine sotto i sei anni in meno rispetto alle tendenze demografiche. Parallelamente, lo sviluppo dell'agricoltura industriale, basata su costosissime tecnologie, sul massiccio impiego di fertilizzanti e pesticidi chimici, e sull'imposizione delle sementi geneticamente modificate, causa il fallimento dei piccoli agricoltori incapaci di sostenere i costi e la concorrenza di questi metodi. Solo nel 2004, 16.000 contadini si sono tolti la vita in India. I suicidi dei contadini poveri derivano dall'indebitamento, provocato dall'aumento dei costi di produzione e dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. I suicidi sono l'esito inevitabile di una politica agricola che protegge gli interessi del capitalismo globale e ignora quelli dei piccoli agricoltori. Per questo io non parlo di suicidi, ma di genocidio. * - "Il manifesto": La rete contadina Navdanya, che hai fondato e che coordini, si propone come un'alternativa per i piccoli contadini indiani minacciati dalle multinazionali del settore agroalimentare. Quali sono le vostre pratiche e i vostri obiettivi? - Vandana Shiva: Navdanya significa "nove semi", un nome che evoca la ricchezza della diversita' e il dovere di difenderla di fronte all'invasione delle biotecnologie e delle monoculture dell'agricoltura industriale. Insieme ai brevetti che monopolizzano i diritti sulla proprieta' intellettuale introdotti dal Wto, dalla convenzione sulla biodiversita' e da altri accordi commerciali, le biotecnologie riducono la diversita' delle forme di vita al ruolo di materie prime per l'industria e i profitti. I semi geneticamente modificati intrappolano i piccoli agricoltori in una gabbia di debiti e menzogne. Per questo li chiamo "semi del suicidio". Essi sono resi sterili in modo tale che non possano riprodursi e debbano venire acquistati dai contadini ogni anno a caro prezzo. I brevetti dei semi sono di proprieta' di multinazionali come la Monsanto, che in questo modo si appropriano della fonte di vita e dei diritti di due terzi dell'umanita'. Per far fronte a questa situazione Navdanya, che oggi conta quasi 300.000 agricoltori, ha creato delle economie locali alternative che controllano i processi di produzione e distribuzione degli alimenti e tutelano i produttori locali. I contadini della rete adottano coltivazioni biologiche differenziate che proteggono la fertilita' dei terreni e la biodiversita', evitando l'uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. In questo modo si migliora la produttivita' e l'apporto nutritivo dei raccolti, recuperando anche il 90% dei costi di produzione. Le entrate sono tre volte superiori a quelle degli agricoltori che si servono di prodotti chimici, non vengono prodotti rifiuti tossici e danni alla biodiversita'. Inoltre, il sistema di commercio equo che regola la distribuzione dei prodotti ci protegge dalla insicurezza dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Coltivazione organica e commercio equo offrono invece sicurezza sul piano delle scelte alimentari, della salute e della stabilita'. In questo modo tutti - agricoltori, ambiente e consumatori - ricavano un grande beneficio. * - "Il manifesto": Di fronte a una situazione cosi' grave, riesci a indicare una possibile via d'uscita? - Vandana Shiva: Cento anni fa in Sudafrica Gandhi rifiuto' la segregazione razziale, affermando il diritto di non obbedire a leggi ingiuste. La disobbedienza civile implica la scelta della nonviolenza e della noncooperazione pacifica. Credo che anche oggi questa sia la strada da seguire, a cominciare dalla resistenza alla brevettazione dei semi indiani. In India e' in discussione una legge che potrebbe portare alla proibizione dell'utilizzo di sementi proprie da parte dei contadini. Sementi che da migliaia di anni vengono conservate e trasmesse - di generazione in generazione e di raccolto in raccolto - verrebbero cosi' bandite per far posto alla commercializzazione di semi prodotti nei laboratori di multinazionali come la Monsanto, e venduti a caro prezzo. Noi sappiamo che le varieta' di sementi indigene, conservate e selezionate localmente, rappresentano la nostra garanzia ecologica ed economica, perche' sono in grado di adattarsi perfettamente alle condizioni climatiche e geologiche delle diverse regioni indiane. Non si possono criminalizzare centinaia di milioni di piccoli agricoltori che non sono disposti a sottomettersi al modello agricolo imposto dalle multinazionali. Per conquistare la nostra liberta' economica e politica e' necessario guardare ancora una volta a Gandhi, alle sue idee di autogoverno e autoproduzione locale. * - "Il manifesto": Nei tuoi interventi dimostri sempre come sia possibile rimpossessarsi dei beni comuni, attraverso degli esempi concreti. Come quello della mobilitazione contro la Coca Cola in Kerala... - Vandana Shiva: Un esempio che dimostra le possibilita' di vittoria da parte del movimento democratico globale. La lotta ha avuto inizio nel 2000 dalle donne di Plachimada, un piccolo villaggio del Kerala sede di uno stabilimento della Coca Cola. Uno stabilimento che era arrivato a consumare un milione e mezzo di litri d'acqua al giorno e a produrre siccita' in tutta l'area circostante, da sempre ricca di acqua. A questo si deve aggiungere l'inquinamento prodotto dagli scarti produttivi e la contaminazione dei terreni. Le donne hanno cominciato ad assediare i cancelli dello stabilimento, a organizzare manifestazioni e sit-in, coinvolgendo tutte le comunita' della regione. Si e' cosi' deciso di ricorrere all'Alta Corte di Giustizia del Kerala. Che ha dato ragione alle donne di Plachimada, con una storica sentenza che sostiene il carattere di bene pubblico dell'acqua: nel 2004 il governo regionale e' stato costretto a chiudere lo stabilimento. Questo ha prodotto una moltiplicazione delle lotte in tutta l'India, e la formazione di una campagna nazionale di boicottaggio nei confronti di Coca Cola e Pepsi. Ad oggi piu' di cinquecento tra villaggi, scuole e universita' e si sono dichiarate "Coca Cola e Pepsi Free". Questa vicenda dimostra cio' che Gandhi ci ha insegnato: solo prendendo coscienza delle nostre responsabilita' si possono ottenere i diritti, solo iniziando a vivere liberamente si puo' ottenere la liberta'. * Scheda: Un mondo visto pensando a Gandhi Fisica quantistica, premio Nobel alternativo per la pace, fondatrice e direttrice del Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy e della rete contadina Navdanya, animatrice di movimenti sociali in India e fuori, Vandana Shiva e' un'instancabile divulgatrice sui temi dell'ecologia, delle donne, dello sviluppo, delle biotecnologie. Il suo ultimo libro, Il bene comune della Terra (Feltrinelli, pp. 212 , euro 14) e' un condensato del suo impegno trentennale di scienziata e attivista. Che la Shiva riassume cosi': "Ho scelto di concentrare le mie energie su quei settori in cui un intervento democratico diventa fondamentale per la sopravvivenza del pianeta e del genere umano. Ecco perche' mi batto per la difesa dell'acqua, delle sementi e del cibo come beni comuni e risorse prioritarie". Un'affermazione che rimanda ai temi centrali del testo, beni comuni e democrazia appunto. Il risultato e' un prezioso lavoro di ricerca e testimonianza in cui la Shiva descrive la strada verso una "democrazia della Terra" (Earth Democracy e' il titolo originale dell'opera). Un percorso gia' avviato da chi, le donne e i piccoli contadini del sud del mondo in primo luogo, subisce le conseguenze nefaste del neoliberismo e ad esso contrappone "economie, culture e democrazie che apportano la vita". Esperienze radicate nelle realta' locali e nelle mobilitazioni per la protezione delle risorse naturali e dei servizi pubblici. Si inizia da una ricostruzione delle origini del capitalismo, dall'esproprio e la privatizzazione delle terre comuni nell'Inghilterra del diciottesimo secolo. Vandana Shiva illustra la continuita' della traiettoria storica ed economica di quella che oggi chiamiamo globalizzazione neoliberista. La differenza, da allora, sta nella scoperta di un nuovo, ricchissimo territorio di conquista: la vita umana. Brevettazione dei semi e dei saperi, privatizzazione dei beni comuni, sono le armi di cui si servono gli alfieri del neoliberismo globale - le multinazionali del settore agroalimentare e farmaceutico, innanzitutto, insieme a Wto, Banca Mondiale e Fondo Monetario - e i bersagli della Shiva. Segue la denuncia delle devastazioni ecologiche e sociali prodotte da questo modello di "sviluppo" - infertilita' dei suoli, inquinamento atmosferico, siccita', il dilagare degli aborti selettivi dei feti femminili, i suicidi dei contadini -, effetto di un sovvertimento della naturale gerarchia delle relazioni economiche: le economie della natura e della sussistenza, basate sulla tutela della biodiversita', dei cicli biologici della natura e legate al controllo democratico delle comunita', sono sottomesse agli imperativi dell'economia di mercato, che riduce tutto a merce, guarda ai profitti e non ai costi sociali e ambientali della crescita capitalistica. Di fronte a tutto cio', la Shiva rivendica il diritto e il dovere di resistere, di rivendicare diritti e democrazia, di agire dal basso con la nonviolenza e la disobbedienza civile: a cento anni di distanza, l'eredita' di Gandhi e' ancora viva. 3. RIFLESSIONE. CRISTINA PICCINO INTERVISTA WERNER HERZOG [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 settembre 2006. Cristina Piccino scrive sul quotidiano "Il manifesto", si occupa prevalentemente di cinema, spettacolo, cultura. Werner Herzog, nato a Monaco nel 1942, inquieto viaggiatore, regista cinematografico, personalita' controversa, ha realizzato opere abbaglianti per profondita' ed enigmaticita' di sguardo, con cui ha sondato dolori abissali. Opere di Werner Herzog: sulla follia della guerra, del potere, del colonialismo, del militarismo cfr. almeno Aguirre, furore di Dio (1972), Woyzeck (1978), Apocalisse nel deserto (1991-92); sulla violenza del potere, e sulle condizioni di vita di esclusione ed emarginazione molti film di Herzog apportano descrizioni ed analisi fin terribili. Taluni suoi film sono sguardi e rappresentazioni di una violenza e di un dolore intollerabili, tali che talora crediamo che sarebbe stato giusto non realizzare simili opere. Opere su Werner Herzog: Fabrizio Grosoli, Elfi Reiter, Werner Herzog, Il Castoro Cinema] La biografia ci dice che Werner Herzog e' nato a Monaco nel 1942, la generazione della guerra e del tabu' del nazismo rimosso a lungo negli anni a venire. Che da bambino nel piccolo villaggio della Baviera non aveva mai visto un telefono o un film, adolescente pero' scopre il gusto di viaggiare a piedi, piu' in la' diventera' leggenda la camminata fatta come voto per salvare dalla morte l'amica Lotte Eisner - la cui voce accompagna le immagini di Fata Morgana. Il viaggio insomma ce l'ha nel codice genetico questo ragazzo che in realta' si chiama Werner H. Stipetic. Come il cinema. Infatti se la prima telefonata dice di averla fatta a diciassette anni, a diciannove lavora come guardiano in una fabbrica per produrre il primo film. Del resto ancora oggi Herzog racconta tranquillamente di non essere un cinefilo, di Rossellini, per esempio, ha visto solo due film. Ricorda un aneddoto al festival di Cannes, tutti glielo volevano presentare ma era una serata di festa, si beveva champagne: "Mi sembrava terribile in quel contesto trovarmi davanti a Rossellini entrambi obbligati a dire qualcosa. Cosi' sono fuggito via...". Ama anche Padre padrone dei Taviani e Il salone della musica di Ray per la consapevolezza con cui usano la componente musicale. Tra i suoi compagni di cinema in quella che esplose, anche loro malgrado, come la "nuova onda tedesca" non ha mai nascosto di sentirsi vicino a Fassbinder: "La sua aria da contadino bavarese mi ha dato subito l'impressione che c'era qualcosa di forte in lui, e una vicinanza nel nostro modo di pensare il cinema". E' un viaggiatore solitario Herzog, attratto da geografie invisibili e visionarie, con una curiosita' verso l'altro (l'altrove) talvolta ai limiti dell'ambiguo. Le sue epifanie infatti si amano o si detestano come i suoi eroi e la mitologia che li circonda. La passione per lo spazio era pero' quella di una generazione cresciuta con l'idea (incubo? utopia?) dell'"alieno", credendo il futuro, e la fantascienza, ancora possibili. Klaus Kinski, Kaspar Hauser, le foreste dell'Amazzonia massacrate dall'uomo che voleva costruirvi un teatro d'opera (Fitzcarraldo), la decomposizione per miraggi dell'umanita' tracciata percorrendo nel '71 (Fata Morgana) il Sahara che ritrova (Apocalisse nel deserto, '92) nella sovrimpressione tra i pozzi petroliferi in fiamme durante la prima guerra del Golfo e la fine del mondo. Fata Morgana, Apocalisse nel deserto, La soufriere, Ten thousand years older (nel film collettivo Ten minutes older), li abbiamo rivisti a Procida, perfetta sinergia col festival dedicato alle catastrofi del cinema, del millennio, della storia, Fata Morgana proiettato sul battello con lo schermo spazzato via dal vento nello sguardo quasi complice del regista il cui ultimo film, Rescue Dawn, parla del Vietnam mentre lui sta per partire per l'artico come osservatore "interno" con la distanza obbligata dall'obiettivo di un grande vulcano attivo. "Il mio curriculum non e' quello tradizionale delle scuole di cinema ma e' un insieme di fantasie selvagge intorno a alcune domande", dice di se' sul suo sito dove pero' nella filmografia non troviamo Julien Donkey-Boy di Harmony Korine, "ordinaria" catastrofe di orrori familiari con Herzog in mutande, padre di famiglia, lui che come quelli della sua generazione in Germania si muovono intorno e dentro la vertigine dell'assenza dei padri (nazisti). * - Cristina Piccino: Il suo cinema cerca spesso situazioni non ripetibili: filmare la tribu' in Amazzonia di "Ten thousend older" destinata a scomparire dopo l'incontro con l'occidente o l'isola di Guadalupe prima che esploda il vulcano. - Werner Herzog: L'aspetto che piu' mi affascina nel fare film e' la possibilita' di creare una nuova grammatica con le immagini indagando al tempo stesso sulla condizione umana. Mi sembra di essere uno scienziato che maneggia una materia sconosciuta, e solo provandola in condizioni estreme riesce a capirne la sostanza. Quando ho girato The Wild Blue Yonder, un film che amo molto per l'urgenza con cui l'ho fatto, pochissimi giorni e nel mezzo di molti impegni, sentivo che stavo concludendo una trilogia iniziata con Fata Morgana e proseguita con Apocalisse nel deserto, un lavoro cioe' molto "nero" sulla fantascienza. Questo per dire che la realta' cambia la nostra prospettiva e che ogni volta le immagini che guardiamo esprimono una diversa attualita'. In Apocalisse nel deserto non si parla della guerra in Iraq o di Saddam Hussein ma di un pianeta che non riusciamo piu' a riconoscere. E' il crimine piu' grande commesso, e quei materiali nel tempo cambiano di significato fino a diventare un documento per il futuro in cui si raccontera' di un mondo ormai scomparso. Montando quel film, come sempre accade, ho lasciato fuori molto girato ma non penso di farne degli extra per un dvd. Non mi interessa, non sono un profeta sulla montagna ma appunto qualcuno che esplora i paesaggi, l'umanita', usando la macchina da presa. Se fossi vissuto all'inizio del secolo forse sarei stato un esploratore, avrei attraversato il Sahara o l'Antartide alla ricerca dell'ignoto. E' buffo, in questi giorni mi hanno raccontato la storia di Plinio il vecchio che per vedere da vicino l'eruzione del Vesuvio e' morto. Ecco, ai suoi tempi sarei stato come lui, e mi e' venuto in mente di avere fatto lo stesso, ma con piu' fortuna, girando La Soufriere. * - Cristina Piccino: C'e' anche un conflitto tra la realta' che lei racconta e il resto del mondo. - Werner Herzog: Credo che il conflitto entri naturalmente nell'atto della narrazione, non scrivo saggi e se scelgo proprio quelle storie e' per gli elementi del conflitto che esprimono. In Fata Morgana cercavo i segni dell'umanita' ma non come un'allucinazione, piuttosto in forma di miraggio. * - Cristina Piccino: Cosi' una figura marginale e' piuttosto una figura centrale. - Werner Herzog: Pensa a qualcuno in particolare? * - Cristina Piccino: Un personaggio come Kaspar Hauser, Fitzcarraldo o Aguirre... - Werner Herzog: E' esattamente l'opposto per me, uno come Kaspar Hauser non e' eccentrico ma e' il centro delle cose come puo' esserlo soltanto l'umanita' eretica. La societa' intorno e' invece eccentrica. La tribu' che filmo in Brasile e' l'ultima che prova a esistere fuori da una globalizzazione a cui e' impossibile sfuggire. E' ovvio che il contatto con l'occidente per loro si rivela molto tragico, ne sono devastati fisicamente e culturalmente. Muoiono per malattie a cui non sono immuni, e questa mancanza di anticorpi come rivelano le scelte di abbandonare ogni rapporto con le origini dei piu' giovani riguarda anche il loro universo di riferimenti culturali. Mi affascinava la consapevolezza che era l'ultima volta che vedevamo tutto questo, per l'ultima volta ci sono persone che in dieci minuti di contatto, come era l'obbligo del film, sono catapultati in diecimila anni della nostra civilizzazione. * - Cristina Piccino: Non crede che queste catastrofi siano espressione di un meccanismo culturale, politico, economico? Lei ha fatto anche un film su Bokassa ("Echoes from a somber empire"). - Werner Herzog: Ero la' quando e' stato arrestato cosi' ho iniziato a filmare, sentivo che era una storia che non si sarebbe comunque conclusa con la sua fine. La nostra civilta' ha lasciato in Africa la tragedia della schiavitu', anche se poi non penso che si dovrebbe guardare all'Africa come a un'unica entita'. Ci sono grandi legami di famiglie, tribu'... E' una tradizione complicata e sarebbe riduttivo riportarla solo al colonialismo. Ma non e' il mio punto di partenza, come dicevo cerco l'urgenza che sappia condurmi all'essenziale. * - Cristina Piccino: Cosa intende per essenziale? - Werner Herzog: Un rapporto fisico con i miei film, forse e' per questo che continuo a preferire la pellicola, mi sembra migliore come qualita' e inoltre obbliga a una maggiore concentrazione. Non si possono girare ore e ore specie con un budget limitato. Il digitale invece offre questa disponibilita', costa poco, e non credo che faccia bene a un cineasta. L'essenzialita' poi e' rendere il rapporto con il film fisico, reale, per questo mi piace anche portare a piedi la copia in proiezione, sentire che in quel peso c'e' il mio film. 4. LIBRI. CLARA JOURDAN PRESENTA "IL BAGAGLIO INVISIBILE" [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Via Dogana", n. 76 marzo 2006. Clara Jourdan, prestigiosa intellettuale femminista, e' particolarmente impegnata nelle esperienze della Libreria delle donne di Milano e della rivista "Via Dogana"] Forza dello spirito, dolcezza dell'anima e mani capaci: questo si portano in Italia le donne immigrate, secondo Vira Horila, una delle autrici del libro Il bagaglio invisibile, storie di vita e pratiche di mediazione interculturale (Assocoop e Rosenberg & Sellier, Torino 2004). Il libro e' uno dei risultati del corso per mediatrici culturali promosso nel 2003 a Brescia da Delfina Lusiardi e altre donne italiane e rivolto a donne straniere. Un altro risultato del corso e' Itiner-anze (itinerari e speranze), una lettura drammaturgica a piu' voci, che tredici donne di diverse nazionalita' portano in giro. Io vi ho assistito a Milano, nel novembre 2005 al Circolo della rosa (nel sito www.libreriadelledonne.it c'e' il resoconto di Serena Fuart) e l'ho trovata bella, toccante e interessante, tanto che vorrei raccomandarla per le scuole, anche perche' non ha quella recitazione artefatta che provoca la turbolenza delle scolaresche a teatro. Cio' che rende straordinario il libro - che contiene scritti di donne immigrate e di altre donne che hanno fatto il percorso con loro o che hanno letto i loro lavori - e' il suo essere frutto di un lavoro di messa in parola molto intelligente e di cui riesce a dar conto efficacemente. Leggendolo, scopriamo il protagonismo femminile delle donne immigrate, la presa di coscienza e gli sviluppi a cui tale protagonismo puo' portare. E il bagaglio invisibile che "una donna porta con se' quando lascia la casa materna per creare la propria dimora altrove" non e' piu' invisibile. Dell'importante contributo alla conoscenza del mondo attuale che questo volume molto ricco ci offre, vorrei segnalare alcuni punti: 1) Anche oggi c'e' un protagonismo femminile nell'emigrazione. "Sono partita da sola con i miei figli. Mio marito, come sempre, non decideva che cosa era meglio fare", scrive Valbona Jakova (p. 26). Parole che mi ricordano quelle di una donna intervistata da Cristina Borderias, nel suo lavoro sull'emigrazione femminile dall'Andalusia a Barcellona a meta' del secolo scorso (Strategie della liberta', Manifestolibri, Roma 2000). Tuttavia, piu' che il protagonismo di partire, emerge qui la realta' di un protagonismo da immigrata, nel paese di arrivo. 2) E' un protagonismo che mette in gioco i contenuti del bagaglio invisibile, un bagaglio preparato con particolare cura e che contiene l'essenziale, che e' un bene invisibile ai doganieri (p. 115). Questa del bagaglio invisibile e' un'idea molto bella, perche' permette di svincolare l'essenziale dalle difficolta', anche terribili, che spesso accompagnano le storie di migrazione. Il contenuto del bagaglio viene nominato in vari modi, come: "la memoria della casa materna" (p. 11), "lo spirito forte, l'anima dolce, le mani capaci di fare mille cose" (p. 23). Nominazioni che ci aprono gli occhi su cio' che viene portato a noi, abitanti del paese di arrivo. L'apporto femminile allo scambio tra culture non e' nuovo nella storia, lo scambio delle donne ha sempre caratterizzato l'opera della civilta' - sostiene M. Milagros Rivera Garretas (Mujeres en relacion, Icaria, Barcelona 2001) -, non come lo intesero gli antropologi (le donne oggetto di scambio) ma "viaggiando e accogliendo chi arriva, noi donne insegniamo la pratica della relazione". Nel libro delle amiche bresciane tutto cio' prende una concretezza precisa, che riguarda la realta' in cui viviamo noi oggi in Italia; una concretezza di parole e di volti che ci fa guardare in modo nuovo e grato alle donne immigrate, che sappiamo essere consapevoli di se' e delle possibilita' di scambio con noi. 3) Un contenuto del bagaglio invisibile e' la lingua materna, e questo e' specialmente prezioso per noi, perche' puo' fare da ponte nel rapporto con altre e altri immigrati. L'aspetto che piu' mi ha colpito del protagonismo di queste donne e' proprio quello di essere mediatrici culturali. I racconti e le riflessioni sulle pratiche di mediazione, in particolare quelle con adulti, li ho trovati di grande importanza. Sono pratiche conseguenti al corso di formazione, anche se il caso di Nacera Belmenouar (p. 149 ss), che aveva cominciato a fare la mediatrice con le sue connazionali spontaneamente, per suo desiderio e piacere, mostra che la mediazione culturale prima che essere una professione e' parte della "competenza dell'esserci" di molte donne (uso l'espressione di Ina Praetorius, "Via Dogana" n. 60, marzo 2002). Ma non e' necessariamente una "vocazione" femminile, di fatto il corso e poi il lavoro di mediatrice sono state un'occasione che queste donne hanno voluto cogliere: "Come avevo capito, scrive Olha Vdovychenko, era l'unico modo per far rispettare le nostre lauree in Italia" (p. 214). E' notevole il contributo che il libro da' alla costruzione di questa nuova professione, che non richiede solo di tradurre ma di curare la relazione tra le parti; una pratica creativa di cui nei testi viene elaborato il senso, le esperienze, le invenzioni, e anche i limiti. Leggendo, si ha l'impressione di trovarci in un "passaggio simbolico epocale" come quello che ha fatto accadere Florence Nightingale nella seconda meta' dell'Ottocento creando la professione di infermiera (Daniela Riboli, Quaderno di Via Dogana in preparazione). Centrale, a mio avviso, e' che la mediatrice culturale e' una professione che comporta un protagonismo necessario di donne (senza escludere uomini) immigrate, poiche' si tratta di un lavoro che non puo' essere svolto con altrettanta competenza dalle native, come nota Giannina Longobardi (p. 225). 4) L'importanza della lingua materna nell'opera di mediazione culturale viene sottolineata anche nel rapporto con i figli e le figlie: Farida Butt, che e' nata in Inghilterra da genitori pakistani, facendo un confronto con la situazione inglese dove la terza o quarta generazione di immigrati ha ormai perso la lingua di origine, sostiene che "la religione diventa un fattore di identita' dopo che si e' spezzato il filo che tocca le corde piu' profonde, quello della lingua madre" (p. 205). La cura di queste mediatrici interculturali affinche' non vada perduta la lingua della madre viene considerata da Elisabeth Jankowski "il segno di un cambiamento nel quale sono le principali protagoniste" (p. 227), perche' "una madrelingua e' tutto cio' che non sapremo mai in una lingua straniera" (p. 230). La lingua materna pero', va detto, non e' sentita in contrapposizione alla lingua del posto di arrivo, che anzi ha anch'essa una propria funzione mediatrice insostituibile: "Questa bellissima lingua italiana che ci unisce e ci consente di comunicare tra noi stranieri di tutto il mondo, riuniti a Brescia", dice Paulina Gutierrez Witt (p. 186). Il libro in effetti e' scritto nella lingua italiana, e in un ottimo italiano. 5. INCONTRI. "LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA", UN SEMINARIO PROMOSSO DAL MOVIMENTO NONVIOLENTO IL 21-22 OTTOBRE A VERONA Si svolgera' a Verona il 21 e 22 ottobre il seminario sul tema "La politica della nonviolenza (alla prova della guerra)" promosso dal Movimento Nonviolento. * Programma: - Sabato 21 ottobre, ore 10: relazione introduttiva. Prima sessione "La teoria della nonviolenza, sulla guerra" (mattina, ore 10-13). Seconda sessione "La pratica della nonviolenza, nella politica" (pomeriggio, ore 15-19). Serata libera, con due proposte: a) visita guidata alla mostra "Mantegna a Verona", b) laboratorio del "Teatro dell'oppresso" sui temi discussi. - Domenica 22 ottobre, ore 9. Terza sessione "La strategia della nonviolenza, le iniziative" (mattina, ore 9-11). Conclusioni (ore 11-13). Ogni sessione verra' sollecitata da una griglia di domande. Il Seminario si svolgera' presso la Sala "Comboni" dei padri comboniani, in vicolo Pozzo 1, Verona. * Informazioni logistiche Il seminario si svolgera' presso la sala "Comboni" dei Padri Comboniani, in vicolo Pozzo 1 (rione di San Giovanni in Valle, quartiere di Veronetta, nel centro storico, vicino a Piazza Isolo) a Verona. Il pernottamento e' previsto presso l'Ostello della gioventu' (15 euro, con prima colazione), ma e' necessario prenotarsi per tempo, entro il 15 ottobre. L'ostello (in via Fontana del Ferro) si trova a cento metri dalla sede del seminario. Nelle vicinanza vi sono vari locali a prezzi contenuti per il pranzo e la cena (cena presso l'ostello, solo per gli ospiti, a 7 euro). La Sala Comboni e l'Ostello sono situati sulla collina, immersi nel verde. Ampia possibilita' di parcheggio. Collegamento diretto dalla atazione con l'autobus n. 73 (frequenza ogni 30 minuti, tempo di percorrenza 20 minuti, scendere al capolinea di via Ponte Pignolo). * Per informazioni e prenotazioni Casa per la nonviolenza, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1436 del 2 ottobre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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