La nonviolenza e' in cammino. 1406



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1406 del 2 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Isabella Camera d'Afflitto ricorda Nagib Mahfuz
2. Peter Laufer: Soldati statunitensi obiettori
3. Anna Cirillo intervista Lea Melandri
4. Ida Dominijanni: Il ministro, la consulta e qualche domanda
5. Dall'8 all'11 settembre un convegno a Pisa
6. Letture: Claudio Economi (a cura di), L'altro in me
7. Riedizioni: Teofilo Folengo, Baldus
8. Riedizioni: John Stuart Mill: Principi di economia politica
9. Luciano Bonfrate: Litania del pacifisti ministeriali
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. LUTTI. ISABELLA CAMERA D'AFFLITTO RICORDA NAGIB MAHFUZ
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2006.
Isabella Camera d'Afflitto, docente di letteratura araba moderna e
contemporanea all'Universita' "La Sapienza" di Roma, traduttrice, saggista,
autrice di numrose pubblicazioni, e' una della maggiori studiose italiane
della letteratura e della cultura araba.
Nagib Mahfuz (1911-2006), scrittore egiziano, premio Nobel per la
letteratura nel 1988. Dal quotidiano "Il sole 24 ore" riprendiamo la
seguente breve scheda biografica: "Nato nel dicembre 1911 in un quartiere
popolare del Cairo, laureato in letteratura e filosofia, Mahfouz era
considerato il piu' importante interprete della realta' dell'Egitto
contemporaneo, grazie anche alle sue attivita' parallele di giornalista e di
sceneggiatore cinematografico e televisivo, con all'attivo nella sua
carriera oltre una cinquantina tra romanzi e raccolte di racconti. Il
successo di pubblico arrivo' per lui relativamente tardi, grazie alla sua
opera piu' conosciuta, la 'Trilogia del Cairo' (1956-'57), che racconta
delle vicissitudini di una famiglia dalla fine del 1910 fino alla meta' del
1940. 'Sono figlio di due civilta' che in un dato momento della loro storia
hanno formato un matrimonio felice. La prima di esse, settemila anni fa, e'
la civilta' dei faraoni; la seconda, mille e quattrocento anni fa, e' la
civilta' islamica', aveva detto una volta lo scrittore, grande appassionato
della storia antica del suo Paese. Quasi sconosciuto in occidente sino
all'assegnazione del Nobel (primo autore arabo ad ottenere la massima
onoreficenza della letteratura), oggi le sue opere, considerate un affresco
dei mutamenti che hanno colpito la societa' egiziana nell'ultimo secolo,
sono tradotte in 25 lingue. Di idee politiche liberali, la conquista del
Nobel attiro' su di lui le ire degli integralisti islamici egiziani, che
accusarono di blasfemia un suo romanzo del 1959, I ragazzi del nostro
quartiere, a lungo censurato in Egitto. Mahfouz, gia' anziano, rifiuto' la
protezione della polizia, perche' 'potrebbe sconvolgere le mie abitudini
quotidiane'. Puntualmente, il 14 ottobre del 1994, mentre stava salendo su
un'auto, fu accoltellato alla gola da un estremista, ma miracolosamente si
salvo'...". Tra le opere di Nagib Mahfuz tradotte in italiano: Il caffe'
degli intrighi, Salerno, Ripostes, 1988; Il nostro quartiere, Milano,
Feltrinelli, 1989; Il ladro e i cani, Milano, Feltrinelli, 1989; Tra i due
palazzi, Napoli, Pironti, 1989; Vicolo del mortaio, Milano, Feltrinelli,
1989; Il tempo dell'amore, Napoli, Pironti, 1990; Il vicolo del mortaio - I
ladri e i cani, Milano, 1991; Il rione dei ragazzi, Genova, Marietti, 1991;
Il palazzo del desiderio, Napoli, Pironti, 1991; La via dello zucchero,
Napoli, Pironti, 1992; La taverna del gatto nero, Napoli, Pironti, 1993; Il
mendico, Napoli, Pironti, 1993; Chiacchiere sul Nilo, Napoli, Pironti, 1994,
Principio e fine, Napoli, Pironti, 1994; Il settimo cielo, Napoli, Pironti,
1997; Notti delle mille e una notte, Milano, Feltrinelli, 1997; Echi di
un'autobiografia, Pironti, Napoli 1999; L'epopea dei Harafish, Napoli,
Pironti, 1999; Miramar, Milano, Feltrinelli, 2000; Akhenaton. Il faraone
eretico, Roma, Newton Compton, 2001; Il miraggio, Napoli, Pironti, 2001; La
maledizione di Cheope, Roma, Newton Compton, 2001; La battaglia di Tebe,
Roma, Newton Compton, 2001; Il tempo dell'amore, Napoli, Pironti, 2003;
Rhadopis. La cortigiana del faraone, Roma, Newton & Compton, 2003; Canto di
nozze, Milano, Feltrinelli, 2003; Racconti dell'antico Egitto, Roma, Newton
& Compton, 2004; La ricerca, Napoli, Pironti, 2005; Canto di nozze, Milano,
Feltrinelli, 2006]

Il grande vecchio della letteratura araba se n'e' andato, portandosi dietro
quasi un secolo di storia egiziana. Lo conoscevo da una quindicina di anni e
cercavo di incontrarlo quando mi trovavo al Cairo. Andavo a salutarlo al
Farah Boat (La nave della felicita'), uno dei tanti battelli-caffe' che si
trovano lungo il Nilo. E ogni volta ero sorpresa di trovarmi davanti un
vecchietto sempre piu' esile, e sempre vigile e divertente. Si', perche'
Mahfuz, come tanti egiziani aveva uno spiccato senso dell'umorismo e si
divertiva a sentire e a raccontare egli stesso le famose barzellette
egiziane. Anche l'ultima volta che l'ho visto, a febbraio, se ne stava
seduto sempre piu' piccolo in un immenso cappottone grigio, e all'inizio mi
sembro' assente, ma dopo qualche minuto lo vidi come al solito partecipare
con sagaci battute alla conversazione degli ospiti, anzi dei fedelissimi
amici che una o due volte la settimana si occupavano di lui; andavano a
prenderlo a casa, dove viveva con l'anziana moglie, e lo portavano al caffe'
dove ogni tanto erano ammessi anche ospiti stranieri. Gli stessi amici di
sempre, che lo trattavano con devozione piu' che filiale: lo scrittore Gamal
Gitani e il poeta Abnudi erano tra i suoi fedeli amici.
Non si scherzava soltanto, ma si parlava della situazione internazionale che
Mahfuz sembrava conoscere bene. Ricordo la sua battuta sugli occidentali che
esportano con le armi la democrazia nel resto del mondo... Ma naturalmente
anche sulla situazione egiziana, che invece lo vedeva piu' cauto,
soprattutto davanti agli stranieri. Era cosciente della strumentalizzazione
a cui poteva andare incontro. Non era la prima volta che si attribuivano
allo scrittore dichiarazioni provocatorie, probabile frutto di abili
manipolazioni, come quelle di chi lo vedeva di recente troppo vicino alle
posizioni dell'universita' islamica di al-Azhar. Ma Mahfuz era sempre stato
un grande laico, come tanti, tantissimi arabi. Solo che il laicismo nel
mondo arabo non interessa gli occidentali, sempre pronti al facile trinomio
arabi/musulmani/integralisti.
Al mio ultimo incontro con lo scrittore abbiamo parlato di un suo romanzo
che avevo tradotto anni fa, Miramar, e ricordo di avergli ripetuto una frase
che gli avevo detto altre volte: "Ya ustadh, hazzak hazzi". Ringraziavo il
maestro: "la tua fortuna e' la mia fortuna", riferendomi al fatto che se lui
non avesse vinto il Nobel, io, e come me tanti altri arabisti in Europa, non
avremmo potuto diffondere la letteratura araba in Occidente, cosi' come
stiamo facendo. Per me sarebbe stata un'altra vita e per questo gli saro'
per sempre riconoscente.

2. TESTIMONIANZE. PETER LAUFER: SOLDATI STATUNITENSI OBIETTORI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione questo testo. "Le seguenti
testimonianze di soldati statunitensi obiettori rifugiati in Canada sono
state raccolte da Peter Laufer del "Sunday Times", e pubblicate il 27 agosto
2006. I dati del Pentagono dicono che circa 40.000 soldati hanno disertato
dal 2000 ad oggi, certamente non tutti per rifiuto delle guerre, ma i picchi
di 'sparizione' si concentrano attorno agli invii di truppe in Afghanistan e
Iraq" (nota di Maria G. Di Rienzo).
Peter Laufer e' un apprezzato giornalista indipendente, documentarista e
saggista, per la sua attivita' ha ricevuto vari rilevanti riconoscimenti.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Darrell Anderson, First Armored Division, 2-3 Field Artillery, di stanza a
Giessen, Germania. Eta': 24 anni. Si trova a Toronto, Canada.
Darrell Anderson si e' arruolato prima che la guerra in Iraq cominciasse.
"Avevo bisogno di assistenza sanitaria, e di soldi per andare al college, e
dovevo prendermi cura della mia figlioletta. Entrare nell'esercito era il
solo modo per fare queste cose". Al collo, Darrell porta una catenina con
appeso un simbolo pacifista. Dopo aver servito per sette mesi in Iraq, e'
tornato a casa coperto dal sangue delle proprie ferite, che gli sono valse
l'onorificenza "Purple Heart", ed ha aperto gli occhi.
"Quando mi sono arruolato, volevo davvero combattere. Volevo vedere la
lotta, essere un eroe. Volevo salvare persone. Volevo proteggere il mio
paese". Ma poco dopo il suo arrivo in Iraq, mi dice, ha compreso che gli
iracheni non desideravano la sua presenza, e ha udito storie terribili che
lo hanno sconvolto.
"Gli altri soldati mi raccontavano come avevano picchiato prigionieri sino a
farli morire. C'erano questi tre ragazzi e uno diceva: Io l'ho preso a calci
da questo lato della testa, mentre lui lo prendeva a calci dall'altro lato,
e lui gli tirava pugni, ed e' morto. Erano persone che io conoscevo. Si
stavano vantando di questo, di aver battuto un essere umano sino a farlo
morire". Darrell lo ripete piu' volte: "Vantarsi di aver picchiato... Sono
assassini addestrati ora. I loro amici sono morti in Iraq. Non sono piu' le
persone che erano prima di andare la'".
Persino le chiacchiere informali divennero difficili da tollerare, per
Darrell Anderson. "Odio gli iracheni, dicevano i miei commilitoni, odio
questi dannati musulmani. All'inizio ero perplesso, poi ho cominciato a
capire. Mi sembrava di stare iniziando ad odiarli anch'io. I miei amici
morivano. Che ci faccio qua, mi chiedevo, siamo andati a combattere per il
nostro paese ed ora combattiamo semplicemente per restare vivi".
Oltre ad essere stato colpito dallo shrapnel di una bomba piazzata sulla
strada, Darrell dice di essersi spesso trovato coinvolto in scontri a fuoco.
Ma fu il lavoro al posto di blocco ad indurlo a mettere seriamente in
questione il suo ruolo. Era di servizio ad un checkpoint a Baghdad: se
un'automobile passava un certo punto senza fermarsi, lui e le altre guardie
dovevano sparare. "Arriva quest'auto davanti alla mia postazione. Sta
tentando di frenare piu' che puo', si vedono le scintille prodotte da freni
in cattive condizioni. Tutti i soldati stanno urlando. L'auto e' vicina a
me, percio' la responsabilita' e' mia. Io non apro il fuoco. Arriva il
superiore: Perche' non spari? Devi sparare! Io rispondo: E' una famiglia.
Intanto l'auto era riuscita a fermarsi del tutto. Non vede i bambini sui
sedili di dietro?, dico al superiore, Ho fatto la cosa giusta. No, dice lui,
non l'hai fatta: la procedura e' aprire il fuoco; se la prossima volta non
lo fai ti punisco".
Darrell scuote la testa al ricordo. "Continuo a non approvare questa guerra.
Non intendo ammazzare innocenti. Non posso uccidere bambini. Non sono queste
le cose che mi hanno insegnato mentre crescevo". Mentre osservava le rovine
del paesaggio urbano e gli iracheni feriti, Darrell comincio' a comprendere
la risposta irachena. "Se qualcuno facesse quelle cose nella mia, di strada,
io prenderei un'arma e combattere". Non posso uccidere quella gente. Non
sono terroristi. Sono ragazzini di quattordici anni, sono anziani. Noi
occupiamo le loro strade. Invadiamo le loro case. Preleviamo persone e le
portiamo ad essere torturate ad Abu Ghraib. Facciamo questo a gente
innocente. Fermiamo le macchine, sconvolgiamo sistematicamente la vita di
ogni giorno. Se facessi questo negli Usa, verrei gettato in prigione".
Gli uccellini cinguettano dolcemente mentre Anderson parla, un crudo
contrasto con la sua descrizione delle atrocita' in Iraq. "Non ho sparato a
nessuno mentre ero a Baghdad. Quando ci mandarono a Najaf con gli obici
uccidemmo centinaia e centinaia di persone. Probabilmente in quel modo io
stesso ho ucciso centinaia di persone, ma non direttamente, non stando loro
di fronte".
Darrell venne mandato a casa per natale, convinto che sarebbe stato
rispedito in Iraq. Sapeva che non poteva piu' convivere con se stesso se
fosse tornato la', ora che sapeva di prima mano cosa stava accadendo giorno
dopo giorno. Decise di non partecipare piu' alla guerra ed i suoi genitori,
che gia' erano contrari ad essa, sostennero la sua decisione. Il Canada
sembrava l'opzione migliore, cosi' dopo il natale del 2004, Darrell guido'
l'auto dal Kentucky a Toronto.
Ora dice che ha riflettuto molto sul proprio esilio. Non e' preoccupato
dell'eventuale deportazione: di recente ha sposato una donna canadese e cio'
gli garantira' probabilmente una residenza permanente. Tuttavia, sta
pianificando il proprio ritorno negli Usa per questo autunno e si aspetta di
essere arrestato quando si presentera' alle autorita' di confine. "La guerra
sta continuando. Se torno, e' possibile che questo faccia una differenza. La
mia lotta e' contro il governo americano". Non e' solo il lavorare contro la
guerra che lo motiva a tornare a casa: "Con gli incubi, e lo stress e i
postumi del trauma ho bisogno del sostegno della mia famiglia". Darrell
pensa che sara' arrestato per diserzione, ed intende usare il processo e il
tempo della sua detenzione per continuare a protestare contro la guerra in
Iraq. Immagina che la vista di un imputato che rifiuta la guerra, in
un'uniforme coperta di medaglie ottenute proprio in Iraq, possa essere
un'indicazione potente.
"Non posso fingere che tutto vada bene", dice della sua vita a Toronto, "la
guerra continua ad incalzarmi. Da quando sono in Canada, non ho mai dormito
senza avere incubi. Questa cosa mi divora. Non che venire in Canada sia
stata una perdita di tempo: non ero in grado di affrontare la prigione,
allora, mi sarei ucciso. Ero troppo confuso persino per pensarci. Devo molto
al Canada, mi ha salvato la vita. Quando tornai dalla guerra e ne parlai,
gli americani mi chiamavano traditore; i canadesi mi hanno aiutato mentre
ero al punto piu' basso della mia esistenza".
*
Joshua Key, 43rd Company of Combat Engineers, di stanza a Fort Carson,
Colorado. Eta: 28 anni. Si trova a Toronto, Canada
"Viaggiavamo lungo l'Eufrate", racconta Joshua Key, riferendomi nei dettagli
la scena in cui si imbatte' poco dopo l'invasione Usa, nel marzo 2003, "C'e'
una strada che porta diritta alla citta' di Ramadi. Facciamo una curva secca
e tutto quello che vedo sono corpi decapitati. Le teste da una parte e i
corpi dall'altra e in mezzo le truppe americane. E penso: Oh mio dio, cos'e'
successo qui? Com'e' potuto succedere? Scendiamo dal mezzo e ci sono soldati
che urlano: Dannazione, ci siamo persi! Io penso: Si', qualcuno si e' perso
definitivamente qui, per sempre. Mi ordinano di cercare le prove di uno
scontro a fuoco, qualcosa che giustifichi gli iracheni decapitati. Guardo in
giro, non vedo niente. Due soldati stanno prendendo a calci le teste, come
fossero palloni da football. Io chiudo la bocca, torno indietro, salgo sul
carro armato e sbatto il portello e penso: Non posso essere parte di questo.
E' follia. Sono venuto a combattere, sono preparato alla guerra, ma questo
e' orribile".
Joshua e' convinto a tutt'oggi che non vi fosse stato alcuno scontro a
fuoco. La scena non riesce ad uscire dalla sua mente: "Diversi miei compagni
esaminarono il terreno, cercando bossoli residui. Non c'era niente. Continuo
a vedere quelle teste dappertutto. Mi sveglio, e sono li'. Non riesco a
dormire molto".
Sua moglie, Brandi, annuisce e aggiunge che lo sente piangere durante il
sonno. Siamo seduti sulla veranda di una casa di Toronto in cui Key, la
moglie e i loro quattro bambini vivono da quando Joshua ha disertato.
L'appartamento gli e' stato offerto gratuitamente, da un proprietario che
sostiene la causa degli obiettori. Joshua fuma una sigaretta dietro l'altra
e beve caffe' mentre parliamo. C'e' della barba appena accennata sul suo
volto che pare ancora quello di un ragazzo, i suoi occhi sono stanchi. Mi
dice che rigetta l'idea che chi combatte l'occupazione Usa sia un terrorista
per definizione. "Li vedevo. Cos'e' un terrorista? Qui c'e' la casa di un
uomo, qui c'e' suo figlio, la madre, il padre, la sorella. La casa viene
distrutta. I mariti vanno in prigione, e le mogli non sanno neppure dove.
Voglio dire, e' gente che viene continuamente umiliata, ha una ragione per
quel che fa. Non vorrei che nulla del genere accadesse alla mia, di
famiglia, perche' dovrei volerlo per le loro?".
Facendo parte delle squadre che pattugliavano le strade irachene, Key
riusci' a parlare con la gente. Fu sorpreso dal constatare quanti parlavano
inglese, e molto frustrato dal dover seguire le regole militari che gli
impedivano di accettare inviti a pranzo o a far visita alle famiglie. "Non
sono una perfetta macchina per uccidere. E' qui che ho spezzato le regole.
Le ho spezzate avendo una coscienza". E piu' tempo passava in Iraq, piu'
questa coscienza si faceva sentire.
"Sono stato addestrato ad essere un omicida. Ho imparato tutto sugli
agguati, gli esplosive, le mine antiuomo. Diavolo, se vogliamo essere
tecnici, di me e' stato fatto un terrorista americano. Sono stato addestrato
in tutto quello che un terrorista sa fare". Disertare gli sembro' l'unica
alternativa possibile. E lo fece, insiste, soprattutto perche' il suo
presidente gli aveva mentito: per lui era ormai ovvio che l'Iraq non era una
minaccia per gli Usa.
Key ricorda altri episodi che lo tormentano ancora. Faceva parte di un
convoglio armato quando un furgone iracheno tento' di sorpassarne la fila.
Un uomo della squadra di Joshua Key apri' il fuoco. "Al primo colpo, il
furgone comincio' a rallentare, e poi lui ne sparo' un secondo, e quando lo
fece, capisci, il furgone esplose. L'ho visto andare in pezzi. Se stava solo
andando per i fatti suoi e perche' aveva tentato di passare avanti... non
c'erano ragioni, nessuna ragione... Perche' era accaduto, e che senso aveva?
Quando lo chiesi mi fu risposto: Non hai visto un bel niente. E nessun altro
fece domande".
Assegnato alla perquisizione di abitazioni, Key fu subito scioccato da quel
lavoro: "Voglio dire, la gente urla, sputa i polmoni da quanto grida, e'
traumatico da ambo le parti perche' qualcuno ti sta urlando qualcosa, magari
una donna. E tu le urli di rimando, dicendole di buttarsi a terra o di
uscire dalla casa. Lei non capisce cosa stai dicendo tu e viceversa. Mi ha
distrutto. Eravamo quelli che si portavano via i loro mariti e i loro figli.
E non sai neppure come confortarle, perche' non sai cosa dire e come dirlo.
Quando gli abitanti erano resi inoffensivi, la casa veniva distrutta.
Completamente. Se ci sono armadi chiusi li apri a calci. I soldati si
prendono quel che vogliono. Saccheggiano come gli pare".
Key stima di aver partecipato a circa cento raid di questo tipo. "Non ho mai
trovato niente in nessuna casa. Magari trovavi un fucile, per uso personale.
Ma non ho mai scoperto le grosse riserve di armi che si supponeva dovessero
esserci. Non ho mai trovato membri del partito Ba'ath, terroristi o
insorgenti. Non abbiamo mai scoperto niente del genere".
La vita del soldato non era mai stata il sogno di Joshua Key. Viveva a
Guthrie, in Oklahoma, e cercava un impiego decente. "All'epoca avevamo due
bambini e un terzo in arrivo. Non c'era lavoro li', quindi non c'era futuro.
Naturalmente puoi sempre andare da McDonald, ma non ti paghi le bollette con
quel lavoro". La locale stazione di reclutamento comincio' a sembrare
attraente. Poco dopo aver terminato l'addestramento base, Key fu mandato in
zona di guerra.
Dopo otto mesi passati in Iraq, ricevette due settimane di licenza negli
Usa, dopo di che avrebbe dovuto tornare. Key e sua moglie preferirono fare i
bagagli, e fuggire con i loro bambini, nell'intenzione di allontanarsi il
piu' possibile dalla base militare in Colorado. La famiglia resto' senza
denaro a Filadelfia, e Joshua vi trovo' lavoro come saldatore. Sono vissuti
nascondendosi per piu' di un anno, cambiando frequentemente albergo,
preoccupati di restare troppo a lungo in un luogo e quindi di attirare
l'attenzione. "Ero diventato paranoico", dice Key, e quello fu il momento in
cui penso' al Canada.
La ricerca fu facile: su internet trovo' tutti i dettagli su coloro che
avevano gia' passato il confine e su chi poteva aiutare gli altri. Joshua e
Brandi decisero di optare per una nuova vita come canadesi.
"George W. Bush dovrebbe essere il primo ad andare in galera.", dice Key,
"Il giorno in cui andra' in prigione, io andro' in prigione con lui. Siamo
tutti e due colpevoli, se lui finisce dentro posso sopportare di andarci
anch'io. Ma questo", conclude ridendo, "non succedera' mai".
*
Ryan Johnson, 211th Armored Cavalry Regiment, di stanza a Barstow, in
California. Eta': 22 anni. Si trova a Toronto, in Canada.
"Avevo due scelte: andare in Iraq e distruggere la mia vita, o andare in
prigione e distruggerla lo stesso. Percio' ho scelto di venire in Canada".
Ryan aveva sentito le storie di quelli che dall'Iraq erano tornati. "Non
volevo entrare in quella faccenda".
Gli ricordo che, a differenza dell'epoca del Vietnam, non c'e' stata alcuna
chiamata di leva quando lui ando' sotto le armi. Non sapeva che il compito
dell'esercito e' uccidere persone? "Si', e' vero. Ma allora non capivo cosa
significasse uccidere qualcuno o vedere un tuo amico morire. Non ho mai
visto morire nessuno. Quando mi sono arruolato l'ho fatto perche' ero
povero". Era difficile trovare lavoro nella sua citta', Visalia in
California, e pensava in questo modo di potersi pagare il college. Quando
Ryan si arruolo' la guerra in Iraq era gia' in corso e gia' mandava a casa i
cadaveri dei soldati.
"Ho parlato con i reclutatori. Ho chiesto: che possibilita' ci sono che io
finisca in Iraq? Mi hanno detto: dipende da che specializzazione scegli.
Allora io ho risposto: Quali sono quelle che non mi porteranno in Iraq? Loro
hanno snocciolato una lista, e io ne ho scelta una".
Ryan Johnson era troppo ingenuo per fare altre domande ai reclutatori
dell'esercito, e non mise in discussione le risposte che riceveva. "Avevo
vent'anni", dice, un po' sulla difensiva, "Pensavo che in Iraq si stesse
ormai ricostruendo. Pensavo che facessimo cose buone la'. Invece stiamo
facendo saltare in aria moschee e musei, le case della gente, la cultura.
Voglio dire, io neppure lo sapevo che l'Iraq e la Mesopotamia erano
praticamente la stessa cosa. Ci sono storia e cultura in Iraq. Credevo di
essere abbastanza istruito, anche se non ho finito il liceo, ma non mi e'
mai stato insegnato nulla sulla storia e la cultura di altri luoghi. E i
soldati che vanno in Iraq non lo fanno perche' sono patriottici, o perche'
pensano che quel paese sia una minaccia per noi. La maggior parte va perche'
gli e' stato ordinato e perche' i loro compagni ci vanno. Stavo quasi per
farlo anch'io, solo perche' i miei commilitoni sono la'".
Gli chiedo come si sente a questo proposito, e Ryan diventa pensoso.
"Controllo la lista dei caduti ogni giorno", dice infine, "Vado su internet
a guardarla per sapere se ci sono i miei amici. Fino ad ora sette persone
della mia unita' sono morte, e io ne conoscevo personalmente quattro".
Johnson non vuole considerare la possibilita' di tornare negli Usa e di
passare del tempo in prigione. "Mi sembra assolutamente folle. Ti mettono in
galera per cinque anni perche' hai tentato di non uccidere. Io sapevo che se
fossi andato in Iraq avrei ucciso. Magari durante una pattuglia, avrei
sparato senza pensare perche' mi sarei detto: O lui o io. E loro si sentono
allo stesso modo. Se non uccidiamo questi tizi, pensano, saranno loro ad
ammazzare noi".
Ryan spera di restare in Canada, di sentire questo paese come la propria
casa. Quando arrivo' con l'auto al confine, assieme alla moglie, gli e'
stato inaspettatamente dato il benvenuto. "Allungai il documento d'identita'
alla donna che era di guardia, ma lei non lo controllo' neppure. Benvenuto
in Canada, disse. Se', e' tutto quel che disse. Benvenuto. Allora io dissi
grazie, e attraversammo il confine, e mia moglie Jennifer grido' di gioia".
Il caso di Ryan Johnson e' ora in appello, poiche' la sua richiesta per
l'ottenimento dello status di rifugiato e' stata inizialmente respinta dalle
autorita' canadesi.
*
Ivan Brobeck, 2nd Battalion, 2nd Marine Regiment, di stanza a Camp Lejeune,
Nord Carolina. Eta': 21 anni. Si trova a Toronto, in Canada.
"Non ce la facevo piu'", dice l'ex caporale Brobeck, "Dovevo andarmene,
perche' la mia unita' sarebbe stata mandata in Iraq per la seconda volta, e
io non ne potevo piu'". La maggior parte dell'anno 2004 Ivan Brobeck l'ha
passata in guerra. Ha combattuto a Falluja, e ha visto i suoi amici morire a
causa delle bombe sulle strade. "Tendi ad essere sempre arrabbiato, la',
perche' combatti per qualcosa in cui non credi e i tuoi compagni ti muoiono
intorno". I suoi racconti di guerra sembrano fuori luogo in questo quieto
parco di Toronto. "Durante gli scontri era come se io funzionassi con il
pilota automatico. Tendevo solo a sopravvivere. Ho cominciato a pensare a
cosa c'era di sbagliato gia' mentre stavo la', ma non l'ho capito veramente
se non verso la fine, e poi quando sono stato rimandato a casa".
Di nuovo alla base di Camp Lejeune, Brobeck inizio' a riflettere su tutte
"le cose orribili che non avrebbero mai dovuto accadere". "Ho visto i
pestaggi di prigionieri innocenti. Mi ricordo di quando sentii che qualcosa
veniva lanciato dal camion, un mezzo di sette tonnellate, alto poco meno di
due metri e mezzo. Avevano gettato giu' un detenuto, che aveva le mani
legate dietro la schiena e un sacco in testa, cosi' non aveva potuto far
nulla per ripararsi dall'impatto. Comincio' ad aver convulsioni subito dopo
la caduta. Gli togliemmo il sacco dalla testa e i suoi occhi erano
rovesciati, il naso era pieno di sangue, non riusciva quasi a respirare".
Oltre agli abusi sui prigionieri, fu la regolarita' delle uccisioni di
civili ai checkpoint a sconvolgere il giovane marine. "Erano i miei amici
che lo facevano. La cosa ti veniva presentata cosi': Ehi, oggi tizio e' un
po' giu' di corda, ha ucciso un padre di fronte ai bambini. Oppure: Ha
ucciso un paio di ragazzini. I marines che facevano queste cose erano i miei
amici, le persone con cui parlavo ogni giorno. E' duro sapere che il tuo
miglior amico e' un assassino di innocenti". Brobeck comincio' a provare
simpatia per il "nemico". "Molte delle persone che ci sparano non sono
cattive persone a priori. E' gente che avuto mogli uccise, figli uccisi, e'
come se cercassero di compensare questo. Hanno perso tanto, e non hanno
l'opportunita' di fare nient'altro".
Brobeck era in servizio nei marines da un anno, quando fu mandato in Iraq.
"Avevo sempre sentito queste grandi storie sull'esercito Usa, le battaglie
vinte e cosi' via. E fra le forze dell'esercito i marines erano i piu' duri,
i piu' famosi. Volevo essere dei loro. Ero disposto a rischiare la vita per
la causa...", s'interrompe, e infine aggiunge: "se c'e' una causa". Quale
sarebbe una causa per cui valga la pena morire?, gli chiedo. "Una causa
buona. Ma questa guerra non e' di beneficio a nessuno. Non ne traggono
vantaggio gli americani, non ne traggono vantaggio gli iracheni. E' qualcosa
per cui nessuno dovrebbe combattere o morire. Vedi, io avevo diciassette
anni quando mi sono arruolato, e per tutta l'infanzia non avevo fatto altro
che sport o giocare ai videogame. Non prestavo attenzione alle notizie.
Tutta quella roba era noiosa, per me. Ma adesso le notizie le so, e di prima
mano".
Lo scorso luglio, l'unita' di Ivan Brobeck e' ripartita senza di lui. "Il
giorno in cui decisi di andarmene seguii l'impulso del momento. Ci avevo
pensato a lungo, ma non riuscivo a decidermi, perche' disertare e' una
decisione grave, e' come gettare via un bel po' della tua vita. Inoltre, non
sapevo dove andare. Quella sera mi confidai con un altro marine. Tu sei
stato in Iraq, mi disse, io no: hai le tue ragioni per andartene, e non
saro' io a fermarti". La partenza dalla base fu facile: "Andai alla stazione
degli autobus, che pero' era chiusa. Passai la notte in un hotel. La mattina
dopo feci il mio biglietto per la Virginia. Ero nervoso, perche' l'ora della
sveglia, le 5,30, era passata e ormai dovevano essersi accorti che non c'ero
piu'. Non andai a casa da mia madre, perche' avevo paura di trovarci la
polizia. Andai a stare da un amico". Ventotto giorni dopo, Brobeck si
diresse in Canada. Aveva scoperto il sito web di "War Resisters Support
Campaign" (Campagna di sostegno per i resistenti alla guerra), un gruppo
canadese che organizza gli aiuti ai disertori americani e ora sapeva dove
trovare ascolto.
"Mi sento piu' libero di quanto mi sia mai sentito in America. La gente e'
cosi' gentile in Canada, amichevole. La sola cosa che mi manca sono la mia
famiglia e i miei amici. Percio' questa e' l'unica cosa che mi manca degli
Usa, alcune persone". Nell'anno passato da quando ha attraversato il
confine, Ivan ha incontrato e sposato Lisa.
"Il mio paese era qualcosa di cui andare fieri, una volta. Se oggi vai in
un'altra nazione e dici che sei americano e' probabile che tu non veda molte
facce felici o braccia spalancate, e questo a causa dell'uomo che comanda
attualmente. La leadership che abbiamo ha totalmente cancellato qualsiasi
rispetto godessimo all'estero. Nel cuore non sono piu' uno statunitense,
intendo se questo significa doversi conformare a quanto loro sostengono
sulla guerra in Iraq. Non lo sono piu' perche' l'America ha perso il
contatto con cio' che e' stata. I padri fondatori resterebbero disgustati se
vedessero cos'e' diventata".

3. RIFLESSIONE. ANNA CIRILLO INTERVISTA LEA MELANDRI
[Dal sito dell'Universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa sul
quotidiano "La repubblica" del 22 agosto 2006.
Anna Cirillo scrive sul quotidiano "La repubblica".
Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista,
redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della
rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione
teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente
L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, Manifestolibri, Roma 1997;
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988, Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa
del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby
Dick 1996; Una visceralita' indicibile, Franco Angeli, Milano 2000; Le
passioni del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Dal sito
www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha
insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene
corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di
Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata
redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba
voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il
desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al
movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica
dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni:
L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997);
Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati
Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991;
La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996;
Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle
donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000;
Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati
Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza
In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della
rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la
rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato,
insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista,
Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le
rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'"]

- Anna Cirillo: Lea Melandri, che riflessioni le suscitano gli ultimi
episodi di violenza a Milano e a Brescia?
- Lea Melandri: Non mi sembrano novita'. Stupro e omicidio, lo dicono le
statistiche, sono all'ordine del giorno.
*
- Anna Cirillo: Come mai questo accanirsi sulle donne?
- Lea Melandri: Stupri e omicidi dicevo, ma anche una piu' generale
intimidazione che costringe le donne a limitare la propria liberta' fuori
dalle mura di casa, fanno parte di una violenza trasversale, che risale alle
origini della storia dell'uomo e stenta, dopo millenni, ad emergere alla
coscienza. Se ne fa, invece, un problema di culture piu' o meno arretrate.
*
- Anna Cirillo: E non lo e'?
- Lea Melandri: Il dominio maschile non appartiene ad una cultura o ad
un'altra ma le attraversa tutte.
*
- Anna Cirillo: Molte donne si sentono meno libere, la citta' viene
percepita come luogo insicuro, soprattutto la sera: e' cosi'?
- Lea Melandri: Si', si esce con una certa cautela, con la paura e la
diffidenza rispetto a chi si incontra, soprattutto di sera e soprattutto
d'estate, quando Milano diventa deserta. E c'e' anche il timore
dell'indifferenza degli altri, della mancanza di aiuto e soccorso se succede
qualche cosa. Ma quello che piu' preoccupa e' che stupri e violenze passino
ormai come normali fatti di cronaca nera.
*
- Anna Cirillo: Come mai c'e' questa paura e sfiducia?
- Lea Melandri: Oggi e' difficile restringere lo sguardo ad un'unica citta'
per quel che riguarda la violenza sulle donne. Ma certo e' che e' il
rapporto con il tessuto della citta' che conta. C'e' stato un deterioramento
delle relazioni sociali, c'e' piu' solitudine, isolamento. C''e' una crisi
dei legami familiari, e non si intravede un altro tipo di legame sociale che
crei condivisione e solidarieta'.
*
- Anna Cirillo: Che cosa bisognerebbe fare?
- Lea Melandri: Una rivoluzione. La questione uomo-donna, la forma che ha
preso piede, segnata dal dominio di un sesso rispetto all'altro, deve essere
sottratta al privato e diventare un problema pubblico. Il problema centrale
della vita sociale, politica e culturale.
*
- Anna Cirillo: Ma Milano e' diventata veramente una citta' piu' insicura o
no?
- Lea Melandri: Il cambiamento piu' grande l'ho avvertito dopo gli anni '70.
In quegli anni ci si muoveva nella citta' liberamente, di giorno e di notte,
ovunque. La citta' era veramente diventata un luogo di incontro che ha
portato chi ci viveva ad impadronirsene.
*
- Anna Cirillo: La presenza di molti extracomunitari, spesso disperati e
senza lavoro, e' un elemento che crea inquietudine in molte donne. Sara' per
questo che e' cresciuta la paura?
- Lea Melandri: La paura e' cresciuta negli anni, legata al fatto che
viviamo in una societa' in grande cambiamento. E la forte presenza di
immigrati costituisce certamente un problema. Ma la convivenza tra diversi
non deve sempre essere riportata a forme di scontro e conflitto, in cui
molti vorrebbero confinarla. Io sono arrivata da un paese emiliano di
provincia, di cultura contadina, dove non esisteva l'emancipazione delle
donne e la violenza c'era, l'ho vista. La citta' mi ha resa libera.
*
- Anna Cirillo: Ma lei e' proprio tranquilla quando esce di sera?
- Lea Melandri: Non nascondo di avere anche io un certo timore a muovermi
per la citta'. Ma non e' una paura legata agli stranieri, a questa
popolazione che mi da' un senso di vitalita', quella che c'e' sempre nei
fenomeni di migrazione. Quando monto sui tram di sera, e i tram dopo le otto
parlano lingue straniere, sento qualcosa che evoca affetti, memorie. Mi
ricordo come sono arrivata io, in cerca di un alloggio...
*
- Anna Cirillo: Che cosa si puo' fare di concreto per cercare di favorire la
fiducia a scapito della paura?
- Lea Melandri: Bisogna puntare sui processi di socializzazione che
richiedono un grande sforzo, anche finanziario, un investimento per creare
luoghi, situazioni, momenti in cui la gente si possa incontrare.
*
- Anna Cirillo: E che succede se la gente si incontra?
- Lea Melandri: Crea un tipo di relazione diversa, crea un'alternativa alla
solitudine, alla famiglia in crisi.
*
- Anna Cirillo: Negli anni '70 le donne hanno condotto una dura battaglia
contro il maschilismo e per la loro autoderminazione. Oggi tacciono.
- Lea Melandri: Mi sembra ingiusto dire questo, soprattutto di Milano dove
il 14 gennaio c'e' stata la grande manifestazione "Usciamo dal silenzio",
con 250.000 persone. Da li' le donne in alcuni quartieri hanno iniziato a
volersi incontrare, in questi mesi ci sono state affollatissime assemblee
per discutere di cose che le riguardano direttamente. Questa e' la direzione
nella quale bisogna andare. Un modo per combattere la violenza e' creare le
condizioni per far uscire le donne di casa veramente, affinche' il loro
tempo non sia solo uno sforzo acrobatico tra lavoro e cura della famiglia.
*
- Anna Cirillo: Carla De Albertis assessore alla salute, chiede la
castrazione chimica per i violentatori.
- Lea Melandri: Non sono per le punizioni corporali, ne' per l'occhio per
occhio. L'abuso che gli uomini hanno esercitato sul corpo femminile non
vorrei che fosse applicato su di loro, secondo la legge del taglione.

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL MINISTRO, LA CONSULTA E QUALCHE DOMANDA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2006. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale
all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista.
Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli,
Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo',
Manifestolibri, Roma 2005]

Ripudio della guerra e della pena di morte, rispetto fra stati indipendenti,
sostegno alla diffusione di assetti democratici, conformita' alla
Costituzione italiana e ai principi di quella (a venire) europea, pluralismo
religioso, liberta' di coscienza e di espressione, diritti del minore,
parita' dei coniugi. Con la sua "carta dei valori", Giuliano Amato sembra
voler ancorare la consulta islamica e la sua presenza nella societa'
italiana a una serie di principi democratici. L'intento - lavorare per
l'integrazione della comunita' islamica con un percorso dialogico e
condiviso - e' apprezzabile e il movente - suscitare una forma di pubblica
excusatio, diretta o indiretta, dell'aberrante equazione dell'Ucoii fra
stragi israeliane e stragi naziste - anche.
Qualche domanda tuttavia si impone, rispetto alla forma, ai contenuti e
all'efficacia dell'operazione. Nell'ordine: qual e', formalmente, il tipo di
rapporto fra stato italiano e comunita' islamica che il tavolo con la
consulta configura? E' legittimo, o non e' autocontraddittorio, chiedere
insieme l'adesione al principio della liberta' di coscienza e d'espressione
e l'adesione agli altri valori su elencati (nonche' l'autocritica
sull'equazione Israele-nazismo)? E qualora la carta venisse accettata e
firmata, di che cosa sarebbe garanzia, o che cosa ne garantirebbe
l'applicazione?
Si sa che, in materia di integrazione multiculturale, ovunque i principi
occidentali vacillano e ovunque la loro formalizzazione giuridica mostra
insormontabili aporie; ovunque si procede per tentativi e verifiche
successivi; ovunque il dibattito pubblico e' stato, negli ultimi venticinque
anni, intenso e irrisolto (e quello italiano delle ultime settimane lo
ricalca punto per punto con toni alquanto naif). Tuttavia il caso della
consulta islamica mette a nudo alcune contraddizioni sulle quali e' bene
soffermarsi.
In primo luogo: e' legittimo che uno stato laico, basato sulla cittadinanza
individuale e sulla rappresentanza politica, tessa rapporti istituzionali
con un organismo comunitario basato su una rappresentanza religiosa? Daniele
Capezzone denuncia a questo proposito una sorta di "deriva concordataria"
dello stato italiano e non gli si puo' dare torto (tanto piu' che in questo
caso non c'e' nessun - controverso - articolo 7 della Costituzione ad
autorizzarla).
In secondo luogo. Se e' non solo lecito, ma dovuto, sanzionare pubblicamente
la posizione dell'Ucoii sulla Shoah - che viola un tabu' fondativo della
civilta' europea emersa dalla colpa del nazismo, e pertanto e' per la
coscienza europea inaccettabile -, e' altrettanto lecito chiedere ai membri
di una cultura politica e religiosa diversa dalla nostra l'adesione formale
ad alcuni nostri principi giuridici, per quanto basilari? Prendiamo il caso
della parita' fra coniugi e del rispetto della dignita' femminile, materia
sulla quale concordare con le intenzioni di Giuliano Amato e' piu' che
scontato; e tuttavia la strada da lui proposta appare opinabile, perche'
assimilativa, e spuntata, perche' non e' con l'adesione formale a una carta
di valori che si sradicano strutture culturali e di potere profonde come
quelle che attengono ai rapporti fra i sessi. E qui arriviamo al terzo
quesito, quello sull'efficacia, ovviamente imprescrutabile, della proposta
di Amato, anche nel caso in cui la consulta l'accettasse.
Di tentativo in tentativo, la strada del multiculturalismo e' stata fin qui
lastricata di molti fallimenti (ma non solo di fallimenti, va tuttavia
ricordato). Ne' la soluzione comunitarista ne' quella liberale, ne' Taylor
ne' Habermas, hanno dato "la" risposta. Ce n'e' un'altra, non per caso
elaborata da alcune studiose femministe e postcolonialiste del problema. Non
passa ne' per la rappresentanza e la tutela delle comunita' (che e' sempre
rappresentanza e tutela dei piu' forti in ciascuna comunita'), ne' per la
difesa astratta delle liberta' individuali (occidentali). Passa per la
narrazione, l'elaborazione discorsiva, l'interpretazione degli attriti e dei
conflitti che le societa' multiculturali inevitabilmente attivano; passa per
la decostruzione, non per la difesa perimetrata delle identita' e delle
culture che vi si scontrano. E' un lavoro interminabile, con poche garanzie
di legge, ma e' anche il solo attraverso cui nella societa' globale si
ricostruiscono sfera pubblica e lingue comuni.

5. INCONTRI. DALL'8 ALL'11 SETTEMBRE UN CONVEGNO A PISA

Si svolgera' a Pisa dall'8 all'11 settembre 2006 un convegno internazionale
sul tema "Il potere della nonviolenza" nel centenario della nascita del
satyagraha (11 settembre 1906).
Il convegno e' promosso dalla prestigiosa rivista "Quaderni satyagraha" e
dal Centro Gandhi di Pisa; partecipano molte autorevoli personalita' della
riflessione e dell'impegno nonviolento.
Per informazioni, adesione e partecipazione contattare il Centro Gandhi di
Pisa, tel. 3355861242, fax: 1782205126, e-mail:
11settembre.nonviolenza at centrogandhi.it, sito: www.centrogandhi.it

6. LETTURE. CLAUDIO ECONOMI (A CURA DI): L'ALTRO IN ME
Claudio Economi (a cura di), L'altro in me. Viaggio attraverso la vita e il
pensiero di Edith Stein, Emi, Bologna 2006, pp. 128, euro 10. "Il presente
lavoro, interamente elaborato nell'anno scolastico 2004-2005 dagli alunni di
una quinta classe del Liceo classico europeo presso il Convitto nazionale di
Roma, e' nato dall'esigenza di avvicinare e conoscere alcuni aspetti della
complessa personalita' di una delle grandi donne del XX secolo...", cosi' si
apre questo libro in cui gli studenti dell'indimenticabile Claudio Economi
(1952-2005, straordinario educatore alla pace, ai diritti umani di tutti gli
esseri umani, alla mondialita', alla nonviolenza) si accostano alla figura e
alla riflessione di Edith Stein. Nella bibliografia sulla grande allieva e
collaboratrice di Husserl, assassinata dai nazisti ad Auschwitz, questo
lavoro di giovanissimi che si aprono all'ascolto e alla visione di una
limpida voce e di un luminoso volto di donna amica della nonviolenza, ci
sembra aggiunga qualcosa di commovente - anche in cio' che vi e' di candido
e per cosi' dire di necessariamente acerbo. Apre il volume un ricordo di
Claudio Economi scritto da Antonio Nanni, che ne fu grande amico e insieme a
lui scrisse libri rilevanti per una pedagogia della pace.

7. RIEDIZIONI. TEOFILO FOLENGO: BALDUS
Teofilo Folengo, Baldus, Utet, Torino 1997, 2006, 2 voll. per complessive
pp. 1102, euro 25,80. Un'eccellente edizione a cura di Mario Chiesa, con
traduzione a fronte ed ottimo apparato. Ma forse Teofilo Folengo andrebbe
letto cosi': prescindendo dalla versione italiana e gettandosi nel suo
maccheronico come ci si tufferebbe nel mare. Poi si comincia a menar
bracciate e a respirare. Cosi' Marx scrisse di aver imparato lo spagnolo
tuffandosi nel Chisciotte, e cosi' Tagore l'inglese tuffandosi in Dickens.
Dovremmo leggere Teofilo Folengo con una sorta di sguardo secondo, con un di
piu' di piacere e leggerezza, e con un di piu' di filologia e attenzione. O
forse dovremmo solo abbandonarci alla sua musica ebbra ed esatta, corposa e
sottile, e solo allora - dopo molto remigare - cominci a sentire per cosi'
dire la struttura della forma sonata e l'apertura che se ne sprigiona, e la
forma vera della vita, colta con la stessa sincerita' e il medesimo
struggimento che senti talvolta in Mozart, o in un punto preciso, o due,
della Carmen di Bizet.

8. RIEDIZIONI. JOHN STUART MILL: PRINCIPI DI ECONOMIA POLITICA
John Stuart Mill: Principi di economia politica, Utet, Torino 1983, Istituto
geografico De Agostini - Milano Finanza Editori, Novara-Milano 2006, 2 voll.
per complessive pp. 1280, euro 12,90 + 12,90 (in supplemento a "Milano
Finanza"). A cura di Biancamaria Fontana e con una appassionata e
appassionante introduzione di Giacomo Becattini, una delle opere-chiave del
filosofo della liberta' e della lotta contro l'oppressione delle donne (di
cui non si raccomandera' mai abbastanza la rilettura di alcuni folgoranti
saggi e di quell'autobiografia che lumeggia anche una temperie culturale e
un ambiente familiare e un impegno civile il cui fascino nella memoria non
si offusca).

9. LE ULTIME COSE. LUCIANO BONFRATE: LITANIA DEI PACIFISTI MINISTERIALI

"Siamo tutti per la pace, proruppe allora il Ministro della guerra"
(Cronache di questa antica citta' di Urganda, libro ultimo, cap. 666)

I pacifisti ministeriali fanno belle passeggiate
in cui piangon le persone da lor stessi assassinate.

I pacifisti ministeriali son dotati di crivello:
della guerra san discerner cio' che e' brutto e cio' che e' bello.

I pacifisti ministeriali sono furbi come volpi:
e distinguono chi e' vivo da chi attrasse troppi colpi.

I pacifisti ministeriali sono forti come tori:
e sopportano assai bene le altrui morti ed i dolori.

I pacifisti ministeriali, senza se e senza ma,
in serrati marcian ranghi verso dove il Leader sa.

I pacifisti ministeriali fan le guerre umanitarie
e le stragi loro sono sempre giuste e necessarie.

I pacifisti ministeriali son puliti ed eleganti
quando premono il grilletto prima indossano i bei guanti.

I pacifisti ministeriali alalazano giulivi
dopo data una sfoltita all'esubero dei vivi.

I pacifisti ministeriali sanno stare nel bel mondo,
non i luridi migranti che una spinta e vanno a fondo.

I pacifisti ministeriali fanno belle passeggiate
in cui piangon le persone da lor stessi assassinate.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1406 del 2 settembre 2006

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