La nonviolenza e' in cammino. 1411



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1411 del 7 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Cent'anni a Pisa
2. Michael N. Nagler: Speranza o terrore? Gandhi e l'altro 11 settembre
(parte prima)
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'

1. INCONTRI. CENT'ANNI A PISA

Si terra' a Pisa dall'8 all'11 settembre, nel centenario della nascita del
satyagraha (11 settembre 1906), un convegno sul tema "Il potere della
nonviolenza".
Il convegno e' organizzato dalla rivista "Quaderni satyagraha" e dal Centro
Gandhi di Pisa, e vi partecipano autorevoli personalita' della riflessione e
dell'impegno nonviolento.
Per informazioni, adesione e partecipazione contattare il Centro Gandhi,
tel. 3355861242, fax: 1782205126, e-mail:
11settembre.nonviolenza at centrogandhi.it, sito: www.centrogandhi.it

2. RIFLESSIONE. MICHAEL N. NAGLER: SPERANZA O TERRORE? GANDHI E L'ALTRO 11
SETTEMBRE (PARTE PRIMA)
[Ringraziamo di cuore gli amici del Centro Gandhi di Pisa e della redazione
dei "Quaderni satyagraha" (via Santa Cecilia 30, 56127 Pisa, sito:
www.centrogandhi.it) per averci messo a disposizione come anticipazione il
seguente testo di Michael N. Nagler (nella traduzione di Marco Pieroni) dal
Centro Gandhi pubblicato fuori commercio in edizione speciale per il
convegno "100 anni di Satyagraha - la forza della nonviolenza" (Pisa, 8-11
settembre 2006), in collaborazione con Nonviolent Peaceforce, 425 Oak Grove
Street, Minneapolis, MN 55403 Usa, sito: www.nonviolentpeaceforce.org e con
Metta - Center for Nonviolence Education, P.O. Box 183, Tomales, CA 94971
Usa, sito: www.mettacenter.org e con Gandhi Serve Foundation,
sito:www.gandhiserve.org ; il testo e' gia' disponibile altresi' nel sito
del Centro Gandhi: www.centrogandhi.it
Naturalmente quella qui esposta e' solo una delle interpretazioni della
nonviolenza; altre se ne danno, diverse e in taluni punti finanche
conflggenti con quella proposta da Nagler in questo testo (nel quale
peraltro non mancano - come accade sovente nelle scritture pubblicistiche -
opinioni discutibili e ricostruzioni talora anche piu' che discutibili),
testo che costituisce comunque senza dubbio un utile ed autorevole
contributo di memoria e di riflessione  (p. s.).
Michael N. Nagler, prestigioso studioso e amico della nonviolenza, e'
professore emerito e fondatore del Peace Studies Program alla University of
California di Berkeley. Tra le sue opere in inglese: (con Eknath Easwaran),
The Upanishads, Nilgiri Press, 1987; America Without Violence: Why Violence
Persists and How You Can Stop It, Island Press, 1982; Is There No Other Way:
The Search for a Nonviolent Future, Inner Ocean Publishing, 2001; in
italiano: Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Firenze 2005.
Mohandas K. Gandhi e' stato della nonviolenza il piu' grande e profondo
pensatore e operatore, cercatore e scopritore; e il fondatore della
nonviolenza come proposta d'intervento politico e sociale e principio
d'organizzazione sociale e politica, come progetto di liberazione e di
convivenza. Nato a Portbandar in India nel 1869, studi legali a Londra,
avvocato, nel 1893 in Sud Africa, qui divenne il leader della lotta contro
la discriminazione degli immigrati indiani ed elaboro' le tecniche della
nonviolenza. Nel 1915 torno' in India e divenne uno dei leader del Partito
del Congresso che si batteva per la liberazione dal colonialismo britannico.
Guido' grandi lotte politiche e sociali affinando sempre piu' la
teoria-prassi nonviolenta e sviluppando precise proposte di organizzazione
economica e sociale in direzione solidale ed egualitaria. Fu assassinato il
30 gennaio del 1948. Sono tanti i meriti ed e' tale la grandezza di
quest'uomo che una volta di piu' occorre ricordare che non va  mitizzato, e
che quindi non vanno occultati limiti, contraddizioni, ed alcuni aspetti
discutibili - che pure vi sono - della sua figura, della sua riflessione,
della sua opera. Opere di Gandhi:  essendo Gandhi un organizzatore, un
giornalista, un politico, un avvocato, un uomo d'azione, oltre che una
natura profondamente religiosa, i suoi scritti devono sempre essere
contestualizzati per non fraintenderli; Gandhi considerava la sua
riflessione in continuo sviluppo, e alla sua autobiografia diede
significativamente il titolo Storia dei miei esperimenti con la verita'. In
italiano l'antologia migliore e' Teoria e pratica della nonviolenza,
Einaudi; si vedano anche: La forza della verita', vol. I, Sonda; Villaggio e
autonomia, Lef; l'autobiografia tradotta col titolo La mia vita per la
liberta', Newton Compton; La resistenza nonviolenta, Newton Compton;
Civilta' occidentale e rinascita dell'India, Movimento Nonviolento; La cura
della natura, Lef; Una guerra senza violenza, Lef (traduzione del primo, e
fondamentale, libro di Gandhi: Satyagraha in South Africa). Altri volumi
sono stati pubblicati da Comunita': la nota e discutibile raccolta di
frammenti Antiche come le montagne; da Sellerio: Tempio di verita'; da
Newton Compton: e tra essi segnaliamo particolarmente Il mio credo, il mio
pensiero, e La voce della verita'; Feltrinelli ha recentemente pubblicato
l'antologia Per la pace, curata e introdotta da Thomas Merton. Altri volumi
ancora sono stati pubblicati dagli stessi e da altri editori. I materiali
della drammatica polemica tra Gandhi, Martin Buber e Judah L. Magnes sono
stati pubblicati sotto il titolo complessivo Devono gli ebrei farsi
massacrare?, in "Micromega" n. 2 del 1991 (e per un acuto commento si veda
il saggio in proposito nel libro di Giuliano Pontara, Guerre, disobbedienza
civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996). Opere su Gandhi:
tra le biografie cfr. B. R. Nanda, Gandhi il mahatma, Mondadori; il recente
accurato lavoro di Judith M. Brown, Gandhi, Il Mulino; il recentissimo libro
di Yogesh Chadha, Gandhi, Mondadori. Tra gli studi cfr. Johan Galtung,
Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele; Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente
detto Gandhi, Ubaldini; ed i volumi di Gianni Sofri: Gandhi e Tolstoj, Il
Mulino (in collaborazione con Pier Cesare Bori); Gandhi in Italia, Il
Mulino; Gandhi e l'India, Giunti. Cfr. inoltre: Dennis Dalton, Gandhi, il
Mahatma. Il potere della nonviolenza, Ecig. Una importante testimonianza e'
quella di Vinoba, Gandhi, la via del maestro, Paoline. Per la bibliografia
cfr. anche Gabriele Rossi (a cura di), Mahatma Gandhi; materiali esistenti
nelle biblioteche di Bologna, Comune di Bologna. Altri libri particolarmente
utili disponibili in italiano sono quelli di Lanza del Vasto, William L.
Shirer, Ignatius Jesudasan, George Woodcock, Giorgio Borsa, Enrica Collotti
Pischel, Louis Fischer. Un'agile introduzione e' quella di Ernesto Balducci,
Gandhi, Edizioni cultura della pace. Una interessante sintesi e' quella di
Giulio Girardi, Riscoprire Gandhi, Anterem, Roma 1999; tra le piu' recenti
pubblicazioni segnaliamo le seguenti: Antonio Vigilante, Il pensiero
nonviolento. Una introduzione, Edizioni del Rosone, Foggia 2004; Mark
Juergensmeyer, Come Gandhi, Laterza, Roma-Bari 2004; Roberto Mancini,
L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005; Enrico Peyretti, Esperimenti con
la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini)
2005; Fulvio Cesare Manara, Una forza che da' vita. Ricominciare con Gandhi
in un'eta' di terrorismi, Unicopli, Milano 2006]

Introduzione
"L'ingiustizia in un luogo e' una minaccia per la giustizia in ogni luogo.
Io non restero' passivo fino a quando vedro' esserci una guerra ingiusta"
(Martin Luther King)

L'11 settembre 2001 e' arrivato come una scossa profonda per coloro che
hanno dedicato le loro vite alla pace. Che si sia persa' o no una persona
cara in quell'esplosione di odio (come e' accaduto a me), quella violenza
sfida la nostra fede e aggiunge una dimensione supplementare di dolore per
coloro che sentono con maggior tristezza la futilita' della violenza. Circa
1500 anni fa, in risposta a una crisi simile, Sant'Agostino proclamo' la sua
fede che la ricerca della pace e' insita nella natura umana. Che ne siamo
consapevoli o no, egli disse, il nostro desiderio piu' profondo e' ricercare
l'amicizia e, per quanto ci e' possibile, la pace con ogni uomo e donna, e
tutto quello che vive. Ma quelli di noi che lavorano per la pace sono forse
piu' consapevoli di questo desiderio e ne sentono le violazioni piu'
profondamente, dato che non solo desideriamo ma crediamo nella pace,
crediamo che sia possibile anche nel nostro tempo. E ne abbiamo motivo. Per
una strana coincidenza e' esattamente un secolo fa, l'11 settembre 1906, che
il Mahatma Gandhi diede inizio a un nuovo modo di affrontare il conflitto
che molti credono possa condurre l'umanita', fuori dal fango di odio in cui
sembriamo impantanati, verso la luminosa terra della pace. Questi due 11
settembre, l'uno una ferita aperta e l'altro molto poco apprezzato o capito
(o nella maggior parte dei casi, nemmeno ricordato), rappresentano i segnali
d'ingresso per le due strade che possono essere intraprese dal genere umano.
Questo nostro ulteriore dolore, quindi, non ci deve necessariamente
sprofondare nel pozzo della disperazione. Questo testo racconta la storia
del primo, e piu' utile, 11 settembre: la storia del satyagraha.
*
La parola "satyagraha"
Il metodo che Gandhi elaboro' non era nuovo - lui stesso era il primo a
insistere che era "antico quanto le colline" - ma e' stato lui a svilupparlo
sistematicamente e ad applicarlo su vasta scala ai problemi sociali. Come
scrisse piu' avanti, "quella nonviolenza che soltanto un individuo puo'
usare non e' molto utile in termini di societa'. L'uomo e' un essere
sociale. Le sue realizzazioni per essere utili devono essere tali che
chiunque abbia sufficiente diligenza possa raggiungerle" (1). E' davvero una
strana osservazione sulla natura umana - o, piuttosto, sulla cultura umana -
che, sebbene la pace sia il nostro desiderio piu' profondo e usare la pace
per influenzare gli altri sia "antico quanto le colline", l'idea che
restituire amore per odio possa indurre un cambiamento nel pensiero del
nostro avversario, per non menzionare che cio' puo' essere fatto su ampia
scala per correggere la "disumanita' dell'uomo sull'uomo", era cosi' poco
familiare nel 1906 che non c'era neppure una parola per questo tipo di
potere.
Cosi' quando Gandhi ha cominciato a organizzare gli indiani senza diritto di
voto del Sudafrica per resistere a ulteriori abusi sui loro diritti e sulla
loro dignita' da parte dei coloni bianchi, molti hanno fatto il confronto
con i movimenti per il suffragio in corso in Inghilterra e hanno applicato
il termine usato da quel movimento, "resistenza passiva", all'esperimento di
Gandhi; ma come egli stesso ha dovuto precisare spesso, non c'e' niente di
passivo nel suo metodo, e non si limita alla resistenza! Fu allora
organizzato un concorso e fu coniata una parola per il "nuovo" metodo:
satyagraha.
Satyagraha (pronunciato sat-yah-graha) significa letteralmente "aderire
fermamente alla verita'", e questo era esattamente come Gandhi lo intendeva:
aderire alla verita' che noi siamo tutt'uno sotto la superficie, che non
esiste qualcosa come un confronto "vincente/perdente" perche' tutti i nostri
principali interessi sono in realta' gli stessi, che consapevolmente o no
ogni singola persona desidera l'unita' e la pace con ogni altra. Il
principio, o metodo, che chiamo' satyagraha, spesso e' reso in italiano come
"forza dell'anima", perche' quell'unita' a cui possiamo fare appello e'
propria piu' dell'intimo di una persona che del corpo o delle apparenze
esterne. Martin Luther King in modo semplice ed abbastanza corretto lo
definisce "amore in azione".
Oggi quando usiamo la parola satyagraha a volte ci riferiamo al principio
generale per cui l'amore e' piu' forte dell'odio (e possiamo imparare a
usarlo per vincere l'odio) e a volte intendiamo in modo piu' specifico la
resistenza attiva da parte di un gruppo oppresso; altre volte, in modo
ancora piu' specifico, applichiamo il termine a un dato movimento, per
esempio "il satyagraha del sale" del 1930 o "il satyagraha del seme" con cui
gli odierni contadini indiani stanno resistendo all'appropriazione della
natura e alla mercificazione dei semi da parte delle multinazionali. Nel
primo significato, al livello piu' generale, e' spesso l'equivalente del
termine nonviolenza (oggigiorno scritto solitamente senza il trattino) o
forza dell'anima (2). In questo testo usero' "satyagraha" a tutti questi
livelli.
Il satyagraha, le cui applicazioni apparentemente infinite abbiamo soltanto
cominciato a esplorare, sembrerebbe offrire una grande speranza per il
futuro dell'umanita'. Noi esseri umani non smetteremo mai di avere
differenze - fortunatamente, perche' le nostre differenze fanno parte di
quello che ci rende umani. Non smetteremo mai di avere opinioni differenti,
e probabilmente non smetteremo mai di percepire i nostri interessi in
disaccordo con quelli degli altri. Ma non c'e' ragione per cui queste
differenze debbano sprofondare in un'inimicizia che finisce per provocare
esplosioni di rabbia, come e' successo quella terribile mattina di cinque
anni fa. Se rimaniamo su quel percorso, il nostro futuro si presenta tetro.
Se mai vivremo fino a vederlo.
Ecco perche' e' cosi' importante che ci rendiamo conto che l'umanita' ha una
doppia eredita', che e' stranamente simbolizzata nei due 11 settembre. Il
secolo che ci ha dato sia Gandhi sia Hitler ci ha messo davanti a una scelta
cruciale, se diventare coscienti del potere che si e' mostrato l'11
settembre del 1906. Quello che decidiamo di ricordare - le storie che
scegliamo di raccontare sul nostro passato - avra' un'influenza determinante
su chi diventeremo. Se non ci ricordiamo dell'altro 11 settembre saremo
condannati a una reminiscenza della violenza del 2001. Ma se lo ricordiamo
possiamo riportare la recente tragedia al suo contesto. In questo contesto
la tragedia diventa piu' grande, ma paradossalmente piu' sopportabile, dato
che vedere l'alternativa alla violenza mostra sia l'urgenza, sia la
possibilita' di riuscire infine a fermarla. Se ci ricordiamo di questo,
allora l'11 settembre puo' trasformarsi per il mondo intero in quello che e'
stato per gli studiosi e gli attivisti per la pace, non solo un incubo, ma
una chiamata al risveglio.
*
I. La storia
"La prova del jihad si trova nella disponibilita' a soffrire, non nella
pratica della guerra" (il Corano)

Mohandas Karamchand Gandhi arrivo' a Durban, nel Sudafrica, nel maggio del
1893. Nessuno, meno che mai egli stesso, avrebbe mai immaginato che un
giorno sarebbe stato conosciuto dal mondo come Mahatma, ovvero "la grande
anima". Infatti, all'eta' di 24 anni, era praticamente un fallimento. Non
era riuscito a fare pratica di legge in India - infatti in una penosa
occasione non era riuscito per l'emozione a proferire una sola parola in
tribunale. Cosi' colse al volo la possibilita' di prendere quello che era
poco piu' di un posto di impiegato presso una grande ditta musulmana di
Durban. La maggior parte del mondo sa, grazie al film "Gandhi" di Richard
Attenborough, come fu gettato fuori dal treno senza cerimonie per aver
occupato la prima classe, anche se aveva il biglietto, nelle montagne fra
Durban e Pretoria. Questo evento, soltanto una settimana dopo il suo arrivo
in Sudafrica, affretto' la crisi che avrebbe fatto di lui un capo che alla
fine "impresse il suo spirito e la sua personalita' [sui suoi connazionali]
ad un grado che non ha paralleli nella storia recente". Questa e' la
testimonianza di Jan Christian Smuts, diventato presto il grande rivale di
Gandhi, colui che, dopo aver lottato contro di lui per molti anni, avrebbe
finito per sentirsi "indegno di pulire le scarpe di un cosi' grande uomo"
come Gandhi (3).
Molte persone prima e dopo erano state insultate nella loro umanita' di base
come Gandhi lo era stato quel giorno, ma per qualche motivo questo evento
divenne "la notte piu' creativa della sua vita". Come riporta nella sua
autobiografia, My Experiments with Truth, passo' la notte nella stazione di
montagna di Pietermaritzburg, rabbrividendo per il freddo e lottando molto
piu' intensamente con la sua reazione all'insulto Combattuto tra due
impulsi, non ne segui' nessuno. Egli, infatti, non decise di tornare in
India, ne' di restare (era un avvocato, dopo tutto) per chiamare l'azienda
ferroviaria a rendere conto dell'offesa. Queste due scelte definiscono il
modo in cui la maggior parte di noi risponde a un affronto, o a una
qualunque minaccia; ma in Gandhi la collera e l'umiliazione furono forzati,
come in effetti avvenne, a cercare una soluzione differente, piu' creativa,
mentre si dibatteva tra le due risposte "combatti o scappa". E' come se si
fosse lasciato soltanto un'opzione: rivolgere la sua attenzione - la sua
rabbia - alle questioni molto piu' grandi del pregiudizio razziale,
dell'ingiustizia e dello sfruttamento che non soltanto lui, ma tutti i suoi
compagni indiani subivano nelle mani dei colonizzatori europei. E'
istruttivo oggi guardare indietro a quella lotta storica perche', come il
Buddha compassionevole ha detto, "la gente e' spesso sconsiderata"; svariate
migliaia di persone sono passate attraverso le stesse emozioni, a loro modo
e al loro livello, di fronte a delle ingiustizie che ancora oggi sfigurano i
rapporti umani. Qui c'e' un'interessante caratteristica che illustra i molti
contrasti dell'approccio unico di Gandhi: ritornato in India non avrebbe mai
piu' viaggiato in prima classe, benche' interi vagoni fossero messi a sua
disposizione. Nel 1930, nel momento culminante della lotta per la liberta',
mise l'Impero britannico in ginocchio perche' costringeva gli indiani poveri
a pagare il loro stesso sale; ma egli stesso non faceva neppure uso del sale
a quel tempo, avendovi rinunciato come pratica spirituale e come un'altra
maniera per identificarsi col "piu' povero dei poveri". Per lui quello che
contava era sempre il principio, non cosa egli stesso si trovasse a
guadagnare o a perdere. Un altro segno distintivo dello stile di Gandhi:
malgrado la sua intensa determinazione a combattere ogni manifestazione di
"disumanita' dell'uomo verso l'uomo", Gandhi non cesso' mai di fare il suo
"lavoro quotidiano", come lo chiameremmo oggi, di impegnarsi per risolvere
il caso per cui era stato assunto, ma in quella situazione fece il possibile
per migliorare la condizione degli indiani. Per cominciare si offri' di
insegnare l'inglese a tre dei suoi colleghi gujarati (uno presto si
ritiro').
Dal momento in cui le ripercussioni della lotta di quella notte si
mostrarono, piu' di cinquanta paesi si sarebbero scrollati di dosso il giogo
del colonialismo, almeno in gran parte influenzati dal successo della sua
lotta in India. Da questo punto di vista si potrebbe dire che egli ha messo
fine a un'intera epoca; il che e' tanto piu' stupefacente quanto piu' si
pensa da quanto poco tutto e' cominciato.
Per quanto fosse modesto, questo impulso nel rivolgersi in primo luogo alla
propria comunita' per una crescita autonoma avrebbe condotto, molti anni
piu' tardi, al metodo di lotta sociale piu' caratteristico di Gandhi: il
programma costruttivo.
Torniamo alla nostra storia: nella primavera del 1894, quando fu in grado di
assicurare alle parti in causa di trovare una conciliazione di fronte al
tribunale che non avrebbe rovinato nessuno di loro, Gandhi fece subito
ritorno in India. Ma, come in altre congiunture della sua vita, la storia
gioco' le sue carte: qualcuno del comitato di partenza gli passo' una copia
del "Natal Mercury" con il testo di nuova legislazione all'esame del
Parlamento del Natal. Scosso dal carattere razziale della legge (qualcosa di
tecnicamente illegale sotto l'Impero britannico), Gandhi avverti' i
commercianti del Natal: "Questo e' il primo chiodo della vostra bara". Su
richiesta della comunita acconsenti' a rimanere "un mese in piu'" per
organizzare un qualche tipo di risposta, un mese che si sarebbe protratto
fino a durare venti anni, e un impulso per il servizio pubblico che si
sarebbe dispiegato costantemente fino a diventare il lavoro della sua vita.
Gli anni successivi furono un periodo di sistematica disciplina e intensa
crescita personale. Per quanto riguardava la sua professione, Gandhi
pervenne alla realizzazione che la reale funzione della legge era "unire le
parti lacerate". Egli intraprese un'intensa ricerca spirituale, vagliando
con mente aperta le religioni a lui accessibili a quel tempo. Frequento' le
varie chiese cristiane dell'Africa del Sud, fece ricerche nel Corano, e
insieme un esame delle sue conoscenze della propria tradizione indu' (che a
quel tempo era principalmente subliminale) nella ricerca della verita' che
lo avrebbe personalmente soddisfatto tanto bene da fare di lui un capo piu'
efficace. Alla conclusione della sua vita, anche se Gandhi rimase sempre un
indu', trasse ispirazione da tutte le grandi religioni e incoraggio' la
gente a intraprendere "uno studio riverente" di tutte. E la sua religione
non fu mai qualcosa da praticare soltanto in un certo luogo o in un dato
momento: era la sua stessa vita.
Un giorno nel 1904 un amico giornalista gli passo' una copia di Unto This
Last di Ruskin, mentre stava viaggiando su un treno da Johannesburg, la
capitale del Transvaal, a Durban. Gandhi stava gia' sperimentando la
semplicita' nelle sue condizioni di vita materiale. Divoro' il libro e mise
piede fuori dal treno intenzionato a mettere in pratica le sue "nuove" idee
(doveva gia' essere in parte consapevole che queste erano un aspetto
dell'antica tradizione spirituale in India). Ogni volta che Gandhi scopriva
un qualche principio che ritenesse vero, immediatamente si comportava
attenendosi a esso. La cosa che gli divenne chiara era che per sviluppare il
suo potenziale di servizio doveva condurre una vita di semplicita'
esteriore, preferibilmente in una comunita' di persone che perseguono gli
stessi intenti. Molto presto fu comprata la fattoria Phoenix, messa su con
alcuni amici europei e alcuni dei parenti di Gandhi, compresa sua moglie
Kasturbai, che era venuta dall'India per unirsi a lui. Questa fu il primo di
quattro "ashram", o comunita' spirituali, che Gandhi avrebbe fondato durante
la sua vita per permettere a se stesso e ai suoi piu' stretti seguaci di
sviluppare le proprie capacita' spirituali e avere un quartiere generale per
il satya'graha.
Poi, nell'estate del 1906, ci fu la terribile "rivolta" degli zulu. Come
nella guerra boera di circa sei anni prima, Gandhi ritenne che, dato che
stava facendo appello all'impero per avere sostegno e protezione, non aveva
alcun diritto di rifiutare di servirlo, malgrado le sue convinzioni
pacifiste. La soluzione in entrambi casi consistette nel formare un corpo di
ambulanza. La "rivolta" (in realta' fu un massacro degli zulu) gli mostro',
se gia' non gli fosse stato chiaro, l'orribile volto del razzismo. Non fosse
stato per Gandhi e gli indiani che aveva reclutato, gli zulu feriti
sarebbero stati lasciati a morire. In quella carneficina Gandhi prese due
voti gravosi. Il primo era contro la proprieta' - da quel momento in poi
ogni oggetto di cui si sarebbe servito sarebbe stato considerato come un
attrezzo, non come un possesso (questa si sarebbe trasformata
nell'importante dottrina dell'amministrazione fiduciaria nel suo sistema
economico). E il secondo era l'antico voto del brahmacarya, o continenza
sessuale. D'ora in poi la sua vita non avrebbe avuto come fine il piacere;
essa rappresentava la sua sacra opportunita' per usare ogni capacita' che
aveva al servizio dell'umanita' e di ogni vivente, e il suo esperimento per
conoscere se stesso. Per quanto possa sembrare strano, successivamente ha
sostenuto che questa lotta gli diede una gioia e una pace la cui essenza
egli non aveva "il potere di descrivere".
Siamo ora quasi alla vigilia della storica riunione di settembre.
Attingendo alle sue crescenti discipline spirituali, Gandhi lancio'
un'attenta, graduale campagna per salvare la dignita' e i diritti di 100.000
indiani, "liberi" e lavoratori a contratto, che fino a quel momento avevano
sopportato con disperata rassegnazione i soprusi accumulatisi su di loro. A
tempo debito egli:
- decise di istruire la comunita'. Ogni volta che voleva, per esempio,
ottenere una firma per una petizione avrebbe insistito che il firmatario
capisse esattamente che cosa lui o lei stava firmando e che cosa
significasse. Non permise mai che la pressione della sua impazienza lo
portasse a costringere piuttosto che persuadere gli altri; questo
significava che egli era sempre per sviluppare le capacita' di lunga durata;
- sostenne l'istituzione del Natal Indian Congress, modellato sul piu'
grande Indian National Congress in patria;
- organizzo' la prima petizione mai presentata dagli indiani al parlamento
del Sudafrica;
- fondo' "Indian Opinion", il primo di numerosi giornali che sarebbero
diventati gli organi di comunicazione dei suoi movimenti.
Questi furono, detti brevemente, i passi che condussero alla storica
riunione al Teatro imperiale in Farrier Street, a Johannesburg. Fu un'altra
legge obbrobriosa, questa volta la Asiatic Law Amendement Ordinance del
1906, che in effetti avrebbe ridotto gli indiani e gli altri "asiatici" in
Sudafrica a una condizione semi-illegale. Circa seimila indiani, lavoratori
a contratto e "liberi" commercianti e artigiani, indu' e musulmani, avevano
risposto alla chiamata di Gandhi per resistere all'atto se fosse passato.
Quello che aveva in mente era un impegno alla non-cooperazione: la
disobbedienza civile (il termine coniato da Thoreau che Gandhi
successivamente avrebbe preso in prestito).
Di nuovo, la storia gioco' le sue carte. Un commerciante musulmano, Seth
Haji Habib, si levo' e dichiaro', "con Dio come testimone", che non avrebbe
mai accettato una sottomissione cosi' codarda quale l'obbedire alla
imminente legge. Preso alla sprovvista per un momento, Gandhi si rese conto
che questo era piu' di quanto lui avesse cercato di ottenere. Poiche' il
giuramento non era estraneo al suo sviluppo spirituale, realizzo' che
invocare Dio in una lotta politica ne elevava la serieta' a un nuovo livello
di impegno. Che cosa doveva fare? Quanto a se', non c'era altra scelta che
pronunciare il voto. "C'e' soltanto una via aperta per quelli come me,
morire ma non sottomettersi alla legge. E' abbastanza improbabile, ma anche
se tutti si ritirassero lasciandomi solo ad affrontare il pericolo, io sono
sicuro che non violerei il mio impegno".
Ma la comunita' lo avrebbe seguito? Come abbiamo visto, Gandhi non provo'
mai a portare le masse delle persone ad agire al di la' delle proprie
individuali convinzioni, ma intraprese la strada molto piu' lunga di
istruirle, se necessario, una per una. Aveva spiegato che questa avrebbe
potuto essere una lotta prolungata che avrebbe presentato molte difficolta'
e richiesto sacrifici. Ora lo avrebbero seguito? Venti anni piu' tardi ha
ricordato la memorabile scena: "L'assemblea ascolto' ogni mia parola in
assoluto silenzio. Anche altri capi parlarono. Tutti si soffermarono sulle
proprie responsabilita' e sulle responsabilita' degli ascoltatori... e alla
fine tutti i presenti, in piedi con le mani alzate, giurarono prendendo Dio
a testimone di non sottomettersi all'Ordinanza se fosse diventata una legge.
Non potro' mai dimenticare la scena che e' presente agli occhi della mia
memoria mentre scrivo. L'entusiasmo della comunita' era sconfinato (4).
*
Il satyagraha era nato
La lotta duro' otto anni. Ci furono molti alti e bassi e piu' di un'amara
occasione in cui soltanto la visione di Gandhi mantenne in vita la
resistenza, ma alla fine il governo fu costretto a cancellare gli aspetti
piu' odiosi del Black Act (come gli indiani l'avevano chiamata) e altre
nocive restrizioni. Ma come la comunita' aveva raggiunto il successo era,
sui tempi lunghi, ancora piu' importante; durante la lotta nacque un nuovo
rapporto tra gli indiani e i bianchi in Sudafrica, e oltre quello,
potenzialmente per tutti i gruppi in conflitto.
Ancora una testimonianza del grande avversario di Gandhi, Jan Christian
Smuts: "Per lui era un colpo riuscito. Non era il tocco personale che
desiderava, dato che niente nella procedura di Gandhi e' senza un peculiare
tocco personale. In prigione aveva preparato per me un paio di sandali molto
utile... che ho portato per piu' di un'estate da allora... In ogni modo, era
in quello spirito che abbiamo combattuto le nostre dispute in Sudafrica. Non
c'era odio o malevolenza personale, lo spirito di umanita' non era mai
assente e quando la lotta era aspra c'era sempre un clima in cui potesse
raggiungersi una pace decente" (5).
Una pace decente. Quanti pochi disaccordi si concludono in questo modo!
Probabilmente nessuno capi', benche' Gandhi dovesse certamente sospettarlo,
che questo nuovo metodo di lotta avrebbe condotto a risultati molto piu'
grandi, ben oltre la stadio in cui essi stessi avevano agito. Il premio
Nobel Albert St. Gyeorgyi vide che cosa era accaduto: "Fra le due guerre
mondiali, nei giorni dello splendore del colonialismo, la forza ha regnato
suprema. Aveva un potere suggestivo, e per il piu' debole era naturale
sottomettersi al piu' forte. Allora e' arrivato Gandhi, facendo scappare via
dal suo paese, quasi con le sue sole mani, la piu' grande potenza militare
sulla terra. Ha insegnato al mondo che ci sono cose superiori alla forza,
superiori alla vita stessa; ha dimostrato che la forza aveva perso il suo
potere suggestivo" (6).
*
II. Che cosa e' il satyagraha?
"Ci ha reso impossibile continuare a governare l'India, ma ci ha permesso di
partire senza rancore e senza disonore" (Arnold Toynbee)

Come abbiamo visto, la disponibilita' ad accettare la sofferenza per vincere
qualcuno che sta comportandosi scorrettamente - nominalmente la base stessa
della cristianita' e della civilizzazione occidentale - era cosi' insolita
allora - e per niente usuale anche oggi - che si e' dovuto coniare un
termine interamente nuovo; d'altra parte il termine che verrebbe alla mente,
"resistenza passiva", non e' riuscito a contenere la vitalita' attiva del
metodo nonviolento e potrebbe condurre a una fatale confusione (la
resistenza passiva, nella concezione del tempo, non eliminava l'uso della
violenza).
Satyagraha letteralmente significa "aderire fermamente alla verita'". Ma la
"verita'" (satya) ha piu' vasti significati nelle lingue indiane rispetto
all'italiano (7).
Significa, senza dubbio, la verita' in contrasto con la falsita', ma
significa anche "il reale" in contrasto con l'irreale o il non-esistente, e
inoltre significa "il bene". C'e' un profondo ottimismo al fondo di questo
credo, quello per cui il mondo non puo' basarsi sulla malvagita' (infatti in
Occidente questo sarebbe stato rifiutato come eresia manichea). La
malvagita' esiste, spiegherebbe Gandhi, ma esiste soltanto perche' e fino al
punto in cui la sosteniamo, per la nostra credenza nel suo potere, per il
nostro essere affascinati dalla violenza, per il nostro timore. Si ritiri
questo sostegno e il bene riemergerebbe: come potrebbe essere diversamente?
Questa visione ebbe le sue massime conseguenze nell'enorme lavoro che egli
avrebbe portato avanti in India: "Il mondo si regge sulle solide fondamenta
del satya o della verita'. Asatya che significa falsita' significa anche
non-esistente, e satya o verita' significa anche cio' che e'. Se la falsita'
propriamente non esiste, la sua vittoria e' inammissibile. E la verita' che
e' quella che e' non puo' mai essere distrutta. Questa e' la dottrina del
satyagraha in poche parole" (8).
Ovviamente, nella concezione di Gandhi, il satyagraha e' un genere di forza,
effettivamente l'unico genere che alla fine esiste e funziona nel mondo. Le
azioni nonviolente cambiano la gente, in meglio. Oggi in Occidente, dove
c'e' una netta separazione tra religione e scienza, ci sono coloro che
ancora pensano che la nonviolenza o il satyagraha siano un tipo di concetto
astratto e morale; un "thou shalt not" ("non devi") che vincola
arbitrariamente l'attivista piuttosto che un genere di potere (un "potere
vivente", lo chiamava Gandhi) che influenza l'avversario. Pensare in questi
termini moralistici e' andare a cercare il satyagraha nella direzione
sbagliata. E' possibile dire di piu' circa l'effetto che ha sulla gente
(ancora Gandhi): "Quello che il satyagraha fa in tali casi non e' sopprimere
la ragione ma liberarla dall'inerzia e stabilire la sua sovranita' sopra il
pregiudizio, l'odio e le altre passioni piu' basse. In altre parole, se uno
vuole porlo in termini paradossali, non rende schiava la ragione, ma la
costringe a essere libera" (9).
Non importa quanto noi esseri umani diventiamo brutali e disumanizzati come
risultato del nostro condizionamento, della propaganda a cui siamo stati
esposti, o per chissa' quale altro motivo, la capacita' per quella che
Gandhi chiama "ragione" in questo contesto (e che significa un genere di
consapevolezza umana) e' sempre li', benche' nascosta nelle piu' profonde
pieghe dell'animo umano. Almeno un mio amico deve la sua reale esistenza a
questo fatto. I genitori di Lily erano ebrei polacchi che si unirono alla
Resistenza a Varsavia durante la seconda guerra mondiale. Una notte la
Gestapo fece un raid nel loro appartamento e trovo' dei documenti che
avrebbero significato la loro morte; ma proprio in quel momento il loro
piccolo ando' dal capitano della Gestapo e comincio' a giocare con i tasti
lucidi sulla sua uniforme! I suoi genitori ne furono sconvolti, ma quando il
capitano guardo' in basso verso il bambino smise di parlare e, dopo un lungo
momento che dovette sembrare un'eternita' disse, con una voce completamente
cambiata: "Ho un bambino a casa della sua eta', e mi manca molto". Allora
aggiunse tranquillamente: "Vostro figlio ha salvato la vostra vita", e
ordino' ai suoi uomini di uscire dall'appartamento. La loro figlia Lilian,
oggi un'importante attivista per la pace, nacque dieci anni piu' tardi. Il
satyagraha e' un modo di fare consapevolmente quello che il piccolo ragazzo
dei Kshensky ha fatto in tutta la sua innocenza: rianimare l'umana
consapevolezza dell'altro.
Comportandoci umanamente noi stessi - si ricordi líosservazione di Smuts che
"lo spirito di umanita' non era mai assente" - rianimiamo l'umanita' sopita
dell'altro.
Cosa piuttosto interessante, c'e' ora un'intrigante evidenza scientifica che
questo effetto e' insito nella nostra stessa fisiologia. Gli scienziati
hanno scoperto che tutti possediamo, nel nostro sistema nervoso centrale, i
"neuroni dello specchio" che rispondono allo stato mentale dell'altro, un
poco come un diapason biologico che risuona alle vibrazioni esterne (10). Se
piango, o mostro rabbia - o la reprimo - qualunque cosa possiate sentire o
no coscientemente, una parte di voi stara' comunque rispecchiando la mia
risposta.
Tutto questo non significa che il satyagraha e' facile, o che ha sempre
esattamente gli effetti che vorremmo. Ma significa due cose importanti: 1)
piu' lo usiamo, piu' qualcosa di buono si otterra' in qualche luogo, e 2)
esiste una scienza il cui soggetto e' il massimizzare gli effetti positivi.
Il satyagraha non dipende dalla fortuna, o dalla tolleranza, e' prevedibile.
*
Principi di base
Il satyagraha apparira' in qualche modo differente nelle differenti
situazioni; effettivamente, molti hanno finito per credere che, come Gandhi
professava, non c'e' nessuna situazione dove non possa essere di aiuto.
Sotto queste differenze ci sono dei principi di base che caratterizzerebbero
il satyagraha sui quali la maggior parte degli studiosi e degli attivisti
concorda: ï I mezzi determinano i fini: non possiamo mai usare mezzi
distruttivi come la violenza per raggiungere fini costruttivi come la
democrazia e la pace.
- In questo genere di lotta, noi combattiamo il male, non la persona che lo
compie. In termini cristiani, "noi odiamo il peccato, ma non il peccatore".
Il segno piu' evidente che "il potere della verita'" e' al lavoro e' quando
il tuo avversario finisce per diventare tuo alleato, perfino tuo amico.
Effettivamente, gli attivisti spesso scoprono che piu' si convincono ad
accettare la persona che gli si oppone, piu' efficacemente possono superare
il suo agire sbagliato. E', come Gandhi ha detto in un altro contesto,
"matematicamente proporzionale". Per questo motivo, fatta eccezione di casi
estremi, il satyagrahi (l'uomo o la donna che pratica il satyagraha) opera
sempre con la persuasione, non con la coercizione.
- Noi crediamo che le nostre azioni abbiano piu' conseguenze dei semplici
risultati immediati e visibili cui miriamo. Infatti, come la storia ha
mostrato piu' volte, anche se i nostri sforzi possono fallire nel
raggiungere i risultati che volevamo, riescono a ottenere piu' di quanto ci
aspettassimo. Nel 1953, ai tempi della guerra in Corea, c'era una carestia
in Cina, e un'enorme eccedenza di cibo negli Stati Uniti. Il Fellowship of
Reconcilation (Movimento Internazionale per la Riconciliazione, Mir) inizio'
una campagna per sommergere la Casa Bianca con sacchi di grano in miniatura
e una citazione di Isaia: "Se il nemico e' piu' affamato di te, sfamalo".
Non ci fu una risposta ufficiale dalla Casa Bianca ma venticinque anni piu'
tardi, grazie al Freedom of Information Act, e' stato rivelato che proprio a
quel tempo il Joint Chief of Staff stava cercando di sollecitare il
presidente Eisenhower ad autorizzare un bombardamento lungo il fiume Yalu,
cioe' in territorio cinese, un'azione folle che avrebbe potuto in teoria
precipitare nella terza guerra mondiale. Il presidente invio' un aiutante a
scoprire quanti piccoli sacchi erano stati ricevuti e quando ottenne il
rapporto disse al Joint Chief of Staff: "Signori, 35.000 americani pensano
che dovremmo alimentare i cinesi. Questo non e' certo il momento per
iniziare a bombardarli!". Il disastro fu evitato. Come spiega un biografo di
Gandhi, B. R. Nanda: "Il fatto e' che il satyagraha non e' finalizzato al
raggiungimento di un qualche obiettivo particolare o a schiacciare
l'avversario, ma a regolare le forze in gioco che potrebbero infine condurre
a una nuova equazione; in una tale strategia [e'] perfettamente possibile
perdere tutte le battaglie ed ancora vincere la guerra" (11).
La violenza e' intrinsecamente distruttiva, la nonviolenza ha un'influenza
intrinsecamente costruttiva. Questo significa che a un certo livello la
nonviolenza conduce, in maniera molto attendibile, all'integrazione e alla
comunita', mentre la violenza si muove solo nella direzione di promuovere
l'odio e la divisione. Questa drammatica differenza, tuttavia, non sempre e'
evidente a breve termine; ed ecco perche' la gente non riesce a capire come
mai ci ritroviamo sempre a saltare da crisi in crisi quando proviamo a
"risolvere" i problemi con la violenza. Questa gente non riuscirebbe neanche
a capire che potremmo avvicinarci sempre piu' a un regime di pace e di
creativita' stabili cambiando questi mezzi violenti. Poiche' il satyagraha
funziona prevedibilmente ma non sempre visibilmente - lavora a un livello
causale di pensiero e di azione - trovo conveniente dire che un'azione
riesce, o "funziona", quando mi riferisco agli effetti evidenti a breve
termine, mentre funziona (senza virgolette) quando mi riferisco al modo in
cui agisce sotto la superficie delle situazioni e quindi puo' produrre i
suoi effetti piu' avanti, non essendo sempre evidente il collegamento. In
questi termini, possiamo formulare una legge importante: la nonviolenza a
volte "funziona" e sempre funziona, mentre al contrario la violenza a volte
"funziona" e mai funziona.
L'esercizio della violenza ha sempre un effetto distruttivo sui rapporti
umani anche quando, come a volte accade, raggiunge un certo obiettivo di
breve termine. L'esercizio della nonviolenza, o satyagraha, avvicina sempre
la gente. Cio' spiega perche' Gandhi, dopo cinquanta anni di sperimentazioni
in ogni campo della vita, ha potuto dichiarare che "non ho saputo di nessun
caso in cui abbia fallito". Dove sembrava fallire ha concluso che lui o gli
altri satyagrahi in qualche modo non erano riusciti a rispondere alla sua
difficile sfida. Da un punto di vista piu' lungimirante, poteva dichiarare
che "non c'e' qualcosa come la sconfitta nella nonviolenza. La fine della
violenza e' la piu' sicura sconfitta" (12).
Naturalmente, una lotta satyagraha lascia gli avversari piu' vicini nella
comprensione e con piu' simpatia di quando hanno cominciato. L'eredita'
amara delle molte guerre che furono "vinte" per condurre soltanto a
ulteriori cicli di distruzione - la prima guerra mondiale, il Kosovo, senza
dubbio l'Afghanistan e l'Iraq oggi - non e' il destino delle lotte che sono
vinte con la nonviolenza. Come l'American Friends Service Committee ha
precisato in un utile libretto del 1955 intitolato Speak Truth to Power, sia
l'India sia l'Algeria ottennero l'indipendenza dalle potenze coloniali
europee all'incirca nello stesso periodo, ma la prima lo ha fatto in gran
parte con mezzi nonviolenti e la seconda con mezzi in gran parte violenti. I
risultati furono che le vittime subite furono enormemente piu' grandi in
entrambe le parti del conflitto algerino (gli algerini hanno perso quasi
900.000 persone, mentre l'India, notevolmente piu' grande, ne ha perse
soltanto un migliaio) e i rapporti tra l'Algeria e la Francia sono stati
difficili fino a oggi, mentre l'India e la Gran Bretagna entrarono
immediatamente in un'era di cooperazione e reciproco beneficio.
Lo studioso della pace Kenneth Boulding ha proposto una formula molto utile
per chiarire la differenza: le lotte satyagraha sono basate sul potere
integrativo; le lotte militari sono basate sul potere della minaccia. Come
dice Boulding: "Il potere integrativo, quindi, significa portare il
dissidente nuovamente dentro la comunita'. Le sole sanzioni, o la sola
minaccia, non riusciranno mai a ottenere questo. Se pensiamo al potere
soltanto in termini di potere della minaccia, non arriveremo da nessuna
parte" (13).
Le lotte satyagraha sono enormemente meno costose delle ordinarie lotte
militari non soltanto per la vita umana e il benessere psicologico (il
personale combattente spesso e' profondamente traumatizzato dagli atti
compiuti nel nome del dovere (14)), ma pure per le risorse materiali. La
proposta di legge per creare un Department of Peace nel governo degli Stati
Uniti ha indicato un costo, abbastanza realisticamente, del 2% della spesa
militare. Il preventivo dell'anno in corso per il Nonviolent Peaceforce,
forse la piu' grande operazione di una dozzina circa di organizzazioni che
compongono il Third Party Nonviolent Intervention (Tpni, si veda oltre) e'
di 3,8 milioni di dollari, ovvero un quinto del costo di un singolo aereo da
combattimento F-16 (senza contare i costi stimati dello sviluppo,
dell'armamento, dell'addestramento, ecc.).
A essere corretti, tuttavia, il satyagraha e' in un certo senso molto piu'
costoso della violenza. Ci vuole molto coraggio per affrontare l'ostilita'
con tanto amore quanto ne possiamo raccogliere in noi, e affrontarla senza
armi.
Puo' richiedere piu' coraggio che combattere, come molti soldati oggi stanno
scoprendo quando si rendono conto che i reclutatori li hanno ingannati o
diventano coscienti del loro intimo rifiuto della guerra. In uno scontro
armato i soldati sono innegabilmente coraggiosi, ma il loro e' un coraggio
fisico, derivato spesso dalle loro difese e dalle armi. Essi non tengono in
considerazione il coraggio di rifiutare gli ordini che vanno contro la loro
coscienza, o al contrario resistono alle pressioni sociali della gente
comune. Come un ufficiale militare di alto rango ironizzo' recentemente a
proposito dei generali in pensione che alla fine stavano parlando
pubblicamente contro la guerra in Iraq: "Questi sono uomini che sono
disposti a rischiare le loro vite, ma non le loro carriere". Un satyagrahi
non deve soltanto essere disposto a resistere agli attacchi fisici, se
necessario al rischio della stessa vita, ma inoltre affronta
l'incomprensione e l'odio di un mondo che ancora non ha realizzato che cosa
sia il satyagraha e che cosa spinge qualcuno a offrirsi a esso.
Come Gandhi ha precisato, un vero satyagrahi deve spesso essere preparato
per agire da solo.
*
Note
1. Collected Works of Mahatma Gandhi online (d'ora in poi CWMG), vol. 98, 6
dicembre 1947 - 30 gennaio 1948, articolo 9.
2. Per un approfondimento di questi termini si veda il mio Per un futuro
nonviolento, Milano, Ponte alla Grazie, 2005, specialmente il capitolo 2.
3. Mahatma Gandhi, Reflection on his Life and Work, Bombay, Jaico,
1956-1995, p. 226.
4. M. K. Gandhi, Una guerra senza violenza, Firenze, Lef, 2005, p. 101.
5. Loc. cit.
6. A. S. Gyeorgyi, The Crazy Ape, New York, The Philosophical Library, 1970,
p. 44.
7. "Inglese" nel testo originale (ndt).
8. CWMG, cit. p. 235.
9. Pyarelal, The Epic Fast, Ahmedabad, Navajivan, 1932, p. 35.
10. Cfr. N. Angier, Why Weíre so Nice: Weíre Wired to Cooperate, nel "New
York Times", 23 luglio 2002.
11. "India News", primo ottobre 1994, p. 11.
12. M. K. Gandhi, Toward Lasting Peace, Bombay, Bharatiya Vidya Bhavan,
1966, p. 6.
13. K. E. Boulding, The Three Faces of Power, Newbury Park, CA, Sage, 1989,
p. 250.
14. Una forma riconosciuta dello Post Traumatic Stress Disorder (Ptsd) e'
ora il Perpetration Induced Traumatic Stress (Pits). Si veda P. Laufer,
Mission Rejected, White River Junction, VT, Chelsea Green, 2006, e il
documentario Ground Truth di Patricia Foulkrod.
(Parte prima - Segue)

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1411 del 7 settembre 2006

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