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Nonviolenza. Femminile plurale. 80
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 80
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 7 Sep 2006 11:49:46 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 80 del 7 settembre 2006 In questo numero: 1. Dal 31 agosto al 3 settembre si e' svolto a Roma il XII simposio dell'Associazione internazionale delle filosofe 2. Catrin Dingler: Delle donne il pensiero dell'esperienza 3. Beatrice Busi: La tradizione femminista alla prova delle differenze 4. Francoise Collin: Pensiero dell'esperienza, esperienza del pensiero 5. Stefania Giorgi intervista Barbara Duden 6. Ida Dominijanni: L'eterno ritorno del trauma 1. INCONTRI. DAL 31 AGOSTO AL 3 SETTEMBRE SI E' SVOLTO A ROMA IL XII SIMPOSIO DELL'ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DELLE FILOSOFE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 agosto 2006] "I discorsi femministi, quando diventano studi puramente culturali, prendono derive astraenti e virtualizzate; pensare diventa allora un mero esercizio concettuale, o di affiliazione a discorsi altrui. Da questo Simposio ci aspettiamo di piu', a cominciare dalle sorprese che l'esperienza - comportamenti, azioni, passioni - porta rispetto agli ordini di pensiero gia' esistenti e dominanti. Il discorso in circolo con l'esperienza puo' avere una forza di trasformazione: la parola femminista ha avuto effetti politici. Com'e' stato possibile? Come puo' accadere che l'esperienza acquisti una forza politica?". Con queste domande delle organizzatrici - Federica Giardini e Annarosa Buttarelli- si apre il 31 agosto all'universita' di Roma Tre il XII simposio dello Iaph, l'associazione internazionale delle filosofe, dedicato al "Pensiero dell'esperienza": tema proprio di tutto il pensiero femminista e in particolare del pensiero della differenza italiano, che della pratica del partire da se' ha saputo fare principio di pensiero e di azione politica. Improntato appunto all'esperienza del femminismo italiano, che diversamente da altri femminismi occidentali non si e' mai chiuso nel perimetro dell'accademia e dell'organizzazione disciplinare del sapere, questo simposio Iaph (come pure quello che si tenne a Barcellona del 2001) non sara' riservato alle filosofe di professione ma si avvarra' anche del contributo di altre pensatrici, attive in altri ambiti disciplinari o nelle istituzioni, nelle associazioni, nel mondo del lavoro, in Italia, in altri paesi europei, nell'area del Mediterraneo, in Africa. Quattro le giornate di lavoro, dieci sessioni plenarie seguite da altrettanti workshop. Giovedi' [31 agosto] mattina, nella sala della Protomoteca in Campidoglio, dopo gli interventi introduttivi di Francesca Brezzi e Giacomo Marramao (del dipartimento di filosofia di Roma Tre), la sessione dedicata all'"Esperienza" con le relazioni di Francoise Collin (di cui in questa pagina anticipiamo ampi stralci), Angela Ales Bello, Luisa Muraro. Di seguito, su "Storia e memoria", Maria Milagros Rivera e Michela Pereira commentate da Elena Laurenzi. Nel pomeriggio il convegno si sposta al rettorato di Roma Tre con la sessione sul "Divino" (Letizia Tommassone e Erminia Macola, commentate da Rosetta Stella). Nel pomeriggio workshop e la sera, alla Casa internazionale delle donne, la sessione sull'arte. Venerdi' mattina [primo settembre] la sessione su "Governo, regole e relazioni" con gli interventi di Aminata Traore', Londa Esadze, TAmar Pitch e il commento di Ida Dominijanni, poi Lia Cigarini sul "Lavoro" commentata da Annarosa Buttarelli. Sabato [2 settembre] apre Barbara Duden su "Scienza e tecnologie", con i commenti di Gabriella Bonacchi, Elena Gagliasso, Caterina Botti; segue Manuela Fraire su "Sessualita' e inconscio", poi Ina Pretorius, Chiara Zamboni e Wanda Tommasi su "Vita quotidiana". Domenica mattina [3 settembre] infine la sessione sul'"´Educazione" con le relazioni di Annamaria Piussi e Vita Cosentino. 2. INCONTRI. CATRIN DINGLER: DELLE DONNE IL PENSIERO DELL'ESPERIENZA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 settembre 2006. Catrin Dingler scrive su "Per amore del mondo", la rivista della comunita' filosofica femminile Diotima (sito: www.diotimafilosofe.it)] Dedicato al "pensiero dell'esperienza", il XII simposio dello Iaph, l'associazione internazionale delle filosofe, che si e' tenuto a Roma da giovedi' a domenica scorsi, ha avuto inizio sull'altura del Campidoglio, tra la raccolta di busti maschili della Protomoteca: una cornice ideale per riflettere sul richiamo di Francoise Collin, nella sua relazione d'apertura, agli inizi del movimento femminista. Perche' se allora le donne si spinsero "a esercitare il sospetto su un sapere qualificato come fallocratico" e a pensarsi al di fuori della tradizione maschile, oggi la loro ricerca teorica e politica non e' piu' ristretta ai luoghi separati. "Il pensiero dell'esperienza - spiega Luisa Muraro - si inserisce tra il gia' interpretato e il non ancora interpretato": il soggetto, non piu' neutro bensi' sessuato, e' chiamato a stare in questo luogo di mezzo, fra la critica dei significati in cui l'esperienza e' ingabbiata e la sua risignificazione, ma senza arrendersi alla decostruzione infinita di molto pensiero (anche femminista) postmoderno. Sui modi di vivere e pensare creativamente al centro del presente si e' discusso in quattro dense giornate di lavoro al rettorato dell'universita' di Roma 3, organizzate da Federica Giardini. Egemone in tanti paesi (e testimoniata al simposio dalle ospiti venute dalla Germania, dall'Austria e dalla Svizzera), la strategia di matrice angloamericana dei gender studies, che punta a integrare gli studi sul genere nelle istituzioni accademiche, e' meno seguita in Italia, dove la politica delle donne ha saputo mettere in circolo la sapienza di partire da se' in una politica che non punta all'integrazione emancipativa bensi' alla significazione della differenza (testimoniata soprattutto dalle filosofe italiane di Diotima e dal contributo su esperienza, storia e memoria di Maria Milagros Rivera). L'articolazione del simposio puntava a mettere alla prova il pensiero dell'esperienza in vari ambiti del sapere (storiografia, psicoanalisi, teologia, scienza e tecnologia, arte), della sfera pubblica (governo, lavoro, scuola), della vita quotidiana. Nella sezione piu' dichiaratamente politica dedicata a "governo, regole e relazioni", Tamar Pitch e Ida Dominijanni hanno discusso del rapporto fra uso del diritto (e dei diritti) e pratica della relazione nella trasformazione dell'ordine sociale e simbolico. Diana Sartori ha messo in guardia dal considerare irenicamente le relazioni, riportando l'attenzione sulla negativita' e i lati oscuri che le attraversano. Spinta forse anche dall'intervento di Aminata Traore', che ha parlato dell'esperienza africana della globalizzazione con toni che hanno toccato la platea intera: nel suo Mali il nome di Lampedusa evoca esperienze che eccedono i nostri discorsi sull'immigrazione, e il suo racconto della relazione fra la madre africana e il figlio che parte per l'Europa non entra in contatto con la narrazione e la rielaborazione femminista della relazione madre-figlia. Estrapolando dal suo contesto un'espressione di Chiara Zamboni si potrebbe dire che ascoltando Traore' "il presente ci e' caduto addosso". Un presente in cui il doppio trauma della globalizzazione e della fine del patriarcato (focalizzata in termini psicoanalitici da Manuela Fraire) convoca le donne a mettere in gioco cio' che la loro politica ha elaborato di meglio, non per riequilibrare lo squilibrio ma per indirizzarlo. In questa direzione Lia Cigarini, nella sezione dedicata al lavoro, incoraggia le donne a "portare tutto al mercato", non per mercificare il sapere femminile ma per fare irrompere la differenza contro l'ordine della mercificazione. La rinuncia all'inglese accademico a favore della madrelingua o della lingua elettiva e' stata talvolta faticosa ma ha anche suscitato traduzioni improvvisate e percio' piu' vive. La competenza simbolica dispiegata nei singoli contributi anche nei workshop non ha certo potuto risolvere tutti i problemi teorici e pratici messi in campo da queste giornate, ma le ha movimentate regalando anche qualche gesto sorprendente. 3. INCONTRI. BEATRICE BUSI: LA TRADIZIONE FEMMINISTA ALLA PROVA DELLE DIFFERENZE [Dal quotidiano "Liberazione" del 5 settembre 2006. Beatrice Busi, giornalista e saggista, impegnata nell'esperienza di "A/Matrix", collabora con varie testate] L'irruzione delle donne nei luoghi istituzionalizzati del sapere e' un fenomeno storicamente recente. Niente di concesso, tutto di conquistato. Prima, da generazioni di lotta e protesta che hanno fatto da arieti contro l'esclusione femminile dai gradi d'istruzione piu' elevati. Poi, da un lavoro paziente e perseverante condotto come talpe laboriose contro il sospetto delegittimamente operato a lungo dall'accademia nei confronti della teoria prodotta da donne. Un tipo di teoria molto particolare, non finalizzata alla costruzione di sistemi, perche' come ha scritto Rosi Braidotti e' frutto della "passione", risponde alla pulsione etica e politica costitutiva del femminismo ed e' "desiderio costante di forme di ricerca, di espressione e di trasmissione di potere altre da quelle costituite nel sistema discorsivo patriarcale". Perche' come diceva Teresa De Lauretis il bisogno di teoria delle donne deriva dalla "necessita' di perseguire strategie di discorso che diano voce al silenzio delle donne dentro, attraverso, contro, al di sopra, al di sotto e al di la' del linguaggio degli uomini". Ma a coloro che hanno attraversato il simposio dell'associazione internazionale delle filosofe che si e' svolto a Roma da giovedi' 31 agosto a domenica scorsa, probabilmente il tempo del silenzio delle donne deve essere sembrato lontanissimo. * Quattro giorni di discussioni fittissime, articolate tra workshop e lunghe relazioni, tra le aule del Rettorato dell'Universita' di Roma Tre e la Casa internazionale delle donne, hanno restituito l'immagine di un pensiero consolidato e ormai maturo che non ha piu' bisogno di denunciare le esclusioni ma che e' tutto impegnato al suo interno a trovare punti di equilibrio e traiettorie comuni, trasformando nel proprio punto di forza quell'ambivalenza costituiva dovuta al "parlare il silenzio delle donne con il linguaggio degli uomini". Un paradosso e un'ambivalenza che molte delle relazioni hanno indicato come un modo di stare nelle cose del mondo, specifico del femminismo. Un'ambivalenza che determina un continuo movimento delle donne tra "dentro" e "fuori". Portando la cultura politica delle donne dentro le universita' e rompendo lo schema mimetico di un sapere neutro e falsamente universale. Portando la pratica della relazione nelle istituzioni sociali e politiche, rompendo logiche di dominio e potere. Portando le competenze affettive dentro il mercato del lavoro, "femminilizzandolo" e rompendo la logica della competizione per instaurare il principio della cooperazione. Portando l'etica della cura nella sfera pubblica per mettere la "vita quotidiana" al cuore del governo. Portando soggetti corporei ed incarnati nella politica dei diritti per renderla strumento di liberta'. Nel simposio le tracce di queste rivoluzioni locali hanno costituito una trama di rimandi continui tra le relazioni di Francoise Collin e di Luisa Muraro nel panel sul rapporto tra esperienza e teoria, quella di Lia Cigarini sul lavoro, quelle di Tamar Pitch e Ida Dominijanni su governo, regole e relazioni, di Chiara Zamboni sulla vita quotidiana, di Manuela Fraire su sessualita' e inconscio. * Ma il fatto che il simposio, giunto alla sua dodicesima edizione, quest'anno si svolgesse proprio in Italia, in parte ha pesato anche negativamente sul taglio con cui sono stati affrontati alcuni temi. Se il tema generale era il "pensiero dell'esperienza", il filo conduttore implicito e' stato soprattutto il "pensiero della differenza sessuale". In effetti, nel femminismo italiano degli ultimi vent'anni, l'impegno e' stato prevalentemente profuso nella messa a punto o nella messa in discussione della produzione teorica della Libreria delle donne di Milano e della comunita' filosofica di Diotima. Sono invece rimaste in ombra le altre "differenze" che negli Stati Uniti e nel Nord Europa hanno trovato uno spazio pubblico di agibilita' discorsiva, sia dentro che fuori dai "gender studies", come le soggettivita' lesbiche, queer e postcoloniali. Anzi, l'obiettivo polemico che ha attraversato molte delle relazioni, e' stato paradossalmente proprio quella parte di pensiero femminista e non solo, che ha fatto della decostruzione il proprio stile intellettuale, cercando di superare le gabbie identitarie e mettendo l'accento piu' sulle differenze tra donne che sulla differenza binaria tra uomo e donna. Uno stile che spesso e' diventato anche pratica politica nelle nuove generazioni del movimento femminista, cresciute leggendo Donna Haraway, Judith Butler e Teresa De Lauretis e che spesso preferiscono stabilire alleanze di affinita' con il movimento gay lesbico e transgender che non con le femministe "venute prima" di loro. A tratti il peso della "tradizione" della teoria femminista italiana si e' fatta sentire anche per quella tendenza a celebrare vittorie frettolose che ha caratterizzato il femminismo della differenza dal 1996 in poi, quando la Libreria delle donne di Milano proclamava la "fine del patriarcato" nel "Sottosopra rosso". Una celebrazione che rischia di impedire un confronto schietto sulle nuove sfide globali che i femminismi devono affrontare. Fatta eccezione per le relazioni di Aminata Traore', che ha denunciato la devastazione del continente africano operata dalle politiche neoliberiste, e della studiosa georgiana Londa Esadze, che ha ricordato come corruzione e scarsa rappresentanza femminile siano fenomeni correlati, ci si e' quasi dimenticate di esplorare ed indagare il lato oscuro della luna. Perche' "portare tutto al mercato del lavoro" significa anche che non c'e' piu' distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, perche' lo stesso bio-potere usa dispositivi di cura e presa in carico della vita. Significativamente, e' riuscito ad uscire dalla retorica della vittoria del femminismo, anche il panel su scienze e tecnologie, nel quale la discussione tra Elena Gagliasso, Caterina Botti e Gabriella Bonacchi attorno alla relazione di Barbara Duden, ha sottolineato il rischio di una "decorporeizzazione" del vivente, catturato tra l'invasivita' delle pratiche della tecnoscienza, esercitate in primo luogo sulle donne, e dell'uso strumentale che si fa del linguaggio scientifico nello spazio pubblico. * Invece, nessuna vittoria da celebrare e nessuna reticenza sul lato oscuro della luna, o meglio sul "lato B" come lo ha definito Federica Giardini di Matri_x, durante il workshop "Genealogie al presente", che sabato sera ha visto confrontarsi proprio "quelle venute dopo", la generazione delle trenta-quarantenni, tra le quali i gruppi femministi Sexyshock, Sconvegno e A/matrix, il laboratorio Sguardi sulle differenze, Matri_x, le webmaster del sito della Libreria delle donne e la rete Sui Generis. L'accento e' stato posto sul disagio della precarieta', materiale ed esistenziale, e sulla ricerca di un territorio di azione comune per trasformare le strategie di resistenza individuali in azione collettiva. Ma se e' proprio l'esperienza che separa diverse generazioni di donne e rende diversi i femminismi, troviamo altri luoghi e altri modi per discuterne, per far parlare davvero queste differenze tra loro e "mettere al mondo" nuove ed altre impreviste liberta'. 4. RIFLESSIONE. FRANCOISE COLLIN: PENSIERO DELL'ESPERIENZA, ESPERIENZA DEL PENSIERO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 agosto 2006 riprendiamo, nella traduzione di Federica Giardini, ampi stralci della relazione di Francoise Collin al XII simposio dello Iaph, l'associazione internazionale delle filosofe, dedicato al "Pensiero dell'esperienza". Francoise Collin, filosofa e saggista, una delle protagonista del femminismo francese e internazionale, e' stata tra l'altro fondatrice della rivista "Les Cahiers du Grif"] "Ogni pensiero nasce dall'esperienza ma nessun fatto d'esperienza ha significato o persino coerenza a meno di non aver subito un processo di immaginazione e di pensiero" (Hannah Arendt, La vita della mente) Le responsabili di questo incontro tra le donne e la filosofia hanno voluto sottolineare, con la dichiarazione d'intenti e il programma, che la filosofia non ha l'appannaggio del pensiero. E' incontestabile. Il pensiero e' all'opera ovunque - o perlomeno dovrebbe esserlo. La filosofia e' forse semplicemente (come "la chiesa al centro del villaggio") il richiamo all'importanza del pensiero in tutta l'esistenza e piu' in particolare nel mondo minacciato dalle selvaggerie della strumentalizzazione, avente per unico criterio l'efficacia. "Pensare da se' e dialogare con gli altri" e' un principio di salvaguardia dell'umanita'. Sono stata interpellata dalla problematica dei rapporti tra pensiero ed esperienza, e pensiero dell'esperienza, agli inizi stessi del movimento femminista, piu' di trent'anni fa, piu' precisamente all'interno della rivista "Les Cahiers du Grif" che avevo all'epoca fondato e che erano intesi a riunire intellettuali e non intellettuali, per l'appunto attorno al concetto salvifico di "esperienza". La nostra prima rivolta ci spingeva infatti in quel momento a esercitare il sospetto su un sapere - compreso quello filosofico - qualificato come fallocratico, sapere che, lungi dall'illuminarci, ci aveva ingannate sulla nostra condizione: doveva da allora in poi essere oggetto di un "dubbio metodico" o persino essere messo tra parentesi per leggere e interpretare il reale con uno sguardo nuovo, scevro da a priori, che sarebbe finalmente stato, pensavamo, il nostro sguardo. Ritornare alla sola esperienza - "alle cose stesse", per parodiare Husserl - era allora il nostro leit-motiv, e da questo punto di vista la testimonianza ci sembrava portare piu' verita' sul reale rispetto alla sua analisi. Per giunta questo modo di procedere permetteva a tutte le donne, intellettuali e non intellettuali, di dire e di pensare il mondo in modo nuovo, al di la' delle formalizzazioni teoriche che, in nome della ricerca della verita' - "genio maligno" - l'avevano occultata e ce l'avevano sottratta per secoli. Ci siamo tuttavia rapidamente rese conto che gli strumenti intellettuali che eravamo tentate di respingere, avendoli pero' interiorizzati, ci permettevano di dare forma a questa esperienza, e che le testimonianze del vissuto - la parola spontanea - prendevano senso solo attraverso una certa griglia di lettura che applicavamo loro inconsciamente e che risultava proprio dalla nostra cultura e formazione, iscritte in un linguaggio che ereditavamo. Il solo fatto che ci riuniamo qui sotto l'egida dell'Universita' di Roma Tre e nella forma di un simposio che fa riferimento alle donne e alla filosofia (e non, ad esempio, nella strada attraverso il grido o dipingendo graffiti) mette in evidenza il carattere paradossale del nostro procedimento: questo dentro/fuori che lo caratterizza in permanenza e che ognuna, o ogni collettivita' locale o nazionale, cerca di sostenere con maggiore o minore riuscita. Dentro/fuori le istituzioni, dentro/fuori la tradizione dei saperi costituiti e delle narrazioni, che ci richiedono una sorta di arte acrobatica del pensiero e dell'essere per accedere a un di piu' di verita'. * Il pensiero dell'esperienza e' infatti sempre un superamento dell'esperienza che le da' forma a partire da categorie che le sono esterne e che sono riprese dalla tradizione della lingua e della cultura, compresa quella filosofica. Non e' dunque credendo di sfuggirle o occultandola, bensi' affrontandola e riassumendola dall'interno in modo critico, che possiamo rinnovare il sapere. Esercizio certo rischioso, perche' quel che ci nutre e quel che ci avvelena (il pharmakon di Platone, come commentato da Derrida) si presenta nello stesso cibo. Esercizio rischioso che non possiamo tuttavia eludere con la scusa di sfuggire al sapere a vantaggio dell'esperienza, poiche' l'esperienza non e' mai vergine di un sapere inconsapevole che la struttura ed e' tanto piu' temibile quanto piu' inconsapevole. Non e' attraverso un processo di tabula rasa ma attraverso un processo di critica interna - una vigilanza - che puo' emergere la verita'. Non procedere a questa critica interna, non abitare il discorso, significa lasciarlo alla propria tirannia, foss'anche occulta. Non esiste un cogito-donna, non c'e' esperienza originaria a partire dalla quale ricostruire il mondo. Non c'e' nemmeno creazione o pensiero femminile che non si situi implicitamente o esplicitamente in relazione, positiva o negativa, con la cultura circostante. La trasformazione dell'esistenza delle donne implica necessariamente la trasformazione delle loro relazioni con il mondo, e la trasformazione di questo stesso mondo attraverso un costante dibattito teorico e pratico con tutte le sue articolazioni. Da questo punto di vista e' vero che il pensiero e' all'opera non solo negli spazi specializzati, riservati a tale scopo e che pretenderebbero averne l'esclusiva - l'universita' ad esempio - ma ovunque si giochino modalita' dell'esistenza singolare e collettiva. La verita' e' decentrata ed e' poliglotta. Il pensiero dell'esperienza non e' un pensiero di questa, ma un modo di costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Si tratta di un atto interpretativo: non un semplice sapere ma gia' un giudizio. Le stesse situazioni e gli stessi eventi possono infatti ripetersi nell'esperienza senza pero' suscitare il pensiero. Cosi' la situazione delle donne e' apparsa per lungo tempo - anche a loro stesse - come un dato evidente e quasi atemporale, fino a quando il pensiero, distaccandosi dall'evidenza dell'esperienza, non l'ha messa in questione, ne ha fatto un dato problematico e, sottoponendola al giudizio, ne ha tracciato. Pensare l'esperienza non e' dunque, o non e' solo, renderne conto, rifletterla per analizzarla, bensi' superarla. Il pensiero e' un atto, un modo di dare forma o di ridare forma al dato. Il pensiero dell'esperienza si avvicina si' all'esperienza ma non allo stato vergine, come si potrebbe sognarlo, ma come a un'esperienza determinata, informata da una storia, e con gli strumenti di una lunga tradizione, che si tratta non di ricusare o abolire, ma perlomeno di interrogare. Il pensiero dell'esperienza diventa allora uno strumento di lettura del mondo, e anche di rilettura dei testi filosofici della tradizione, non solo per individuarvi le lacune o i pregiudizi che riguardano la differenza tra i sessi e le donne ma, avendone preso la misura, per appropriarsene in modo critico, senza soccombervi. * La presa di coscienza da parte delle donne della loro esclusione da alcune sfere del sapere, e della loro oggettivazione riduttiva in questo sapere, ha determinato una doppia strategia: da una parte, la costituzione di sfere del pensiero e del sapere parallele e esterne all'istituzione, e al tempo stesso, a poco a poco e in modo sempre piu' sicuro, la loro integrazione in questa istituzione. E' cosi' che quel che si doveva chiamare "studi di genere" (i gender studies) si sono imposti in numerosi paesi e sono anche stati poco a poco integrati in un buon numero di universita' - l'Italia fa eccezione - come uno specialismo tra gli altri. Posizione eminentemente ambigua di questi studi, che rischiano di vedere eroso il loro potenziale sovversivo, aggiungendo un capitolo ai capitoli del sapere tradizionale, un'aggiunta che non sovvertirebbe il corpus del sapere ma verrebbe piuttosto a completarlo e, indirettamente, a confermarlo. Ma in compenso, la non integrazione di questi studi - la loro marginalizzazione - rischiava di esaurirne a breve il potenziale trasformativo. Il problema non e' nuovo in materia di strategia: e' piu' efficace rimanere al margine, sostenendo cosi' una forza di radicalita', oppure integrarsi per beneficiare di alcune leve determinanti, a rischio di esserne contaminati? Bisogna interrogare la tradizione filosofica dall'interno oppure elaborare una forma parallela di "pensare da se'" a rischio di marginalizzazione, quando non di deperimento? Il richiamo che ci viene qui fatto a un "pensiero dell'esperienza" e' certo un invito a pensare quel che accade e a cui siamo confrontate, senza passare di necessita' dal canale di concettualizzazione dei "filosofi di professione", secondo la formulazione ironica di Arendt, anche quando lei stessa si presentava sulla scena universitaria che ne e' il vettore portante. Ma l'esperienza stessa e' mai puramente fattuale - un'esperienza grezza -, puo' mai essere non informata da una storia e da un sapere che quanto piu' non si formulano come tanti quanto piu' sono operativi? Abbiamo mai a che fare con "le cose stesse", nell'epoche' della loro congiuntura e della loro storia? Il pensiero dell'esperienza non e' forse sempre il pensiero di un'esperienza gia' informata, o messa in situazione, che richiede la sospensione critica nel mentre che la cogliamo? * Un'altra pratica e' stata quella di ritrovare nei sotterranei della storia le opere di donne nate-morte, dimenticate o emarginate dalla costruzione storica del pensiero. Nel riabilitare le opere e i testi di queste donne, che malgrado gli arresti domiciliari sono riuscite a "pensare da se stesse": scrittrici, rivoluzionarie, mistiche, che sono riuscite a sviluppare al margine del corpus dominante, malgrado l'ordine dato, un pensiero irriducibile (ma il lavoro di resurrezione delle morte non finisce troppo spesso per lasciare deperire le vive per mancanza di attenzione?). Comunque lo si individui, il pensiero delle donne si lavora nel corpo del reale e nel corpus del sapere "patrocentrico", in un corpo a corpo diretto o indiretto, e non a partire da una tabula rasa che permetterebbe la costruzione di un sapere alternativo cosiddetto femminile. Non e' un sapere altro ma un'alterazione del sapere. Non e' un nuovo pensiero dell'esperienza ma il ribaltamento di questa stessa esperienza. L'accesso delle donne all'esperienza del pensiero passa attraverso il loro accesso alla dimensione dialogica. La piu' grande innovazione del movimento delle donne alla fine del XX secolo e' la reciproca autorizzazione a pensare che si sono date attraverso la parola e l'azione (volo ut sis, voglio che tu sia, Agostino citato da Arendt), ognuna autorizzando l'altra e autorizzandosi a essere, a pensare e a parlare, che fosse nell'accordo o nel disaccordo, perche' lo stesso disaccordo conferma l'importanza attribuita all'altra. Il pensiero dell'esperienza e' innanzitutto il pensiero di questa esperienza che consiste nel riconoscere l'altro/a come agente del divenire del pensiero, come depositario/a di un momento della verita'. E' il costituirsi di questo appello che fa essere l'altro e, dando credito alla sua parola, le riconosce la capacita' di generare simbolicamente. Perche' se, fin dai greci, il rapporto di un uomo con un altro uomo e' il solo portatore di verita' - essendo quello di un uomo con una donna destinato a generare un figlio - il rapporto di una donna con una donna si rivela ora anch'esso portatore della verita'. * L'articolazione dialogica del pensiero mi sembra al cuore della sua vitalita'. "Pensare da se' e dialogare con gli altri", mettere in relazione e a confronto le "esperienze di pensiero" che si fanno in punti diversi e secondo modalita' diverse. E' nel pensare e nel parlare insieme, nel confrontare le nostre esperienze, a partire dai luoghi che sono i nostri, che ci assumiamo al contempo il comune e il differente che ci riunisce, la posta in gioco della verita' trovandosi in questo spazio a piu' voci, un piu' che viene dalle esperienze a partire dalle quali si elabora, dalla diversita' degli approcci di cui sono fatte e delle lingue che le articolano. Si puo' sostenere che nel rimettere in gioco il pensiero nel dialogo, nell'interpellare ciascuna e ciascuno, nel restituire all'interrogazione la sua funzione di levatrice della verita', siamo fondamentalmente fedeli all'ideale filosofico e democratico originario: partorire la verita' che e' in ciascuno e in ciascuna, quando interroga la propria esperienza, e metterla pubblicamente in gioco. Con questo avvertimento, non da poco: che ognuna e' contemporaneamente e alternativamente Socrate e il suo discepolo, ognuna e' interrogante e interrogata: e' cosi' che il dialogo di se' con se' si iscrive nel dialogo di se' con l'altro, liberando il pensiero da qualsiasi riferimento a un qualsivoglia "cielo delle Idee". Quel che taglia l'indecidibilita' fondamentale della messa in questione, non e' il sapere bensi' l'immaginazione e il giudizio: una delucidazione dell'essere che e' un far essere, una "messa al mondo". Perche' non siamo chiamate ad allinearci al dato bensi' a creare del senso. * Al pensiero dell'esperienza che considera l'esperienza come un fatto di cui il pensiero renderebbe conto, si sostituisce cosi' l'esperienza del pensiero, quella che fa essere e significare l'esperienza stessa nell'indecidibilita' dell'alternanza dialogica. Perche' l'esperienza non e' un fatto che fungerebbe da fondamento, ma e' gia' da sempre un racconto suscettibile di essere ripreso in una nuova narrazione, di cui oggi siamo eredi e responsabili. E' per questo che il pensiero dell'esperienza e' anche un'esperienza avventurosa del pensiero: non e' tanto la delucidazione di quel che e' gia' ma piuttosto e' il far essere quel che non e' ancora e di cui il/la filosofa, tanto quanto l'artista, e' responsabile, a cui e' assegnato/a. Pensare non e' soltanto rendere conto: e' sempre anche e soprattutto giudicare, e immaginare. 5. RIFLESSIONE. STEFANIA GIORGI INTERVISTA BARBARA DUDEN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 settembre 2006. All'intervista ha collaborato Catrin Dingler. Stefania Giorgi e' giornalista e saggista, da anni animatrice delle pagine culturali del quotidiano "Il manifesto", ha scritto molti articoli, densi e illuminanti, su temi civili e morali, e in particolare di bioetica, di difesa intransigente della dignita' umana, quindi dal punto di vista del pensiero delle donne. Opere di Stefania Giorgi: (a cura di, con Simona Bonsignori, Ida Dominijannii), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005. Barbara Duden, nata nel 1942, si e' formata come storica a Vienna e a Berlino e ha insegnato per vari anni negli Stati Uniti prima di tornare in Germania, dove continua a occuparsi di storia delle donne e di storia del corpo femminile e della sua percezione nella modernita'. Tra le opere di Barbara Duden: Il corpo della donna come luogo pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Il gene in testa e il feto in pancia. Storia del corpo femminile, Bollati Boringhieri, Torino 2006] Appassionata storica del corpo femminile, dopo Il corpo della donna come luogo pubblico (Bollati Boringhieri, 1994), testo cruciale per capire come nuove tecniche e un nuovo apparato linguistico hanno completamente mutato il modo di concepire e vivere la gravidanza - di come "nel giro di pochi anni il bambino e' diventato un feto, la donna incinta un sistema uterino di approvvigionamento, il nascituro una vita e la 'vita' un valore cattolico-laico quindi onnicomprensivo" - Barbara Duden torna a indagare l'esperienza corporea delle donne con I geni in testa e il feto nel grembo (Bollati Boringhieri, euro 28) - che sara' presentato e discusso con Maria Luisa Boccia al Festival di letteratura di Mantova. Temi e riflessioni che ha portato a Roma nel simposio dell'Associazione internazionale delle filosofe, animando - con Elena Gagliasso, Gabriella Bonacchi, Tristana Dini, Caterina Botti, Elisabeth Strass - una sessione plenaria e un workshop su "scienze e tecnologie". Il nuovo libro raccoglie gli interventi di Duden nel corso degli anni '90, sollecitati da universita', associazioni, ordini professionali, congressi scientifici, letture, mostre, sentenze. Con introduzioni e note che li contestualizzano e li riportano al presente. Un testo che mette in guardia sugli effetti di un'esperienza del corpo plasmata sempre piu' dalla simulazione tecnologica decorporeizzante, dalla pervasivita' del linguaggio del rischio e delle probabilita' della genetica - subdola "come le radiazioni di Cernobyl" -, dell'orizzonte di una vita sempre piu' "biologizzata" per gli uomini ma, soprattutto, per le donne. * - Stefania Giorgi: Continuando a usare la gravidanza come evento paradigmatico, cosa mostrano i mutamenti che la fecondazione artificiale e la separazione del feto dal corpo materno stanno producendo sulla scena procreativa? - Barbara Duden: Il parto e' stato, fino a non molti decenni fa, un momento di rivelazione, perche' non si poteva sapere che cosa stava portando a compimento la donna. Un'esperienza di cambiamenti nel ritmo dell'essere che teneva insieme il presente e il non-dum latino. Nella gravidanza moderna quel non-ancora e' stato cancellato. La visualizzazione di cio' che deve ancora nascere - attraverso "occhi" tecnologici sempre piu' sofisticati - gia' dal primo mese, separa il feto dal corpo materno, lo proietta all'esterno, lo oggettivizza e rende impossibile alle donne vivere questa esperienza corporea del divenire. Il non-ancora e' distrutto dalla tirannia del presente. E tutto questo orienta il modo, storicamente inedito, in cui oggi si discute degli embrioni. L'antica nozione del parto come momento della verita', atto inaugurale e decisivo del divenire umano, si perde in un tramonto che inizia negli anni '70. Oggi il parto e' il finale calcolato di un processo controllato che dura nove mesi. Il parto, venire al mondo dal corpo materno, principio che ha segnato la storia e la cultura umana, nella sua intimita', tenerezza e imprevedibilita', sta scomparendo dall'immaginario. Sulla procreazione assistita occorre distinguere tra le manipolazioni nei laboratori, la loro regolamentazione e il desiderio di una donna di far nascere un bambino. Nella discussione pubblica svanisce il contrasto tra una manipolazione in vitro e il divenire in corpo di donna. Questa cruciale differenza non viene piu' compresa intuitivamente, con un effetto simbolico molto forte: il laboratorio offerto come sostituto del corpo femminile. Le possibilita' della tecnologia riproduttiva diventano cosi' reificazioni del management di speranza che cambia il modo di vivere il desiderio di un bambino che non arriva. E' sciocco discutere sul numero degli embrioni da produrre e impiantare. E' inquietante e dannoso il modo in cui si parla degli embrioni come esseri umani e, in particolare, come la chiesa cattolica si fissi su queste cellule, questi stadi organizzativi biologici come problema fondamentale della vita. Una societa' che discute in questo modo degli embrioni mette in opera quello che Ivan Illich definiva un "sentimentalismo epistemico", l'approccio sentimentale a una materia per la quale non si adatta ne' l'amore ne' l'avversione. Che in Europa il destino degli embrioni sia diventato una questione fondamentale provoca una devastazione del senso della parola umanita' poiche' questo "sentimentalismo" riguarda qualcosa che non e' carne, non e' un essere umano. Corporeizzando l'invisibile (l'embrione) e decorporeizzando il visibile il risultato e' che non si parla dei bambini reali e del fatto che per essere tali hanno avuto bisogno di nove mesi nel corpo di una donna. * - Stefania Giorgi: Rischio, probabilita', predizione: nel descrivere l'indottrinamento strisciante della "biocrazia", nel suo libro parla del gene come "cavallo di Troia" per le donne... - Barbara Duden: La medicalizzazione degli anni '50 riguardava in primo luogo le donne, ma non ne cancellava il corpo. Con l'ingresso dei geni nel linguaggio e nella vita quotidiana siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Il concetto di gene ha una storia molto lunga nel '900 e nel tempo ha significato cose molto diverse. Solo negli anni '90, e in modo massiccio con il progetto "Genoma Umano", il gene ha invaso il linguaggio comune ed e' divenuto l'immagine (che e' solo una fantasia) di un "elemento di vita" che tutti hanno in se'. Ma gia' negli anni '80 il genetista Raphael Falck, nel saggio The Gene in Search of an Identity, ha chiarito come il gene sia un concetto che non rimanda a nulla che possa essere distinto, reificato, localizzato. Parlare tanto di genetica ha la funzione sociale di trasformare gli uomini in portatori di geni e il gene in qualcosa di reale, sempre meno legato alla sfera personale della trasmissione ereditaria, con le sue radici nel passato e nella parentela. La funzione sociale del gene oggi e' un'altra: e' qualcosa dentro ciascuno di noi, che esiste gia', con conseguenze non ancora prevedibili ma calcolabili secondo le regole delle probabilita'. Il gene si incarna nella persona come un calcolo statistico e la genetica diventa predittiva, si riferisce sempre piu' a qualcosa a venire. Lo stesso vale per cio' che si intende con "effetto gene". L'uomo comune s'immagina un difetto organico, un errore nel sistema operativo, qualcosa che c'e' gia' e che potrebbe provocare qualcosa di terribile nel futuro. Se la donna, per esempio, ha interiorizzato l'idea di un gene per il cancro al seno, finira' con l'incarnare l'immagine di uno stato assediato dai terroristi con la conseguente necessita' di un sistema di controllo sempre piu' fitto, di un'osservazione permanente. Il gene, dunque, allarga un orizzonte d'aspettativa negativa, crea paura e rende dipendenti da un sistema di controllo autoritario. * - Stefania Giorgi: Ma questo vale anche gli uomini, ad esempio per il cancro alla prostata... - Barbara Duden: La domanda e' perche' le donne sono cosi' preoccupate per la loro corporeita' e che cosa ha a che fare questa preoccupazione con la propaganda pubblica sul corpo femminile minacciato e a rischio. Il sistema della prevenzione per il cancro al seno, con le mammografie di massa, ad esempio, funziona in pochi casi. Per un numero incredibilmente alto di donne l'effetto e' negativo perche' c'e' un numero enorme di diagnosi sbagliate. Si potrebbe parlare di una forma di lesione colposa organizzata che gli uomini di certo non tollererebbero. Ma la vera differenza tra uomini e donne sta nel fatto che il corpo femminile incarna - attraverso la sua potenzialita' procreativa - una temporalita' speciale rispetto al futuro che il corpo maschile non ha. In un sistema che cerca di regolare il rischio, il corpo segnato da questo legame speciale con il tempo diventa quello che piu' si presta, politicamente e simbolicamente, alla propaganda della fede nel gene. Certo, dobbiamo anche chiarire la funzione sociale della medicina. Il sistema dei test genetici funziona solo perche' la gente pensa che si tratti di una diagnosi medica, anche se la genetica non ha niente a che fare con il sapere e la pratica originaria dei medici. Si tratta solo di fantasie sul regolamento dei fattori di rischio. Anche se, ripeto, il riferimento tra il tipo di gene e il fenotipo e' di natura statistica e talmente complicato che la possibilita' della previsione individuale diventa una forma di superstizione. La genetica modula il futuro secondo un modello in cui cio' che accadra' dipende dall'agire calcolato nel presente. E' una pazzia che distrugge la fiducia in se', la capacita' di scelta in prima persona e rende dipendenti dalla competenza specialistica: nessuno stato corporeo e' buono senza l'attestato di un professionista. La gravidanza ne e' di nuovo il miglior esempio. * - Stefania Giorgi: Nell'irruzione del linguaggio scientifico nella vita quotidiana e nelle dispute sulla genetica applicata al vivente c'e' la possibilita', praticata in primo luogo dal pensiero critico femminista, di seguire una via che scarti la coppia oppositiva tecnofilia/tecnofobia. Nel libro, invece, lei propone un radicale "a-genetismo". - Barbara Duden: Ancora una volta si deve distinguere tra cio' che la tecnica e' in grado di fare, spesso non mantenendo cio' che promette, e cio' che crea simbolicamente. E io credo che la sua funzione sociale stia nell'ordine simbolico, nel cambiamento della soggettivita', della percezione dell'essere, dell'orientamento nel mondo. Cio' vuol dire, per me, che non si tratta di cercare una strada tra ottimismo e fobia, bensi' di analizzare con sobrieta' e senza illusioni l'effetto simbolico di questa forma di social engeneering. Con la parola carne mi riferisco a qualcosa che non si lascia definire, che ha a che fare con un sapere sensitivo e con la fiducia o sfiducia nella propria carne. Con l'amore, la voglia di vivere, lo spreco, con un modo di percepire che non e' afferrabile con una definizione normativa, che invece ha a che fare con la fiducia di poter gestire una situazione. A me pare che si finisca col perdere, anche nella discussione femminista, la possibilita' di trattare la natura come grazia, bellezza, mistero e gloria della singolarita'. Percio' vorrei invitare le donne a riderci sopra, a svelare la pomposa seriosita' del discorso pubblico sul management della speranza e dire con chiarezza che molte invenzioni o promesse della genetica sono assurde, prive di senso. Se si capisce che l'efficacia desiderata non si verifica e, al contrario, si registrano effetti simbolici inquietanti, come la distruzione del tempo, della fiducia, mi auguro che le donne riescano a dire: lasciamolo perdere, non mi piace, non lo voglio. "No, grazie". * - Stefania Giorgi: Ma non pensa che, oltre al controllo biopolitico, possano esserci desideri reali che la tecnologia oggi rende possibili? - Barbara Duden: Il sistema di controllo significa processi rituali che finiscono con l'assolvere a una funzione mitopoietica. Dopo una, due generazioni, vengono interiorizzati e anche la percezione corporea si modella su queste procedure. Dobbiamo riflettere su come questi processi possano contrabbandare come desiderio delle donne il controllo ossessivo del loro corpo. Se non e' stato facile per i medici convincere le donne alla prevenzione, solo trent'anni dopo il genetista ride della donna che chiede di essere informata sulla possibilita' del suo embrione di essere affetto da senilita'. Si prende gioco, cioe', della follia che lui stesso ha aiutato a creare. Non e' facile criticare questo circuito, ma e' necessario continuare a chiedersi che cosa dice questo desiderio della perdita di autorita' da parte delle donne, mettersi in ascolto di cio' che veramente desiderano le donne, al di la' del frame of mind che genera quello stato di preoccupazione permanente che si esprime in questa forma distorta. Ascoltare le paure delle donne assediate da aspettative, alle quali viene richiesto di essere perfette e responsabili. Oggi una donna che mette al mondo un bambino con sindrome down deve giustificarsi perfino con i vicini... Cio' che spesso viene definito desiderio e in realta' decision making, una scelta tra due opzioni calcolabili, per esempio tra cesareo e parto naturale. Due modi imparagonabili di partorire offerti come equivalenti e scelti solo in base al calcolo del rischio. Ma, su questa base, non e' possibile desiderare niente. Eppure partorire non richiederebbe alcuna decisione, e' qualcosa che ogni donna sa fare. 6. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: L'ETERNO RITORNO DEL TRAUMA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 settembre 2006. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] Una lugubre coazione a ripetere sembra essersi impossessata del nostro presente globalizzato: da quando la profezia della "fine della storia" (oggi revocata in dubbio dal suo stesso autore Francis Fukujama) sembrava doverne orientare il futuro, la storia passata e' diventata sempre piu' un archivio di traumi del passato a cui attingere non per superarli, ma per riproporne ossessivamente l'eterno ritorno. La Shoah, la seconda guerra mondiale, la guerra civile spagnola - per limitarsi a qualche esempio europeo - tornano continuamente nel discorso pubblico, soggette a ondate successive di revisionismi, in cui cambiano le interpretazioni e vengono stravolte le responsabilita', ma resta confermata l'impossibilita' di elaborare il trauma, liberare la memoria, redimere il passato e, con cio', aprire una porta per il futuro. Questo eterno ritorno del fantasma e' ovviamente in parte ineliminabile, data l'entita' dei traumi suddetti, della scia di colpe che hanno lasciato, delle controversie interpretative che tutt'ora li avvolgono. Ma in parte e' altresi' funzionale al dispositivo della produzione di nuovi traumi che, a onta della profezia di Fukujama, muove il mondo globale con la sua guerra preventiva e permanente, i suoi ritorni ai campi e alla tortura stile Guantanamo, i suoi ordinari massacri in medioriente e altrove, le sue croniche violenze nel "continente dimenticato" africano eccetera eccetera. Se dai traumi del passato non si esce, infatti, nemmeno si libera lo spazio per l'immaginazione, prima che per la costruzione, di un mondo meno martoriato, e i traumi del presente ne escono psicologicamente, prima che politicamente e giuridicamente, legittimati. * Sono considerazioni portate al simposio dello Iaph che si e' tenuto a Roma nei giorni scorsi dalla storica spagnola Maria Milagros Rivera Garretas, e a me paiono tanto piu' pertinenti in prossimita' del quinto anniversario dell'11 settembre, evento che si va imprimendo nella coscienza contemporanea come il paradigma per eccellenza del trauma senza uscita che genera altri traumi, altra risposta non essendo stata trovata alla dolorosa ferita di Ground Zero che quella della ritorsione e della guerra infinita contro un nemico incerto e onnipresente. Milagros Rivera e' una storica impegnata nel movimento femminista, e inseriva queste considerazioni nel quadro della sua ricerca sulla differenza femminile come principio di interpretazione storica capace di mutarne i paradigmi correnti: differenza femminile significa anche relazione, capacita' di agire e leggere il conflitto al di fuori dello schema amico-nemico o vincitore-vinti, e l'elaborazione dei traumi del passato, lei sostiene, puo' avvalersi di queste modalita' per rintracciare e leggere i vissuti di quegli eventi piu' complessi e irriducibili allo schema amico-nemico, o per riportare a galla le istanze vitali che dal trauma si salvarono, o i legami che la violenza non impedi' di tessere nella vita quotidiana, o i sentimenti positivi che riuscirono a contrastarla, tutto quello insomma che non resta compromesso dalla colpa o dalla brutalita'; e questa redenzione quantomeno parziale del passato puo' proiettarsi sul presente e sul futuro. Io credo che la lezione valga altrettanto per leggere i traumi del presente, liberando lo sguardo e l'ascolto per cio' che, in regime di guerra e di violenza, alla guerra e alla violenza riesce a sottrarsi, o nonostante la guerra e la violenza riesce a nutrirsi e a nutrire, in Iraq come in Libano o a Gaza: non per derubricare la devastazione che l'uso della forza provoca, ma per strappare al paradigma della forza le sue pretese di totalita', che non fanno che riprodurla. E mi vengono in mente considerazioni analoghe proposte durante la guerra in Iraq su queste stesse pagine [del quotidiano "Il manifesto" - ndr] da Chiara Zamboni e Luisa Muraro, o l'appello di Judith Butler a elaborare l'11 settembre in termini di fragilita' e di interdipendenza invece che di forza e di vendetta, o l'invito di Wendy Brown alla sinistra post-'89 a ritrovare la forza politica dell'amore. Forse un principio femminile d'interpretazione storica comincia a dileguare il fantasma del trauma ritornante. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 80 del 7 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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