La domenica della nonviolenza. 93



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 93 del primo ottobre 2006

In questo numero:
1. Lea Melandri: I paradossi della maternita' tra corpo e pensiero
2. Francesca Fanciullacci: Il parto e la maternita', tabu' da rompere
3. Cristina Pecchioli: Prima di vedere la vita ho intravisto la morte
violenta
4. Lucia Rava: Perche' nessuno mi ha preparata?
5. Aglaia Viviani: Il mio parto "spontaneo"
6. Gemma Contin presenta "Lieto evento" di Eliette Abecassis
7. Qualche lettura ulteriore

1. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: I PARADOSSI DELLA MATERNITA' TRA CORPO E
PENSIERO
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso nell'inserto del quotidiano "Liberazione" del 17
settembre 2006. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine
saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice
della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella
riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo
particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977,
Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano
1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La
Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli
1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile,
Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri,
Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente
scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per
adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera
Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad
altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio
Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato
l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi
1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di
questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono
testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio
1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 (
ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La
Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di
foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica
dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione
Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei
sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di
posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto',
'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha
diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione
femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione
aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle
donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"]

La discussione intorno alla legge 40, sulla procreazione medicalmente
assistita, ha segnato il trionfo di quello che Barbara Duden (Il gene in
testa e il feto nel grembo, Bollati Boringhieri 2006) chiama "il discorso
sociale sulla gravidanza", il "monopolio del pensiero tecnologico": entrano
nel linguaggio quotidiano termini che provengono dai laboratori
scientifici - ovuli, zigote, embrione - e si perde l'antica abitudine,
diventata desiderio e pratica politica col femminismo, di dare voce
all'esperienza che ognuna fa del proprio corpo. Nell'abisso che si apre tra
il "corpo vissuto" e il "corpo diagnosticato", le parole perdono il loro
"sapore somatico", le persone disimparano a fidarsi del loro sentire,
l'attesa e la speranza seppelliscono il futuro nell'esito di un referto
medico.
Con un movimento che inverte i due termini di una immaginaria ma duratura
opposizione tra natura e storia, l'essere umano si trasforma in processo
biologico, mentre le cellule di cui e' composto, isolate dall'organismo con
cui finora si sono confuse, assumono, come "cittadini non ancora nati",
dignita' umana e giuridica. L'insistenza con cui i media inseguono ogni
nuova sperimentazione medica o scoperta scientifica, riguardante la nascita,
non poteva lasciare le donne indifferenti, senza per questo trasformarle,
come qualcuna temeva, in "consumatrici di biotecnologie".
La narrazione di gravidanze, parti, rapporti materni e filiali, ha
accompagnato la storia del femminismo, sia pure percorrendo strade traverse,
sentieri in ombra rispetto alle vie maestre del pensiero teorico. Nel corso
dei dieci anni di pubblicazione, la rivista "Lapis" (1987-1997) ha accolto,
in una rubrica omonima, "racconti di nascita" strappati all'oblio a cui
sembra destinata fatalmente un'esperienza in cui convergono, alternati o
confusi, vita e morte, pienezza e svuotamento, potenza e miseria, dolore
fisico e gioia, riappropriazione e perdita di se'. Si puo' pensare che sia
questo paradosso, oltre alla invasivita' crescente delle biotecnologie, a
rendere cosi' faticosamente dicibile il parto, come soglia che recide un
cordone di carne tra due esseri per riannodarlo subito dopo in un seguito di
cure, affetti, responsabilita', che sembrano non finire mai: madre, non per
la durata di una gravidanza, ma per sempre, come l'infanzia, del resto, che
ci si lascia alle spalle, ma che allunga la sua ombra per l'intero corso
della vita.
*
Non si puo' ignorare pero' neppure il peso che ha avuto la "politica del
simbolico" - l'elaborazione che ne hanno dato la Libreria delle donne di
Milano (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier 1987) e Luisa
Muraro (L'ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 1991) - nel mettere
in ombra pensieri e scritture portati a ridosso di un "vissuto" femminile
gravato da antichi pudori, misteri e vergogne. Alla fine degli anni '70, il
paziente lavoro di scavo nelle storie personali, nei risvolti inconsci di
un'oppressione confusa con l'amore, divenuta malgrado tutto senso e ragione
di vita, lasciava affiorare stanchezza, dubbi, desiderio di trovare vie
d'uscita meno dolorose.
Di questo malessere la Libreria delle donne si e' fatta allora interprete,
prospettando, come via di salvezza, la possibilita' di piegare a proprio
vantaggio quel "germe vivo", quella "matrice" di "carne e parola", che la
comunita' degli uomini ha cancellato, pur traendone il massimo alimento. Ma
per celebrare la nascita di una "genealogia di donne", per svincolare la
dipendenza dall'uomo, per presentarsi all'appuntamento con la storia forti
di un "primato" e di una "grandezza" usurpati alla discendenza femminile,
non bastava certo la madre reale, asservita quasi sempre alla legge del
padre, contraddizione vivente per ogni figlia desiderosa di autonomia.
Occorreva dare all'"origine" cio' che l'uomo non aveva saputo riconoscere,
la verita' di un "principio logico, metafisico", lo statuto inattaccabile di
"corpo razionale", sintesi perfetta di essere e pensiero, vita e parola,
unione mistica che puo' sollevarsi nel cielo platonico delle idee senza
operare cancellazioni.
"Per anni ci siamo dedicate a capire l'esperienza femminile per trasformarla
in principio di forza e sapere nei confronti del mondo. L'impresa, man mano
che andava avanti, si annunciava sempre piu' lunga, anzi senza fine come la
tela di Penelope... La modificazione non si traduceva in contenuti sociali,
oppure si', ma erano contenuti miserabili di rivendicazioni e sopravvivenza.
Vi erano come soggetto perdente". "L'antica relazione con la madre ci da'
sul reale un punto di vista duraturo e vero, vero non secondo la
verita'-corrispondenza ma secondo la verita' metafisica (o logica) che non
separa essere e pensiero". "... fine dell'automoderazione, lasciar irrompere
desideri sproporzionati... La superiorita' della madre e la necessita' della
sua traduzione in autorita' simbolica vanno riconosciute per principio".
Svincolata dalla sua realta' fattuale, fisica e psicologica, la "madre
simbolica" puo' ambire alla stessa collocazione che l'uomopadre ha preteso
per se', nei confronti della propria discendenza: autorita', fedelta',
affidamento, affiliazione, autonomia simbolica garantita da una linea
genealogica al femminile, frequentazione privilegiata della simile, liberta'
non come scelta individuale, ma come effetto "liberante" del debito di
riconoscenza pagato alla "potenza" materna.
*
A partire dall'inizio degli anni '80, e' calata sul femminismo una nuova,
imprevista "sacralita'", con venature mistiche, tentazioni totalizzanti che
oggi chiameremmo "fondamentaliste", assunzione della differenza come
omogeneita', purezza identitaria, ripristino di gerarchie, mediazioni
obbligate. La conseguenza piu' vistosa, per la storia successiva del
movimento delle donne, e' stata la messa sotto silenzio di un pensiero che,
pur con molte sfaccettature, saperi e linguaggi diversi, ha continuato a
interrogare l'esperienza, consapevole che vita e parola, intrecciate da
sempre, strette in annodamenti inestricabili, non sono la stessa cosa.
La scrittura, che ha talvolta la flessuosita' per entrare nelle pieghe della
memoria, per dire l'impresentabile del vissuto corporeo, resta pur sempre
una difficile, incerta navigazione attorno a una materia che non si lascia
assimilare. Eppure, se si scorrono i "racconti di nascita" di "Lapis", e
scritture analoghe di donne - penso al libro di Agnese Seranis, Io, la
strada e la luce di luna (edizioni del Leone, 1989) - l'idea di grandezza,
potenza, sacralita' del corpo femminile che genera, e' tutt'altro che
assente, accostata quasi sempre a sentimenti che la smentiscono, per
riafferrarla subito dopo. Seranis, fisica e originale esploratrice di un
immaginario femminile popolato delle figure e delle suggestioni che l'uomo
ha attribuito al corpo diverso dal suo, scrive: "C'erano poi dei momenti in
cui sentivi di appartenere alla Natura e provavi un totale appagamento
sapevi perche' esistevi: perche' la Vita continuasse. E eri invasa da un
sentimento di forza di potenza immensa. Il cosmo si muove si espande tutto
e' moto tutto pulsa... Era diverso da tutto cio' il tuo corpo?... E la
percezione a volte di essere divorata da dentro da un estraneo che si era
introdotto nel tuo corpo e che senza pieta' avrebbe fatto scempio di te.
Questo essere cosi' inerme in apparenza ha come alleato la Natura o meglio
la Vita che giochera' tutto per tutto perche' nulla la fermi decisa a
lasciarti come un tronco vuoto se cio' fosse necessario al nuovo germe.
Eppure a te e' lasciato tu possiedi un potere immenso perche' tu puoi
decidere di fermarlo quel processo fosse anche uccidendo te stessa".
L'altalena tra corpo e pensiero, per chi ha creduto con l'esperienza della
maternita' di avvicinarsi alla natura, tanto da esserne parte, prigioniera o
complice, e, nel medesimo tempo, in quanto scienziata, di potersene
staccare, si pone nei toni drammatici, laceranti, di un dualismo
insuperabile: "Come conciliare il tempo dell'osservare e il tempo
dell'esistere? La Vita si rifiutera' di continuare in un corpo consapevole
cosciente di cio' che sta avvenendo? La Vita si rifiutera' di abitare nel
corpo di chi cerca di svelarla?... Posso io essere insieme oggetto di
conoscenza e pensiero conoscente?".
*
L'esperienza della maternita', nelle sue oscillazioni reali o immaginarie,
conosce un protagonismo del corpo che all'uomo e' negato, e come tale si
presta a essere oggetto di invidia e appropriazione da parte del sesso
maschile, ma anche a essere impugnato dalla donna come arma per il proprio
riscatto. Costrette dalla loro capacita' biologica e dalla collocazione che
la comunita' maschile ha dato loro, custodi dell'intero arco della vita, le
donne si sono trovate in prossimita' della "dura legge del tempo a cui tutto
si piega" - l'accettazione della morte, del susseguirsi delle generazioni,
del ripetersi dei gesti -, la stessa legge a cui l'uomo ha continuato a
opporre le sue protesi meccaniche, le sue speranze di immortalita', il suo
potere di dare la morte.
Privilegio o condanna, accrescimento o perdita, la maternita' resta
l'epicentro della condizione umana, il "luogo" intorno a cui si puo' pensare
che abbia preso forma il dominio maschile e la differenziazione violenta tra
i sessi, l'ostacolo maggiore a ripensare i nessi tra corpo, individuo e
legame sociale, fuori dai dualismi che conosciamo: femminile-maschile,
natura-cultura, ecc. Confrontando i racconti di "Lapis" con scritti di donne
piu' giovani, quello che sorprende e' la straordinaria capacita' di dire
l'"orrore" del parto, l'inganno con cui ancora si contrabbanda il destino
storico della donna con l'"istinto materno", la misoginia di un'antica
consegna al dolore che non a caso vede concordi "cattolici, ginecologi,
femministe, medici alternativi, sul fatto che il parto deve rimanere intatto
nella sua modalita' suppliziale" (Laura Kreyder, "Lapis" n. 29).

2. RIFLESSIONE. FRANCESCA FANCIULLACCI: IL PARTO E LA MATERNITA', TABU' DA
ROMPERE
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso sul quotidiano "Liberazione" del 13 agosto 2006.
Francesca Fanciullacci, ricercatrice, storica, laureata in letteratura
inglese all'Universita' di Firenze con una tesi sull'autobiografia di Edith
Sitwell, attualmente lavora all'Universita' di Siena sulla scrittrice
inglese Sylvia Townsend Warner; fa parte dell'Istituto buddista italiano
Soka Gakkai]

In un momento storico come il nostro, caratterizzato da guerre, razzismi e
dal terrore crescente di nuovi attentati terroristici, la maternita' fa
ancora notizia. Qualche giorno fa i riflettori erano per una madre che,
costretta dalle circostanze, ha partorito da sola senza assistenza medica;
altre volte a venire messe in risalto sono storie di donne, vicine alla
santificazione, che decidono di portare a termine una gravidanza a scapito
della loro stessa vita; sempre piu' spesso i mass media raccontano di madri
che annegano la loro creaturina nella vasca da bagno, la centrifugano nella
lavatrice, la massacrano di botte, o semplicemente la depositano in un
cassonetto per l'immondizia.
Da una parte le brave madri, corpi abitati, oggetti asessuati la cui unica
ragione di vita e' il sacrificio per amore dell'altro; dall'altra parte
quelle cattive che, prive dell'istinto materno, urlano una rabbia che non e'
lecita. In entrambi i casi la donna come soggetto viene cancellata e si
consolida l'ideale della maternita' su cui si fonda il patriarcato. Questi
fatti di cronaca, cosi' come vengono riportati, non sono narrazioni neutre,
meri racconti di episodi di vita vissuta, ma si configurano come il discorso
di un potere che ancora oggi parla al posto delle donne, nasconde le loro
voci, condannandole o idealizzandole.
Al fine di vederci riconosciuto il diritto di essere prima di tutto degli
individui credo sia indispensabile rompere il tabu' del parto e della
maternita'. Abbiamo il dovere di cercare dietro alla madre che uccide o si
lascia uccidere la donna, la sua depressione, la solitudine in cui vive, la
difficolta' di ripensare al rapporto con la propria madre. L'errore piu'
grande che possiamo fare e' reiterare il silenzio.
Mi chiedo perche' le donne continuano a mentirsi circa la maternita'. Forse
perche' dare la vita e' l'unico strumento di potere in una societa' dominata
dai Padri?
Perfino il dolore del parto rimane taciuto. Molte riconoscono di avere
"sentito male" ma dicono che questo dolore e' cessato non appena hanno visto
la loro creatura. Anch'io pensavo che avrei provato solo gioia e dolcezza
quando, prima di recidere il cordone ombelicale, avrebbero poggiato il
piccolo corpo di Selene sul mio.
Non e' stato cosi', e gli anni che sono passati non hanno cancellato dalla
mia memoria le sofferenze fisiche e psicologiche che hanno accompagnato
l'evento del parto: il momento del travaglio, trascorso da sola nella camera
di un ospedale che credevo essere all'avanguardia, e le successive due ore e
un quarto passate a spingere con un'ostetrica accanto che mi rimproverava
del fatto che urlassi "basta", spiegandomi che se mia figlia non usciva era
perche' io non volevo farla nascere.
Non sentivo dolore, ne ero abitata completamente. Il mio corpo impotente,
intrappolato, veniva lentamente smembrato. Dopo quel tempo interminabile
passato a spingere dovetti andare sulle mie gambe in sala parto dove un
medico di turno con arroganza sentenzio' che ero in preda ad una crisi
isterica.
Con la nascita di mia figlia ho riportato una lacerazione di terzo grado e
sono rimasta cosi' scioccata che non ho voluto nemmeno che adagiassero il
suo piccolo corpo sul mio. Ho pianto e tremato incessantemente per alcune
ore. Sono stata cucita e ricucita a lungo perche' le parti tornassero a
posto e sono dovuti passare dei mesi prima che riuscissi a trattenere di
nuovo l'urina. Il certificato relativo alla nascita di mia figlia, che
l'ospedale mi ha rilasciato, porta scritto "parto naturale".
Oggi vivo il mio essere madre come una parte della mia vita: non e' la mia
identita', il mio io e' altrove. Mi domando cosa potrebbe accadere se sempre
piu' donne si rifiutassero di recitare il ruolo di madre istituzionalizzato
dal patriarcato. Forse questo cesserebbe di esistere.

3. RIFLESSIONE. CRISTINA PECCHIOLI: PRIMA DI VEDERE LA VITA HO INTRAVISTO LA
MORTE VIOLENTA
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso nell'inserto del quotidiano "Liberazione" del 17
settembre 2006. Cristina Pecchioli e' impegnata nell'ufficio stampa della
Cgil della Lombardia]

Che la maternita' fosse il mio destino non l'avevo mai pensato, immersa
com'ero nella politica e nel mio piccolo ambiente famigliare matriarcale,
ne' ero dotata di istinto materno, fino a quando, verso i trent'anni, non mi
sono detta: "adesso vorrei un figlio".
Da quel momento il desiderio ha cercato la casualita' che potesse compierlo
e nel giro di poco tempo mio figlio Andrea e' stato concepito. Una scelta
libera, ma libere non si e' mai del tutto, soprattutto dalla cultura che
accompagna gli eventi importanti della vita, come la nascita e la morte, e
che disegna ogni volta i contorni dei ruoli che in essi toccano alle donne.
Volevo un figlio, volevo concepirlo nel pieno di una grande passione e
volevo che tutto questo (per cui ero disposta a pagare il prezzo di lasciare
la mia citta', la mia famiglia, il mio lavoro e trasferirmi a Milano), che
questa felicita' sognata e scritta nel mio "destino femminile" durasse per
sempre.
I primi due desideri sono stati soddisfatti, naturalmente il terzo no,
mostrando tutta l'illusorieta' di quello che Lea Melandri chiamerebbe "il
sogno d'amore". Inutile dire che questo infrangersi del sogno ha lasciato
dietro di se' ferite che hanno richiesto cura e attenzione per anni. Ma
questa e' un'altra storia.
Io non avevo l'istinto materno e, una volta nato mio figlio, ho conosciuto
anch'io quella rapida, terribile vertigine che ti balena nella testa come
unica, possibile soluzione immediata alla tua disperazione, alla solitudine
e a quel senso di inadeguatezza che prende molte donne subito dopo il parto.
Un piccolo gesto folle che puo' darti pace... l'ho pensato per poi
inorridire, ma solo un attimo dopo, quando la lucidita' ha ripreso il
sopravvento.
Ci penso spesso quando leggo le storie di madri che uccidono i propri figli;
la maggior parte di loro non ricorda piu' nulla, la mente ha rimosso tutto,
ferma all'attimo prima che la follia guidasse i gesti. Credo si tratti di
qualcosa che c'e' in ognuna di noi, anche se si fa fatica a concepire
l'esistenza stessa della pulsione alla soppressione dei cuccioli da parte
della madre, oltre che per l'orrore, per il carico di distruzione archetipa,
di sovvertimento violento di paradigmi culturali dai quali le donne sembrano
non potersi sottrarre.
E' la nostra ombra, e pronunciare questa indicibilita' puo' liberarci,
restituendoci alla nostra complessita'.
Fuori dalla retorica, le donne sono esseri speciali, ed e' anche la
possibilita' di generare che ne determina la potenza numinosa, che venga
agita o meno. Solo una donna, se lo vuole, puo' incontrare la nascita e la
morte non solo all'inizio e alla fine della propria esistenza ma anche
durante, generando e partorendo un figlio. Un privilegio speciale e
potentissimo che la cultura patriarcale, la storia stessa hanno cercato di
ridimensionare, negare, controllare, gestire con tutti gli strumenti
possibili: l'intimidazione, il ricatto morale, la costrizione, persino la
santificazione. Un tempo quelle che sceglievano volontariamente di non agire
la loro "potenza", quando non venivano costrette, con conseguenze pesanti
sulla loro salute mentale e sulla serenita' dei figli, il piu' delle volte
subivano un destino di solitudine e di emarginazione culturale, quando non
di follia. E se le cose sono cambiate e' grazie alle donne che hanno
praticato questa liberta', che si sono sottratte a un destino che non
avevano scelto, pagando pero' spesso prezzi altissimi. Cosi' le donne vivono
da sempre queste contraddizioni senza autorizzarsi a farlo, tra sensi di
colpa e di inadeguatezza, prigioniere di sentimenti che sembra obbligatorio
provare.
Non credo che con i sentimenti c'entri poi molto la sofferenza del parto.
Francesca Fanciullacci, nel suo scritto su "Liberazione", dice qualcosa come
"non provavo dolore, ne ero invasa". Si, e' un dolore che ti soverchia.
Ricordo che durante il travaglio, sola anch'io come Francesca (mia sorella
lasciata fuori in corridoio ad aspettare), in un moderno ospedale della
capitale, pensavo ad una mucca che avevo visto partorire in campagna da
bambina e mi identificavo in lei. Ma il mio parto supero' ogni possibile
immaginazione: ondate di dolore che ogni volta mi squassavano, facendomi
scricchiolare le ossa. Prima di vedere la vita ho intravisto come puo'
essere una morte violenta. Poi la concitazione, troppa attesa, il bambino se
ne sta andando, privo di ossigeno. Il ritmo che aumenta, il parto che non si
apre. Respiro, una giovane ostetrica mi prende in giro: "Eccone un'altra dei
corsi di preparazione al parto!".
Invece al consultorio mi hanno preparata bene, penso, ma non alla crudelta'
e a tutta questa indifferenza. Poche contrazioni, resto chiusa, non arriva
il ginecologo (forse un cesareo sarebbe stata una soluzione, forse...), non
arriva nemmeno l'anestesista. Sono tutti spaventati, ma non come me che mi
sento un animale disperato, braccato. Provano col parto indotto con
ossitocina, ma il bambino sta male. Decidono di praticare l'episiotomia e di
inserire una ventosa. Normalmente l'episiotomia, che e' il taglio della
parete del pavimento pelvico resa sottilissima e quasi insensibile dalla
dilatazione e dalla pressione della testa del bambino, non fa troppo male.
Ma non quando non c'e' nessuna contrazione, il bambino e' semiasfissiato (lo
hanno dichiarato fuori pericolo solo ventiquattr'ore dopo la nascita) e non
c'e' dilatazione. Allora senti il bisturi che affonda nella carne viva, la
ventosa che entra nella ferita aperta, il tutto da sveglia, perche'
l'anestesista arriva un attimo dopo. Benedetto quell'ago in vena... poi piu'
niente. Nei giorni successivi al dolore psicologico e alla paura per la
salute di mio figlio, che non ho potuto ne' allattare ne' abbracciare per
giorni, si accompagna ancora il dolore fisico: il taglio profondo e le
contrazioni prodotte dai farmaci (a questo proposito, ho la fortuna di non
aver mai abortito, ma credo di sapere che non esiste, dico almeno sul piano
fisico, l'idea di un aborto farmacologico che sia davvero indolore, quella
"passeggiata" di cui troppi straparlano).
E in definitiva, a voler davvero dire tutto fino in fondo, sebbene non
dimentichero' mai il mio primo e unico parto, io agirei ancora la mia
potenza generatrice, certo in un altro modo e con una diversa consapevolezza
di me e dei miei diritti, non solo per quel sottile senso di trionfo, di
armonia con i ritmi della natura, di perfetta sintonia con la vita che ti
puo' dare l'esercizio di questa esclusiva potenzialita', ma soprattutto per
quel legame d'amore indicibile, unico e speciale che, se hai fortuna, si
stabilisce con la tua creatura, dal primo "frullo d'ali" e per sempre.
Il sogno vero e' che tutto cio' possa compiersi e ricomporsi in un percorso
di reale, autentica liberta' femminile.

4. RIFLESSIONE. LUCIA RAVA: PERCHE' NESSUNO MI HA PREPARATA?
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso nell'inserto del quotidiano "Liberazione" del 17
settembre 2006. Lucia Rava e' impegnata nell'esperienza del Natc Caucus
Italia (Natural Alternative Traditional Complementary Medicines)]

Riporto di seguito alcuni frammenti provenienti da articoli apparsi su
riviste femminili. Frammenti che ho diligentemente trascritto sull'apposito
quaderno da me dedicato alla maternita':
- La questione e' riuscire a mostrare anche "l'orrore della maternita'".
Trovo la maternita' una prova estremamente difficile, stimolante, dura. E
dico poco, a paragone della vera esperienza.
- Quando e' nata mia figlia ho avuto momenti difficili. E adesso come faccio
ad essere quello che sono sempre stata? Da questo momento in poi non saro'
piu' sola, lei e' per sempre. In quel senso di inadeguatezza, fatica e
isolamento ho rivisto mia madre con me e mio fratello. Le pressioni sociali
e familiari a cui e' stata sottoposta. L'ho sentita vicina e la sua presenza
mi ha tenuto compagnia, dato un po' di coraggio. E alla fine, come in un
sogno, mi sono riappropriata dei pezzi che mi son mancati di lei.
- Per quanto mi riguarda, ogni donna che abbia mai detto che la maternita'
e' la cosa piu' bella del mondo e' stata soltanto una gran bugiarda.
Quell'intero giorno della sua nascita, e francamente tutti i giorni
successivi per diversi mesi, sono stata arrabbiata, ancora e ancora, mentre
continuavo a chiedermi la stessa cosa. Perche' nessuno mi ha detto che le
cose andavano in questo modo? Perche'? Eppure, non credo di essere l'unica
donna al mondo secondo cui alcuni aspetti della maternita' non sono quello
che si dice che siano. E penso che la realta' sia semplicemente una: poche
donne vogliono ammettere la verita', perche' la sola cosa che desideriamo e'
essere considerate madri perfette.
Ed io durante i cinque mesi che mi separano dalla nascita di mio figlio
oltre a cercarmi e spesso a trovarmi nelle parole di altre che cosa sono
riuscita a scrivere della mia esperienza? Poche righe. Che sia ancora troppo
dentro per poterne scrivere? Ma mi domando, ne saro' mai sufficientemente
fuori per poterlo fare?
Alle madri si chiede l'impossibile. Questa frase mi risuona nella testa
mentre accudisco mio figlio. Come una goccia cade dalla mia mente mentre lo
nutro, lo consolo, lo cambio, lo bacio e anche quando finalmente si
addormenta e penso, non me ne vergogno, quante cose potrei fare tutte per me
se per un giorno intero, uno solo, non facesse altro che dormire. Ripeto
ognuno di questi gesti per un numero di volte troppo elevato per essere
contenuto nello spazio di un'unica giornata. Il condensato di queste
attivita' mi sovrasta e mi affanna lasciandomi qualche breve istante di
lucidita' per soffermarmi sulle sue richieste e allo stesso tempo sul mio
desiderio d'evasione. La riflessione sui nostri reciproci bisogni dura il
tempo brevissimo che mi separa dal ricominciare tutto daccapo e nella testa
e' sempre la mia voce a dirmi che alle madri si chiede l'impossibile.
Si parla sempre piu' spesso di depressione post-partum. Si organizzano
convegni dedicati agli aspetti psicopatologici della maternita', dove viene
riferito che l'esperienza per molte donne puo' essere spiazzante, e che non
e' affatto infrequente l'iniziale non accettazione del neonato, o in
seguito, l'avere sentimenti contraddittori nei confronti dei figli.
Se non la depressione, un profondissimo smarrimento a me e' sembrato un
passaggio inevitabile. Improvvisamente cio' che era pieno e' desolatamente
vuoto. Cio' che era rigoglioso e' appassito. Un po' come se il corpo nella
sua interezza rispondesse a questo violento svuotamento che e' il parto
avvizzendosi. Avviene con la fine della endogestazione durante la quale
all'espansione della carne sembrava corrispondere una contrazione del mondo.
La sensazione che cio' che davvero contava, quasi tutto, stava gia'
avvenendo dentro di te perlopiu' a tua insaputa mentre di notte dormivi
sonni che non avevi mai dormito prima, carichi di sogni vivi, sognati in
due.
Nel mio diario il 13 settembre 2005, esattamente tre mesi prima della
nascita di Sebastiano, scrivevo: Ho tappato il naso tenendolo stretto con il
pollice e l'indice, chiudendo gli occhi fino a sentire che le ciglia si
attorcigliavano fra loro. Poi l'ho fatto. Mi sono tuffata. Il tuffo non e'
nei miei gesti. Di solito entro nell'acqua circospetta e timorosa, ma questa
volta lo feci costringendomi a non pensare. Riuscii a sgomberare la mente da
dubbi e paure lasciando avanzare dentro di me il desiderio del corpo di
farsi inghiottire dall'acqua per raccogliere sul fondo cio' che avevo dato
per perso. Dopo circa sei mesi la mia pancia e' rotonda. Scosse lievi
provengono dal profondo. In qualche occasione ho guardato in un monitor
l'immagine di minuscoli arti impegnati in movimenti acquatici, organi in via
di formazione, occhi e naso gia' distinguibili, ed il suo cuore pulsare,
battere come il mio, dentro di me. Eppure ancora stento a crederci.
E poi, all'improvviso non puoi che crederci. E' il suo pianto a convincerti.
Passi il tempo a domandarti se sta piangendo perche' ha fame, perche' e'
sporco, o perche' ha sonno. Procedi per tentativi escludendo una dopo
l'altra le possibili cause, per poi capire che piange solo per piangere. Il
suo e' il pianto piu' disperato che ti sia mai capitato di ascoltare;
violento al punto che in un secondo ti restituisce alla tua stessa
disperazione, quella che certamente avevi gia' avvertito prima ma meno
quieta, direi duplicata, stereofonica. Hai impiegato tutta la vita a
contenere le tue reazioni emotive ed ecco che questo essere solo vagamente
umano ti trascina al punto di partenza. Ecco madre e figlio ancora insieme,
sospesi al grado zero della disperazione.
Da quel momento, anche quando la disperazione di entrambi aveva ormai
assunto toni meno accesi, mi sono continuamente chiesta cosa mi abbia spinto
a mettere al mondo un figlio. L'ho fatto ininterrottamente durante questi
mesi che mi sono sembrati i piu' lunghi della mia vita, senza poter mai
trovare una risposta. Io che l'avevo sempre escluso, o forse soltanto
rimandato, mi ritrovo ad essere madre senza la convinzione che mi parrebbe
necessaria.
Ed ancora una volta le parole di altri mi soccorrono: La spinta sessuale a
riprodursi e a colmare il futuro e' una spinta contro la corrente del tempo
che scorre ininterrottamente verso il passato. L'informazione genetica che
assicura la riproduzione lavora contro la dissipazione.(John Berger).
Se fosse possibile fermarsi qui, al puro dato biologico, senza caricare di
simboli e significati la scelta di maternita' che cosi' descritta
assomiglierebbe piu' che altro ad un metaforico, vigoroso salto nel futuro,
non potrebbe essere tutto piu' facile?
Invece mi chiedo e lo chiedo anche a voi, di quante cose, tutte insieme,
parliamo quando parliamo di maternita'? Non e' che nella mistica e nella
retorica del voler essere a tutti i costi una brava madre ci sguazziamo un
po' tutte non soltanto quando scegliamo di esserlo, ma persino quando lo
escludiamo?
Sentite a questo proposito cosa scrive Concita De Gregorio su "D - la
Repubblica delle Donne": Il segreto delle madri, anche quelle che non sanno
o non vogliono esserlo: la capacita' misteriosa di diventare un posto che
accoglie tutto quello che succede nel cammino, tutto quello che viene e che
c'e'. La capacita' di tenere insieme quel che insieme non sta. Da ricordare
daccapo, ogni volta, da dove passa la vita e perche'.
Ancora una volta mi rammarico nel dover constatare che almeno dentro di me
di quel meraviglioso segreto proprio non c'e' traccia.

5. RIFLESSIONE. AGLAIA VIVIANI: IL MIO PARTO "SPONTANEO"
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso nell'inserto del quotidiano "Liberazione" del 17
settembre 2006. Aglaia Viviani, anglista, critica letteraria, ha pubblicato
traduzioni, articoli e saggi sulle connessioni fra auto/bio/grafia e storia
delle donne. Tra le opere di Aglaia Viviani: Dalla lontana Inghilterra.
Percorsi autobiografici di scrittrici ebree anglofone 1933-1945, Alfani,
2001; Strange spirits and even strange bodies. L'icona di Elisabeth I nelle
biografie di tre modernisti inglesi, Firenze University Press, 2003; Il mio
cuore e' con gli arabi. Lucie Duff Gordon e Janet Ross. Due viaggiatrici
inglesi fra Otto e Novecento, Tracce, 2004]

"Quando ti sposerai e avrai dei figli..." era una delle frasi ricorrenti di
mia nonna. Come una pioniera del Far West aveva scodellato nel suo letto,
senza nessun aiuto e nessunissima difficolta', quattro figlie perfette.
Diventare madre era, a suo dire, la realizzazione delle aspirazioni
femminili.
Seduta di sghimbescio sulla sedia in ospedale, con l'aria mesta e sbattuta
di chi ha attraversato un uragano, la piu' giovane delle sue figlie mostrava
ben altra opinione: "Non avere mai figli, per carita'!".
Forse e' per questo che non ho pensato alla maternita' senza un fremito di
orrore fin oltre la soglia dei trent'anni. A quel punto avevo un dottorato
di ricerca, un lavoro co. co. co. e una coscienza femminista, per cui mi
illudevo di saper gestire senza problemi un figlio in arrivo. Vivevo da
sola. La gravidanza, desiderata, fu condivisa festosamente dalla comunita'
delle mie amiche. Insieme a loro andavo ai controlli periodici e al corso di
preparazione al parto, circondata da coppie piu' giovani di me che
intrecciavano sui pancioni le dita con la vera nuziale.
Mi preparavo al parto come a un esame all'universita'. Avevo letto molto,
preso appunti, preparato il corredino, fatto la ginnastica per gestanti. Con
la sindrome presuntuosa della prima della classe, anche stavolta ero
"brava": perche' il mio aumento ponderale era contenuto (difficile sgarrare,
con cinque ragazze intorno a contarmi le calorie!). Il bambino, un maschio
(pazienza), cresceva bene, e il suo cuore minuscolo galoppava come gli
zoccoli impazienti di un puledro. Io e mio figlio eravamo pazienti modello
tendenti allo spericolato. I malesseri gravidici, le nausee, le voglie
incontrollabili, gli sbalzi d'umore? Mai avuti. Fino all'ultimo non smisi di
nuotare ne' di pedalare nel traffico del centro cittadino.
Tuttavia, al termine della mia gravidanza da manuale il bambino non nasceva.
Passarono due settimane. Era agosto, molto personale era in ferie, e le
ecografie venivano eseguite velocemente. All'inizio della terza settimana
controllarono il liquido amniotico: non ce n'era piu'; in compenso c'erano
segni di sofferenza fetale. Mi compilarono una richiesta di ricovero
urgente, dicendomi pero' di tornare dopo un paio di giorni perche' in quel
momento proprio non c'era posto. A meno, ovvio, di conoscere qualcuno.
Piombai nel panico: mio figlio stava morendo, e nessuno lo aiutava. La zia
mi accompagno', con la richiesta di ricovero urgente, presso un altro
ospedale cittadino rinomato per il parto naturale e il rooming in. Quando mi
accettarono, promettendomi l'induzione per il mattino dopo, sospirai
sollevata. Quando mi attaccarono la flebo di ossitocina al braccio facevo la
spaccona con il padre di mio figlio; pero' dopo due ore di flebo, ancora
niente. Rottura del sacco amniotico con l'uncino: niente. Aumento della dose
di ossitocina: le doglie arrivarono all'improvviso, violentissime. Provavo
invano tutte le posizioni imparate durante il corso per alleviare i crampi.
Presto il dolore fu una condizione esistenziale con picchi che mi fendevano
di netto. Il corpo un fascio di dolore animalesco che non controllavo pi'.
Urlavo. Un ginecologo con l'aria ipercurata da modello di Pitti Uomo scosse
la testa commentando: "La solita bambina viziata!". Quattro ore di quella
tortura, e niente dilatazione: "E' colpa tua, non spingi!". Aumento
dell'ossitocina. L'ostetrica del turno successivo, che aveva lo stesso nome
di mia nonna, ordino' perentoria che mi venisse praticata l'anestesia
epidurale per darmi sollievo. Riuscire a immobilizzare il corpo squassato
per il tempo necessario a ricevere un'iniezione che poteva danneggiare i
nervi spinali non fu uno scherzo; poi pero' il dolore scomparve come per
magia. Pensai a Nanni Moretti, Aprile, e "l'epidurale per tutti!". La
felicita' e' la breve tregua fra due fitte lancinanti, annotai fugacemente
nel mio Zibaldone mentale.
Il ginecologo commento': "Speriamo che basti: Altrimenti, signorina, quanto
ci costa il suo parto?". Non fece in tempo a finire la frase: "Il bambino
sta scendendo!", gridai. Cominciai a sentirmi svenire. Caos. "E' rimasto
incastrato, ho perso il cuore!", "Il cesareo, il cesareo!", "Non si puo'
piu', e' tardi, e' sceso troppo in basso!", "Perdiamo anche lei!". Medici
che correvano da tutto il reparto. Mani mi adagiavano su una barella, di
corsa in sala operatoria. Ventosa. Bisturi. Persone galleggiavano sulla mia
pancia. "Uno, due, tre!", "Spingi!".
Il sangue schizzo' dappertutto, sul pavimento, sulla maglia e le scarpe del
padre di mio figlio, sul suo viso. "Non respira!", "No, no, ecco!". Urlo',
il mio bambino. La sua voce ridava vita a me che non ne avevo piu' nemmeno
un soffio. Il suo cuore di leoncino lottatore ce l'aveva fatta. Cranio
livido e gonfio dove la ventosa l'aveva arpionato. Occhi blu, indagatori,
lunghe ossa scarne. La placenta era invecchiata, uno schifo, e io anche.
"Quanti punti di sutura mi da'?", domandai in un soffio al ginecologo, come
mi avevano insegnato a fare al corso. "Tre", rispose.
Il rooming in: non riuscivo a camminare, non avevo latte; mio figlio
piangeva, disperato per la fame. Perdevo fiumi di sangue; colava dagli
assorbenti, macchiava lenzuola e camicie da notte. Il primario mi intimo' di
cambiarmi piu' spesso: quell'aria da assommoir nuoceva all'immagine del
reparto. Violai le regole: anziche' tenere il bambino nella culla metallica
lo posai nel mio letto. Solo il calore del mio corpo devastato potevo
dargli, e il battito del cuore. Lui teneva gia' dritta la testina: sbatteva
tenace contro il mio seno nella vana ricerca di cibo. Cercava e cercava, gli
occhi chiusi come una piccola talpa. Dopo qualche giorno trovai il coraggio
di toccare quelle parti del mio corpo che piu' facevano male. Due strappi,
uno che congiungeva la vagina all'ano, un altro dalla vagina alla coscia
destra. La sutura arrivava fino al muscolo adduttore. Altro che tre punti.
Mi rimandarono a casa dopo cinque giorni. Ancora non avevo latte, non
camminavo, avevo dolori fortissimi in corrispondenza dei punti. La mia
ginecologa al ritorno dalle ferie: "Ma cosa ti hanno fatto? Io
un'episiotomia cosi' non l'ho mai vista...". I punti erano almeno cinquanta,
l"ano lacerato ma non ricostruito, lo sfintere andato. Giorno dopo giorno,
un altro calvario; in confronto il parto era stato uno scherzo. Ore a
combattere le fitte. Non riconoscevo piu' il mio corpo, un grumo contorto.
Ma intanto un po' di latte era arrivato: il bambino ci si attacco' come
un'idrovora e prese a fiorire.
Al lavoro pensarono fossi un'assenteista, la classica donna che approfitta
della gravidanza per "chiamarsi fuori" dagli impegni. Alcune amiche
sospettarono con disapprovazione che mi fossi trincerata nel nido con mio
figlio e suo padre. Persi cosi' l'amica che piu' amavo, e mi manca ancora
adesso. La mia vita cambiava, e non potevo farci niente. Inventavo ora per
ora strategie per ridurre il dolore, per riappropriarmi di me stessa. Tre
mesi dopo il parto, un gastroenterologo lungimirante propose, in alternativa
a una chirurgia spericolata e dall'esito dubbio, la terapia con un farmaco
sperimentale da acquistare a San Marino. Ma il mio corpo non e' piu' stato
quello di prima.
E' passato molto tempo da allora. Il mio secondo figlio e' nato con un
cesareo d'elezione. Mentre mi appoggiavano alla guancia il piccolo, tiepido
e furente per essere stato strappato dal mio ventre al settimo mese, piansi
di gioia. Stavo bene, potevo vivere la maternita' come una gioia, non come
un trauma indimenticabile che segna per sempre.
Quando sento un ginecologo pontificare sul "parto naturale" desidero
schiaffeggiarlo. Conosco, si', donne che hanno partorito in tempi brevi, e
magari senza punti. Sono pero' una netta minoranza, rispetto alle "altre", a
quelle come me. Il punto e' pero' che un cesareo costa piu' di un parto
"naturale"; un cesareo fa statistica in negativo, per un ospedale.
La conseguenza e' un indegno gioco dazzardo sul corpo delle donne. Ci sono
migliaia di storie simili alla mia. E cartelle cliniche che, come la mia,
perpetrano una vergognosa menzogna: accanto al nome del mio primo figlio sta
scritto infatti "parto spontaneo".

6. LIBRI. GEMMA CONTIN PRESENTA "LIETO EVENTO" DI ELIETTE ABECASSIS
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo
originariamente apparso nell'inserto del quotidiano "Liberazione" del 17
settembre 2006.
Gemma Contin e' giornalista del quotidiano "Liberazione".
Eliette Abecassis, romanziera e saggista, e' nata nel 1969 a Strasburgo ed
e' docente di filosofia a Caen; dal suo libro Ripudiata e' stato tratto il
film Kadosh di Amos Gitai. Opere di Eliette Abecassis: Qumran, Tropea, 1997;
L'oro e la cenere, Tropea, 2000; Ripudiata, Tropea, 2001; Il tesoro del
tempio, Tropea, 2002; Mio padre, Tropea, 2003; Piccola metafisica
dell'omicidio, Il nuovo melangolo, 2004; Clandestino, Tropea, 2004]

"Di notte, in preda all'insonnia, lasciavo vagare il mouse sui forum delle
mamme. Erano talmente tanti che non sapevo su quale intervenire. Su
www.bebe-zone.com, c'era una sezione dove potevo vedere dei neonati
fotografati dalle loro mamme. Ce n'erano in abiti da sera, in costume da
bagno, con gli occhiali Chanel, in camicia da notte; insomma, neonati
manichino, trattati come oggetti dalle loro mamme che tentavano di ricavarne
dei soldi o di scaricare il peso di una vocazione fallita. Alcuni avevano
gia' i lineamenti da adulti, altri, calvi, con la testa sproporzionata,
sfoderavano un sorriso sdentato, come dei vecchietti dal petto flaccido e la
pancia tonda. Bisognava arrendersi all'evidenza: i neonati non sono belli.
Poi provai su www.mamanparis.com, per le madri residenti nell'area parigina
che hanno bisogno di consigli specifici. Dopo un po', angosciatissima da
tutti quei problemi di baby-sitter introvabili, mi decisi per il sito
www.maman.fr, perche' rispondeva con franchezza a tutte le domande che le
future e-mamme si pongono, in un club chiamato 'Il club delle balene'. Cosi'
ricevetti un certo numero di informazioni su quello che mi aspettava
dall'avventura della maternita'. Soprattutto, nei forum i personaggi chiave
della storia hanno un nome in codice: l'ostetrica, 'Miss O'; il ginecologo,
il 'gine'; la suocera, la 'rompi'; il marito o compagno, lo 'zombie'".
Ecco uno dei passaggi ironico-amari di un libriccino molto duro di Eliette
Abecassis, un romanzo sulla maternita' dal titolo emblematico di Lieto
evento (Marsilio, 164 pagine, 14 euro) in cui l'autrice, nata nel 1969 a
Strasburgo, diplomata all'Ecole Normale Superieure, insegnante di filosofia
all'Universita' di Caen, racconta la storia di Barbara e Nicolas, che ha
suscitato un vero vespaio in Francia tra le femministe e le benpensanti, sul
"piacere" della maternita' e sulle sue conseguenze.
Trentenni, innamoratissimi, un piccolo appartamento nel Marais di Parigi, i
due sono una coppia bella, libera e felice, non sposata, che vive tra un
incontro in mezzo agli intellettuali parigini e una mostra d'arte, un
cocktail per una prima e una serata con gli amici. Scrittrice di qualche
successo lei, architetto in carriera lui, senza problemi di soldi, di tempo
e senza famiglie invadenti a cui dare conto. Insomma, la perfezione che
dilata l'amore e rinforza il rapporto.
Fino a che Barbara non rimane incinta e comincia il tormentone delle nausee,
del vomito, del mal di testa-pancia-schiena, del rischio di aborto,
dell'immobilita', della rinuncia a tutto: ad avere una vita di societa', ad
andare in moto al lavoro, a vedere le amiche se non quelle incinta anche
loro con cui scambiarsi indirizzi di negozi specializzati, di ginecologi,
pediatri, cliniche, palestre che preparano al parto.
E poi, in mezzo alla coppia, quella neonata, anzi quella bambina-sanguisuga:
"piccola creatura dispotica e manipolatrice", che si porta via tutto, ma
proprio tutto il tempo, le attenzioni, l'amore, la preoccupazione, il sonno,
facendo saltare tutti i parametri, le relazioni, il lavoro, ed anche il
rapporto tra i due, aggravato da rancori, silenzi, incomprensioni, nessun
aiuto, nessuna condivisione, fino alla rottura.
"Niente piu' viaggi in paesi esotici, basta con le serate mondane, sfumate
le ambizioni professionali - si legge in quarta di copertina -. Quella
giovane donna moderna ed emancipata si ritrova imprigionata nel piu'
tradizionale e arcaico dei ruoli femminili: quello di madre. Nessuno l'aveva
preparata a questo e, mentre la sua relazione con Nicolas comincia a
sgretolarsi, Barbara arrivera' a provare un sentimento di rifiuto nei
confronti della figlia che l'ha privata della sua vita", della sua
personalita', del suo successo, delle aspirazioni e progetti di un tempo.
"Violento, sincero, impudico, spregiudicato, questo romanzo infrange i tabu'
dell'essere madre tracciando del 'lieto evento' un quadro molto lontano da
quello idilliaco che la societa' tende a imporre". Un vero peccato - e qui
romperemo il tabu' che impone alle recensioni di non svelare la fine di un
libro - che la nostra Barbara-Eliette, incontrato un nuovo compagno e
allacciato un altro rapporto pieno di sogni e speranze, e del riaccendersi
di nuove opportunita', non trovi niente di meglio da fare che rimanere
incinta di nuovo.

7. MATERIALI. QUALCHE LETTURA ULTERIORE

- Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, 1994.
- Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, 1995.
- Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, 1984.
- Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, L'eclissi della madre, Pratiche, Milano
1998.
- Judith Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1997.
- Adriana Cavarero, Corpo in figure, Feltrinelli, Milano 1995.
- Nancy Chodorow, La funzione materna, La tartaruga, Milano 1991.
- Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 1977, 2002.
- Diotima, Mettere al mondo il mondo, La tartaruga, Milano 1990.
- Alessandra Di Pietro, Paola Tavella, Madri selvagge, Einaudi, Torino 2006.
- Barbara Duden, Il gene in testa e il feto nel grembo, Bollati Boringhieri,
Torino 2006.
- Carol Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987.
- Luce Irigaray, Speculum. L'altra donna, Feltrinelli, Milano 1975, 1989.
- Emmanuel Levinas, Totalita' e infinito, Jaca Book, Milano 1980, 1995.
- Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti,
Rosenberg & Sellier, Torino 1987.
- Juliet Mitchell, Psicoanalisi e femminismo, Einaudi, Torino 1976.
- Giuliana Morandini, ... E allora mi hanno rinchiusa, Bompiani, Milano
1977, 1985.
- Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.
- "Nuova dwf - donnawomanfemme", n. 6-7, gennaio-giugno 1978, Maternita' e
imperialismo, Roma 1978.
- Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982.
- Franca Ongaro Basaglia, Una voce, Il Saggiatore, Milano 1982.
- Daniela Padoan, Le pazze, Bompiani, Milano 2005.
- Adrienne Rich, Nato di donna, Garzanti, Milano 1977, 2000.
- Silvia Vegetti Finzi, Il bambino della notte, Mondadori, Milano 1990,
1998.
- Silvia Vegetti Finzi, Volere un figlio, Mondadori, Milano 1997, 1999.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 93 del primo ottobre 2006

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