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La nonviolenza e' in cammino. 1431
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1431
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 27 Sep 2006 00:17:19 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1431 del 27 settembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Mao Valpiana: Piangendo le vittime 2. Elif Shakaf: La verita' di casa mia 3. Michelangelo Bovero: La liberta' e i diritti di liberta' (parte prima) 4. Edoarda Masi: Lotte e coscienza di classe oggi in Cina 5. Riletture: Michael Moore, Ingannati e traditi 6. Ai signori ministri e ai signori parlamentari, in sei parole 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MAO VALPIANA: PIANGENDO LE VITTIME [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: mao at sis.it, e anche presso la redazione di "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) per questo intervento. Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 di questo notiziario] In guerra si uccide e si muore. Gli eserciti fanno la guerra con le armi. Le armi uccidono, gli uomini muoiono. Essere contro la guerra significa lavorare per l'abolizione degli eserciti e delle armi. Questo vale in India come in America, in Italia come in Afghanistan. E' la nonviolenza che ce l'ha insegnato. 2. TESTIMONIANZE. ELIF SHAKAF: LA VERITA' DI CASA MIA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente scritto di Elif Shakaf. Elif Shafak e' una scrittrice turca, contro di lei era stato aperto un procedimento penale per presunti "insulti alla turchita'" contenuti nei suoi scritti; il 7 giugno scorso il tribunale dinanzi a cui era comparsa aveva ritenuto che non vi fosse luogo a procedere; in luglio la decisione era stata revocata dall'Alta Corte; pochi giorni fa, infine, la stampa internazionale ha riferito che la scrittrice e' stata assolta. Da un articolo di Carlo M. Miele apparso sul quotidiano "Liberazione" del 22 settembre 2006 riportiamo il seguente stralcio: "Come Orhan Pamuk e come tanti altri romanzieri e giornalisti turchi. La giovane scrittrice Elif Shafak e' finita sotto processo per 'offesa all'identita' turca', punita dall'articolo 301, e infine assolta, ieri, per manifesta 'insufficienza di prove'. Ma, a differenza dei suoi predecessori, l'ultima vittima del codice penale turco non e' stata giudicata per opinioni ritenute lesive dello spirito nazionale, bensi' per una frase contenuta nel suo ultimo romanzo (Baba ve Pic, tradotto in inglese come The Bastard of Istanbul). Nel libro, che in Turchia ha gia' venduto decine di migliaia di copie, una anziana donna accusa i turchi per il genocidio degli armeni - avvenuto a cavallo della Prima guerra mondiale - definendoli 'macellai'. Tanto e' bastato all'avvocato Kemal Kerincsiz per denunciare il fatto e creare un caso giuridico senza precedenti. 'Se l'articolo 301 sara' interpretato in questa maniera - ha commentato la stessa Shafak - nessuno potra' piu' scrivere storie sulla Turchia, ne' girare film. Le parole di un personaggio potrebbero venire usate come prova contro l'autore o il regista'. A preoccupare i liberali turchi e gli osservatori stranieri e' proprio la famigerata norma dell'art. 301, in base alla quale chiunque puo' essere condannato per opinioni non ortodosse. Facendo leva su di essa, Kerincsiz - un nazionalista che sta cercando di sfruttare la recente notorieta' per avviare una promettente carriera politica - ha sporto denuncia contro almeno quaranta scrittori. In molti casi, gli accusati sono responsabili di aver semplicemente nominato il genocidio armeno, una questione lontana nel tempo, ma tuttora considerata tabu' in Turchia. Ma per rischiare fino a tre anni di carcere, a un opinionista turco basta fare accenno alla rimossa questione curda o mettere in discussione il ruolo dell'esercito. La tutela del diritto di opinione viene cosi' affidata alla clemenza e alla liberta' interpretativa di cui godono i giudici. Non tutti gli imputati, pero', possono contare sullo scudo della notorieta', e sulla conseguente attenzione dei media, come e' accaduto a Pamuk (assolto a gennaio dall'accusa di offesa della 'turchita'') o alla stessa Shafak. (...) Shafak, ieri, ha espresso felicita' per la propria vicenda personale, ma si e' detta preoccupata per il futuro delle liberta' nel suo paese"] "Puo' uscire? Voglio dire, puo' camminare per la strada senza timore di essere assassinata, o di un'aggressione da parte dei nazionalisti turchi?", mi ha chiesto il giornalista belga all'altro capo del telefono, "Lei e' al sicuro in Turchia?". Gia', sono al sicuro? Avrei voluto rispondergli: "Mi dica, la prego, lei e' al sicuro in Belgio? E crede che siamo al sicuro su questo pianeta? Puo' uno qualsiasi di noi, dovunque per ventura abbia le sue radici, rispondere senza timore e tranquillamente in modo affermativo, e dire che si', certo, stiamo bene e siamo al sicuro, e cosi' i nostri bambini?". Non penso proprio. Nel mondo cosi' com'e' dopo l'11 settembre, in un mondo in cui il numero di coloro che credono allo "scontro di civilta'" cresce giorno per giorno, nessuno e' piu' al sicuro. E questo e' ugualmente vero, oggi, per chi vive in un grazioso e quieto sobborgo degli Usa e per chi vive in Israele o in Libano. Con questo non voglio negare il fatto che alcuni luoghi del mondo sono assai piu' pericolosi e meno pacifici di altri, ma quando si arriva alla sicurezza personale, chi puo' garantire di essere al sicuro in un posto particolare o in dato momento? Questo e' cio' che il mondo in cui stiamo vivendo ci garantisce: persistente ambiguita ed angoscia. E sull'ambiguita' e sull'angoscia prosperano precisamente gli ultranazionalisti turchi. Si tratta del variegato grappolo di personaggi che si oppongono con fervore all'ingresso della Turchia nell'Unione Europea e che cercano di organizzare reazioni di rigetto verso ogni sviluppo progressista in direzione di una societa' aperta. E' interessante e significativo notare che in Turchia l'opposizione al processo di ingresso nell'Unione Europea non viene dal partito cosiddetto "islamista" al potere, come molti in Occidente si sarebbero aspettati qualche anno fa. Al contrario, la reazione piu' vasta e viscerale viene da un gruppo misto di strani compagni di letto: i fedelissimi kemalisti, i laicisti e le forze nazionaliste. Questi sono i piu' allarmati rispetto ad un cambiamento radicale dello status quo all'interno dello stato-nazione turco, e nel timore di perdere influenza si affannano ad incrementare e produrre politiche di paura. Tali politiche infine si giocano nelle mani dello "stato profondo", che purtroppo e' uno di quei prodotti tipici turchi difficilissimi da tradurre in altre lingue. Lo "stato profondo" e' uno stato "interno" allo stato stesso. Gli analisti politici hanno da tempo sottolineato come questa rete intricata si origini dall'era ottomana e si estenda su un vasto raggio di professionisti, dalle forze di sicurezza ai funzionari della burocrazia e dei tribunali. Cio' equivale a dire che non e' sempre il governo che detta la politica in Turchia. Il governo e lo stato, qui, non sono sempre la stessa cosa. Ci sono momenti in cui possono agire su due linee completamente diverse. A determinare la politica dello stato in Turchia non sempre e' il governo e la sua macchina amministrativa. * Ma l'art. 301, grazie al quale io sono stata portata in giudizio, non e' stato dettato dallo "stato profondo". Ironicamente, e' stato prodotto dal governo di Erdogan nel suo sforzo di compiacere piu' parti allo stesso tempo: nazionalisti in Turchia e riformisti fuori e dentro il paese. Rifiutandosi di riconoscere la difficolta', se non l'impossibilita', di un simile scopo, il governo ha emendato il codice penale turco in fretta per venire incontro alle date fissate dall'Unione Europea. Il risultato di tale "giudiziosa fretta e delicato bilanciamento" (parole del governo) e' stato l'art. 301, che commina tre anni di prigione a chiunque "insulti la turchita'". Cosa cio' significhi esattamente nessuno lo sa. Ed e' proprio questa elusivita' a causare problemi ricorrenti. "Insultare la turchita'" e' una frase dalla formulazione talmente vaga da poter essere interpretata in modo infiniti, e assai facilmente puo' essere interpretata male. Questa indeterminatezza e' cio' che fornisce agli avvocati ultranazionalisti del paese precisamente quel che cercavano: sfruttare i difetti del meccanismo giudiziario per attaccare e aggredire le voci piu' aperte della nostra societa'. Gli ultranazionalisti persistono nel denunciare chiunque pronunci o scriva parole che loro giudicano "offensive". Si raggruppano fuori dalle aule di giustizia cantando slogan provocatori e, qualche volta, compiendo atti di violenza. Scelgono i loro bersagli deliberatamente, sapendo alla perfezione chi attaccare, e quando. Sino ad oggi hanno aggredito fisicamente piu' di cinquanta persone: scrittori, giornalisti, attivisti per i diritti umani, direttori di pubblicazioni, editori. Nella stragrande maggioranza dei casi i bersagli degli ultranazionalisti erano cittadini turchi, sebbene se la siano presa anche con il parlamentare europeo Joost Lagendijk. * In questa cornice turbolenta non c'e' nulla di "eccezionale" nel mio processo. E' solo un altro dei casi della lunga serie prodotta dall'art. 301. Pero', allo stesso tempo, il mio processo ha dei tratti un po' inusuali, se non assurdi. Questa volta e' stato un romanzo ad essere accusato di "insulti alla turchita'". I personaggi armeni fittizi del mio ultimo romanzo, "La bastarda di Istanbul", sono stati biasimati per aver diffamato e denigrato la "turchita'". Percio', per esempio, un personaggio che si chiama Zia Varsenig e' adesso nei guai per aver detto a pagina 57: "Dimmi quanti turchi hanno mai imparato l'armeno. Nessuno! Perche' le nostre madri hanno imparato la loro lingua e non viceversa? Non e' chiaro chi e' il dominatore e chi e' il dominato? Solo una manciata di turchi che arrivano dall'Asia Centrale, giusto, e poi la cosa successiva che sai e' che sono dappertutto. Cos'e' accaduto ai milioni di armeni che erano gia' qui? Assimilati. Massacrati. Resi orfani. Deportati. E poi dimenticati!". Ugualmente, un altro personaggio dal nome di Dikran Stamboulian, e' in guai grossi per aver detto cio' che segue: "Cosa dira' quest'agnellino innocente ai suoi amici, quando sara' adulta? (...) Io sono la nipote dei sopravvissuti al genocidio che hanno perduto tutti i loro parenti grazie ai macellai turchi nel 1915, ma mi e' stato fatto il lavaggio del cervello perche' sono stata cresciuta da un turco che si chiama Mustafa'. Che razza di scherzo e' questo?". Per quanto io possa credere alla loro vitalita', i miei personaggi fittizi armeni non possono andare in tribunale a rispondere delle loro violazioni all'art. 301. Al posto loro, andiamo il mio editore turco Semi Sokmen, ed io. Sara' una lotta legale, lunga, e certamente un problema ed una causa di stress. Ma noi, gli scrittori turchi, non siamo pietose vittime abbandonate da tutti, incapaci di camminare per strada nel timore di un assalto nazionalista. Dopo tutto sappiamo, forse piu' intuitivamente che intellettualmente, che lo scontro di opinioni fra chi e' orientato in maniera progressista e gli xenofobi e' in corso ovunque. E sappiamo che il mondo non e' piu' un luogo sicuro per nessuno. 3. RIFLESSIONE. MICHELANGELO BOVERO: LA LIBERTA' E I DIRITTI DI LIBERTA' (PARTE PRIMA) [Dal sito della Societa' italiana di filosofia politica (www.sifp.it) riprendiamo il seguente saggio di Michelangelo Bovero. Michelangelo Bovero insegna filosofia della politica all'Universita' di Torino ed e' uno degli studiosi piu' acuti della tradizione del pensiero liberalsocialista e dell'antifascismo piu' nitido ed intransigente; discepolo, collaboratore e studioso di Norberto Bobbio, ne prosegue la lezione di rigore intellettuale ed impegno civile. Tra le opere recenti di Michelangelo Bovero: Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000; Quale liberta'. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Laterza, Roma-Bari 2004; (a cura di, con Ermanno Vitale), Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, Rosenberg & Sellier, Torino 2006] 1. La liberta' e' sempre un valore? Ricordo in modo nitido e preciso un'affermazione dell'attuale presidente del consiglio dei ministri della Repubblica italiana [del 2005, Silvio Berlusconi - ndr]. A un interlocutore che evocava per l'ennesima volta il problema del cosiddetto - riduttivamente detto - "conflitto di interessi" e la necessita' di risolverlo mediante l'adozione di regole opportune, l'interessato (!) replico': "Voi vi riempite la bocca di regole. Noi ci riempiamo la bocca e il cuore di liberta'". Questo appello retorico alla liberta' come valore mirava senz'altro a distogliere l'attenzione dal problema specifico che era stato sollevato: ma non semplicemente distraendo gli ascoltatori, bensi' tentando di capovolgere i termini della questione. L'interessato, anziche' mostrarsi in imbarazzo perche' colto in fallo - quante volte aveva promesso una soluzione normativa soddisfacente, o per lo meno accettabile, del "conflitto"... -, presentava se stesso come il difensore di un ideale indiscutibile, anzi dell'ideale supremo, principio identificante della civilta' occidentale. E giustificava - leggi: mascherava - la propria insofferenza e anzi ostilita' all'introduzione di regole specifiche per risolvere la clamorosa anomalia da lui stesso incarnata, insinuando che le regole in generale mortificano la liberta', sono foriere di oppressione. Col dissolvere in un discorso generico ciascun problema specifico, la retorica della liberta' serve a occultare, e tende a far dimenticare, che non ogni e qualsiasi liberta' e' un valore, come tale desiderabile e proponibile all'approvazione di tutti. Quale liberta'? Liberta' di chi (nel senso soggettivo del genitivo: quale soggetto diciamo che e' o deve essere libero)? Liberta' di che cosa (nel senso oggettivo: quale tipo di condotta o di scelta di quel soggetto diciamo che e' o deve essere libera)? Liberta' da chi o che cosa, rispetto a chi o che cosa? La liberta' del lupo di azzannare l'agnello? O la liberta' dell'agnello dalle zanne del lupo? O entrambe? Si puo' forse dire che siano egualmente approvabili entrambe? Secondo i piu' comuni criteri di giudizio, siamo portati a rispondere di no. E si puo' dire che siano entrambe liberta'? A quest'ultima domanda, invece, si dovrebbe rispondere di si': secondo una famiglia di regole d'uso corrente, non e' insensato designarle entrambe "liberta'". Ma, appunto, cio' non significa che siano egualmente approvabili: al contrario, dimostra che non tutte le situazioni di (sensatamente designabili come) liberta' meritano lo stesso apprezzamento. Chi si serve della retorica della liberta' punta a "capitalizzare il significato emotivo" della parola (1); non di rado, fa scientemente un uso truffaldino del linguaggio. Moltissime parole del linguaggio politico sono cariche di significati emotivi, e questi sono spesso fonti di equivoco e di inganno. Per non esserne contaminati, e' opportuno provare a "depotenziare", se non "neutralizzare" o addirittura "sterilizzare", quelle cariche emotive. In questo modo si esprimeva Norberto Bobbio, alcuni decenni or sono, nel corso di una discussione che verteva proprio sul concetto di liberta' e sulla possibilita' di ridefinirlo in termini neutri (2). Non gia' che Bobbio volesse negare ogni legittimita' ai significati valutativi tradizionalmente connessi agli usi comuni e generici di "liberta'" come di altre parole-chiave quali "eguaglianza", "giustizia", "pace", "democrazia", ecc., che nel linguaggio corrente vogliono esprimere quelli che si chiamano "valori". Non avrebbe senso condannare, ne' peraltro sarebbe possibile impedire, l'uso assiologico (e quindi retorico e ideologico) dei termini politici. Piuttosto, Bobbio invitava a tenere distinte "due operazioni", egualmente necessarie: "quella di intendere qual e' la liberta' di cui si tratta", ossia in quale senso descrittivo e' usato questo termine in un determinato contesto; "e quella di intendere se la liberta' di cui si tratta e' apprezzata", ossia qual e' il giudizio di valore, positivo o negativo, che in quel contesto il parlante intende esprimere, ed eventualmente con quali argomenti tale giudizio puo' essere difeso, oppure contestato. Ma prima di accogliere o respingere, approvare o disapprovare un determinato atteggiamento valutativo nei confronti di una certa situazione che venga designata con il termine "liberta'" (o derivati), e' indispensabile stabilire in che cosa consiste quella situazione, ovvero in quale significato descrittivo il termine liberta' e' stato usato. "Un discorso sulla liberta' tra persone ragionevoli, cioe' tra persone che vogliono comprendersi e non ingannarsi a vicenda, ha senso soltanto se si appoggia su un significato descrittivo ben determinato e ben delimitato del termine" (3). E' vero che molto spesso, almeno nella nostra cultura, chi parla di liberta' - in generale o a proposito di certe situazioni determinate - intende esprimere valutazione positiva, apprezzamento, raccomandazione; ma proprio percio', insisteva Bobbio, e' anzitutto importante capire "che cosa l'interlocutore desidera e raccomanda, dal momento che non puo' evidentemente desiderare e raccomandare tutte le situazioni possibili cui conviene il nome di 'libere' (anche la liberta' di uccidere o di stuprare?)" (4). A queste due domande retoriche di Bobbio, oggi potremmo aggiungere: anche la liberta' di acquisire un controllo sui mezzi di informazione tale da condizionare pesantemente l'intera vita politica di un paese? anche la liberta' di sottrarsi al giudizio della magistratura, o di modellare e adattare le leggi in modo da assicurarsi comunque l'impunita' per i reati comuni di cui si e' accusati? Certo: chi potrebbe negare un senso all'affermazione che la liberta' e' il primo valore della cultura politica occidentale? Ma, appunto, quel senso va precisato e specificato. Come chiariva Bobbio: "la caratteristica dei regimi democratici occidentali non e' genericamente la liberta', ma l'eguale distribuzione di certe liberta'" (5). Insomma, per premunirsi dalle insidie della comunicazione, dagli equivoci involontari e da quelli intenzionalmente indotti (leggi: inganni), e' anzitutto necessario distinguere le componenti valutative e quelle descrittive dei vari significati attribuiti al termine liberta' nei diversi contesti di discorso. Distinguere: e' questo propriamente il compito della filosofia analitica (in ampio senso intesa) che mira alla definizione - o ridefinizione - del concetto di liberta'. A un tentativo di ridefinizione di questo concetto (6) dedichero' i paragrafi 2-4, per tornare a riflettere sulle vicende e (dis)avventure attuali della liberta' - italiane ma non solo - nei paragrafi 5 e 6. * 2. Liberta' e potere "Liberta'" e' un concetto estremamente controverso - anche se sono convinto che non sia "essenzialmente contestabile" (7). O meglio: liberta' e' una parola (un segno, un significante) che puo' avere diversi significati. Nel linguaggio corrente, questa parola viene usata in riferimento a diverse situazioni o "stati di cose", reali o possibili. Anzi, vengono comunemente indicate col termine "liberta'", o termini derivati, molteplici dimensioni differenti di varie situazioni, molteplici aspetti, analiticamente distinguibili, che possono trovarsi congiunti o separati in vari stati di cose. E' a questa pluralita' di aspetti, situazioni e stati di cose, ricondotti nel parlare corrente a una indistinta nozione di liberta', che conviene anzitutto guardare. Provero' qui di seguito ad abbozzare una specie di mappa provvisoria dei principali referenti della parola "liberta'", o meglio degli aspetti piu' rilevanti di quella famiglia di situazioni che viene comunemente e confusamente evocata dal nome "liberta'". E' convinzione diffusa tra i filosofi analitici che qualsiasi uso plausibile (non "logicamente strano" o stravagante) di "liberta'" non possa non contenere un riferimento - diretto o indiretto, esplicito o implicito - alla mancanza di qualcosa. Dunque, la struttura logica del concetto di liberta' pare anzitutto ed essenzialmente negativa: in un contesto qualsiasi, il termine "liberta'" (o "libero") potrebbe (o dovrebbe poter) essere sostituito, almeno in prima approssimazione, da "assenza di" (o "privo di") (8). Di che cosa? In generale, di ostacoli o limiti o vincoli o interferenze. In questa prima amplissima accezione, "liberta'" si applica non solo alle persone, ma agli enti e ai fenomeni naturali in genere. Tutti abbiamo in mente gli esempi del fiume libero di scorrere se non incontra ostacoli, ma non libero di espandersi se limitato da argini; del cane libero di muoversi se non e' vincolato alla catena o non e' chiuso nei limiti di un recinto; del segnale libero di diffondersi nell'etere se non e' disturbato da interferenze ecc. Quando e' specificamente riferita a individui umani, a situazioni o status personali nel contesto di relazioni intersoggettive, "liberta'" indica piu' propriamente l'assenza di impedimenti e di costrizioni, di divieti e di obblighi, che derivino da una imposizione altrui. In modo paradigmatico (e generico), libero e' appunto colui che non subisce imposizioni, che non e' subordinato al potere (ai comandi e ai divieti) di qualcuno che dispone di lui - come, al massimo grado, il signore dispone di un servo o il padrone di uno schiavo. In questo senso, la liberta' di un soggetto equivale alla (e' riducibile e risolvibile nella) negazione di potere altrui: inteso (per ora) il potere nel suo significato relazionale, anch'esso latissimo e sommamente impreciso, come "la capacita' di un soggetto di influenzare, condizionare, determinare il comportamento di un altro soggetto" (9). In breve, un soggetto si dice libero in tutte le situazioni caratterizzate dall'assenza di costrizioni e/o impedimenti, di obblighi e/o divieti imposti dal potere di un altro soggetto (individuale o collettivo, per esempio dallo Stato). Ma quelle medesime situazioni, o buona parte di esse, sono per lo piu' descritte nel linguaggio ordinario come caratterizzate (anche) dalla presenza di un potere proprio del soggetto che si dice libero. Della stessa nozione di liberta' che, nella tradizione filosofica dell'ultimo mezzo secolo, viene usualmente chiamata "negativa", in quanto e' ricondotta alla negazione (in senso logico) di potere (altrui), non e' facilmente formulabile una definizione senza istituire anche un rapporto positivo, non di esclusione ma di inclusione o addirittura di coincidenza, con qualche forma di potere (proprio) - inteso questa volta "potere" nei suoi (molteplici) significati non relazionali, quelli cioe' che non riguardano direttamente la relazione tra due soggetti. Cosi', un soggetto si dice libero quando, non essendo ne' impedito ne' costretto da un potere altrui, puo' (o ha il potere di) compiere una scelta o un'azione determinata. Gran parte degli usi ordinari di "liberta'" soffrono, per cosi' dire, della complessa relazione di opposizione e insieme di sovrapposizione a "potere" (10). Dobbiamo dunque considerare la negazione di potere altrui e l'affermazione di potere proprio come due aspetti indisgiungibili della (nozione di) liberta'? La risposta non e' semplice, e soprattutto non puo' essere univoca, perche' deve fare i conti con la molteplicita' di significati e la conseguente ambiguita' dei termini che appartengono alla famiglia di "potere" ("possibile", "possibilita'", ecc.). Se conveniamo che un soggetto si dice "libero" in quanto (e quando) nessun altro soggetto ha (o esercita) potere su di lui, vincolando con obblighi e divieti le (o certe) sue scelte e azioni, cio' implica forse immediatamente, ovvero induce necessariamente ad affermare, che tale soggetto ha il potere di compiere quelle scelte o azioni? Non in ogni caso; o meglio, non in ogni senso di "potere" (11). Non sussiste alcun problema, e l'ambiguita' e' presto dissolta, tutte le volte che il "potere di", o la "possibilita' di", in cui si fa consistere o si risolve (positivamente) la liberta' (negativa) di un soggetto sia chiaramente da intendersi nel significato di "liceita'", ossia indichi la sfera di cio' che a quel soggetto e' "permesso". Potremmo quindi identificare questa nozione con il nome di possibilita'-liceita' (o, con una formula forse azzardata, possibilita' deontica). Giacche' il "permesso" (in senso debole) (12) risulta dall'assenza di divieti, ovvero dalla non imposizione di impedimenti, la negazione (o forse meglio, il non esercizio) del potere altrui di vietare e impedire - negazione in cui consiste la prima essenziale dimensione della liberta' (negativa) di un soggetto - implica necessariamente, o meglio coincide con, la creazione di una sfera di liceita' per quel medesimo soggetto. Si deve pero' sempre ricordare che la possibilita'-liceita' inerente alla liberta' di un soggetto non deriva soltanto dall'assenza di divieti e impedimenti, ma anche dalla mancanza di costrizioni, dalla non imposizione di obblighi (13). Che un soggetto si dica libero in quanto puo', nel senso che gli e' permesso, gli e' lecito, compiere (o non compiere) una determinata scelta o azione non vuol dire nulla di piu' o di diverso se non che quel soggetto, riguardo a quella scelta o azione, non ha obblighi di alcun tipo, ne' negativi ne' positivi. Parimenti riconducibile, seppure in modo meno diretto, a una dimensione della nozione di liberta' (negativa) come negazione di potere altrui - come assenza di impedimenti e costrizioni, divieti e obblighi imposti da un potere altrui - e' la "possibilita'" che un soggetto ha di compiere una scelta o un'azione, quando con tale possibilita' si intenda indicare la presenza oggettiva di alternative egualmente disponibili a quel soggetto. Potremmo distinguere questa nozione col nome di possibilita' oggettiva o, come molti preferiscono dire, opportunita'. Affermare che un soggetto e' (o e' stato) libero - in quanto esente da obblighi negativi o positivi, da comandi o divieti - di compiere una certa scelta o una certa azione, ha pienamente senso solo se esiste (o esisteva) almeno un'alternativa oggettivamente praticabile a quella certa scelta o azione, un'alternativa per la quale, appunto, il soggetto "puo'" (o potrebbe o avrebbe potuto) optare (14). Ma delle espressioni "potere di" o "possibilita' di" (o derivate, o simili) si riscontrano molti altri usi, associati nel linguaggio ordinario agli usi di "liberta'" (e derivati), che non sono equivalenti alla, ne' implicati dalla, nozione di liberta' (negativa) come negazione (dell'esercizio) di potere altrui, ne' sembrano a essa riconducibili in modo non problematico. Potremmo raggruppare questa gamma di significati sotto la formula di possibilita' soggettiva: sono le accezioni in cui "potere" (o "possibilita'" ecc.) indica, ad esempio, "avere la capacita' (o essere in grado) di", oppure "avere i mezzi (gli strumenti, le risorse) per", oppure "aver titolo (o essere autorizzato, abilitato) a" compiere una certa scelta o azione. Si osservi inoltre che tutte queste forme specifiche di "potere" o "possibilita'" di un soggetto sono indipendenti tra loro (si puo' avere la capacita' di scegliere o agire in un certo modo ma non i mezzi, o averne i mezzi ma non il titolo ecc.). * Note 1. L'espressione e' di F. Knight, The Meaning of Freedom, in C. M. Perry (a cura di), The Philosophy of American Democracy, University of Chicago Press, Chicago 1943, p. 79. Trovo la citazione in F. E. Oppenheim, Dimensioni della liberta', trad. it., Feltrinelli, Milano 1964, II ed. (da cui cito) 1982, p. 137. 2. Mi riferisco al dibattito intorno al libro di Oppenheim (cit. sopra) tra Norberto Bobbio, Uberto Scarpelli, Alessandro Passerin d'Entreves e lo stesso Oppenheim, pubblicato sulla "Rivista di filosofia", 3, 1965, e poi riprodotto in A. Passerin d'Entreves (a cura di), La liberta' politica, Edizioni di Comunita', Milano 1974, pp. 293-317, da cui traggo le citazioni seguenti nel testo. 3. Passerin d'Entreves (a cura di), La liberta' politica cit., p. 296. 4. Ibidem. 5. Ibidem. Poco prima, Bobbio aveva ricordato che "gli antifascisti democratici o liberali non combattevano per la liberta' sociale in senso generico, ma per quelle tre o quattro liberta' sociali in senso specifico che ai loro occhi costituivano un criterio sufficiente per distinguere un governo buono da un governo cattivo" (p. 294). 6. I filosofi, e non solo gli analitici in senso stretto, sono impegnati da sempre intorno a questo tema, e con particolare intensita' negli ultimi cinquant'anni (v. infra, nota 17, in fine). Il contributo, appena abbozzato, che propongo nelle pagine seguenti (e che riprende, corregge e sviluppa in altra direzione quello compreso nel cap. IV del mio Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000) scaturisce anche da un senso di insoddisfazione verso gran parte della letteratura recente, soprattutto anglosassone, sull'argomento. 7. Secondo una tesi formulata da W. B. Gallie (Essentially Contested Concepts, in "Proceedings of the Aristotelian Society", 56, 1955-'56, pp. 167-98) e ricorrentemente ripresa da alcuni studiosi, i termini-chiave del lessico politico sono essenzialmente equivoci, perche' i loro significati dipendono inevitabilmente dalle differenti concezioni etiche a essi connesse. Mi permetto di rinviare al mio Contro il governo dei peggiori cit., pp. 63, 171. Cfr. anche R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Giuffre', Milano 1998, pp. 278-79. 8. Diceva W. V. O. Quine (Mathematical Logic, Cambridge University Press, Cambridge, Mass. 1951, p. 47): "Definire un segno e' mostrare come se ne possa fare a meno". 9. N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, p. 161. 10. Cfr. L. Ferrajoli, Tre concetti di liberta', in I. Dominijanni (a cura di), Motivi della liberta', Franco Angeli, Milano 2001, p. 169. 11. L'ambiguita' e' particolarmente accentuata in quelle lingue, come l'italiano, in cui il vocabolo "potere" e' usato come sostantivo e come verbo, e in entrambi i ruoli corrisponde a una pluralita' di termini differenti di altre lingue, dando origine a difficili e forse insolubili problemi di traduzione. Si pensi, ad esempio, in tedesco ai sostantivi Macht e Herrschaft, e in inglese ai verbi can, may e be able. Qui ribadisco il suggerimento di mantenere ferma, come primo punto di orientamento nella confusione degli usi linguistici italiani, la distinzione tra "potere su" e "potere di". Senza dimenticare che di fatto un qualche tipo di "potere di" puo' essere usato come strumento per esercitare un "potere su". 12. Sulla nozione di "permesso" e sulla distinzione tra permesso in senso debole e permesso in senso forte, cfr. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti cit., pp. 28 ss., 190, 248 ss. 13. Cfr. N. Bobbio, Eguaglianza e liberta', Einaudi, Torino 1995, p. 46: "la situazione di liberta' denominata 'liberta' negativa' comprende tanto l'assenza di impedimento, cioe' la possibilita' di fare, quanto l'assenza di costrizione, cioe' la possibilita' di non fare". Onde "si puo' anche dire, com'e' stato detto per lunga e autorevole tradizione, che la liberta' in questo senso, cioe' la liberta' che un uso sempre piu' diffuso e frequente chiama 'liberta' negativa', consista nel fare (o non fare) tutto cio' che le leggi, intese le leggi in senso lato, e non solo in senso tecnico-giuridico, permettono, ovvero non proibiscono (e in quanto tali permettono di non fare)". 14. Cfr. Oppenheim, Dimensioni della liberta' cit., pp. 126-27: "spesso diciamo in modo generico che siamo liberi di fare qualcosa quando intendiamo che siamo liberi di farla o di non farla, per esempio che siamo liberi di votare quando siamo liberi di votare o di astenerci". In questo senso, contrariamente a quanto sosteneva Hobbes, il fiume non e' affatto libero di scorrere. Ma nella nozione di "opportunita'", o "possibilita' oggettiva", riconducibile al concetto di liberta' (negativa), c'e' qualcosa di piu'. Quando diciamo, con espressione metaforica, che in un certo paese si tengono "libere elezioni", non intendiamo soltanto che gli individui "possono" votare o astenersi, ovvero che non viene loro impedito di votare ne' vengono costretti a farlo - il che sarebbe semplicemente riconducibile alla possibilita'-liceita', o possibilita' deontica, la quale abbraccia tanto il permesso di fare, quanto il permesso di non fare -, ma intendiamo anche che vi sono oggettivamente piu' partiti tra i quali gli individui "possono" scegliere. Difficilmente ci sentiremmo di qualificare come "libere" le elezioni che si tenessero in un regime a partito unico, anche se fosse consentita agli individui l'alternativa tra votare e astenersi. (Parte prima - Segue) 4. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: LOTTE E COSCIENZA DI CLASSE OGGI IN CINA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 settembre 2006. Edoarda Masi e' nata a Roma nel 1927, intellettuale della sinistra critica, di straordinaria lucidita', bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes". Tra le opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Einaudi, Torino 1968; Per la Cina, Mondadori, Milano 1978; Breve storia della Cina contemporanea, Laterza, Bari 1979; Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: Cao Xuequin, Il sogno della camera rossa, Utet, Torino 1964; una raccolta di saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; e Confucio, I dialoghi, Rizzoli, Milano 1989] "Compagni, parliamo dei rapporti di produzione". Con questa frase si conclude un celebre intervento di Bertolt Brecht al congresso degli scrittori antifascisti del 1935 a Parigi, che inauguro' pubblicamente la politica dei fronti popolari, o fronti uniti. Un analogo atteggiamento critico (se pure non di rigetto) nei confronti di quella politica manifesto' allora in Cina Lu Xun. Era il tempo duro della "Lunga marcia", e Mao Zedong non era in condizione di intervenire nel dibattito; tuttavia adotto' una politica nella sostanza piu' vicina alle posizioni di Lu Xun e Brecht che a quella ufficiale dei partiti comunisti di allora. In seguito enuncio' questo suo orientamento con le parole "non dimenticare mai la lotta di classe" e vi si attenne con coerenza. Credo sia il motivo di fondo per il quale Mao, e quanti non ne rinnegano la memoria, vengono oggi esposti al pubblico disprezzo e all'odio popolare da chi, ben lontano dal dimenticare la lotta fra le classi, si colloca pero' dall'altro lato del fronte. E' opportuno per costoro che nei lavoratori (di ogni tipo e settore e di ogni continente e paese) il concetto stesso della lotta di classe sia cancellato. Non lo comprendono quanti, accecati da pregiudizi dottrinari, dimenticano di riferirsi a quella contraddizione primaria e fanno fede a testi politicamente contrassegnati dall'anticomunismo (o peggio, da risentimenti personali come quello della ex guardia rossa Chang Jung, recensito negativamente dagli studiosi di tutto il mondo) anziche' valersi della ricca messe di documentazione e di critica oggi disponibile sulla storia della Cina prima e dopo la morte di Mao Zedong, a cominciare dai materiali sulla rivoluzione culturale pubblicati dall'Universita' cinese di Hong Kong, dalle opere di William Hinton e dai testi e filmati di Carma Hinton, dalle indagini di tanti studiosi cinesi e non, e anche da quanto ci giunge attraverso le voci della letteratura. * La "Monthly Review" negli ultimi tre numeri (vol. 58/2, 3, 4) sul tema della lotta fra le classi - in Cina, negli Usa, nel mondo - ha messo un accento particolare. Sul numero 58/2, e' comparso uno studio sulla Cina prima e dopo gli anni '80, Conditions of the Working Classes in China firmato da Robert Weil - autore di Red Cat, White Cat - leggibile nel web (www.monthlyreview.org). L'articolo si basa su una serie di incontri dell'autore e suoi collaboratori con operai, contadini, organizzatori e attivisti di sinistra nell'estate 2004 principalmente a Pechino e dintorni, Zhengzhou e Kaifeng nel Henan (provincia centrale), e nel Jilin (Nord-est). Scopo dell'inchiesta: rilevare gli effetti delle trasformazioni radicali occorse nei tre decenni seguiti alla morte di Mao. Con il ritorno alla "via capitalistica", le classi lavoratrici si trovano in condizioni sempre piu' precarie; un'estrema polarizzazione si impone in una delle societa' gia' fra le piu' egualitarie; una corruzione rampante associa le autorita' del partito e dello stato ai manager e ai nuovi imprenditori privati. Le classi lavoratrici subiscono uno sfruttamento per oltre mezzo secolo sconosciuto. Fra gli operai intervistati molti appartengono ai milioni di licenziati dalle imprese gia' di stato, con la perdita di qualsiasi forma di sicurezza sociale di cui gia' godevano (abitazione, istruzione, salute, pensione). I contadini, con lo scioglimento delle comuni e l'introduzione del sistema di responsabilita' familiare (contratto fra singole famiglie e villaggio per l'assegnazione della terra in piccolissime unita': forma di transizione alla proprieta' privata della terra, con esclusione pero' di alcuni vantaggi che la piena proprieta' comporterebbe), sono esposti alla vendita, senza compenso adeguato, delle terre loro assegnate (e sulle quali hanno fatto degli investimenti) da parte dei burocrati locali associati a imprese di costruzione di vario tipo. Si e' verificato cosi' l'esodo di massa dalle campagne dei contadini impossibilitati a sopravvivere per l'esiguita' della terra loro assegnata o da questa del tutto espulsi, e alla ricerca di un lavoro nelle citta', soprattutto nel settore edilizio, pagati con salari di fame spesso in nero (giacche' il loro trasferimento di residenza e' illegale), e sottoposti a trattamenti semi-schiavistici. * La realta' cinesa non e' pero' segnata da rassegnazione o da una passivita' operaia. Conflitti e rivolte sono infatti in aumento. Riconosciuti dall'autorita', nel 2004, 74.000 "incidenti di massa, dimostrazioni e rivolte" hanno coinvolto fino a decine di migliaia di persone - tanto da allarmare il governo centrale, in cerca di misure per attenuare la crescente instabilita' sociale. Anche le nuove classi medie urbane, che piu' hanno beneficiato del nuovo regime per quel che concerne un piu' largo accesso ai beni di consumo e alimentari, si trovano spesso in difficolta' a causa della crescente gerarchizzazione fra le classi e gli alti costi di alcuni beni e servizi - in particolare le spese per l'istruzione (ormai a costi proibitivi la secondaria, gratuita durante il governo di Mao). Siamo all'inizio di un periodo di grave instabilita' sociale. Robert Weil riferisce di molti episodi di resistenza operaia alla privatizzazione delle imprese di stato, ai licenziamenti in massa, alla distruzione delle loro stesse condizioni di esistenza: occupazioni di fabbriche, sottrazione delle macchine destinate alla distruzione, solidarieta' fra lavoratori delle diverse imprese; attivita' di volontari per favorire il collegamento e l'organizzazione dei lavoratori, nonostante la dura repressione poliziesca e giudiziaria, e il frequente disinteresse delle autorita' locali di fronte ai soprusi. Anche i contadini subiscono da parte delle autorita' locali corrotte e della polizia soprusi, che restano pero', al confronto, relativamente invisibili, tranne nei casi in cui la scala della rivolta e della repressione sia troppo larga, come quando nel corso di una protesta per la requisizione di terre nel dicembre 2005 a Dongzhou nel Guangdong furono uccise venti persone. Il carattere peculiare che si rileva nella resistenza dei lavoratori cinesi, sottoposti a una pressione, per quanto estrema, analoga a quella di tanti altri loro compagni nel mondo intero, e' il grado molto alto di coscienza di quanto accade. Giacche', osserva Weil, fra i contadini, i migranti, e i lavoratori urbani sono presenti uomini e donne politicizzati, che si sono formati su testi di Marx e Mao e che sono molto avvertiti della differenza tra il capitalismo attuale e il recente passato della Cina, segnato dal tentativo di costruire il socialismo. Questa coscienza oggi non discende piu' principalmente dai settori intellettuali ma sale dalle stesse classi lavoratrici. Specialmente in alcune zone, come quella intorno a Zhengzhou, ci si vale di una eredita' di lotte che risale agli anni Venti, arricchita dallo scontro fra le "due linee" negli anni '60 e '70. Nel periodo del "socialismo", e specialmente della rivoluzione culturale, gli operai stavano acquistando un graduale controllo nella gestione della fabbrica, e considerano la fabbrica stessa come un bene che appartiene a loro, come proprieta' collettiva che oggi viene illecitamente sottratta. Un operaio di Zhengzhou spiega all'intervistatore che il presente sistema di "capitale burocratico" e' fondamentalmente un problema politico, non economico: "in superficie sembra economico, ma in realta' si tratta di una lotta fra socialismo e capitalismo". Weil, mentre rileva i segni della formazione di una possibile nuova sinistra che porti a collegare i lavoratori, osserva pure che si tratta di una fase embrionale, che vi sono forti differenze fra lavoratori anziani e giovani, e che se il movimento non si sviluppera' rapidamente, i lavoratori piu' giovani, che non hanno memoria del passato, cadranno nella lotta economica per "condizioni migliori" - influenzati anche dallo slogan di Deng Xiaoping: "arricchirsi e' glorioso". Un'altra, piu' grave difficolta', e' la tensione fra operai, contadini, migranti. "Sembrerebbe che il convergere delle condizioni dei lavoratori urbani, dei migranti e dei contadini - e anche di molti appartenenti alla nuova classe media - possa costituire la base per una larga unita' di lotta contro quelli che li sfruttano. Ma - scrive Weil - come dovunque nel mondo in condizioni simili, e' piu' facile concepire in teoria che attuare in pratica l'unita' delle classi lavoratrici". Difficolta' dovute, continua ancora Weil - non solo ai pregiudizi (per esempio, dei lavoratori urbani nei confronti di contadini e migranti, e viceversa), ma anche a forme effettive di competizione fra la massa di migranti lavoratori di second'ordine e i lavoratori urbani da vecchia data, cui si aggiungono politiche del divide et impera. Infatti, non sono mancati episodi in cui, a reprimere gli operai in lotta, la polizia ha impiegato centinaia di contadini, muniti di elmetto e manganello. Per non parlare degli immigrati a basso salario che vengono assunti al posto di operai licenziati dalla imprese statali: tutto cio' non puo' non provocare risentimento. * Le minoranze che mirano a ravvivare la lotta per il socialismo, e l'unita' fra i lavoratori divisi, operano in molti campi: la loro caratteristica e' di non essere piu', come si e' detto, minoranze specificamente intellettuali: al contrario, spesso sono gli studenti che volontariamente ripetono una "discesa al popolo" (oggi osteggiata dalle autorita') per superare i limiti ancora presenti nella loro rivolta nell'89, quando a Tian'anmen non seppero comprendere l'importanza della solidarieta' popolare, pur cosi' viva anche allora. La gerarchizzazione della societa' si accompagna a una estesa proletarizzazione. Dibattiti si svolgono nelle sfere accademiche, e anche in settori del partito, perfino sulla rivoluzione culturale - argomento tabu' (al punto di rovinare la carriera di un accademico che osasse trattarne esplicitamente). Il governo del partito-stato ha un troppo preciso orientamento politico per mutare rotta, ma non puo' non tenere conto della presenza, nel paese, di contraddizioni gravissime, e del fatto che vengono largamente interpretate fruendo del pensiero di Mao, che si sarebbe voluto imbalsamare. Il governo infine ha abolito l'intollerabile tassa sulla terra; e nel marzo 2006 e' stato costretto ad accantonare un proprio disegno di legge mirante a restaurare in pieno i diritti della proprieta' privata. La legge verra' forse approvata in seguito, ma e' evidente il peso che l'opposizione di fatto gia' ora esercita, e potra' esercitare se riuscira' a svilupparsi. Un episodio di "lotta culturale": in un parco di Zhengzhou le sere di festa centinaia di persone, accompagnate da musicisti, si riuniscono per cantare i i vecchi canti rivoluzionari. "Il significato politico di questi canti e' mostrare la nostra opposizione al partito comunista - a quello che e' diventato - e usare Mao per contestarlo e elevare la coscienza". 5. RILETTURE. MICHAEL MOORE: INGANNATI E TRADITI Michael Moore, Ingannati e traditi. Lettere dal fronte, Mondadori, Milano 2005, pp. 240, euro 15. Michael Moore raccoglie e presenta in questo libro le lettere ricevute dopo il suo discorso di ricezione dell'Oscar e "Fahrenheit 9/11" da soldati e familiari di soldati che denunciano la follia e l'orrore della guerra, e i criminali al governo che l'hanno voluta. Un libro commovente che smaschera con la forza della testimonianza ogni retorica assassina. 6. LE ULTIME COSE. AI SIGNORI MINISTRI E AI SIGNORI PARLAMENTARI, IN SEI PAROLE Quanti ancora ne vorrete far morire? 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1431 del 27 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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