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Nonviolenza. Femminile plurale. 83
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 83
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 28 Sep 2006 11:25:38 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 83 del 28 settembre 2006 In questo numero: 1. Cindy Sheehan: Virgole 2. Elaine Brower: Una manifestazione nonviolenta a New York 3. Cinzia Gubbini: "Trama di terre" a Imola 4. Marinetta Cannito: La giustizia rigenerativa, percorso per una trasformazione personale e collettiva 5. Anna Simone presenta "Utopie, eterotopie" di Michel Foucault 1. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: VIRGOLE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Il nostro "conservatore compassionevole", nonche' falsa guida, e' stato ospite del giornalista Wolf Blitzer sulla Cnn, e di seguito c'e' quello che ha avuto da dire sul dolore e la sofferenza che ha causato al mondo sin dall'inizio dell'illegale ed immorale occupazione dell'Iraq. * - Wolf Blitzer: Parliamo un momento dell'Iraq, perche' e' una questione importante, molto importante, per l'opinione pubblica americana: c'e' la grande preoccupazione che l'Iraq si trovi sull'orlo della guerra civile, se pure non vi sia gia'. Ci vengono mostrati questi corpi torturati, mutilati; gli scontri fra sunniti e sciiti e il ruolo palesemente negativo degli iraniani. E al-Qaida e' ancora operativo, in Iraq. - George W. Bush: Si', ecco, lo si vede in televisione, e' il potere di un nemico che e' disposto ad uccidere persone innocenti. Ma c'e' anche un'incredibile volonta', una resistenza da parte del popolo iracheno. Bisogna ammettere che ormai sembrano passati gia' dieci anni. A me piace dire alla gente che quando la parola fine sara' scritta sull'Iraq, ci sembrera' niente piu' di una virgola, perche' c'e', e' questo il punto, c'e' una forte volonta' di democrazia. * ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,, Queste sono 125 virgole. Con 2701 dei nostri figli e figlie uccisi ed oltre 20.000 feriti, avrei dovuto battere 182 linee di virgole. Se poi prendo nel conto la stima (bassa) di 100.000 innocenti iracheni uccisi, mi servirebbero pagine e pagine di virgole. Martin Luther King una volta disse: "Non c'e' nulla di piu' pericoloso dell'ignoranza sincera e della stupidita' coscienziosa". Io credo che chiunque stia ancora sostenendo George Bush e la sua guerra terrorista dev'essere uscito di strada per ignorare i fatti, o sta profittando in qualche modo dell'occupazione: politicamente o finanziariamente. * Voglio che George ed i suoi coscienziosamente stupidi amici, che scansano l'evidenza come la peste, sappiamo che mio figlio non era una virgola. Casey non era una figurina di carta, ne' l'immagine unidimensionale delle sue fotografie al campo d'addestramento, quando le sue guance erano ancora rotonde di cibo sano. Casey aveva tre dimensioni, e aveva speranze e sogni. Voleva finire il college e diventare insegnante elementare. Voleva sposarsi e avere bambini. Io volevo tenere i suoi bambini e viziarli e amarli come fa ogni nonna. Casey amava suo fratello Andy e le sue sorelle Carly e Janey. Amava i nostri cani, Buster e Chewy, e le nostre gatte, Emily e Molly. Casey guardava il wrestling in tv e lo definiva "una soap opera maschile". Collezionava giocattoli, e noi ne teniamo parecchie scatole in magazzino, ora. Casey respirava aria, beveva acqua, mangiava e faceva tutte le altre cose che ogni essere umano fa. Soprattutto, amava Dio e voleva servirlo come diacono della chiesa cattolica. Ha anche sanguinato, ed e' morto, come un essere umano, quanto gli hanno sparato alla testa, alle spalle. * Le virgole che il regime Bush ha ucciso con le sue bugie riempirebbero numerose pagine, ma in realta' esseri umani che una volta respiravano riempiono in questo momento migliaia e migliaia di tombe e giacciono sotto quintali di terra. Mi addolora che il leader di quelle che un tempo era una grande nazione sia cosi' insensibile rispetto alle persone di cui ha distrutto le esistenze. Che si sia d'accordo o no con il presidente del Venezuela Chavez, la schietta evidenza del suo dire che la democrazia "non puo' essere imposta da bombe e marines" e' qualcosa su cui non si puo' fare a meno di acconsentire, nel nostro paese e nel mondo intero. La democrazia sorge dalle persone. Uccidere innocenti, torturare, drenare il nostro bilancio, rubare le elezioni, spiare cittadini americani illegalmente, lasciare la gente di New Orleans appesa ai tetti, eccetera, non e' democrazia, e le persone colpite non dovrebbero essere ridotte a segni di punteggiatura. Mio figlio e gli altri non verranno scritti nella storia come "virgole", ma come ulteriori vittime della macchina della guerra, ed io spero come le ultime vittime della guerra per il profitto. Come fa George Bush a mantenere quella faccia tosta mentre parla di un "nemico che e' disposto ad uccidere persone innocenti"? Quando mai Bush e compagnia si sono astenuti dall'assassinare innocenti? George Bush verra' scritto come un asterisco, nella storia. E all'asterisco si leggera': "Incriminato, rimosso dall'ufficio, imprigionato per crimini contro l'umanita'". E piu' presto succede, meglio e'. 2. TESTIMONIANZE. ELAINE BROWER: UNA MANIFESTAZIONE NONVIOLENTA A NEW YORK [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Elaine Brower. Elaine Brower, madre di un marine di stanza a Fallujah, e' un'attivista contro la guerra e una delle portavoce di "World Can't Wait: Drive Out the Bush Regime"] Mentre mio figlio lotta per restare vivo a Fallujah, ove si trova per la falsa pretesa di "difendere la democrazia" o "uccidere i terroristi", io ho deciso di lottare a casa. Ne sono rimasti pochi, a difendere i nostri diritti costituzionali. Quelli che stanno tentando di farlo sono esausti. Abbiamo camminato marcia dopo marcia, raduno dopo raduno. Cinque anni piu' tardi, la guerra peggiora ed il Medio Oriente e' in fiamme. Mettiamoci anche i disastri dell'uragano Katrina, lo spionaggio sui cittadini statunitensi in nome della loro liberta', il fallimento delle politiche economiche, i prezzi del gas, e le politiche estere del "cowboy globale" che siamo costretti a testimoniare su base giornaliera. Bene. Fuori da casa mia, Staten Island, New York, sventolano la bandiera americana e quella dei marine, e proprio perche' sono una patriota ho deciso di lottare contro la rapida erosione del nostro diritto di parola. Per questo ho pianificato di farmi arrestare alle Nazioni Unite quando i bugiardi e i criminali vi si sono recati: sto parlando di quelli del nostro governo. Il piano ha preso forma, quietamente e fermamente, qualche settimana fa. All'inizio mi sono confidata solo con quelli che sapevo disperati quanto me. La questione era ed e' troppo importante per fare solo una manifestazione e poi andarsene a casa. Quando il mondo e' venuto a New York, ci siamo mostrati: sedici determinati cittadini, delle piu' disparate eta' ed esperienze di vita, hanno deciso di compiere un atto di disobbedienza civile di fronte alle Nazioni Unite il 19 settembre scorso, mentre l'Assemblea Generale discuteva dei destini del mondo. E' stata l'impresa piu' difficile in cui mi sia imbarcata in vita mia, compresi i miei tre matrimoni. Essendo stata sposata con un tenente della polizia ora in pensione, ed avendo due figli ufficiali nella polizia di New York, mi sono chiesta cosa diavolo stavo facendo. Ma vedere il ghigno sulla faccia di George Bush quando ha visitato Ground Zero ed usarlo per un'altra foto pubblicitaria, mi ha fatto decidere che ero nel giusto. Se lui poteva starsene li' ad umiliare me ed il mio paese, io potevo camminare fra le fiamme dell'inferno per fermarlo. * La notte prima non sono riuscita a dormire, e quando ho raggiunto il luogo dell'incontro con gli altri, il cuore mi batteva al punto che pensavo sarebbe uscito dalla camicia. Allora ho guardato la foto di mio figlio, che porto sempre con me, e ho pensato a tutti i funerali a cui ho partecipato da quando lui e' stato mandato in Iraq, ho pensato agli occhi delle madri e alla loro costante domanda: "Perche'?". Mi sono calmata. Non avevo piu' paura dei grossi tizi in abiti neri che circondavano l'edificio delle Nazioni Unite, ne' delle centinaia e centinaia di poliziotti in uniforme. Ho attraversato il cancello sulla Prima Avenue e la Quarantaquattresima Strada, e ho camminato diritta fra un drappello di poliziotti e un loro furgone. Di colpo mi sono trovata a volare per aria, con la foto di mio figlio in mano. Sono atterrata a circa tre metri dalla cancellata da cui volevo passare. Dal mio punto di osservazione, vedevo comporsi una grossa mischia. I miei amici ce l'avevano fatto a passare oltre la barricata. Verso di loro andavano uniformi, tizi della sicurezza in vestiti neri, giornalisti, fotografi, visitatori. Le cineprese filmavano. Io ero distesa per terra con la gente che mi saltava per non calpestarmi, e per un attimo ho pensato: "Potrei andar via, non se ne accorgerebbe nessuno". Ma non potevo. I miei compagni in quell'azione, i miei amici, persone per le quali ho il piu' profondo rispetto, in quel momento venivano malmenati da chi dovrebbe difendere la legge. Cosi' mi sono fatta largo per unirmi a loro. Il mio amico padre Luis Barrior era inginocchiato, con addosso quattro poliziotti che gli tenevano ferme le braccia e la testa. Sembrava quasi pregasse, ma era evidente che gli stavano facendo male. Ho raggiunto gli altri, ed abbiamo unito le braccia. Eravamo sconvolti e ammaccati, ma siamo restati fermi cantando "Arrestate Bush", "Portate a casa ora i nostri soldati", "Vogliamo la pace subito". Mi e' parso che in quel momento la polizia e i servizi segreti non sapessero assolutamente cosa fare. Non riuscivo a capirlo. Mi ero aspettata che ci saltassero addosso urlandoci "criminali insensati", ma ci lasciarono cantare. E noi continuammo a farlo. Un passante, in solidarieta', uni' le sue braccia alle nostre. Gli abbiamo sorriso. Di fronte a noi un mare di uniformi, videocamere e gente. E tutte le persone che ci guardavano sembravano scioccate quanto noi. Per tutto il tempo che siamo rimasti li', ho pensato a mio figlio che dorme poco, alle sue scarse razioni, a lui la' da qualche parte sul fiume Eufrate e mi sono sentita piu' forte. Le nostre voci diventavano sempre piu' chiare, piu' alte. Il nostro scopo era stato raggiunto, per quanto piccolo fosse il passo che avevamo fatto verso il movimento di massa che e' necessario in questo paese per sconfiggere il fascismo. Un passo piccolissimo, ma lo avevamo fatto. * Infine, undici donne e cinque uomini, siamo stati arrestati e portati via in furgone. Le donne sono state separate dagli uomini, avevamo un vagone per conto nostro, le nostre manette e i nostri vestiti sporchi, ed il sollievo e la contentezza che riempivano il nostro spazio. Eccoci la', undici donne dai venti ai settantotto anni, di differenti idee, di differenti generazioni, arrestate, e non ci eravamo mai sentite meglio! Ragazzi, la polizia di New York dev'essersi molto pentita dell'averci tenuto rinchiuse cinque ore. Non ho mai parlato e riso tanto in vita mia. Ci siamo legate l'una all'altra ancor piu' di prima. Quando quella sera abbiamo ritrovato anche gli altri, tutti e sedici ci siamo detti che continueremo a premere contro ogni governo fascista che voglia negarci il diritto di parola previsto dal Primo Emendamento, ed ogni altro diritto per cui abbiamo lottato cosi' a lungo, e cosi' duramente, per centinaia di anni. Per questo volevo dirvi che, vi sia data o no la possibilita' di esprimere voi stessi, non dovete cedete alla disperazione, al sentimento di impotenza, al dolore: uscite, e chiedete a voce alta che vi si ascolti. E' vostro diritto come cittadini americani, e non dovete permettere a nessuno di portarvelo via. 3. ESPERIENZE. CINZIA GUBBINI: "TRAMA DI TERRE" A IMOLA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 23 settembre 2006. Cinzia Gubbini e' una giornalista del "Manifesto" che si occupa sovente di diritti umani] "I servizi sociali mi dicevano che potevano prendermi se c'era un serio pericolo per la vita mia e della mia bambina. Io dicevo che non mi picchiava, ma che non lo sopportavo piu'. Dopo che eravamo scappati dall'Armenia mi trattava male: aveva perso tutto. Ma anche io stavo male, perche' doveva sfogarsi su di me? Ero fuori di testa, depressa, se non me ne andavo lo ammazzavo. Alla fine ho detto: 'mette la bambina nella lavatrice'. Ma non era vero". Pero' cosi' i servizi sociali del comune di Bologna si sono fatti carico di Vanessa, 35 anni, in Italia con un permesso di soggiorno umanitario. Non succede solo a Bologna che una donna debba mostrare l'occhio nero di botte per diventare ufficialmente vittima di violenze agli occhi dello stato. Soprattutto quando quei maltrattamenti avvengono in famiglia. Vanessa racconta la sua storia seduta nel chiostro della sede dell'associazione Trama di Terre, a Imola. Dopo le peripezie attraversate nei labirinti della burocrazia, e' finita qui: il comune ha chiesto all'associazione di ospitarla in uno degli appartamenti destinati all'accoglienza delle donne in difficolta'. Per Vanessa e' come aver ritrovato casa: "Adesso sono tranquilla - racconta - qui ho parlato tanto. Qualche volta lui viene, vuole molto bene alla bambina. Mi dice tante cose, bla bla bla, ma io ora sto bene da sola". * Un angolo di mondo E' un posto strano il centro interculturale Trama di Terre. Forse unico in Italia, senz'altro raro. Si trova in un palazzo antico, nel centro della citta', un angolo di mondo racchiuso nel vicolo di un opulento paese di provincia. Gia' l'ingresso ricorda vagamente certi luoghi di ritrovo sudamericani: sulle pareti un murale e le creazioni artistiche di una donna che tempo fa passo' per il centro. Poi il cortile interno con i fiori che ornano il piccolo pozzo. Da un lato c'e' la "cucina abitata", inaugurata di recente: tra i suoi fornelli, dove in genere lavorano le donne detenute in regime di affidamento sociale, si prepara da mangiare per chi vive qui; ma si trasforma anche in un piccolo ristorante di cucina etnica. Da un'altra porta si entra nei locali del piano terra: la sala riunioni, la biblioteca, la stanza dove si tengono i corsi di italiano per donne straniere. I muri tappezzati di foto, volantini, manifesti, stoffe, che arrivano dai quattro angoli della terra, portati qui da qualcuna che in quei paesi c'e' stata, o c'e' nata. Al secondo piano i quattro appartamenti, circa venti posti-letto, per ospitare le donne e i loro bambini. Ogni anno passano di qui circa 500 donne straniere. E' un po' difficile chiamarlo centro antiviolenze: non e' nascosto, non e' separato e non lo vuole essere. Non ci sono soltanto donne che hanno subito maltrattamenti fisici o psicologici, come la donna tunisina con i suoi quattro figli che qualche settimana fa e' finita sul giornale perche' veniva segregata in casa dal marito. In questi giorni ci sono anche alcune ragazze dell'est sfrattate dai loro appartamenti. Ma non e' neanche un centro di accoglienza. Chi non e' inserita a retta dei servizi sociali paga un affitto, anche se minimo e secondo le proprie possibilita'. * L'atea e la musulmana Il centro interculturale Trama di Terre e' nato, esattamente dieci ani fa, rompendo gli schemi. A cominciare dalle fondatrici: Tiziana Dal Pra e Nabila Kovachi. La prima e' comunista, femminista e atea. La seconda, algerina, non ha precedenti esperienze politiche in Italia, e' musulmana praticante, come dimostra il velo che indossa. Si sono incontrate durante un corso di mediazione culturale e hanno deciso di mettere in piedi un'associazione tra donne italiane e migranti, improntata sul pensiero della differenza di genere, con l'idea di lavorare e dare lavoro. Gli altri dicevano che avrebbero litigato presto. Uomini, e donne, di poca fantasia. I primi interventi sono a Imola e nella vallata: corsi di cucito, lezioni di alfabetizzazione, attivita' per i bambini. All'inizio in un clima un po' amicale e di sorellanza, poi, col tempo, la realta' impone un confronto piu' serrato. Non si puo' insegnare l'italiano senza rendersi conto che gli uomini si piantano fuori dalla porta dove si tengono le lezioni; senza intervenire quando qualche moglie viene picchiata con il bastone. Lei ha difficolta' a denunciare: e' sola, un po' ci e' abituata e sa che la polizia, quando viene chiamata, spesso si limita a interrompere il "litigio". A Trama di Terre questi pezzi di vita quotidiana arrivano giorno dopo giorno attraverso le parole delle donne, un tam tam che supera le porte chiuse. Decidono di intensificare il lavoro interculturale: dibattiti, seminari, presentazioni di libri. "Studiare, in questo sono severissima", dice Tiziana. Ma soprattutto cercare di costruire uno spazio "di sospensione": "un luogo in cui nessuna si senta giudicata, in cui nessuna pensi di dover rinnegare la propria identita'. Il filo d'unione sono le liberta' femminili". Succede che dal dibattito, dal lavoro comune si arrivi a parlare della vita privata. Le mediatrici di Trama sono spesso donne che hanno subito violenze, ribellatesi grazie al percorso intrapreso qui. Che non e' privo di ricadute: "E' successo che qualcuna sia tornata da una vacanza nel suo paese di nuovo velata, sparendo da un giorno all'altro dalle attivita' del centro", continua Tiziana. "Ma sono tornate. La molla, credo, sia la profonda consapevolezza che il nostro scambio abbia segnato tutte le nostre vite". Il prossimo progetto? Un appartamento per accogliere le adolescenti. Che i problemi intergenerazionali siano il nuovo fronte di intervento qui lo si era capito molto prima della tragica morte di Hina Saleem, la ragazza pachistana sgozzata a Brescia dal padre. Mentre l'Italia scopre che gli immigrati non sono solo delinquenti, forza-lavoro o compagni sfruttati, a Trama di Terre e' piu' semplice diradare le nebbie e indicare una strada possibile. * Mediazione senza compromessi La mediazione culturale, per esempio. Le mediatrici di Trama si muovono secondo una logica ferrea, spiega Malika, marocchina: "Negli interventi sosteniamo sempre la figura femminile e quella delle giovani generazioni". Per essere piu' espliciti: se un padre ritiene che sua figlia sia troppo libera e usa le maniere forti per tenerla in casa, che significa mediare? Convincere il padre a essere un po' piu' buono e la figlia un po' piu' casta? Molti mediatori, in giro per l'Italia, risponderebbero di si'. Non le operatrici di Trama: "Impossibile parlare in astratto - risponde Malika - ma starei dalla parte della ragazza". Ovviamente le cose non cadono dal cielo: gli interventi vanno strutturati, discussi. Le mediatrici di Trama ogni cinque sabati sono obbligate a partecipare a un'intera giornata di approfondimento. Tempo fa e' capitato che una mediatrice - durante una discussione sull'interruzione di gravidanza - abbia ammesso che se si fosse trovata di fronte a una donna decisa ad abortire avrebbe tentato di farle cambiare idea. Ora lavora in altri luoghi - scuole, tribunali - e non piu' nei consultori. Un punto di vista che crea anche problemi alle mediatrici, il cui operato e' sotto gli occhi di tutti, in un comune cosi' piccolo. L'anno scorso una di loro intervenne in una famiglia che abitava in vallata: il figlio era un ragazzino molto vivace. Il padre - un operaio, che parlava poco l'italiano, incapace di rapportarsi a una realta' sconosciuta e con pochi contatti con la scuola - trovava nelle botte la sua unica fonte di autorita'. L'operatrice convinse il padre che non poteva picchiare il bambino. Il quale nel frattempo e' scappato di casa. Il padre se l'e' presa con la mediatrice: "Hai visto? Con i tuoi metodi ora e' in giro a fare il delinquente". Per questo l'associazione cerca di stimolare i servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, per moltiplicare gli (scarsissimi) incontri di formazione sulla mediazione. "Non e' possibile pensare di affidare tutto alle mani delle mediatrici. Insegnanti, dottori, infermieri, poliziotti, devono rapportarsi a una realta' nuova. Altrimenti i problemi sono inevitabili. Siamo venuti a conoscenza di ginecologhe che di fronte a una donna araba decisa ad abortire, e a suo marito contrario all'aborto, non si preoccupano di tutelare maggiormente la donna. Con un'italiana sarebbe diverso". * Autocensura degli antirazzisti Confronto, confronto continuo. E una prospettiva apertamente politica. Sono questi i punti fermi dell'associazione. Il centro interculturale a Imola e' un riferimento per la parte democratica e antirazzista della citta'. Qui si e' costruito il social forum dopo le botte di Genova, si organizzano le manifestazioni contro la Bossi-Fini e la guerra, qui giovedi' si e' tenuto il dibattito di sostegno al "Manifesto". E' una questione di stile, a partire dalla precisa scelta di non essere "in guerra" con nessuno. Non e' certo in guerra con le comunita' straniere ("ma quali comunita', non esistono. E comunque noi parliamo con le persone, non con i gruppi", dice Tiziana), e neanche con gli uomini. Nabila e Tiziana oltretutto non si fanno scrupolo di andare in moschea a parlamentare delle violenze sulle donne con alcuni rappresentanti. "Portiamo nomi e cognomi di chi lo fa, li sappiamo, poi chiediamo che si parli del problema durante le prediche. Ovviamente il nostro rapporto e' con la parte piu' aperta della moschea. Esattamente come avviene nella nostra cultura dove le sensibilita' sono molteplici - dice Tiziana - cosi' accade dall'altra parte. Non si puo' leggere l'immigrazione come un monoblocco". Tra le regole del centro c'e' che tanto negli appartamenti che nei corsi di alfabetizzazione non vengono messe insieme donne della stessa nazionalita'. Anche questo e' un modo per stimolare il confronto. "Se vengo smentita saro' felice, ma a me pare che la frequenza delle donne italiane con le donne straniere sia bassissima. Si parla poco della condizione della donna nella migrazione perche' si pensa ci siano codici diversi di comprensione, perche' la migrazione comporta spesso un senso di perdita a piu' livelli: il lavoro, la competenza, la liberta', l'autonomia. E' un percorso che la maggior parte delle donne di questo paese ha fatto 50 anni fa. Chi ha piu' voglia di vederlo?". Vale anche per la sottile autocensura che scatta negli antirazzisti. "Capisco l'ansia di non partecipare a quella che una volta era la caccia all'albanese, divenuta oggi caccia all'arabo - dice Tiziana - anche perche' certe campagne sono allucinanti. E' come se la societa' volesse disfarsi di una sua parte malata: non accetta che la violenza contro le donne sia trasversale alle classi, all'eta', alle nazionalita'. E' interna alle famiglie, praticata da mariti, padri, fratelli, amanti, figli. Ma e' ascoltando le donne straniere, il coraggio con cui denunciano certe pratiche, certi retaggi, quando gli viene fornito il modo per farlo, che ho imparato. Io difendo i diritti di cittadinanza, ma a chi dice che le differenze si supereranno con il tempo rispondo che non esiste un tempo per uccidere le donne". * A rischio chiusura Se ne fanno di cose da queste parti. Eppure, colpo di scena, il centro interculturale Trama di Terre rischia di chiudere. Il motivo? Mancano i soldi. "Il Comune non da' nulla per l'affitto e per le attivita' culturali - spiega Tiziana, che ha gia' annunciato una manifestazione in citta' se la giunta non si decidera' a riconoscere il ruolo di Trama - tranne che per le convenzioni che sono lavoro retribuito. Da quando sono stati aperti gli alloggi abitativi i finanziamenti sono stati dirottati li'". Trama di Terre chiede al Comune di Imola, giunta ovviamente di centrosinistra, di mettere a disposizione ogni anno almeno 35.000 euro per il sostegno delle spese vive del centro. Le risposte pero' per ora non ci sono, nonostante la legge regionale sull'immigrazione preveda il sostegno a centri di questo tipo. Vedremo come andra' a finire, ma le donne di Trama lo promettono: continueranno in ogni caso. 4. RIFLESSIONE. MARINETTA CANNITO: LA GIUSTIZIA RIGENERATIVA, PERCORSO PER UNA TRASFORMAZIONE PERSONALE E COLLETTIVA [Da "Arca notizie", anno XX, n. 2, aprile-giugno 2005. "Arca notizie" e' il foglio trimestrale di collegamento e di riflessione tra gli alleati e gli amici dell'Arca in Italia; l'Arca e' l'esperienza nonviolenta fondata da Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto; per contattare la redazione: c/o Enzo Sanfilippo, via E. Carnevale, 4 90145 Palermo, e-mail: v.sanfi at libero.it, sito: xoomer.alice.it/arcadilanzadelvasto L'abbonamento annuale e' di 15 euro da versare sul ccp n. 14079214 intestato a Patrizia Brambilla, via Sottocampagna 65, 21020 Comabbio (Va). Ringraziamo Enzo Sanfilippo per averci messo a disposizione i testi comparsi negli ultimi fascicoli della rivista. Marinetta Cannito vive a Washington dove insegna presso l'American University e svolge attivita' di mediazione tra vittime e autori di reati; ha fatto parte dell'organizzazione non governativa Witness for Peace, ispirata ai principi della nonviolenza, la cui missione consiste nel cercare di cambiare la politica statunitense al fine di promuovere pace, giustizia ed economia sostenibile in America Latina e nei Carabi; e' stata recentemente in Italia per una serie di conferenze e convegni sulla giustizia rigenerativa] Accettando l'invito di "Arca Notizie", a scrivere questo articolo, ho avuto la possibilita' di fermarmi a riflettere sulla scelta che mi ha portato ad impegnarmi da alcuni anni nell'ambito della trasformazione nonviolenta dei conflitti, e in particolare nel campo di applicazione della "giustizia rigenerativa". E' una scelta le cui radici sono legate alla mia personale esperienza di persona nata in una famiglia protestante e cresciuta in una cultura a maggioranza cattolica, esperienza che ha poi orientato tutto il mio cammino di vita. Fin da piccola, (parlo di cinquant'anni fa), il costante confronto con una realta' nelle cui strutture sociali mi sentivo emarginata e discriminata, mi ha posto di fronte ad interrogativi sul modo di affrontare quella realta' conflittuale. In quegli anni il mio conflitto era con la religione di Stato imposta nelle scuole e il mio modo di intendere la giustizia si formava sulle narrrative di martiri della fede trasmesse in famiglia, che sottolineavano la relazione tra fede personale e impegno sociale per una trasformazione di rapporti e strutture, che riecheggiavano nell'allora attuale testimonianza di lotta nonviolenta di Martin Luther King. Vivevo una costante tensione tra il distacco verso la cultura esterna che esprimevo mettendo in discussione i significati che mi venivano imposti, e l'attaccamento affettivo verso le persone di quella cultura, che mi portarono a coltivare una profonda e duratura amicizia con una ragazza cattolica. In quel contesto, il concetto della riconciliazione assumeva per me una valenza concreta e rappresentava una scelta quotidiana. La mia percezione della realta' e la mia stessa identita' si sono man mano formate e arricchite in quegli anni nell'incontro e nel dialogo con il "diverso". Piu' tardi, in eta adulta, lavorando con l'organizzazione nonviolenta Witness for Peace (Testimoni per la pace) che mi ha portato a diretto contatto con persone i cui diritti umani sono sistematicamente violati, ho riflettuto di nuovo sulla relazione tra giustizia di Dio e giustizia sociale su cui si era costruita la mia fede. Operando in ambiti caratterizzati da violenza e crimine e' risultato piu' evidente che la proposta cristiana di riconciliazione rappresenta un cammino difficile e certo una grossa sfida da proporre. I miei interrogativi sulla giustizia si sono fatti allora piu' pressanti. Quale tipo di giustizia puo' porre un limite a violenza e crimine e promuovere una reale e duratura riconciliazione tra le persone? Quale trasformazione deve avvenire negli individui e nei gruppi perche' si metta in moto un processo di riconciliazione basato su un equilibrio di potere? Puo' il sistema giudiziario includere un processo cosi' soggettivo, quale la riconciliazione, che presuppone il riconoscimento di una dimensione spirituale del conflitto? La scoperta dei principi della giustizia rigenerativa all'interno degli studi sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti mi ha permesso di rispondere a queste domande, offrendomi allo stesso tempo un quadro concettuale e un linguaggio innovativo per articolare i principi della mia stessa fede. Ne riassumero' brevemente i punti. * La nuova ottica della giustizia rigenerativa Quando parlo di giustizia rigenerativa mi riferisco ad una filosofia emersa durante gli anni '70 e '80 prima in Canada e poi negli Stati Uniti (Restorative Justice) in collegamento con una pratica che fu allora chiamata Programma di riconciliazione tra vittima e autore di reato (Victim-Offender Reconciliation Program). Questo modello e' stato nel tempo modificato, rinominato, ed ha assunto nuove forme di applicazione in diversi contesti culturali e politici: Mediazione tra vittima e autore di reato, Programmi di pace e giustizia comunitaria, Processi di gruppi familiari, Sentenze a circolo, Commissioni di verita' e riconciliazione. Nonostante la varieta' di applicazioni, alla base di tutti i modelli c'e' un modo comune di definire e affrontare il crimine e la giustizia che rappresenta una "lente" alternativa all'attuale sistema giudiziario penale. In effetti, e ci tengo a sottolinearlo, la giustizia rigenerativa non e' un complesso di tecniche o un nuovo programma di interventi che possono essere riprodotti indifferentemente in qualsiasi contesto criminale e culturale, e' piuttosto un paradigma, una serie di principi e valori che offrono nuove lenti per osservare e riconsiderare la realta' giudiziaria penale. L'ottica da cui parte la giustizia rigenerativa si basa su una concezione della societa' come struttura composta di elementi interdipendenti in cui le persone vivono in un equilibrio di rapporto materiale, sociale e spirituale tra di loro, concetto espresso in ebraico con shalom. In quest'ottica il crimine rappresenta il sintomo della perdita di tale equilibrio e la giustizia puo' e deve promuovere il riequilibrio dei rapporti all'interno della societa'. Mentre il nostro sistema penale considera il crimine in termini astratti come violazione di una norma di legge, per la giustizia rigenerativa il crimine e' innanzitutto un danno concreto (di natura materiale, psicologica e morale) commesso nei confronti di persone concrete, che implica la violazione di un rapporto tridimensionale perche' danneggia sia il rapporto tra vittima e autore di reato, che le relazioni tra le persone che vivono in una comunita'. Secondo questa ottica, quindi, per 'vittima' si intende sia la persona direttamente colpita dal crimine, che le cosiddette vittime secondarie (quali familiari e amici), che i membri della comunita' coinvolta negli effetti del crimine (insegnanti, assistenti sociali, guide spirituali, colleghi di lavoro...), le cosiddette vittime terziarie. Il nostro sistema penale, che e' essenzialmente centrato sull'autore del reato, considera la vittima, nelle migliori delle ipotesi, un elemento secondario della giustizia, e il suo obiettivo e' innanzitutto quello di stabilire la colpevolezza e infliggere la pena. Sottolineando invece l'importanza del danno arrecato, la giustizia rigenerativa riconosce la centralita' dei bisogni delle vittime e la necessita' di una riparazione, sia materiale che simbolica, nei loro confronti. L'obiettivo e' quello di incoraggiare gli autori dei crimini a prendere coscienza del danno da loro causato e ad assumersi le proprie responsabilita' in modo concreto per porre rimedio a tale danno. * Centralita' dei rapporti Concretamente, questo obiettivo si attua attraverso un modello processuale collaborativo e inclusivo da cui procedano, per quanto possibile, accordi che siano frutto di decisioni consensuali. Mentre l'attuale sistema penale si basa su un processo avversativo condotto da professionisti che sono estranei al crimine, nella giustizia rigenerativa tutte le parti coinvolte in un particolare crimine (vittime e autori di reato, vittime secondarie e membri della comunita') si incontrano (quando cio' e' possibile e appropriato) e agiscono da partecipanti attivi per affrontare collettivamente il modo di risolvere le conseguenze del crimine e discuterne le cause. Gli incontri diretti sono facilitati da persone che preparano in anticipo le parti, e presuppongono la volontarieta' di partecipazione della vittima e l'ammissione di responsabilita' da parte del reo. Negli incontri si attribuisce uguale importanza a fatti ed emozioni e sono ritenuti validi i bisogni di tutti i partecipanti. Le vittime possono incamminarsi verso il recupero psicologico dal loro trauma avendo la possibilita' di porre domande direttamente al reo, raccontare la loro esperienza del crimine, richiedere risarcimento e riconoscimento morale del danno subito, in un ambiente in cui si sentono sicure e protette, spazio che il modello del processo penale attuale non prevede. Gli autori del reato, a loro volta, hanno la possibilita' di ascoltare il punto di vista delle vittime e considerare gli effetti del proprio crimine, spiegare le proprie ragioni, esprimere emozioni, e riacquistare fiducia in se stessi riscoprendo in se' il potere positivo di poter riparare personalmente al danno commesso. Il risultato degli incontri e' che ad ognuno e' data la possibilita' di dare un volto all'altra parte e riumanizzarla e riconoscere la reciproca interdipendenza. Sostituendo al principio della retribuzione quello della relazione e riconoscendo pari dignita' a ciascun individuo coinvolto nel crimine, la giustizia rigenerativa promuove un processo di giustizia in cui le parti avverse possono insieme creare le basi per un riequilibrio dei rapporti e una riconciliazione fondata su un ordine sociale giusto e umano, lo shalom. * Comunita' come luogo di riconciliazione Al centro di questo processo c'e' la comunita', intesa come elemento coinvolto nelle conseguenze del crimine, ma anche come elemento responsabile dell'educazione del gruppo sociale che la compone, per analizzare le cause alla radice dei crimini e trovare soluzioni per la loro prevenzione. Di conseguenza, i programmi che si basano sui principi della giustizia rigenerativa mantengono relazioni di collaborazione e consultazione con individui e organizzazioni che gia' compiono un lavoro nell'ambito della giustizia sociale, facendosi promotori di programmi di educazione comunitaria che hanno la potenzialita' di mobilitare i membri della comunita' in azioni miranti ad una trasformazione sociale. E' un processo che parte dalla base e percio' presuppone lo sforzo congiunto di comunita' civili, religiose e giudiziarie per costruire comunita' di riconciliazione e riabilitazione. Nella mia qualita' di facilitatrice di incontri tra vittime e autori di reato posso testimoniare che il processo della giustizia rigenerativa da' luogo ad esperienze indimenticabili e spesso trasformanti per tutte le persone coinvolte, a volte culminanti in una sincera riconciliazione tra le parti, anche in casi di crimini violenti. Voglio pero' sottolineare che quando avviene una riconciliazione, questa e' sempre espressione di un sentimento spontaneo e solo prerogativa della vittima, mai introdotto di forza nelle fasi del processo. L'aspetto rivoluzionario della giustizia rigenerativa e' comunque quello di creare spazi che facilitano una (ri)costruzione di rapporti, sia a livello personale che sociale. Mentre gli approcci tradizionali della giustizia hanno la tendenza a vedere la riconciliazione come periferica, o, peggio ancora, irrilevante nel processo di costruzione di pace, nella giustizia rigenerativa l'incontro tra le parti e la messa a confronto delle storie diverse nella possibilita' di una (ri)conciliazione rappresenta l'elemento cruciale per creare le condizioni per un cambiamento sociale a lungo termine. * Trasformazione Nel tradurre dall'inglese Restorative Justice ho preferito usare "giustizia rigenerativa", invece di "giustizia riparativa", come spesso questo paradigma viene definito in Italia. Lavorando nell'ambito della Restorative Justice, ho notato che gli obiettivi e i risultati di tale processo giudiziario vanno oltre la semplice riparazione dei danni commessi nei confronti delle vittime. Inoltre, spesso i rapporti lesi dal crimine non possono essere "riparati", e vanno invece trasformati. Trasformare il crimine e le persone afflitte dal crimine significa, nella pratica della giustizia rigenerativa, dare loro una nuova forma, una forma capace di sviluppare strategie di intervento che portino alla costruzione di strutture di pace. La possibilita' offertaci dalla giustizia rigenerativa e' quella di una trasformazione che non consiste in norme astratte da adottare, ma in una prassi che offre una prospettiva di speranza annunziata con un nuovo linguaggio di cambiamento. Non un linguaggio di opposizioni, di "buoni" e "cattivi", di gente che vince e perde le cause, ma un linguaggio di rapporti che ci muove a riannodare la nostra vita a quella degli altri. Trasformazione dunque verso la costruzione di una realta' che, partendo da eventi dolorosi passati, puo' dare forma a un futuro individuale e collettivo basato su rapporti di riconciliazione ed equilibrio di potere. In questo senso la giustizia rigenerativa diventa il simbolo della sfida e del paradosso della stessa fede: credere nella possibilita' che si puo' riaffermare riconciliazione e speranza dove sembra esserci solo evidenza di separazione e disperazione. Per un approfondimento sul tema, consiglio di leggere il testo piu' significativo del principale teorico della Restorative Justice negli Stati Uniti, il professor Howard Zehr, che si intitola Changing Lenses: New Perspectives on Crime and Punishment, Scottdale, Pa, Herald Press, 1990. 5. LIBRI. ANNA SIMONE PRESENTA "UTOPIE, ETEROTOPIE" DI MICHEL FOUCAULT [Dal quotidiano "Liberazione" del 26 settembre 2006. Anna Simone (Altamura, 1971), ricercatrice nell'ambito delle scienze umane, saggista; collabora con l'Istituto di sociologia del dipartimento di Scienze storiche e sociali dell'Universita' di Bari. Opere di Anna Simone: L'oltre e l'altro, Besa, Lecce 2000; Divenire sans papier. Sociologia dei dissensi metropolitani, Mimesis, Milano 2002. Michel Foucault, filosofo francese (Poitiers 1926 - Parigi 1984), critico delle istituzioni e delle ideologie della violenza e della repressione. Opere di Michel Foucault: Storia della follia nell'eta' classica, Rizzoli; Raymond Roussel, Cappelli; Nascita della clinica, Einaudi; Le parole e le cose, Rizzoli; L'archeologia del sapere, Rizzoli; L'ordine del discorso, Einaudi; Io, Pierre Riviere..., Einaudi; Sorvegliare e punire, Einaudi; La volonta' di sapere, Feltrinelli; L'uso dei piaceri, Feltrinelli; La cura di se', Feltrinelli. Cfr. anche i tre volumi di Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, Feltrinelli. In italiano sono stati pubblicati in volume anche molti altri testi e raccolte di interventi di Foucault, come Malattia mentale e psicologia, Cortina; Questa non e' una pipa, Serra e Riva, Scritti letterari, Feltrinelli; Dalle torture alle celle, Lerici; Taccuino persiano, Guerini e associati; e varie altre raccolte di materiali, trascrizioni di conferenze, seminari. Opere su Michel Foucault: tra le molte disponibili segnaliamo Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza; Vittorio Cotesta, Linguaggio, potere, individuo, Dedalo; Hubert L. Dreyfus, Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie; Didier Eribon, Michel Foucault, Flammarion; Francois Ewald, Anatomia e corpi politici. Su Foucault, Feltrinelli; Jose' G. Merquior, Foucault, Laterza; Judith Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifestolibri; Paolo Veronesi, Foucault: il potere e la parola, Zanichelli; cfr. anche il recente volume di "Aut aut", n. 232, settembre-ottobre 2004, monografico su Michel Foucault e il potere psichiatrico. Herbert Marcuse, filosofo, nato a Berlino nel 1898, fa parte della scuola di Francoforte; costretto all'esilio dal nazismo, si trasferisce in America; sara' uno dei punti di riferimento della contestazione studentesca e dei movimenti di liberazione degli anni '60 e '70. Muore nel 1979. Opere di Herbert Marcuse: segnaliamo almeno Ragione e rivoluzione, Il Mulino; Eros e civilta', Einaudi; Il marxismo sovietico; L'uomo a una dimensione, Einaudi; Saggio sulla liberazione, Einaudi. Opere su Herbert Marcuse: oltre le note monografie di Perlini e di Habermas, cfr. Hauke Brunkhorst, Gertrud Koch, Herbert Marcuse, Erre Emme, Roma 1989; cfr. inoltre gli studi complessivi e le monografie introduttive sulla scuola di Francoforte di Assoun (Lucarini), Bedeschi (Laterza), Jay (Einaudi), Rusconi (Il Mulino), Therborn (Laterza), Zima (Rizzoli)] L'opera di Michel Foucault e' prevalentemente conosciuta in Europa per aver posto al centro del dibattito politico e filosofico, nella seconda meta' del '900, una serie di tematiche tra cui i corpi, l'analitica dei saperi-poteri, i dispositivi di sicurezza e di disciplinamento delle condotte. I corpi che parlano ed emergono da gran parte dei suoi testi (dalla Storia della follia nell'eta' classica a Sorvegliare e punire, da Gli anormali alla Storia della sessualita', sino agli ultimi corsi sulla Nascita della biopolitica e su Sicurezza, territorio, popolazione) sono sempre corpi assoggettati ad una forma di potere che non si esercita su di loro in maniera diretta, come forma di dominio istituzionale (il potere inteso in senso classico) ma che, invece, li attraversa mettendo a punto un numero incredibile di tecnologie sociali per addomesticarli, addolcirli, gestirli (la famiglia, l'istituto penitenziario, il manicomio o i cosiddetti "agenti delle politiche del corpo" come i pedagogisti, gli operatori sociali). Sempre Foucault, tra gli anni '60 e '70, coglieva la potenza di controcondotta dei movimenti di contestazione della norma delle donne, degli omosessuali, delle lesbiche, dei carcerati dando loro una lettura completamente diversa da quella esplicitata all'epoca dai francofortesi e da Marcuse in particolare, proprio perche' aveva capito che e' impossibile ridurre i singoli corpi ad entita' che, molto banalmente, trasgrediscono i divieti imposti dalle regolazioni sociali. Marcuse, infatti, leggeva il corpo e l'erotismo sempre all'interno del sistema dualistico divieto/trasgressione, sempre attraverso la logica secondo cui vi e' una liberazione potenziale solo se vi e' una repressione reale. Ma i corpi assoggettati ai molteplici dispositivi, siano essi sicuritari o disciplinari, non sono delle singole entita' in grado di sfuggire continuamente agli ordini costituiti dalle societa' rigidamente dualistiche? O meglio, non sono in se' delle piccole potenze che eccedono tutti gli ordini dati? Porsi al di la' degli ordini patriarcali, familisti, eterosessuali, monoteisti etc. non e' cosa ben diversa dal porsi come speculari e in opposizione agli stessi ordini dati? Foucault ci dice che e' proprio cosi', ci dice che l'anormale, l'eccedente, non esiste solo perche' deve essere speculare ad un ordine normale ma, al contrario, esiste perche' e' lo stesso ordine normale a produrlo per poi gestirlo e sussumerlo. Tuttavia, se fosse davvero cosi', avremmo solo una societa' governata dalla polizia o dagli anatomopatologi in grado di leggere e vivisezionare i corpi indipendentemente dalla loro cultura politica, dal loro sentire, dalla loro straordinaria capacita' di vivere a partire da cio' che sfugge alla loro irriducibile singolarita'; a partire, cioe', da quella dimensione dell'eccedente che rende piu' umani gli umani e piu' vivi i viventi. Per fortuna non e' del tutto cosi'; il corpo rimane conosciuto tanto quanto sconosciuto. Ed e' per questo, evidentemente, che non puo' essere facilmente normato e disciplinato senza sollevare immediatamente proteste o, almeno, forme di resistenza. * Al di la' dei testi piu' importanti di Foucault ce n'e' uno, appena edito, che vale la pena andarsi a cercare tra gli scaffali delle librerie. Si tratta di due piccole conferenze radiofoniche tenute su France Culture nel 1966 (Utopie, eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, pp. 58, euro 6). Una, in particolare, "Il corpo utopico", ci regala un Foucault che supera gli steccati accademici e ci parla in prima persona dell'esperienza che quotidianamente fa del suo corpo. Gia' nelle prime pagine del testo si legge: "Il mio corpo e' il luogo a cui sono condannato senza appello". Una condanna certa e squisitamente materiale che, pero', e' sempre stata mediata da intercessori metafisici come "l'utopia di un corpo incorporeo", l'utopia dei corpi mummificati della civilta' egizia o il mito dell'anima, di quel soffio che alloggia nei corpi ma che sa anche fuggire da essi in un attimo. Tuttavia queste stesse grandi metanarrazioni della storia e delle civilta' annientano il corpo stesso perche' - continua Foucault - l'anima, le tombe, i geni e le fate "l'hanno fatto scomparire in un batter d'occhio, ne hanno cancellato la pesantezza, la bruttezza e me lo hanno restituito splendido e perpetuo". Di fatto non abbiamo bisogno di queste utopie metafisiche per essere un corpo, esso e' gia', in se', "opaco e trasparente, visibile e invisibile, vita e cosa". Infatti "per essere utopia basta essere un corpo". Anzi, e' proprio questa impossibilita' della perfezione, questa pesantezza e questa bruttezza a porsi come unica cifra di lettura della corporeita' proprio perche' spiazza ed eccede gli ordini discorsivi trascendenti, le mediazioni tra carne e parola che, anziche' procedere insieme vengono come scollegati, rappresentati e poi affibbiati al corpo stesso dalle costruzioni sociali e filosofiche. In sintesi e' il corpo il "punto zero del mondo" e non il mondo, con i suoi discorsi astratti, a creare i corpi. Il corpo, infatti, non e' mai un effetto del mondo. Lo diventa solo perche' i saperi-poteri e i dispositivi di sicurezza lo producono attraverso tecniche di assoggettamento e normalizzazione. Un tema, questo, per nulla risolto e che andrebbe, invece, discusso pubblicamente per l'enorme posta in gioco politica, relazionale, culturale e sociale che implica. Un tema che si potrebbe sintetizzare cosi': chi parla? Chi resiste? Chi ama? Chi pratica le liberta' nel contesto politico del nostro presente? I singoli corpi o i grandi soggetti della storia costruiti dalla societa' e dalle grandi narrazioni epiche e maschili degli ultimi duecento anni? Il corpo utopico di cui ci parla Foucault in questa breve ma intensa conferenza e' in se' complesso, molteplice, plurale. Occupa uno spazio ed un tempo ma si sviluppa continuamente dentro altri tempi e altri spazi. E' un corpo vivo che, in quanto tale, non ha bisogno di riconoscersi dentro la canonica raffigurazione dell'operaio maschio, trentacinquenne, padre di famiglia. Ad essere sfruttati, infatti, non sono solo i corpi codificati dalla storia. Non e' per questo che i movimenti femministi, gay, lesbiche, transgender, no-vat etc. mettono al centro della politica i corpi? E non e' sempre per questo che i corpi, in quanto tali, continuano a far paura alla politica mainstream e non? ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 83 del 28 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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