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La nonviolenza e' in cammino. 1406
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1406
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 2 Sep 2006 01:35:25 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1406 del 2 settembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Isabella Camera d'Afflitto ricorda Nagib Mahfuz 2. Peter Laufer: Soldati statunitensi obiettori 3. Anna Cirillo intervista Lea Melandri 4. Ida Dominijanni: Il ministro, la consulta e qualche domanda 5. Dall'8 all'11 settembre un convegno a Pisa 6. Letture: Claudio Economi (a cura di), L'altro in me 7. Riedizioni: Teofilo Folengo, Baldus 8. Riedizioni: John Stuart Mill: Principi di economia politica 9. Luciano Bonfrate: Litania del pacifisti ministeriali 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. LUTTI. ISABELLA CAMERA D'AFFLITTO RICORDA NAGIB MAHFUZ [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2006. Isabella Camera d'Afflitto, docente di letteratura araba moderna e contemporanea all'Universita' "La Sapienza" di Roma, traduttrice, saggista, autrice di numrose pubblicazioni, e' una della maggiori studiose italiane della letteratura e della cultura araba. Nagib Mahfuz (1911-2006), scrittore egiziano, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Dal quotidiano "Il sole 24 ore" riprendiamo la seguente breve scheda biografica: "Nato nel dicembre 1911 in un quartiere popolare del Cairo, laureato in letteratura e filosofia, Mahfouz era considerato il piu' importante interprete della realta' dell'Egitto contemporaneo, grazie anche alle sue attivita' parallele di giornalista e di sceneggiatore cinematografico e televisivo, con all'attivo nella sua carriera oltre una cinquantina tra romanzi e raccolte di racconti. Il successo di pubblico arrivo' per lui relativamente tardi, grazie alla sua opera piu' conosciuta, la 'Trilogia del Cairo' (1956-'57), che racconta delle vicissitudini di una famiglia dalla fine del 1910 fino alla meta' del 1940. 'Sono figlio di due civilta' che in un dato momento della loro storia hanno formato un matrimonio felice. La prima di esse, settemila anni fa, e' la civilta' dei faraoni; la seconda, mille e quattrocento anni fa, e' la civilta' islamica', aveva detto una volta lo scrittore, grande appassionato della storia antica del suo Paese. Quasi sconosciuto in occidente sino all'assegnazione del Nobel (primo autore arabo ad ottenere la massima onoreficenza della letteratura), oggi le sue opere, considerate un affresco dei mutamenti che hanno colpito la societa' egiziana nell'ultimo secolo, sono tradotte in 25 lingue. Di idee politiche liberali, la conquista del Nobel attiro' su di lui le ire degli integralisti islamici egiziani, che accusarono di blasfemia un suo romanzo del 1959, I ragazzi del nostro quartiere, a lungo censurato in Egitto. Mahfouz, gia' anziano, rifiuto' la protezione della polizia, perche' 'potrebbe sconvolgere le mie abitudini quotidiane'. Puntualmente, il 14 ottobre del 1994, mentre stava salendo su un'auto, fu accoltellato alla gola da un estremista, ma miracolosamente si salvo'...". Tra le opere di Nagib Mahfuz tradotte in italiano: Il caffe' degli intrighi, Salerno, Ripostes, 1988; Il nostro quartiere, Milano, Feltrinelli, 1989; Il ladro e i cani, Milano, Feltrinelli, 1989; Tra i due palazzi, Napoli, Pironti, 1989; Vicolo del mortaio, Milano, Feltrinelli, 1989; Il tempo dell'amore, Napoli, Pironti, 1990; Il vicolo del mortaio - I ladri e i cani, Milano, 1991; Il rione dei ragazzi, Genova, Marietti, 1991; Il palazzo del desiderio, Napoli, Pironti, 1991; La via dello zucchero, Napoli, Pironti, 1992; La taverna del gatto nero, Napoli, Pironti, 1993; Il mendico, Napoli, Pironti, 1993; Chiacchiere sul Nilo, Napoli, Pironti, 1994, Principio e fine, Napoli, Pironti, 1994; Il settimo cielo, Napoli, Pironti, 1997; Notti delle mille e una notte, Milano, Feltrinelli, 1997; Echi di un'autobiografia, Pironti, Napoli 1999; L'epopea dei Harafish, Napoli, Pironti, 1999; Miramar, Milano, Feltrinelli, 2000; Akhenaton. Il faraone eretico, Roma, Newton Compton, 2001; Il miraggio, Napoli, Pironti, 2001; La maledizione di Cheope, Roma, Newton Compton, 2001; La battaglia di Tebe, Roma, Newton Compton, 2001; Il tempo dell'amore, Napoli, Pironti, 2003; Rhadopis. La cortigiana del faraone, Roma, Newton & Compton, 2003; Canto di nozze, Milano, Feltrinelli, 2003; Racconti dell'antico Egitto, Roma, Newton & Compton, 2004; La ricerca, Napoli, Pironti, 2005; Canto di nozze, Milano, Feltrinelli, 2006] Il grande vecchio della letteratura araba se n'e' andato, portandosi dietro quasi un secolo di storia egiziana. Lo conoscevo da una quindicina di anni e cercavo di incontrarlo quando mi trovavo al Cairo. Andavo a salutarlo al Farah Boat (La nave della felicita'), uno dei tanti battelli-caffe' che si trovano lungo il Nilo. E ogni volta ero sorpresa di trovarmi davanti un vecchietto sempre piu' esile, e sempre vigile e divertente. Si', perche' Mahfuz, come tanti egiziani aveva uno spiccato senso dell'umorismo e si divertiva a sentire e a raccontare egli stesso le famose barzellette egiziane. Anche l'ultima volta che l'ho visto, a febbraio, se ne stava seduto sempre piu' piccolo in un immenso cappottone grigio, e all'inizio mi sembro' assente, ma dopo qualche minuto lo vidi come al solito partecipare con sagaci battute alla conversazione degli ospiti, anzi dei fedelissimi amici che una o due volte la settimana si occupavano di lui; andavano a prenderlo a casa, dove viveva con l'anziana moglie, e lo portavano al caffe' dove ogni tanto erano ammessi anche ospiti stranieri. Gli stessi amici di sempre, che lo trattavano con devozione piu' che filiale: lo scrittore Gamal Gitani e il poeta Abnudi erano tra i suoi fedeli amici. Non si scherzava soltanto, ma si parlava della situazione internazionale che Mahfuz sembrava conoscere bene. Ricordo la sua battuta sugli occidentali che esportano con le armi la democrazia nel resto del mondo... Ma naturalmente anche sulla situazione egiziana, che invece lo vedeva piu' cauto, soprattutto davanti agli stranieri. Era cosciente della strumentalizzazione a cui poteva andare incontro. Non era la prima volta che si attribuivano allo scrittore dichiarazioni provocatorie, probabile frutto di abili manipolazioni, come quelle di chi lo vedeva di recente troppo vicino alle posizioni dell'universita' islamica di al-Azhar. Ma Mahfuz era sempre stato un grande laico, come tanti, tantissimi arabi. Solo che il laicismo nel mondo arabo non interessa gli occidentali, sempre pronti al facile trinomio arabi/musulmani/integralisti. Al mio ultimo incontro con lo scrittore abbiamo parlato di un suo romanzo che avevo tradotto anni fa, Miramar, e ricordo di avergli ripetuto una frase che gli avevo detto altre volte: "Ya ustadh, hazzak hazzi". Ringraziavo il maestro: "la tua fortuna e' la mia fortuna", riferendomi al fatto che se lui non avesse vinto il Nobel, io, e come me tanti altri arabisti in Europa, non avremmo potuto diffondere la letteratura araba in Occidente, cosi' come stiamo facendo. Per me sarebbe stata un'altra vita e per questo gli saro' per sempre riconoscente. 2. TESTIMONIANZE. PETER LAUFER: SOLDATI STATUNITENSI OBIETTORI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo testo. "Le seguenti testimonianze di soldati statunitensi obiettori rifugiati in Canada sono state raccolte da Peter Laufer del "Sunday Times", e pubblicate il 27 agosto 2006. I dati del Pentagono dicono che circa 40.000 soldati hanno disertato dal 2000 ad oggi, certamente non tutti per rifiuto delle guerre, ma i picchi di 'sparizione' si concentrano attorno agli invii di truppe in Afghanistan e Iraq" (nota di Maria G. Di Rienzo). Peter Laufer e' un apprezzato giornalista indipendente, documentarista e saggista, per la sua attivita' ha ricevuto vari rilevanti riconoscimenti. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Darrell Anderson, First Armored Division, 2-3 Field Artillery, di stanza a Giessen, Germania. Eta': 24 anni. Si trova a Toronto, Canada. Darrell Anderson si e' arruolato prima che la guerra in Iraq cominciasse. "Avevo bisogno di assistenza sanitaria, e di soldi per andare al college, e dovevo prendermi cura della mia figlioletta. Entrare nell'esercito era il solo modo per fare queste cose". Al collo, Darrell porta una catenina con appeso un simbolo pacifista. Dopo aver servito per sette mesi in Iraq, e' tornato a casa coperto dal sangue delle proprie ferite, che gli sono valse l'onorificenza "Purple Heart", ed ha aperto gli occhi. "Quando mi sono arruolato, volevo davvero combattere. Volevo vedere la lotta, essere un eroe. Volevo salvare persone. Volevo proteggere il mio paese". Ma poco dopo il suo arrivo in Iraq, mi dice, ha compreso che gli iracheni non desideravano la sua presenza, e ha udito storie terribili che lo hanno sconvolto. "Gli altri soldati mi raccontavano come avevano picchiato prigionieri sino a farli morire. C'erano questi tre ragazzi e uno diceva: Io l'ho preso a calci da questo lato della testa, mentre lui lo prendeva a calci dall'altro lato, e lui gli tirava pugni, ed e' morto. Erano persone che io conoscevo. Si stavano vantando di questo, di aver battuto un essere umano sino a farlo morire". Darrell lo ripete piu' volte: "Vantarsi di aver picchiato... Sono assassini addestrati ora. I loro amici sono morti in Iraq. Non sono piu' le persone che erano prima di andare la'". Persino le chiacchiere informali divennero difficili da tollerare, per Darrell Anderson. "Odio gli iracheni, dicevano i miei commilitoni, odio questi dannati musulmani. All'inizio ero perplesso, poi ho cominciato a capire. Mi sembrava di stare iniziando ad odiarli anch'io. I miei amici morivano. Che ci faccio qua, mi chiedevo, siamo andati a combattere per il nostro paese ed ora combattiamo semplicemente per restare vivi". Oltre ad essere stato colpito dallo shrapnel di una bomba piazzata sulla strada, Darrell dice di essersi spesso trovato coinvolto in scontri a fuoco. Ma fu il lavoro al posto di blocco ad indurlo a mettere seriamente in questione il suo ruolo. Era di servizio ad un checkpoint a Baghdad: se un'automobile passava un certo punto senza fermarsi, lui e le altre guardie dovevano sparare. "Arriva quest'auto davanti alla mia postazione. Sta tentando di frenare piu' che puo', si vedono le scintille prodotte da freni in cattive condizioni. Tutti i soldati stanno urlando. L'auto e' vicina a me, percio' la responsabilita' e' mia. Io non apro il fuoco. Arriva il superiore: Perche' non spari? Devi sparare! Io rispondo: E' una famiglia. Intanto l'auto era riuscita a fermarsi del tutto. Non vede i bambini sui sedili di dietro?, dico al superiore, Ho fatto la cosa giusta. No, dice lui, non l'hai fatta: la procedura e' aprire il fuoco; se la prossima volta non lo fai ti punisco". Darrell scuote la testa al ricordo. "Continuo a non approvare questa guerra. Non intendo ammazzare innocenti. Non posso uccidere bambini. Non sono queste le cose che mi hanno insegnato mentre crescevo". Mentre osservava le rovine del paesaggio urbano e gli iracheni feriti, Darrell comincio' a comprendere la risposta irachena. "Se qualcuno facesse quelle cose nella mia, di strada, io prenderei un'arma e combattere". Non posso uccidere quella gente. Non sono terroristi. Sono ragazzini di quattordici anni, sono anziani. Noi occupiamo le loro strade. Invadiamo le loro case. Preleviamo persone e le portiamo ad essere torturate ad Abu Ghraib. Facciamo questo a gente innocente. Fermiamo le macchine, sconvolgiamo sistematicamente la vita di ogni giorno. Se facessi questo negli Usa, verrei gettato in prigione". Gli uccellini cinguettano dolcemente mentre Anderson parla, un crudo contrasto con la sua descrizione delle atrocita' in Iraq. "Non ho sparato a nessuno mentre ero a Baghdad. Quando ci mandarono a Najaf con gli obici uccidemmo centinaia e centinaia di persone. Probabilmente in quel modo io stesso ho ucciso centinaia di persone, ma non direttamente, non stando loro di fronte". Darrell venne mandato a casa per natale, convinto che sarebbe stato rispedito in Iraq. Sapeva che non poteva piu' convivere con se stesso se fosse tornato la', ora che sapeva di prima mano cosa stava accadendo giorno dopo giorno. Decise di non partecipare piu' alla guerra ed i suoi genitori, che gia' erano contrari ad essa, sostennero la sua decisione. Il Canada sembrava l'opzione migliore, cosi' dopo il natale del 2004, Darrell guido' l'auto dal Kentucky a Toronto. Ora dice che ha riflettuto molto sul proprio esilio. Non e' preoccupato dell'eventuale deportazione: di recente ha sposato una donna canadese e cio' gli garantira' probabilmente una residenza permanente. Tuttavia, sta pianificando il proprio ritorno negli Usa per questo autunno e si aspetta di essere arrestato quando si presentera' alle autorita' di confine. "La guerra sta continuando. Se torno, e' possibile che questo faccia una differenza. La mia lotta e' contro il governo americano". Non e' solo il lavorare contro la guerra che lo motiva a tornare a casa: "Con gli incubi, e lo stress e i postumi del trauma ho bisogno del sostegno della mia famiglia". Darrell pensa che sara' arrestato per diserzione, ed intende usare il processo e il tempo della sua detenzione per continuare a protestare contro la guerra in Iraq. Immagina che la vista di un imputato che rifiuta la guerra, in un'uniforme coperta di medaglie ottenute proprio in Iraq, possa essere un'indicazione potente. "Non posso fingere che tutto vada bene", dice della sua vita a Toronto, "la guerra continua ad incalzarmi. Da quando sono in Canada, non ho mai dormito senza avere incubi. Questa cosa mi divora. Non che venire in Canada sia stata una perdita di tempo: non ero in grado di affrontare la prigione, allora, mi sarei ucciso. Ero troppo confuso persino per pensarci. Devo molto al Canada, mi ha salvato la vita. Quando tornai dalla guerra e ne parlai, gli americani mi chiamavano traditore; i canadesi mi hanno aiutato mentre ero al punto piu' basso della mia esistenza". * Joshua Key, 43rd Company of Combat Engineers, di stanza a Fort Carson, Colorado. Eta: 28 anni. Si trova a Toronto, Canada "Viaggiavamo lungo l'Eufrate", racconta Joshua Key, riferendomi nei dettagli la scena in cui si imbatte' poco dopo l'invasione Usa, nel marzo 2003, "C'e' una strada che porta diritta alla citta' di Ramadi. Facciamo una curva secca e tutto quello che vedo sono corpi decapitati. Le teste da una parte e i corpi dall'altra e in mezzo le truppe americane. E penso: Oh mio dio, cos'e' successo qui? Com'e' potuto succedere? Scendiamo dal mezzo e ci sono soldati che urlano: Dannazione, ci siamo persi! Io penso: Si', qualcuno si e' perso definitivamente qui, per sempre. Mi ordinano di cercare le prove di uno scontro a fuoco, qualcosa che giustifichi gli iracheni decapitati. Guardo in giro, non vedo niente. Due soldati stanno prendendo a calci le teste, come fossero palloni da football. Io chiudo la bocca, torno indietro, salgo sul carro armato e sbatto il portello e penso: Non posso essere parte di questo. E' follia. Sono venuto a combattere, sono preparato alla guerra, ma questo e' orribile". Joshua e' convinto a tutt'oggi che non vi fosse stato alcuno scontro a fuoco. La scena non riesce ad uscire dalla sua mente: "Diversi miei compagni esaminarono il terreno, cercando bossoli residui. Non c'era niente. Continuo a vedere quelle teste dappertutto. Mi sveglio, e sono li'. Non riesco a dormire molto". Sua moglie, Brandi, annuisce e aggiunge che lo sente piangere durante il sonno. Siamo seduti sulla veranda di una casa di Toronto in cui Key, la moglie e i loro quattro bambini vivono da quando Joshua ha disertato. L'appartamento gli e' stato offerto gratuitamente, da un proprietario che sostiene la causa degli obiettori. Joshua fuma una sigaretta dietro l'altra e beve caffe' mentre parliamo. C'e' della barba appena accennata sul suo volto che pare ancora quello di un ragazzo, i suoi occhi sono stanchi. Mi dice che rigetta l'idea che chi combatte l'occupazione Usa sia un terrorista per definizione. "Li vedevo. Cos'e' un terrorista? Qui c'e' la casa di un uomo, qui c'e' suo figlio, la madre, il padre, la sorella. La casa viene distrutta. I mariti vanno in prigione, e le mogli non sanno neppure dove. Voglio dire, e' gente che viene continuamente umiliata, ha una ragione per quel che fa. Non vorrei che nulla del genere accadesse alla mia, di famiglia, perche' dovrei volerlo per le loro?". Facendo parte delle squadre che pattugliavano le strade irachene, Key riusci' a parlare con la gente. Fu sorpreso dal constatare quanti parlavano inglese, e molto frustrato dal dover seguire le regole militari che gli impedivano di accettare inviti a pranzo o a far visita alle famiglie. "Non sono una perfetta macchina per uccidere. E' qui che ho spezzato le regole. Le ho spezzate avendo una coscienza". E piu' tempo passava in Iraq, piu' questa coscienza si faceva sentire. "Sono stato addestrato ad essere un omicida. Ho imparato tutto sugli agguati, gli esplosive, le mine antiuomo. Diavolo, se vogliamo essere tecnici, di me e' stato fatto un terrorista americano. Sono stato addestrato in tutto quello che un terrorista sa fare". Disertare gli sembro' l'unica alternativa possibile. E lo fece, insiste, soprattutto perche' il suo presidente gli aveva mentito: per lui era ormai ovvio che l'Iraq non era una minaccia per gli Usa. Key ricorda altri episodi che lo tormentano ancora. Faceva parte di un convoglio armato quando un furgone iracheno tento' di sorpassarne la fila. Un uomo della squadra di Joshua Key apri' il fuoco. "Al primo colpo, il furgone comincio' a rallentare, e poi lui ne sparo' un secondo, e quando lo fece, capisci, il furgone esplose. L'ho visto andare in pezzi. Se stava solo andando per i fatti suoi e perche' aveva tentato di passare avanti... non c'erano ragioni, nessuna ragione... Perche' era accaduto, e che senso aveva? Quando lo chiesi mi fu risposto: Non hai visto un bel niente. E nessun altro fece domande". Assegnato alla perquisizione di abitazioni, Key fu subito scioccato da quel lavoro: "Voglio dire, la gente urla, sputa i polmoni da quanto grida, e' traumatico da ambo le parti perche' qualcuno ti sta urlando qualcosa, magari una donna. E tu le urli di rimando, dicendole di buttarsi a terra o di uscire dalla casa. Lei non capisce cosa stai dicendo tu e viceversa. Mi ha distrutto. Eravamo quelli che si portavano via i loro mariti e i loro figli. E non sai neppure come confortarle, perche' non sai cosa dire e come dirlo. Quando gli abitanti erano resi inoffensivi, la casa veniva distrutta. Completamente. Se ci sono armadi chiusi li apri a calci. I soldati si prendono quel che vogliono. Saccheggiano come gli pare". Key stima di aver partecipato a circa cento raid di questo tipo. "Non ho mai trovato niente in nessuna casa. Magari trovavi un fucile, per uso personale. Ma non ho mai scoperto le grosse riserve di armi che si supponeva dovessero esserci. Non ho mai trovato membri del partito Ba'ath, terroristi o insorgenti. Non abbiamo mai scoperto niente del genere". La vita del soldato non era mai stata il sogno di Joshua Key. Viveva a Guthrie, in Oklahoma, e cercava un impiego decente. "All'epoca avevamo due bambini e un terzo in arrivo. Non c'era lavoro li', quindi non c'era futuro. Naturalmente puoi sempre andare da McDonald, ma non ti paghi le bollette con quel lavoro". La locale stazione di reclutamento comincio' a sembrare attraente. Poco dopo aver terminato l'addestramento base, Key fu mandato in zona di guerra. Dopo otto mesi passati in Iraq, ricevette due settimane di licenza negli Usa, dopo di che avrebbe dovuto tornare. Key e sua moglie preferirono fare i bagagli, e fuggire con i loro bambini, nell'intenzione di allontanarsi il piu' possibile dalla base militare in Colorado. La famiglia resto' senza denaro a Filadelfia, e Joshua vi trovo' lavoro come saldatore. Sono vissuti nascondendosi per piu' di un anno, cambiando frequentemente albergo, preoccupati di restare troppo a lungo in un luogo e quindi di attirare l'attenzione. "Ero diventato paranoico", dice Key, e quello fu il momento in cui penso' al Canada. La ricerca fu facile: su internet trovo' tutti i dettagli su coloro che avevano gia' passato il confine e su chi poteva aiutare gli altri. Joshua e Brandi decisero di optare per una nuova vita come canadesi. "George W. Bush dovrebbe essere il primo ad andare in galera.", dice Key, "Il giorno in cui andra' in prigione, io andro' in prigione con lui. Siamo tutti e due colpevoli, se lui finisce dentro posso sopportare di andarci anch'io. Ma questo", conclude ridendo, "non succedera' mai". * Ryan Johnson, 211th Armored Cavalry Regiment, di stanza a Barstow, in California. Eta': 22 anni. Si trova a Toronto, in Canada. "Avevo due scelte: andare in Iraq e distruggere la mia vita, o andare in prigione e distruggerla lo stesso. Percio' ho scelto di venire in Canada". Ryan aveva sentito le storie di quelli che dall'Iraq erano tornati. "Non volevo entrare in quella faccenda". Gli ricordo che, a differenza dell'epoca del Vietnam, non c'e' stata alcuna chiamata di leva quando lui ando' sotto le armi. Non sapeva che il compito dell'esercito e' uccidere persone? "Si', e' vero. Ma allora non capivo cosa significasse uccidere qualcuno o vedere un tuo amico morire. Non ho mai visto morire nessuno. Quando mi sono arruolato l'ho fatto perche' ero povero". Era difficile trovare lavoro nella sua citta', Visalia in California, e pensava in questo modo di potersi pagare il college. Quando Ryan si arruolo' la guerra in Iraq era gia' in corso e gia' mandava a casa i cadaveri dei soldati. "Ho parlato con i reclutatori. Ho chiesto: che possibilita' ci sono che io finisca in Iraq? Mi hanno detto: dipende da che specializzazione scegli. Allora io ho risposto: Quali sono quelle che non mi porteranno in Iraq? Loro hanno snocciolato una lista, e io ne ho scelta una". Ryan Johnson era troppo ingenuo per fare altre domande ai reclutatori dell'esercito, e non mise in discussione le risposte che riceveva. "Avevo vent'anni", dice, un po' sulla difensiva, "Pensavo che in Iraq si stesse ormai ricostruendo. Pensavo che facessimo cose buone la'. Invece stiamo facendo saltare in aria moschee e musei, le case della gente, la cultura. Voglio dire, io neppure lo sapevo che l'Iraq e la Mesopotamia erano praticamente la stessa cosa. Ci sono storia e cultura in Iraq. Credevo di essere abbastanza istruito, anche se non ho finito il liceo, ma non mi e' mai stato insegnato nulla sulla storia e la cultura di altri luoghi. E i soldati che vanno in Iraq non lo fanno perche' sono patriottici, o perche' pensano che quel paese sia una minaccia per noi. La maggior parte va perche' gli e' stato ordinato e perche' i loro compagni ci vanno. Stavo quasi per farlo anch'io, solo perche' i miei commilitoni sono la'". Gli chiedo come si sente a questo proposito, e Ryan diventa pensoso. "Controllo la lista dei caduti ogni giorno", dice infine, "Vado su internet a guardarla per sapere se ci sono i miei amici. Fino ad ora sette persone della mia unita' sono morte, e io ne conoscevo personalmente quattro". Johnson non vuole considerare la possibilita' di tornare negli Usa e di passare del tempo in prigione. "Mi sembra assolutamente folle. Ti mettono in galera per cinque anni perche' hai tentato di non uccidere. Io sapevo che se fossi andato in Iraq avrei ucciso. Magari durante una pattuglia, avrei sparato senza pensare perche' mi sarei detto: O lui o io. E loro si sentono allo stesso modo. Se non uccidiamo questi tizi, pensano, saranno loro ad ammazzare noi". Ryan spera di restare in Canada, di sentire questo paese come la propria casa. Quando arrivo' con l'auto al confine, assieme alla moglie, gli e' stato inaspettatamente dato il benvenuto. "Allungai il documento d'identita' alla donna che era di guardia, ma lei non lo controllo' neppure. Benvenuto in Canada, disse. Se', e' tutto quel che disse. Benvenuto. Allora io dissi grazie, e attraversammo il confine, e mia moglie Jennifer grido' di gioia". Il caso di Ryan Johnson e' ora in appello, poiche' la sua richiesta per l'ottenimento dello status di rifugiato e' stata inizialmente respinta dalle autorita' canadesi. * Ivan Brobeck, 2nd Battalion, 2nd Marine Regiment, di stanza a Camp Lejeune, Nord Carolina. Eta': 21 anni. Si trova a Toronto, in Canada. "Non ce la facevo piu'", dice l'ex caporale Brobeck, "Dovevo andarmene, perche' la mia unita' sarebbe stata mandata in Iraq per la seconda volta, e io non ne potevo piu'". La maggior parte dell'anno 2004 Ivan Brobeck l'ha passata in guerra. Ha combattuto a Falluja, e ha visto i suoi amici morire a causa delle bombe sulle strade. "Tendi ad essere sempre arrabbiato, la', perche' combatti per qualcosa in cui non credi e i tuoi compagni ti muoiono intorno". I suoi racconti di guerra sembrano fuori luogo in questo quieto parco di Toronto. "Durante gli scontri era come se io funzionassi con il pilota automatico. Tendevo solo a sopravvivere. Ho cominciato a pensare a cosa c'era di sbagliato gia' mentre stavo la', ma non l'ho capito veramente se non verso la fine, e poi quando sono stato rimandato a casa". Di nuovo alla base di Camp Lejeune, Brobeck inizio' a riflettere su tutte "le cose orribili che non avrebbero mai dovuto accadere". "Ho visto i pestaggi di prigionieri innocenti. Mi ricordo di quando sentii che qualcosa veniva lanciato dal camion, un mezzo di sette tonnellate, alto poco meno di due metri e mezzo. Avevano gettato giu' un detenuto, che aveva le mani legate dietro la schiena e un sacco in testa, cosi' non aveva potuto far nulla per ripararsi dall'impatto. Comincio' ad aver convulsioni subito dopo la caduta. Gli togliemmo il sacco dalla testa e i suoi occhi erano rovesciati, il naso era pieno di sangue, non riusciva quasi a respirare". Oltre agli abusi sui prigionieri, fu la regolarita' delle uccisioni di civili ai checkpoint a sconvolgere il giovane marine. "Erano i miei amici che lo facevano. La cosa ti veniva presentata cosi': Ehi, oggi tizio e' un po' giu' di corda, ha ucciso un padre di fronte ai bambini. Oppure: Ha ucciso un paio di ragazzini. I marines che facevano queste cose erano i miei amici, le persone con cui parlavo ogni giorno. E' duro sapere che il tuo miglior amico e' un assassino di innocenti". Brobeck comincio' a provare simpatia per il "nemico". "Molte delle persone che ci sparano non sono cattive persone a priori. E' gente che avuto mogli uccise, figli uccisi, e' come se cercassero di compensare questo. Hanno perso tanto, e non hanno l'opportunita' di fare nient'altro". Brobeck era in servizio nei marines da un anno, quando fu mandato in Iraq. "Avevo sempre sentito queste grandi storie sull'esercito Usa, le battaglie vinte e cosi' via. E fra le forze dell'esercito i marines erano i piu' duri, i piu' famosi. Volevo essere dei loro. Ero disposto a rischiare la vita per la causa...", s'interrompe, e infine aggiunge: "se c'e' una causa". Quale sarebbe una causa per cui valga la pena morire?, gli chiedo. "Una causa buona. Ma questa guerra non e' di beneficio a nessuno. Non ne traggono vantaggio gli americani, non ne traggono vantaggio gli iracheni. E' qualcosa per cui nessuno dovrebbe combattere o morire. Vedi, io avevo diciassette anni quando mi sono arruolato, e per tutta l'infanzia non avevo fatto altro che sport o giocare ai videogame. Non prestavo attenzione alle notizie. Tutta quella roba era noiosa, per me. Ma adesso le notizie le so, e di prima mano". Lo scorso luglio, l'unita' di Ivan Brobeck e' ripartita senza di lui. "Il giorno in cui decisi di andarmene seguii l'impulso del momento. Ci avevo pensato a lungo, ma non riuscivo a decidermi, perche' disertare e' una decisione grave, e' come gettare via un bel po' della tua vita. Inoltre, non sapevo dove andare. Quella sera mi confidai con un altro marine. Tu sei stato in Iraq, mi disse, io no: hai le tue ragioni per andartene, e non saro' io a fermarti". La partenza dalla base fu facile: "Andai alla stazione degli autobus, che pero' era chiusa. Passai la notte in un hotel. La mattina dopo feci il mio biglietto per la Virginia. Ero nervoso, perche' l'ora della sveglia, le 5,30, era passata e ormai dovevano essersi accorti che non c'ero piu'. Non andai a casa da mia madre, perche' avevo paura di trovarci la polizia. Andai a stare da un amico". Ventotto giorni dopo, Brobeck si diresse in Canada. Aveva scoperto il sito web di "War Resisters Support Campaign" (Campagna di sostegno per i resistenti alla guerra), un gruppo canadese che organizza gli aiuti ai disertori americani e ora sapeva dove trovare ascolto. "Mi sento piu' libero di quanto mi sia mai sentito in America. La gente e' cosi' gentile in Canada, amichevole. La sola cosa che mi manca sono la mia famiglia e i miei amici. Percio' questa e' l'unica cosa che mi manca degli Usa, alcune persone". Nell'anno passato da quando ha attraversato il confine, Ivan ha incontrato e sposato Lisa. "Il mio paese era qualcosa di cui andare fieri, una volta. Se oggi vai in un'altra nazione e dici che sei americano e' probabile che tu non veda molte facce felici o braccia spalancate, e questo a causa dell'uomo che comanda attualmente. La leadership che abbiamo ha totalmente cancellato qualsiasi rispetto godessimo all'estero. Nel cuore non sono piu' uno statunitense, intendo se questo significa doversi conformare a quanto loro sostengono sulla guerra in Iraq. Non lo sono piu' perche' l'America ha perso il contatto con cio' che e' stata. I padri fondatori resterebbero disgustati se vedessero cos'e' diventata". 3. RIFLESSIONE. ANNA CIRILLO INTERVISTA LEA MELANDRI [Dal sito dell'Universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa sul quotidiano "La repubblica" del 22 agosto 2006. Anna Cirillo scrive sul quotidiano "La repubblica". Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997; Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"] - Anna Cirillo: Lea Melandri, che riflessioni le suscitano gli ultimi episodi di violenza a Milano e a Brescia? - Lea Melandri: Non mi sembrano novita'. Stupro e omicidio, lo dicono le statistiche, sono all'ordine del giorno. * - Anna Cirillo: Come mai questo accanirsi sulle donne? - Lea Melandri: Stupri e omicidi dicevo, ma anche una piu' generale intimidazione che costringe le donne a limitare la propria liberta' fuori dalle mura di casa, fanno parte di una violenza trasversale, che risale alle origini della storia dell'uomo e stenta, dopo millenni, ad emergere alla coscienza. Se ne fa, invece, un problema di culture piu' o meno arretrate. * - Anna Cirillo: E non lo e'? - Lea Melandri: Il dominio maschile non appartiene ad una cultura o ad un'altra ma le attraversa tutte. * - Anna Cirillo: Molte donne si sentono meno libere, la citta' viene percepita come luogo insicuro, soprattutto la sera: e' cosi'? - Lea Melandri: Si', si esce con una certa cautela, con la paura e la diffidenza rispetto a chi si incontra, soprattutto di sera e soprattutto d'estate, quando Milano diventa deserta. E c'e' anche il timore dell'indifferenza degli altri, della mancanza di aiuto e soccorso se succede qualche cosa. Ma quello che piu' preoccupa e' che stupri e violenze passino ormai come normali fatti di cronaca nera. * - Anna Cirillo: Come mai c'e' questa paura e sfiducia? - Lea Melandri: Oggi e' difficile restringere lo sguardo ad un'unica citta' per quel che riguarda la violenza sulle donne. Ma certo e' che e' il rapporto con il tessuto della citta' che conta. C'e' stato un deterioramento delle relazioni sociali, c'e' piu' solitudine, isolamento. C''e' una crisi dei legami familiari, e non si intravede un altro tipo di legame sociale che crei condivisione e solidarieta'. * - Anna Cirillo: Che cosa bisognerebbe fare? - Lea Melandri: Una rivoluzione. La questione uomo-donna, la forma che ha preso piede, segnata dal dominio di un sesso rispetto all'altro, deve essere sottratta al privato e diventare un problema pubblico. Il problema centrale della vita sociale, politica e culturale. * - Anna Cirillo: Ma Milano e' diventata veramente una citta' piu' insicura o no? - Lea Melandri: Il cambiamento piu' grande l'ho avvertito dopo gli anni '70. In quegli anni ci si muoveva nella citta' liberamente, di giorno e di notte, ovunque. La citta' era veramente diventata un luogo di incontro che ha portato chi ci viveva ad impadronirsene. * - Anna Cirillo: La presenza di molti extracomunitari, spesso disperati e senza lavoro, e' un elemento che crea inquietudine in molte donne. Sara' per questo che e' cresciuta la paura? - Lea Melandri: La paura e' cresciuta negli anni, legata al fatto che viviamo in una societa' in grande cambiamento. E la forte presenza di immigrati costituisce certamente un problema. Ma la convivenza tra diversi non deve sempre essere riportata a forme di scontro e conflitto, in cui molti vorrebbero confinarla. Io sono arrivata da un paese emiliano di provincia, di cultura contadina, dove non esisteva l'emancipazione delle donne e la violenza c'era, l'ho vista. La citta' mi ha resa libera. * - Anna Cirillo: Ma lei e' proprio tranquilla quando esce di sera? - Lea Melandri: Non nascondo di avere anche io un certo timore a muovermi per la citta'. Ma non e' una paura legata agli stranieri, a questa popolazione che mi da' un senso di vitalita', quella che c'e' sempre nei fenomeni di migrazione. Quando monto sui tram di sera, e i tram dopo le otto parlano lingue straniere, sento qualcosa che evoca affetti, memorie. Mi ricordo come sono arrivata io, in cerca di un alloggio... * - Anna Cirillo: Che cosa si puo' fare di concreto per cercare di favorire la fiducia a scapito della paura? - Lea Melandri: Bisogna puntare sui processi di socializzazione che richiedono un grande sforzo, anche finanziario, un investimento per creare luoghi, situazioni, momenti in cui la gente si possa incontrare. * - Anna Cirillo: E che succede se la gente si incontra? - Lea Melandri: Crea un tipo di relazione diversa, crea un'alternativa alla solitudine, alla famiglia in crisi. * - Anna Cirillo: Negli anni '70 le donne hanno condotto una dura battaglia contro il maschilismo e per la loro autoderminazione. Oggi tacciono. - Lea Melandri: Mi sembra ingiusto dire questo, soprattutto di Milano dove il 14 gennaio c'e' stata la grande manifestazione "Usciamo dal silenzio", con 250.000 persone. Da li' le donne in alcuni quartieri hanno iniziato a volersi incontrare, in questi mesi ci sono state affollatissime assemblee per discutere di cose che le riguardano direttamente. Questa e' la direzione nella quale bisogna andare. Un modo per combattere la violenza e' creare le condizioni per far uscire le donne di casa veramente, affinche' il loro tempo non sia solo uno sforzo acrobatico tra lavoro e cura della famiglia. * - Anna Cirillo: Carla De Albertis assessore alla salute, chiede la castrazione chimica per i violentatori. - Lea Melandri: Non sono per le punizioni corporali, ne' per l'occhio per occhio. L'abuso che gli uomini hanno esercitato sul corpo femminile non vorrei che fosse applicato su di loro, secondo la legge del taglione. 4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL MINISTRO, LA CONSULTA E QUALCHE DOMANDA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2006. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005] Ripudio della guerra e della pena di morte, rispetto fra stati indipendenti, sostegno alla diffusione di assetti democratici, conformita' alla Costituzione italiana e ai principi di quella (a venire) europea, pluralismo religioso, liberta' di coscienza e di espressione, diritti del minore, parita' dei coniugi. Con la sua "carta dei valori", Giuliano Amato sembra voler ancorare la consulta islamica e la sua presenza nella societa' italiana a una serie di principi democratici. L'intento - lavorare per l'integrazione della comunita' islamica con un percorso dialogico e condiviso - e' apprezzabile e il movente - suscitare una forma di pubblica excusatio, diretta o indiretta, dell'aberrante equazione dell'Ucoii fra stragi israeliane e stragi naziste - anche. Qualche domanda tuttavia si impone, rispetto alla forma, ai contenuti e all'efficacia dell'operazione. Nell'ordine: qual e', formalmente, il tipo di rapporto fra stato italiano e comunita' islamica che il tavolo con la consulta configura? E' legittimo, o non e' autocontraddittorio, chiedere insieme l'adesione al principio della liberta' di coscienza e d'espressione e l'adesione agli altri valori su elencati (nonche' l'autocritica sull'equazione Israele-nazismo)? E qualora la carta venisse accettata e firmata, di che cosa sarebbe garanzia, o che cosa ne garantirebbe l'applicazione? Si sa che, in materia di integrazione multiculturale, ovunque i principi occidentali vacillano e ovunque la loro formalizzazione giuridica mostra insormontabili aporie; ovunque si procede per tentativi e verifiche successivi; ovunque il dibattito pubblico e' stato, negli ultimi venticinque anni, intenso e irrisolto (e quello italiano delle ultime settimane lo ricalca punto per punto con toni alquanto naif). Tuttavia il caso della consulta islamica mette a nudo alcune contraddizioni sulle quali e' bene soffermarsi. In primo luogo: e' legittimo che uno stato laico, basato sulla cittadinanza individuale e sulla rappresentanza politica, tessa rapporti istituzionali con un organismo comunitario basato su una rappresentanza religiosa? Daniele Capezzone denuncia a questo proposito una sorta di "deriva concordataria" dello stato italiano e non gli si puo' dare torto (tanto piu' che in questo caso non c'e' nessun - controverso - articolo 7 della Costituzione ad autorizzarla). In secondo luogo. Se e' non solo lecito, ma dovuto, sanzionare pubblicamente la posizione dell'Ucoii sulla Shoah - che viola un tabu' fondativo della civilta' europea emersa dalla colpa del nazismo, e pertanto e' per la coscienza europea inaccettabile -, e' altrettanto lecito chiedere ai membri di una cultura politica e religiosa diversa dalla nostra l'adesione formale ad alcuni nostri principi giuridici, per quanto basilari? Prendiamo il caso della parita' fra coniugi e del rispetto della dignita' femminile, materia sulla quale concordare con le intenzioni di Giuliano Amato e' piu' che scontato; e tuttavia la strada da lui proposta appare opinabile, perche' assimilativa, e spuntata, perche' non e' con l'adesione formale a una carta di valori che si sradicano strutture culturali e di potere profonde come quelle che attengono ai rapporti fra i sessi. E qui arriviamo al terzo quesito, quello sull'efficacia, ovviamente imprescrutabile, della proposta di Amato, anche nel caso in cui la consulta l'accettasse. Di tentativo in tentativo, la strada del multiculturalismo e' stata fin qui lastricata di molti fallimenti (ma non solo di fallimenti, va tuttavia ricordato). Ne' la soluzione comunitarista ne' quella liberale, ne' Taylor ne' Habermas, hanno dato "la" risposta. Ce n'e' un'altra, non per caso elaborata da alcune studiose femministe e postcolonialiste del problema. Non passa ne' per la rappresentanza e la tutela delle comunita' (che e' sempre rappresentanza e tutela dei piu' forti in ciascuna comunita'), ne' per la difesa astratta delle liberta' individuali (occidentali). Passa per la narrazione, l'elaborazione discorsiva, l'interpretazione degli attriti e dei conflitti che le societa' multiculturali inevitabilmente attivano; passa per la decostruzione, non per la difesa perimetrata delle identita' e delle culture che vi si scontrano. E' un lavoro interminabile, con poche garanzie di legge, ma e' anche il solo attraverso cui nella societa' globale si ricostruiscono sfera pubblica e lingue comuni. 5. INCONTRI. DALL'8 ALL'11 SETTEMBRE UN CONVEGNO A PISA Si svolgera' a Pisa dall'8 all'11 settembre 2006 un convegno internazionale sul tema "Il potere della nonviolenza" nel centenario della nascita del satyagraha (11 settembre 1906). Il convegno e' promosso dalla prestigiosa rivista "Quaderni satyagraha" e dal Centro Gandhi di Pisa; partecipano molte autorevoli personalita' della riflessione e dell'impegno nonviolento. Per informazioni, adesione e partecipazione contattare il Centro Gandhi di Pisa, tel. 3355861242, fax: 1782205126, e-mail: 11settembre.nonviolenza at centrogandhi.it, sito: www.centrogandhi.it 6. LETTURE. CLAUDIO ECONOMI (A CURA DI): L'ALTRO IN ME Claudio Economi (a cura di), L'altro in me. Viaggio attraverso la vita e il pensiero di Edith Stein, Emi, Bologna 2006, pp. 128, euro 10. "Il presente lavoro, interamente elaborato nell'anno scolastico 2004-2005 dagli alunni di una quinta classe del Liceo classico europeo presso il Convitto nazionale di Roma, e' nato dall'esigenza di avvicinare e conoscere alcuni aspetti della complessa personalita' di una delle grandi donne del XX secolo...", cosi' si apre questo libro in cui gli studenti dell'indimenticabile Claudio Economi (1952-2005, straordinario educatore alla pace, ai diritti umani di tutti gli esseri umani, alla mondialita', alla nonviolenza) si accostano alla figura e alla riflessione di Edith Stein. Nella bibliografia sulla grande allieva e collaboratrice di Husserl, assassinata dai nazisti ad Auschwitz, questo lavoro di giovanissimi che si aprono all'ascolto e alla visione di una limpida voce e di un luminoso volto di donna amica della nonviolenza, ci sembra aggiunga qualcosa di commovente - anche in cio' che vi e' di candido e per cosi' dire di necessariamente acerbo. Apre il volume un ricordo di Claudio Economi scritto da Antonio Nanni, che ne fu grande amico e insieme a lui scrisse libri rilevanti per una pedagogia della pace. 7. RIEDIZIONI. TEOFILO FOLENGO: BALDUS Teofilo Folengo, Baldus, Utet, Torino 1997, 2006, 2 voll. per complessive pp. 1102, euro 25,80. Un'eccellente edizione a cura di Mario Chiesa, con traduzione a fronte ed ottimo apparato. Ma forse Teofilo Folengo andrebbe letto cosi': prescindendo dalla versione italiana e gettandosi nel suo maccheronico come ci si tufferebbe nel mare. Poi si comincia a menar bracciate e a respirare. Cosi' Marx scrisse di aver imparato lo spagnolo tuffandosi nel Chisciotte, e cosi' Tagore l'inglese tuffandosi in Dickens. Dovremmo leggere Teofilo Folengo con una sorta di sguardo secondo, con un di piu' di piacere e leggerezza, e con un di piu' di filologia e attenzione. O forse dovremmo solo abbandonarci alla sua musica ebbra ed esatta, corposa e sottile, e solo allora - dopo molto remigare - cominci a sentire per cosi' dire la struttura della forma sonata e l'apertura che se ne sprigiona, e la forma vera della vita, colta con la stessa sincerita' e il medesimo struggimento che senti talvolta in Mozart, o in un punto preciso, o due, della Carmen di Bizet. 8. RIEDIZIONI. JOHN STUART MILL: PRINCIPI DI ECONOMIA POLITICA John Stuart Mill: Principi di economia politica, Utet, Torino 1983, Istituto geografico De Agostini - Milano Finanza Editori, Novara-Milano 2006, 2 voll. per complessive pp. 1280, euro 12,90 + 12,90 (in supplemento a "Milano Finanza"). A cura di Biancamaria Fontana e con una appassionata e appassionante introduzione di Giacomo Becattini, una delle opere-chiave del filosofo della liberta' e della lotta contro l'oppressione delle donne (di cui non si raccomandera' mai abbastanza la rilettura di alcuni folgoranti saggi e di quell'autobiografia che lumeggia anche una temperie culturale e un ambiente familiare e un impegno civile il cui fascino nella memoria non si offusca). 9. LE ULTIME COSE. LUCIANO BONFRATE: LITANIA DEI PACIFISTI MINISTERIALI "Siamo tutti per la pace, proruppe allora il Ministro della guerra" (Cronache di questa antica citta' di Urganda, libro ultimo, cap. 666) I pacifisti ministeriali fanno belle passeggiate in cui piangon le persone da lor stessi assassinate. I pacifisti ministeriali son dotati di crivello: della guerra san discerner cio' che e' brutto e cio' che e' bello. I pacifisti ministeriali sono furbi come volpi: e distinguono chi e' vivo da chi attrasse troppi colpi. I pacifisti ministeriali sono forti come tori: e sopportano assai bene le altrui morti ed i dolori. I pacifisti ministeriali, senza se e senza ma, in serrati marcian ranghi verso dove il Leader sa. I pacifisti ministeriali fan le guerre umanitarie e le stragi loro sono sempre giuste e necessarie. I pacifisti ministeriali son puliti ed eleganti quando premono il grilletto prima indossano i bei guanti. I pacifisti ministeriali alalazano giulivi dopo data una sfoltita all'esubero dei vivi. I pacifisti ministeriali sanno stare nel bel mondo, non i luridi migranti che una spinta e vanno a fondo. I pacifisti ministeriali fanno belle passeggiate in cui piangon le persone da lor stessi assassinate. 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1406 del 2 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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