La nonviolenza e' in cammino. 1436



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1436 del 2 ottobre 2006

Sommario di questo numero:
1. Giovanna Providenti: Il potere trasformativo di nonviolenza e femminismo
2. Tommaso Rondinella e Duccio Zola intervistano Vandana Shiva
3. Cristina Piccino intervista Werner Herzog
4. Clara Jourdan presenta "Il bagaglio invisibile"
5. "La politica della nonviolenza", un seminario promosso dal Movimento
Nonviolento il 21-22 ottobre a Verona
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. GIOVANNA PROVIDENTI: IL POTERE TRASFORMATIVO DI NONVIOLENZA
E FEMMINISMO
[Ringraziamo Giovanna Providenti (per contatti: providen at uniroma3.it) per
questo intervento. Giovanna Providenti e' ricercatrice nel campo dei peace
studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre,
saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con
particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa
al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il
volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco
Angeli, Milano 2003, e il volume La nonviolenza delle donne, "Quaderni
satyagraha", Firenze-Pisa 2006; ha pubblicato numerosi saggi su rivista e in
volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane
Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare
la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M.
Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e
genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come
progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria
Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in
cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra
Alfassa e Maria Montessori]

Il contributo che "La nonviolenza delle donne" [titolo del recente volume
dei "Quaderni satyagraha" monografico sul tema, da Giovanna Providenti
curato - ndr] intende dare agli studi per la nonviolenza e' stato in parte
espresso da Valeria Ando' e Luisa Del Turco [nel seminario appunto su "La
nonviolenza delle donne" nell'ambito del convegno di Pisa dell'8-11
settembre 2006 nel centenario della nascita del satyagraha - ndr]: la prima
mettendo in rilievo la necessita' che "la nonviolenza assuma un'ottica di
genere e renda pertinente la differenza sessuale all'interno del suo
impianto strutturale teorico-pratico", e la seconda avendo rilevato come
molte pratiche delle donne "a livello individuale e collettivo e in varie
aree epoche e aree geografiche" concernano la "gestione non violenta dei
conflitti", pur se non sempre sono definibili "nonviolente" nel senso che
questo termine ha assunto teoricamente. Sono nonviolente in pratica piu' che
in teoria.
Cosa aggiungere a questo? Vorrei provare a dire qualcosa in piu' sul
significato che ha, e ha avuto finora per me, l'intreccio tra femminismo e
nonviolenza che e' un po' la trama sottostante La nonviolenza delle donne.
Quello che voglio dire riguarda due tensioni vitali (sia nonviolente sia
femministe) che mi stanno particolarmente a cuore e che sono la trama dei
miei percorsi di ricerca e di lavoro in questo momento della mia vita. Sono:
autenticita' e liberazione.
La nonviolenza, come dice giustamente Valeria, e' un percorso di
trasformazione di se' e del mondo. Il femminismo e' un percorso di
emancipazione e di destrutturazione da condizionamenti culturali tendenti a
sopravvalutare il maschile e sottovalutare il femminile e attivi a livello
sia consapevole che inconsapevole. Entrambi, femminismo e nonviolenza, sono
percorsi di liberazione, sia collettiva che personale, ma solo se svolti con
autenticita' e radicalita'. Entrambi sono percorsi di trasformazione della
societa' a partire dall'individuo.
*
Il mio personale percorso di liberazione e "trasformazione" parte dalla
nonviolenza. Vivevo allora in Sicilia, ero adolescente, erano gli anni
Ottanta. Facevo politica pacifista. Oltre ad occuparci di denuclearizzazione
e manifestare contro i missili a Comiso, avevamo formato, a Messina, un
piccolo gruppo di studio di amici della nonviolenza: leggevamo Aldo Capitini
e alcuni di noi avevamo anche fatto la scelta del vegetarianesimo. Lo
ricordo come un periodo della mia vita ricco, intenso e autentico. Ma
mancava qualcosa. A me personalmente, intendo.
E questa cosa che mi mancava era molto connessa al fatto che, nonostante
fossi una donna, sembrava non avessi bisogno di fare il femminismo, dato che
i gruppi che frequentavo io, e anche in famiglia, mi trattavano tutti come
se fossi un uomo. Inoltre avevo fatto esattamente gli stessi studi (persino
la stessa sezione liceale e gli stessi professori, nonostante i due anni di
scarto) di mio fratello. Non c'era niente da rivendicare, nessuna
ingiustizia.
Invece ero, sono, una donna. Come poteva bastarmi essere trattata e formata
come un uomo?
Ma ho avuto bisogno di molto tempo, e del femminismo, per capire che quello
che da mio padre, come da mia nonna e mia madre, era inteso come un
privilegio era invece una orribile mutilazione.
Ho avuto bisogno di altre donne, molte donne, che mi parlassero, soprattutto
attraverso i libri (perche' a differenza della nonviolenza il mio approccio
al femminismo e' stato soprattutto attraverso scritti di donne libere e non
maschilizzate che ancora adesso ricerco e raccolgo con la passione di una
collezionista di opere rare) per capire che la mia liberazione, per essere
autentica e compiuta, aveva bisogno di "passare attraverso un'altra donna",
una donna che potesse darmi la fiducia di poter fare a meno dei miei
privilegi da uomo, una o piu' donne che mi accompagnassero per mano nel
pozzo della disgrazia delle donne, e da li' mi aiutassero a risalire piu'
ricca e sicura a non volere piu' rinunciare a "tutto quello che si sa quando
si viene su dal pozzo" (Alba De Cespedes).
*
Il femminismo e' lo strumento che ha dato alle donne la possibilita' di
risalire, ed anche di uscire, dal pozzo della loro disgrazia culturalmente
determinata. Ed ha aiutato donne privilegiate come me a fare quel passaggio
in piu' per comprendere cos'e' che mi mancava, dov'era l'inganno dell'essere
uguale ad un uomo. Ho imparato non solo a valorizzare la mia differenza in
quanto donna, ma anche a decostruire tutto un simbolico fortemente
disprezzante del femminile in cui sono cresciuta, e mi sono formata, a tal
punto da cascare nell'illusione di credere che potevo essere valida solo se
sceglievo di essere "come un uomo".
Anzi, di essere uomo. Di accettare che la storia studiata a scuola, fatta di
guerre, rivoluzioni, passaggi di potere da una classe sociale all'altra,
fosse la mia storia. Mentre invece cosi' non e': fino al Settecento le donne
sono state a fare tutt'altro che quello che sta scritto nei libri scolastici
di storia; nei due secoli successivi, XIX e XX, sono state protagoniste
della storia, faticosa, complessa, per niente lineare e progressiva (anzi
con molti sbalzi all'indietro) e piena di fraintendimenti, che e' la storia
della liberazione delle donne, o storia del femminismo.
*
A due secoli dall'inizio della storia del femminismo ancora perdura un
simbolico maschilista nel linguaggio per cui sono moltissimi i termini (ad
esempio quelli concernenti le professioni) che al femminile assumono un
connotato dispregiativo. Ed anche all'interno dell'ambito degli amici della
nonviolenza sembra difficile a molti uomini rinunciare alle battutine
dispregiative nei confronti delle donne, cosi' come pronunciare parole
chiare e forti sia contro la violenza alle donne (con l'importante eccezione
dell'appello da parte di un folto gruppo di uomini dal titolo "La violenza
contro le donne ci riguarda", su internet da settembre 2006) sia a favore di
un percorso di liberazione che tutte e tutti noi dovremmo compiere prima di
poterci dichiarare autenticamente amici e amiche della nonviolenza. Mi
riferisco alla liberazione dalla cultura patriarcale profondamente radicata
dentro di noi.
E' a causa di questo radicamento patriarcale dentro la nostra anima che
ancora molti degli uomini nostri amici, e amici della nonviolenza, non si
accorgono, ad esempio, che parlando di bioetica e di aborto, e
pronunciandosi per la responsabilita' da assumere nei confronti della vita,
di ogni vita, continuano ad oggettivizzare il corpo della donna, non
riuscendo a distinguere e a pronunciare le proprie responsabilita' in quanto
maschi, responsabilita' precedenti la presenza di un embrione nel corpo di
una donna.
Ma la tendenza ad oggettivizzare i corpi, dimenticandosi che si tratta
invece di persone umane dotate di capacita' di autodeterminazione, e'
diffusa tra scienziati e dottori che nella loro smania di prevenire e curare
malattie (e praticare parti cesarei o altre operazioni chirurgiche per
estirpare "tumori" anche benigni) sulla base di calcoli temporali e dati
statistici dimenticano che la malattia, come la morte, e' parte essenziale
della nostra vita, ed esiste perche' noi possiamo metterci in relazione con
essa. E anche di questo dovrebbe occuparsi la bioetica. A questo proposito
rimando a Barbara Duden, I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo
storico sul corpo delle donne, (Boringhieri, 2006).
La malattia e' uno strumento potentissimo, ad ogni persona umana, per avere
l'occasione di fermarsi con se stessa ed entrare in relazione autentica con
parti di se' che fa fatica ad accettare, spesso proprio perche' la cultura
non le permette di accettare.
La malattia potrebbe essere un potente strumento, per uomini e donne, per
osservare in maniera autentica e decostruire quel radicamento patriarcale di
cui io sto imparando a liberarmi sia grazie alla nonviolenza sia grazie al
femminismo.
*
E allora, per me personalmente, occuparmi di nonviolenza e femminismo,
intrecciandoli insieme in questa trama molto intricata e piena di resistenze
(anche coi miei amici uomini sto imparando a discutere per non doverli
sempre schivare) e' una sorta di operazione salutare. Invece che prevenire,
termine molto in voga oggi tra i medici, sottoponendomi a strumenti
diagnostici spesso invasivi e dolorosi, cerco di mettermi in relazione con
eventi, persone e condizioni esistenziali per come autenticamente sono.
Questo mettermi in relazione autentica ha un forte potere trasformativo.
Ho capito che la liberazione da una condizione di ingiustizia e/o di
oppressione deve comprendere non tanto il corpo politico, quanto il nostro
corpo, sia fisico sia psichico. E a partire da me, da ognuno di noi.
Emanciparsi non significa passare a una condizione di privilegio, bensi'
trasformare profondamente se stessi, e attraverso se stessi la societa'.
Sia la nonviolenza che il femminismo sono strumenti di pratica politica
utili (per me lo sono stati) ad assumere consapevolezza rispetto alla
necessita' di una tale radicale trasformazione, sia personale che sociale,
per potere vivere in modo, e in un mondo, migliore.

2. RIFLESSIONE. TOMMASO RONDINELLA E DUCCIO ZOLA INTERVISTANO VANDANA SHIVA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 settembre 2006.
Tommaso Rondinella e' impegnato nell'associazione Lunaria e nella campagna
"Sbilanciamoci" per la quale ha curato due rapporti pubblicati nel 2006.
Duccio Zola e' un ricercatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione
Lunaria di Roma.
Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti
istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni
Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa
dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di
riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli,
di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia
di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti
pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo,
Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino
1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze,
DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta
di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano
2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della
globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli,
Milano 2006]

Quando inizia a parlare Vandana Shiva le sue parole hanno il tono pacato
dell'argomentazione. Ma quando arriva al cuore della sua riflessione, il
timbro di voce diventa piu' imperioso, come chi e' talmente sicura di cio'
che sta sostenendo che deve dirlo con forza e foga. Laureata in fisica
quantistica e in economia, ricercatrice per molti anni, Vandana Shiva fa
parte di quegli "scienziati dai piedi scalzi" che a un certo punto della
loro vita hanno lasciato i laboratori per verificare gli "effetti
collaterali", cioe' le conseguenze delle loro ricerche e scoperte. Per
questa indiana nata in uno stato nel nord dell'india, il punto di svolta e'
stato quando si e' imbattuta in un progetto della Banca mondiale che aveva
distrutto l'economia locale di una regione indiana.
Da allora, infatti, ha abbandonato la ricerca scientifica per dare vita nel
1982, assieme ad altri ricercatori, al "Centro per la scienza, tecnologia e
politica delle risorse naturali". Il primo risultato della sua nuova
attivita' di sudiosa e' condensato dal libro Sopravvivere allo sviluppo
(Isedi). Da allora ha pubblicato molti saggi, tutti estremamenti critici
verso la "globalizzazione neoliberista", di cui vanno ricordati
Biodiversita', biotecnologie e agricoltura scientifica (Bollati
Boringhieri), Biopirateria. Il saccheggio della natura e saperi locali
(Cuen), Vacche sacre e mucche pazze (DeriveApprodi), Il mondo sotto brevetto
(Feltrinelli) e Le guerre dell'acqua (Feltrinelli).
In Italia per un ciclo di conferenze - e' stata ospite del forum della
campagna Sbilianciamoci e ha partecipato alla rassegna "Torino
Spiritualita'" - abbiamo incontrato Vandana Shiva e con lei abbiamo parlato
del suo ultimo libro Il bene comune della Terra, da poco uscito per
Feltrinelli.
*
- "Il manifesto": Nel tuo libro descrivi la relazione tra questo modello di
globalizzazione economica e il diffondersi di terrorismi e fondamentalismi.
Puoi illustrarci questo legame?
- Vandana Shiva: Cio' che cerco di evidenziare sono i percorsi che generano
una cultura di "sfruttabilita'", basata sul poter disporre di tutto e tutti
perche' a ogni cosa e a ognuno e' assegnato un prezzo. Questa condizione,
economica e culturale allo stesso tempo, cambia il modo in cui pensiamo
l'uno all'altro e in cui ci mettiamo reciprocamente in relazione, ed e'
all'origine di innumerevoli conflitti. Essa favorisce l'affermazione di
"identita' in negativo", basate su un atteggiamento escludente, che rifiuta
l'altro. Questo modello di sviluppo che nega diritti, marginalizza ed
espropria e' alla radice di fondamentalismo e terrorismo. Innesca una
processo che non e' insito in nessuna cultura, ma che si alimenta quando
vengono create persone "usa e getta". Per fare un esempio, la crescita
indiana che si legge sui giornali di tutto il mondo nasconde espropri di
terra mai visti prima. E la terra sequestrata e' quella dei piccoli
contadini, dei piu' poveri. Le terre vengono poi acquistate a prezzi
irrisori dalle grandi compagnie transnazionali, che cosi' possono produrre a
prezzi stracciati. Questo sta causando massicce migrazioni verso le citta',
dove le popolazioni sradicate, senza terra ne' lavoro, si aggiungono alle
masse di disperati che affollano le periferie, causando un aumento
dell'instabilita'.
*
- "Il manifesto": Da tempo sostieni la necessita' di un controllo diretto
sulle risorse e sui beni comuni attraverso una "localizzazione
dell'economia" e una ridefinizione dei confini della democrazia. Cosa
implica sul piano politico questa concezione?
- Vandana Shiva: Rispetto alla mia idea di democrazia, il modello
neoliberista di globalizzazione non e' altro che il dominio di istituzioni
sovranazionali non democratiche e ostaggio di poche, potentissime
multinazionali. La distanza e' un fattore che isola. Ecco perche' la pratica
della localizzazione, del mettere al centro gli interessi e le legislazioni
locali, riveste un'importanza fondamentale. La localizzazione permette di
assicurare giustizia e sostenibilita'. Cio' non significa che ogni decisione
debba essere presa a livello locale, ma che debba essere discussa e
approvata anche a livello locale: le decisioni migliori si prendono laddove
il loro effetto puo' essere percepito piu' chiaramente. E' importante
sottolineare che questo principio costituisce un imperativo ecologico. Le
crisi ambientali che affliggono il nostro pianeta derivano da un
disconoscimento del ruolo delle risorse naturali. Per risolvere queste crisi
e' necessario che le comunita' locali recuperino il controllo delle proprie
risorse per costruire un'economia sostenibile. Riconquistare i beni comuni
comporta dunque la necessita' di poter esercitare un controllo sulla
gestione statale delle risorse, delle decisioni e delle politiche di
sviluppo economico. Ma al tempo stesso e' necessario riprendere possesso
delle risorse privatizzate dalle multinazionali attraverso gli accordi del
Wto e i programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale e del
Fondo Monetario.
*
- "Il manifesto": Nel tuo ultimo libro denunci l'esistenza di un genocidio
ai danni di donne e piccoli agricoltori...
- Vandana Shiva: In India mancano all'appello 36 milioni di donne a causa
dell'aborto selettivo praticato sui feti femminili. Nel mondo la cifra
raggiunge i sessanta milioni. Il feticidio e' la diretta conseguenza
dell'esclusione delle donne da un sistema produttivo basato sull'agricoltura
industriale, sul consumismo, sulla mercificazione di ogni aspetto della vita
umana. Questo avviene nelle regioni agricole, ma soprattutto nelle zone
urbane o suburbane. A Dehli troviamo il piu' alto tasso di alfabetizzazione
e i redditi piu' elevati di tutta l'India, e allo stesso tempo il maggior
numero di violenze sulle donne, a partire da stupri, molestie sessuali e
morti per dote. Il censimento del 2001 registra a Dehli 140.000 bambine
sotto i sei anni in meno rispetto alle tendenze demografiche.
Parallelamente, lo sviluppo dell'agricoltura industriale, basata su
costosissime tecnologie, sul massiccio impiego di fertilizzanti e pesticidi
chimici, e sull'imposizione delle sementi geneticamente modificate, causa il
fallimento dei piccoli agricoltori incapaci di sostenere i costi e la
concorrenza di questi metodi. Solo nel 2004, 16.000 contadini si sono tolti
la vita in India. I suicidi dei contadini poveri derivano
dall'indebitamento, provocato dall'aumento dei costi di produzione e dal
crollo dei prezzi dei prodotti agricoli. I suicidi sono l'esito inevitabile
di una politica agricola che protegge gli interessi del capitalismo globale
e ignora quelli dei piccoli agricoltori. Per questo io non parlo di suicidi,
ma di genocidio.
*
- "Il manifesto": La rete contadina Navdanya, che hai fondato e che
coordini, si propone come un'alternativa per i piccoli contadini indiani
minacciati dalle multinazionali del settore agroalimentare. Quali sono le
vostre pratiche e i vostri obiettivi?
- Vandana Shiva: Navdanya significa "nove semi", un nome che evoca la
ricchezza della diversita' e il dovere di difenderla di fronte all'invasione
delle biotecnologie e delle monoculture dell'agricoltura industriale.
Insieme ai brevetti che monopolizzano i diritti sulla proprieta'
intellettuale introdotti dal Wto, dalla convenzione sulla biodiversita' e da
altri accordi commerciali, le biotecnologie riducono la diversita' delle
forme di vita al ruolo di materie prime per l'industria e i profitti. I semi
geneticamente modificati intrappolano i piccoli agricoltori in una gabbia di
debiti e menzogne. Per questo li chiamo "semi del suicidio". Essi sono resi
sterili in modo tale che non possano riprodursi e debbano venire acquistati
dai contadini ogni anno a caro prezzo. I brevetti dei semi sono di
proprieta' di multinazionali come la Monsanto, che in questo modo si
appropriano della fonte di vita e dei diritti di due terzi dell'umanita'.
Per far fronte a questa situazione Navdanya, che oggi conta quasi 300.000
agricoltori, ha creato delle economie locali alternative che controllano i
processi di produzione e distribuzione degli alimenti e tutelano i
produttori locali. I contadini della rete adottano coltivazioni biologiche
differenziate che proteggono la fertilita' dei terreni e la biodiversita',
evitando l'uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. In questo modo si
migliora la produttivita' e l'apporto nutritivo dei raccolti, recuperando
anche il 90% dei costi di produzione. Le entrate sono tre volte superiori a
quelle degli agricoltori che si servono di prodotti chimici, non vengono
prodotti rifiuti tossici e danni alla biodiversita'. Inoltre, il sistema di
commercio equo che regola la distribuzione dei prodotti ci protegge dalla
insicurezza dei mercati e delle speculazioni finanziarie. Coltivazione
organica e commercio equo offrono invece sicurezza sul piano delle scelte
alimentari, della salute e della stabilita'. In questo modo tutti -
agricoltori, ambiente e consumatori - ricavano un grande beneficio.
*
- "Il manifesto": Di fronte a una situazione cosi' grave, riesci a indicare
una possibile via d'uscita?
- Vandana Shiva: Cento anni fa in Sudafrica Gandhi rifiuto' la segregazione
razziale, affermando il diritto di non obbedire a leggi ingiuste. La
disobbedienza civile implica la scelta della nonviolenza e della
noncooperazione pacifica. Credo che anche oggi questa sia la strada da
seguire, a cominciare dalla resistenza alla brevettazione dei semi indiani.
In India e' in discussione una legge che potrebbe portare alla proibizione
dell'utilizzo di sementi proprie da parte dei contadini. Sementi che da
migliaia di anni vengono conservate e trasmesse - di generazione in
generazione e di raccolto in raccolto - verrebbero cosi' bandite per far
posto alla commercializzazione di semi prodotti nei laboratori di
multinazionali come la Monsanto, e venduti a caro prezzo. Noi sappiamo che
le varieta' di sementi indigene, conservate e selezionate localmente,
rappresentano la nostra garanzia ecologica ed economica, perche' sono in
grado di adattarsi perfettamente alle condizioni climatiche e geologiche
delle diverse regioni indiane. Non si possono criminalizzare centinaia di
milioni di piccoli agricoltori che non sono disposti a sottomettersi al
modello agricolo imposto dalle multinazionali. Per conquistare la nostra
liberta' economica e politica e' necessario guardare ancora una volta a
Gandhi, alle sue idee di autogoverno e autoproduzione locale.
*
- "Il manifesto": Nei tuoi interventi dimostri sempre come sia possibile
rimpossessarsi dei beni comuni, attraverso degli esempi concreti. Come
quello della mobilitazione contro la Coca Cola in Kerala...
- Vandana Shiva: Un esempio che dimostra le possibilita' di vittoria da
parte del movimento democratico globale. La lotta ha avuto inizio nel 2000
dalle donne di Plachimada, un piccolo villaggio del Kerala sede di uno
stabilimento della Coca Cola. Uno stabilimento che era arrivato a consumare
un milione e mezzo di litri d'acqua al giorno e a produrre siccita' in tutta
l'area circostante, da sempre ricca di acqua. A questo si deve aggiungere
l'inquinamento prodotto dagli scarti produttivi e la contaminazione dei
terreni. Le donne hanno cominciato ad assediare i cancelli dello
stabilimento, a organizzare manifestazioni e sit-in, coinvolgendo tutte le
comunita' della regione. Si e' cosi' deciso di ricorrere all'Alta Corte di
Giustizia del Kerala. Che ha dato ragione alle donne di Plachimada, con una
storica sentenza che sostiene il carattere di bene pubblico dell'acqua: nel
2004 il governo regionale e' stato costretto a chiudere lo stabilimento.
Questo ha prodotto una moltiplicazione delle lotte in tutta l'India, e la
formazione di una campagna nazionale di boicottaggio nei confronti di Coca
Cola e Pepsi. Ad oggi piu' di cinquecento tra villaggi, scuole e universita'
e si sono dichiarate "Coca Cola e Pepsi Free". Questa vicenda dimostra cio'
che Gandhi ci ha insegnato: solo prendendo coscienza delle nostre
responsabilita' si possono ottenere i diritti, solo iniziando a vivere
liberamente si puo' ottenere la liberta'.
*
Scheda: Un mondo visto pensando a Gandhi
Fisica quantistica, premio Nobel alternativo per la pace, fondatrice e
direttrice del Research Foundation for Science, Technology and Natural
Resource Policy e della rete contadina Navdanya, animatrice di movimenti
sociali in India e fuori, Vandana Shiva e' un'instancabile divulgatrice sui
temi dell'ecologia, delle donne, dello sviluppo, delle biotecnologie. Il suo
ultimo libro, Il bene comune della Terra (Feltrinelli, pp. 212 , euro 14) e'
un condensato del suo impegno trentennale di scienziata e attivista. Che la
Shiva riassume cosi': "Ho scelto di concentrare le mie energie su quei
settori in cui un intervento democratico diventa fondamentale per la
sopravvivenza del pianeta e del genere umano. Ecco perche' mi batto per la
difesa dell'acqua, delle sementi e del cibo come beni comuni e risorse
prioritarie". Un'affermazione che rimanda ai temi centrali del testo, beni
comuni e democrazia appunto. Il risultato e' un prezioso lavoro di ricerca e
testimonianza in cui la Shiva descrive la strada verso una "democrazia della
Terra" (Earth Democracy e' il titolo originale dell'opera). Un percorso gia'
avviato da chi, le donne e i piccoli contadini del sud del mondo in primo
luogo, subisce le conseguenze nefaste del neoliberismo e ad esso contrappone
"economie, culture e democrazie che apportano la vita". Esperienze radicate
nelle realta' locali e nelle mobilitazioni per la protezione delle risorse
naturali e dei servizi pubblici. Si inizia da una ricostruzione delle
origini del capitalismo, dall'esproprio e la privatizzazione delle terre
comuni nell'Inghilterra del diciottesimo secolo. Vandana Shiva illustra la
continuita' della traiettoria storica ed economica di quella che oggi
chiamiamo globalizzazione neoliberista. La differenza, da allora, sta nella
scoperta di un nuovo, ricchissimo territorio di conquista: la vita umana.
Brevettazione dei semi e dei saperi, privatizzazione dei beni comuni, sono
le armi di cui si servono gli alfieri del neoliberismo globale - le
multinazionali del settore agroalimentare e farmaceutico, innanzitutto,
insieme a Wto, Banca Mondiale e Fondo Monetario - e i bersagli della Shiva.
Segue la denuncia delle devastazioni ecologiche e sociali prodotte da questo
modello di "sviluppo" - infertilita' dei suoli, inquinamento atmosferico,
siccita', il dilagare degli aborti selettivi dei feti femminili, i suicidi
dei contadini -, effetto di un sovvertimento della naturale gerarchia delle
relazioni economiche: le economie della natura e della sussistenza, basate
sulla tutela della biodiversita', dei cicli biologici della natura e legate
al controllo democratico delle comunita', sono sottomesse agli imperativi
dell'economia di mercato, che riduce tutto a merce, guarda ai profitti e non
ai costi sociali e ambientali della crescita capitalistica. Di fronte a
tutto cio', la Shiva rivendica il diritto e il dovere di resistere, di
rivendicare diritti e democrazia, di agire dal basso con la nonviolenza e la
disobbedienza civile: a cento anni di distanza, l'eredita' di Gandhi e'
ancora viva.

3. RIFLESSIONE. CRISTINA PICCINO INTERVISTA WERNER HERZOG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 settembre 2006.
Cristina Piccino scrive sul quotidiano "Il manifesto", si occupa
prevalentemente di cinema, spettacolo, cultura.
Werner Herzog, nato a Monaco nel 1942, inquieto viaggiatore, regista
cinematografico, personalita' controversa, ha realizzato opere abbaglianti
per profondita' ed enigmaticita' di sguardo, con cui ha sondato dolori
abissali. Opere di Werner Herzog: sulla follia della guerra, del potere, del
colonialismo, del militarismo cfr. almeno Aguirre, furore di Dio (1972),
Woyzeck (1978), Apocalisse nel deserto (1991-92); sulla violenza del potere,
e sulle condizioni di vita di esclusione ed emarginazione molti film di
Herzog apportano descrizioni ed analisi fin terribili. Taluni suoi film sono
sguardi e rappresentazioni di una violenza e di un dolore intollerabili,
tali che talora crediamo che sarebbe stato giusto non realizzare simili
opere. Opere su Werner Herzog: Fabrizio Grosoli, Elfi Reiter, Werner Herzog,
Il Castoro Cinema]

La biografia ci dice che Werner Herzog e' nato a Monaco nel 1942, la
generazione della guerra e del tabu' del nazismo rimosso a lungo negli anni
a venire. Che da bambino nel piccolo villaggio della Baviera non aveva mai
visto un telefono o un film, adolescente pero' scopre il gusto di viaggiare
a piedi, piu' in la' diventera' leggenda la camminata fatta come voto per
salvare dalla morte l'amica Lotte Eisner - la cui voce accompagna le
immagini di Fata Morgana. Il viaggio insomma ce l'ha nel codice genetico
questo ragazzo che in realta' si chiama Werner H. Stipetic. Come il cinema.
Infatti se la prima telefonata dice di averla fatta a diciassette anni, a
diciannove lavora come guardiano in una fabbrica per produrre il primo film.
Del resto ancora oggi Herzog racconta tranquillamente di non essere un
cinefilo, di Rossellini, per esempio, ha visto solo due film. Ricorda un
aneddoto al festival di Cannes, tutti glielo volevano presentare ma era una
serata di festa, si beveva champagne: "Mi sembrava terribile in quel
contesto trovarmi davanti a Rossellini entrambi obbligati a dire qualcosa.
Cosi' sono fuggito via...". Ama anche Padre padrone dei Taviani e Il salone
della musica di Ray per la consapevolezza con cui usano la componente
musicale. Tra i suoi compagni di cinema in quella che esplose, anche loro
malgrado, come la "nuova onda tedesca" non ha mai nascosto di sentirsi
vicino a Fassbinder: "La sua aria da contadino bavarese mi ha dato subito
l'impressione che c'era qualcosa di forte in lui, e una vicinanza nel nostro
modo di pensare il cinema".
E' un viaggiatore solitario Herzog, attratto da geografie invisibili e
visionarie, con una curiosita' verso l'altro (l'altrove) talvolta ai limiti
dell'ambiguo. Le sue epifanie infatti si amano o si detestano come i suoi
eroi e la mitologia che li circonda. La passione per lo spazio era pero'
quella di una generazione cresciuta con l'idea (incubo? utopia?)
dell'"alieno", credendo il futuro, e la fantascienza, ancora possibili.
Klaus Kinski, Kaspar Hauser, le foreste dell'Amazzonia massacrate dall'uomo
che voleva costruirvi un teatro d'opera (Fitzcarraldo), la decomposizione
per miraggi dell'umanita' tracciata percorrendo nel '71 (Fata Morgana) il
Sahara che ritrova (Apocalisse nel deserto, '92) nella sovrimpressione tra i
pozzi petroliferi in fiamme durante la prima guerra del Golfo e la fine del
mondo. Fata Morgana, Apocalisse nel deserto, La soufriere, Ten thousand
years older (nel film collettivo Ten minutes older), li abbiamo rivisti a
Procida, perfetta sinergia col festival dedicato alle catastrofi del cinema,
del millennio, della storia, Fata Morgana proiettato sul battello con lo
schermo spazzato via dal vento nello sguardo quasi complice del regista il
cui ultimo film, Rescue Dawn, parla del Vietnam mentre lui sta per partire
per l'artico come osservatore "interno" con la distanza obbligata
dall'obiettivo di un grande vulcano attivo.
"Il mio curriculum non e' quello tradizionale delle scuole di cinema ma e'
un insieme di fantasie selvagge intorno a alcune domande", dice di se' sul
suo sito dove pero' nella filmografia non troviamo Julien Donkey-Boy di
Harmony Korine, "ordinaria" catastrofe di orrori familiari con Herzog in
mutande, padre di famiglia, lui che come quelli della sua generazione in
Germania si muovono intorno e dentro la vertigine dell'assenza dei padri
(nazisti).
*
- Cristina Piccino: Il suo cinema cerca spesso situazioni non ripetibili:
filmare la tribu' in Amazzonia di "Ten thousend older" destinata a
scomparire dopo l'incontro con l'occidente o l'isola di Guadalupe prima che
esploda il vulcano.
- Werner Herzog: L'aspetto che piu' mi affascina nel fare film e' la
possibilita' di creare una nuova grammatica con le immagini indagando al
tempo stesso sulla condizione umana. Mi sembra di essere uno scienziato che
maneggia una materia sconosciuta, e solo provandola in condizioni estreme
riesce a capirne la sostanza. Quando ho girato The Wild Blue Yonder, un film
che amo molto per l'urgenza con cui l'ho fatto, pochissimi giorni e nel
mezzo di molti impegni, sentivo che stavo concludendo una trilogia iniziata
con Fata Morgana e proseguita con Apocalisse nel deserto, un lavoro cioe'
molto "nero" sulla fantascienza. Questo per dire che la realta' cambia la
nostra prospettiva e che ogni volta le immagini che guardiamo esprimono una
diversa attualita'. In Apocalisse nel deserto non si parla della guerra in
Iraq o di Saddam Hussein ma di un pianeta che non riusciamo piu' a
riconoscere. E' il crimine piu' grande commesso, e quei materiali nel tempo
cambiano di significato fino a diventare un documento per il futuro in cui
si raccontera' di un mondo ormai scomparso. Montando quel film, come sempre
accade, ho lasciato fuori molto girato ma non penso di farne degli extra per
un dvd. Non mi interessa, non sono un profeta sulla montagna ma appunto
qualcuno che esplora i paesaggi, l'umanita', usando la macchina da presa. Se
fossi vissuto all'inizio del secolo forse sarei stato un esploratore, avrei
attraversato il Sahara o l'Antartide alla ricerca dell'ignoto. E' buffo, in
questi giorni mi hanno raccontato la storia di Plinio il vecchio che per
vedere da vicino l'eruzione del Vesuvio e' morto. Ecco, ai suoi tempi sarei
stato come lui, e mi e' venuto in mente di avere fatto lo stesso, ma con
piu' fortuna, girando La Soufriere.
*
- Cristina Piccino: C'e' anche un conflitto tra la realta' che lei racconta
e il resto del mondo.
- Werner Herzog: Credo che il conflitto entri naturalmente nell'atto della
narrazione, non scrivo saggi e se scelgo proprio quelle storie e' per gli
elementi del conflitto che esprimono. In Fata Morgana cercavo i segni
dell'umanita' ma non come un'allucinazione, piuttosto in forma di miraggio.
*
- Cristina Piccino: Cosi' una figura marginale e' piuttosto una figura
centrale.
- Werner Herzog: Pensa a qualcuno in particolare?
*
- Cristina Piccino: Un personaggio come Kaspar Hauser, Fitzcarraldo o
Aguirre...
- Werner Herzog: E' esattamente l'opposto per me, uno come Kaspar Hauser non
e' eccentrico ma e' il centro delle cose come puo' esserlo soltanto
l'umanita' eretica. La societa' intorno e' invece eccentrica. La tribu' che
filmo in Brasile e' l'ultima che prova a esistere fuori da una
globalizzazione a cui e' impossibile sfuggire. E' ovvio che il contatto con
l'occidente per loro si rivela molto tragico, ne sono devastati fisicamente
e culturalmente. Muoiono per malattie a cui non sono immuni, e questa
mancanza di anticorpi come rivelano le scelte di abbandonare ogni rapporto
con le origini dei piu' giovani riguarda anche il loro universo di
riferimenti culturali. Mi affascinava la consapevolezza che era l'ultima
volta che vedevamo tutto questo, per l'ultima volta ci sono persone che in
dieci minuti di contatto, come era l'obbligo del film, sono catapultati in
diecimila anni della nostra civilizzazione.
*
- Cristina Piccino: Non crede che queste catastrofi siano espressione di un
meccanismo culturale, politico, economico? Lei ha fatto anche un film su
Bokassa ("Echoes from a somber empire").
- Werner Herzog: Ero la' quando e' stato arrestato cosi' ho iniziato a
filmare, sentivo che era una storia che non si sarebbe comunque conclusa con
la sua fine. La nostra civilta' ha lasciato in Africa la tragedia della
schiavitu', anche se poi non penso che si dovrebbe guardare all'Africa come
a un'unica entita'. Ci sono grandi legami di famiglie, tribu'... E' una
tradizione complicata e sarebbe riduttivo riportarla solo al colonialismo.
Ma non e' il mio punto di partenza, come dicevo cerco l'urgenza che sappia
condurmi all'essenziale.
*
- Cristina Piccino: Cosa intende per essenziale?
- Werner Herzog: Un rapporto fisico con i miei film, forse e' per questo che
continuo a preferire la pellicola, mi sembra migliore come qualita' e
inoltre obbliga a una maggiore concentrazione. Non si possono girare ore e
ore specie con un budget limitato. Il digitale invece offre questa
disponibilita', costa poco, e non credo che faccia bene a un cineasta.
L'essenzialita' poi e' rendere il rapporto con il film fisico, reale, per
questo mi piace anche portare a piedi la copia in proiezione, sentire che in
quel peso c'e' il mio film.

4. LIBRI. CLARA JOURDAN PRESENTA "IL BAGAGLIO INVISIBILE"
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Via Dogana", n. 76 marzo
2006. Clara Jourdan, prestigiosa intellettuale femminista, e'
particolarmente impegnata nelle esperienze  della Libreria delle donne di
Milano e della rivista "Via Dogana"]

Forza dello spirito, dolcezza dell'anima e mani capaci: questo si portano in
Italia le donne immigrate, secondo Vira Horila, una delle autrici del libro
Il bagaglio invisibile, storie di vita e pratiche di mediazione
interculturale (Assocoop e Rosenberg & Sellier, Torino 2004). Il libro e'
uno dei risultati del corso per mediatrici culturali promosso nel 2003 a
Brescia da Delfina Lusiardi e altre donne italiane e rivolto a donne
straniere. Un altro risultato del corso e' Itiner-anze (itinerari e
speranze), una lettura drammaturgica a piu' voci, che tredici donne di
diverse nazionalita' portano in giro. Io vi ho assistito a Milano, nel
novembre 2005 al Circolo della rosa (nel sito www.libreriadelledonne.it c'e'
il resoconto di Serena Fuart) e l'ho trovata bella, toccante e interessante,
tanto che vorrei raccomandarla per le scuole, anche perche' non ha quella
recitazione artefatta che provoca la turbolenza delle scolaresche a teatro.
Cio' che rende straordinario il libro - che contiene scritti di donne
immigrate e di altre donne che hanno fatto il percorso con loro o che hanno
letto i loro lavori - e' il suo essere frutto di un lavoro di messa in
parola molto intelligente e di cui riesce a dar conto efficacemente.
Leggendolo, scopriamo il protagonismo femminile delle donne immigrate, la
presa di coscienza e gli sviluppi a cui tale protagonismo puo' portare. E il
bagaglio invisibile che "una donna porta con se' quando lascia la casa
materna per creare la propria dimora altrove" non e' piu' invisibile.
Dell'importante contributo alla conoscenza del mondo attuale che questo
volume molto ricco ci offre, vorrei segnalare alcuni punti:
1) Anche oggi c'e' un protagonismo femminile nell'emigrazione. "Sono partita
da sola con i miei figli. Mio marito, come sempre, non decideva che cosa era
meglio fare", scrive Valbona Jakova (p. 26). Parole che mi ricordano quelle
di una donna intervistata da Cristina Borderias, nel suo lavoro
sull'emigrazione femminile dall'Andalusia a Barcellona a meta' del secolo
scorso (Strategie della liberta', Manifestolibri, Roma 2000). Tuttavia, piu'
che il protagonismo di partire, emerge qui la realta' di un protagonismo da
immigrata, nel paese di arrivo.
2) E' un protagonismo che mette in gioco i contenuti del bagaglio
invisibile, un bagaglio preparato con particolare cura e che contiene
l'essenziale, che e' un bene invisibile ai doganieri (p. 115). Questa del
bagaglio invisibile e' un'idea molto bella, perche' permette di svincolare
l'essenziale dalle difficolta', anche terribili, che spesso accompagnano le
storie di migrazione. Il contenuto del bagaglio viene nominato in vari modi,
come: "la memoria della casa materna" (p. 11), "lo spirito forte, l'anima
dolce, le mani capaci di fare mille cose" (p. 23). Nominazioni che ci aprono
gli occhi su cio' che viene portato a noi, abitanti del paese di arrivo.
L'apporto femminile allo scambio tra culture non e' nuovo nella storia, lo
scambio delle donne ha sempre caratterizzato l'opera della civilta' -
sostiene M. Milagros Rivera Garretas (Mujeres en relacion, Icaria, Barcelona
2001) -, non come lo intesero gli antropologi (le donne oggetto di scambio)
ma "viaggiando e accogliendo chi arriva, noi donne insegniamo la pratica
della relazione". Nel libro delle amiche bresciane tutto cio' prende una
concretezza precisa, che riguarda la realta' in cui viviamo noi oggi in
Italia; una concretezza di parole e di volti che ci fa guardare in modo
nuovo e grato alle donne immigrate, che sappiamo essere consapevoli di se' e
delle possibilita' di scambio con noi.
3) Un contenuto del bagaglio invisibile e' la lingua materna, e questo e'
specialmente prezioso per noi, perche' puo' fare da ponte nel rapporto con
altre e altri immigrati. L'aspetto che piu' mi ha colpito del protagonismo
di queste donne e' proprio quello di essere mediatrici culturali. I racconti
e le riflessioni sulle pratiche di mediazione, in particolare quelle con
adulti, li ho trovati di grande importanza. Sono pratiche conseguenti al
corso di formazione, anche se il caso di Nacera Belmenouar (p. 149 ss), che
aveva cominciato a fare la mediatrice con le sue connazionali
spontaneamente, per suo desiderio e piacere, mostra che la mediazione
culturale prima che essere una professione e' parte della "competenza
dell'esserci" di molte donne (uso l'espressione di Ina Praetorius, "Via
Dogana" n. 60, marzo 2002). Ma non e' necessariamente una "vocazione"
femminile, di fatto il corso e poi il lavoro di mediatrice sono state
un'occasione che queste donne hanno voluto cogliere: "Come avevo capito,
scrive Olha Vdovychenko, era l'unico modo per far rispettare le nostre
lauree in Italia" (p. 214). E' notevole il contributo che il libro da' alla
costruzione di questa nuova professione, che non richiede solo di tradurre
ma di curare la relazione tra le parti; una pratica creativa di cui nei
testi viene elaborato il senso, le esperienze, le invenzioni, e anche i
limiti. Leggendo, si ha l'impressione di trovarci in un "passaggio simbolico
epocale" come quello che ha fatto accadere Florence Nightingale nella
seconda meta' dell'Ottocento creando la professione di infermiera (Daniela
Riboli, Quaderno di Via Dogana in preparazione). Centrale, a mio avviso, e'
che la mediatrice culturale e' una professione che comporta un protagonismo
necessario di donne (senza escludere uomini) immigrate, poiche' si tratta di
un lavoro che non puo' essere svolto con altrettanta competenza dalle
native, come nota Giannina Longobardi (p. 225).
4) L'importanza della lingua materna nell'opera di mediazione culturale
viene sottolineata anche nel rapporto con i figli e le figlie: Farida Butt,
che e' nata in Inghilterra da genitori pakistani, facendo un confronto con
la situazione inglese dove la terza o quarta generazione di immigrati ha
ormai perso la lingua di origine, sostiene che "la religione diventa un
fattore di identita' dopo che si e' spezzato il filo che tocca le corde piu'
profonde, quello della lingua madre" (p. 205). La cura di queste mediatrici
interculturali affinche' non vada perduta la lingua della madre viene
considerata da Elisabeth Jankowski "il segno di un cambiamento nel quale
sono le principali protagoniste" (p. 227), perche' "una madrelingua e' tutto
cio' che non sapremo mai in una lingua straniera" (p. 230). La lingua
materna pero', va detto, non e' sentita in contrapposizione alla lingua del
posto di arrivo, che anzi ha anch'essa una propria funzione mediatrice
insostituibile: "Questa bellissima lingua italiana che ci unisce e ci
consente di comunicare tra noi stranieri di tutto il mondo, riuniti a
Brescia", dice Paulina Gutierrez Witt (p. 186).
Il libro in effetti e' scritto nella lingua italiana, e in un ottimo
italiano.

5. INCONTRI. "LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA", UN SEMINARIO PROMOSSO DAL
MOVIMENTO NONVIOLENTO IL 21-22 OTTOBRE A VERONA

Si svolgera' a Verona il 21 e 22 ottobre il seminario sul tema "La politica
della nonviolenza (alla prova della guerra)" promosso dal Movimento
Nonviolento.
*
Programma:
- Sabato 21 ottobre, ore 10: relazione introduttiva. Prima sessione "La
teoria della nonviolenza, sulla guerra" (mattina, ore 10-13). Seconda
sessione "La pratica della nonviolenza, nella politica" (pomeriggio, ore
15-19). Serata libera, con due proposte: a) visita guidata alla mostra
"Mantegna a Verona", b) laboratorio del "Teatro dell'oppresso" sui temi
discussi.
- Domenica 22 ottobre, ore 9. Terza sessione "La strategia della
nonviolenza, le iniziative" (mattina, ore 9-11). Conclusioni (ore 11-13).
Ogni sessione verra' sollecitata da una griglia di domande.
Il Seminario si svolgera' presso la Sala "Comboni" dei padri comboniani, in
vicolo Pozzo 1, Verona.
*
Informazioni logistiche
Il seminario si svolgera' presso la sala "Comboni" dei Padri Comboniani, in
vicolo Pozzo 1 (rione di San Giovanni in Valle, quartiere di Veronetta, nel
centro storico, vicino a Piazza Isolo) a Verona.
Il pernottamento e' previsto presso l'Ostello della gioventu' (15 euro, con
prima colazione), ma e' necessario prenotarsi per tempo, entro il 15
ottobre. L'ostello (in via Fontana del Ferro) si trova a cento metri dalla
sede del seminario. Nelle vicinanza vi sono vari locali a prezzi contenuti
per il pranzo e la cena (cena presso l'ostello, solo per gli ospiti, a 7
euro).
La Sala Comboni e l'Ostello sono situati sulla collina, immersi nel verde.
Ampia possibilita' di parcheggio. Collegamento diretto dalla atazione con
l'autobus n. 73 (frequenza ogni 30 minuti, tempo di percorrenza 20 minuti,
scendere al capolinea di via Ponte Pignolo).
*
Per informazioni e prenotazioni
Casa per la nonviolenza, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax:
0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1436 del 2 ottobre 2006

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