La nonviolenza e' in cammino. 1407



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1407 del 3 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Ann Jones: Cosa accade in Afghanistan
2. Cindy Sheehan: Obblighi e giuramenti
3. Cameron Abadi intervista Shirin Ebadi
4. Gloria Helena Rey: Ricostruire la vita mattone su mattone
5. Letture: Antonio Nanni, Stefano Curci, Buone pratiche per fare
intercultura
6. Riedizioni: Ippolito Nievo, Opere
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. MONDO. ANN JONES: COSA ACCADE IN AFGHANISTAN
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Ann
Jones. Ann Jones, giornalista e fotografa, ha passato la maggior parte degli
ultimi quattro anni in Afghanistan; attivista per i diritti umani, lavora
nel paese con le agenzie internazionali e insegna inglese ai docenti del
liceo di Kabul; scrive delle sue esperienze in Afghanistan per "Nation
Magazine" ed e' stato pubblicato di recente il suo libro: Kabul in inverno:
vita senza pace in Afghanistan, Metropolitan Books, 2006)]

Vi ricordate di quando il pacifico, democratico, ricostruito Afghanistan era
il modello pubblicitario su cui si doveva rifare l'Iraq? Nell'agosto 2002,
il segretario alla difesa Donald Rumsfeld parlava del nuovo Afghanistan come
di una "straordinaria vittoria" ed un "modello di successo per cio' che
potrebbe accadere in Iraq". Come tutti ormai sanno, il modello in Iraq non
sta funzionando. Percio', non dovremmo sorprenderci nel sapere che non sta
funzionando neppure in Afghanistan.
La storia del successo afgano e' sempre stata piu' una favola che un fatto.
Ora, mentre l'amministrazione Bush passa il "peacekeeping" alle forze Nato,
l'Afghanistan e' la scena della piu' vasta operazione militare nella storia
del trattato del nordatlantico.
Le mie mail di oggi riportano l'appello di una chirurga americana che lavora
a Kabul: la sua squadra medica d'emergenza non riesce a trattare neanche la
meta' dei civili feriti che le vengono inviati dalle province in cui si
combatte, a sud e a est. Truppe statunitensi, britanniche e canadesi si
trovano in guerra contro i combattenti talebani, mentre sconcertati
comandanti Nato si stanno gia' chiedendo cos'e' che e' andato male.
La risposta sta in un triplice fallimento: niente pace, niente democrazia e
niente ricostruzione.
*
L'amministrazione Bush ha fatto politicamente le cose a rovescio. Dopo aver
spinto i talebani a suon di bombe nelle periferie, nel 2001, ha messo in
piedi un governo senza siglare una pace, uno scenario che piu' tardi si
sarebbe ripetuto in Iraq. Invece di premere per negoziati di pace fra i
partiti afgani rivali, i vittoriosi americani hanno dato il potere agli
islamisti ed ai comandanti delle milizie che erano servite a sostituire i
soldati Usa nella guerra contro l'Unione Sovietica degli anni '80. Poi
l'amministrazione Bush ha messo in scena elezioni per questi candidati, ed
ha proclamato che i risultati erano la democrazia.
Ha anche confinato la International Security Assistance Force (Isaf),
composta largamente da truppe europee, alla capitale, creando cosi' un'oasi
di sicurezza per il governo, mentre sguinzagliava i signori della guerra di
sua scelta alla ricerca di Osama bin Laden nel resto del paese.
Ad est e sud, che e' come dire in meta' del paese, i talebani non hanno mai
smesso di combattere. Oggi, rimpolpate dall'arrivo di combattenti importati
da al-Qaida (detti arabi-afgani) e con l'ausilio di nuove tecniche apprese
dall'insorgenza irachena (le bombe sulle strade o quelle suicide), le forze
talebane sono piu' forti di quando gli Usa le "sconfissero" nel 2001.
*
Secondo la Commissione indipendente afgana per i diritti umani, la
maggioranza degli afgani avrebbero visto con favore un processo di amnistia
e riconciliazione, e persino il presidente Karzai ha di recente chiesto
all'amministrazione Bush di cambiare metodo, e di smettere di uccidere
afgani. Ma le politiche riaffermate a Kabul dalla segretaria di stato
Condoleeza Rice chiedono di combattere sino all'eliminazione dell'ultimo
talebano.
Com'era da aspettarsi, l'opinione pubblica ha cominciato ad avversare con
forza un governo centrale largamente privo di potere, tenuto sotto scorta
nella capitale da forze armate straniere. L'insicurezza che la maggior parte
degli afgani subiscono, l'assenza di pace, e' abbastanza per aver fatto loro
perdere fiducia nel presidente Karzai, spesso definito sarcasticamente "il
sindaco di Kabul" o "l'assistente dell'ambasciatore americano".
Storicamente, gli afgani hanno scelto e seguito leader forti: da chi guida
si aspettano sicurezza, lavoro, o almeno che faccia qualcosa. Il governo
Karzai, costretto a seguire un'agenda al servizio degli Usa, si trova spesso
in difficolta' nel difendere gli interessi afgani, e non ha dato nulla al
cittadino medio che vive ancora in una poverta' abissale. Nel 2004,
doverosamente gli afgani votarono per Karzai, quale strumento delle promesse
americane. Nel 2005, quando si tennero le elezioni parlamentari, gli
elettori indicarono che ne avevano abbastanza degli stessi candidati,
comandanti di milizie ed estremisti islamisti, e delle stesse vuote
promesse.
*
La parte piu' triste della storia sta qui: nonostante la finta pace e la
democrazia da burletta vantate dell'amministrazione Bush, quest'ultima
avrebbe potuto fare dell'Afghanistan un successo solo se avesse portato a
compimento la terza e piu' grande promessa, quella di ricostruire un paese
bombardato.
La maggioranza degli afgani, dopo la dispersione dei talebani, era piena di
speranza e desiderosa di mettersi al lavoro. I benefici tangibili della
ricostruzione (impieghi, case, scuole, assistenza sanitaria) avrebbero
potuto indurli a sostenere il governo e a trasformare una democrazia
illusoria in qualcosa di piu' reale. Ma la ricostruzione non e' avvenuta.
Quando le forze Nato si sono mosse quest'estate nelle province del sud, per
"mantenere la pace e continuare lo sviluppo", il generale David Richards,
comandante britannico dell'operazione, sembra essere rimasto scioccato nello
scoprire che nessuno sviluppo, o ben poco, era mai cominciato. Di questo
fallimento, i primi responsabili sono gli Usa. Fino a quest'ultimo anno, la
coalizione guidata dagli americani ha assunto per se' sola il compito di
ristabilire condizioni di sicurezza fuori Kabul, ma non vi ha impiegato sul
terreno un solo uomo. Come risultato, i volontari di associazioni umanitarie
(internazionali e afgane) hanno perso la vita, pressoche' tutte le ong si
sono ritirate all'interno di Kabul o, come Medici senza frontiere, hanno
lasciato il paese. I mercenari, ancora presenti nel paese, si trovano
regolarmente coinvolti in progetti relativi alla "sicurezza", cosi' che il
denaro degli aiuti umanitari, come sta accadendo anche in Iraq, finisce nel
budget militare.
Una recente testimonianza dell'Ispettore generale per la ricostruzione
dell'Iraq ha rivelato come l'Agenzia statunitense per lo sviluppo
internazionale (Usaid) manipoli i propri conti per nascondere i mastodontici
costi che i problemi di sicurezza aggiungono ai progetti d'aiuto (si arriva
a maggiorazioni del 418%). E' ragionevole pensare che se ascoltassimo
l'Ispettore responsabile per l'Afghanistan ci racconterebbe le medesime
storie: le ditte sotto contratto per l'Usaid sono le stesse. Senza pace non
puo' esserci sicurezza, e senza sicurezza non c'e' ricostruzione.
Ma c'e' di piu'. Per capire il fallimento, e la frode, di tali progetti di
ricostruzione, bisogna dare un'occhiata allo specifico sistema con cui gli
Usa forniscono aiuto per lo sviluppo a livello internazionale. Durante gli
ultimi cinque anni gli Usa e molti altri donatori hanno mandato miliardi di
dollari in Afghanistan, eppure gli afgani continuano a chiedere: Dove sono
finiti i soldi? Chi paga le tasse in America dovrebbe fare la stessa
domanda. La risposta ufficiale e' che i fondi inviati dai donatori si
perdono nella corruzione afgana. Ma gli afgani equivoci, abituati alle
bustarelle da due soldi, stanno imparando come la corruzione ad alto livello
funzioni benissimo per i padroni del mondo.
*
Un rapporto del giugno 2005, molto circostanziato, di Action Aid (ong con
sede centrale a Johannesburg in Sudafrica, assai rispettata) ci aiuta a far
chiarezza su come funzioni questo mondo. Il rapporto ha studiato gli aiuti
allo sviluppo forniti da tutti i paesi sul globo ed ha scoperto che solo una
piccola parte di essi (forse tocca il 40%) e' concreta. Il resto e' "aiuto
fantasma", il che significa che i soldi non arriveranno mai ai paesi a cui
sono destinati.
Parte di questi soldi non esistono proprio, se non come voce in bilancio,
come quando i paesi contabilizzano la cancellazione del debito o i costi di
costruzione di una bella nuova ambasciata nella colonna degli aiuti. Molti
di questi soldi non lasceranno mai la propria casa: i mandati di pagamento
per gli "esperti" americani sotto contratto dall'Usaid, per esempio, vanno
direttamente dall'agenzia alle banche Usa, senza mai passare per i "paesi
che devono essere ricostruiti". Molto altro denaro, conclude il rapporto, e'
buttato via in "assistenza tecnica superpagata e inefficace" (come gli
"esperti" di cui sopra, per dire).
Ed un'altra bella fetta di soldi e' legata alla nazione donatrice, il che
vuol dire che chi la riceve e' obbligato ad usare il denaro per comprare
prodotti del paese donatore: soprattutto quando le stesse merci potrebbe
trovarle a prezzo assai piu' basso in casa propria.
Gli Usa sono ai piu' alti livelli nella classifica dei "donatori fantasma",
solo la Francia qualche volta li supera. Il 47% dell'aiuto americano allo
sviluppo va alla "superpagata assistenza tecnica"; solo il 4% dell'aiuto
svedese lo fa, e il 2% dell'aiuto lussemburghese o irlandese. E per quanto
riguarda il dover acquistare prodotti del paese donatore, ne' la Svezia, ne'
la Norvegia, ne' l'Irlanda o il Regno Unito lo fanno. Il 70% del denaro
americano legato agli aiuti ha questa clausola, di doverci comperare roba
americana, soprattutto sistemi d'arma. Considerate queste pratiche, Action
Aid calcola che 86 centesimi su ogni dollaro siano "aiuto fantasma".
Secondo gli standard fissati anni orsono dall'Onu e ai quali ha aderito
praticamente ogni nazione del mondo, un paese ricco dovrebbe dare lo 0,7%
del suo introito nazionale annuale a quelli poveri. Solo i paesi scandinavi,
l'Olanda ed il Lussemburgo (con lo 0,65%) si avvicinano alla percentuale;
all'altro capo della fila, ci sono gli Usa con lo 0,02%: 8 dollari l'anno a
persona dal "paese piu' ricco del mondo" (a confronto, pensate che la Svezia
ne da' 193, la Norvegia 304 e il Lussemburgo 357). Il presidente Bush si
vanta di aver mandato miliardi di dollari in Afghanistan, ma in effetti
avremmo ottenuto un miglior risultato passando in giro un cappello.
*
L'amministrazione Usa spesso deliberatamente rappresenta in modo falso il
suo programma di aiuti ad uso delle popolazioni. Lo scorso anno, per
esempio, mentre il presidente Bush mandava sua moglie a Kabul per poche ore,
il tempo di fare qualche fotografia pubblicitaria, il "New York Times"
riportava che la missione di costei era "la promessa di un impegno a lungo
termine per l'istruzione di donne e bambini". Nel suo discorso di Kabul, la
signora Bush disse che gli Usa avrebbero fornito 17,7 milioni di dollari in
piu' per sostenere l'istruzione in Afghanistan.
Quello che e' accaduto e' che il fondo in questione e' stato usato per
costruire un'universita' privata, l'Universita' americana dell'Afghanistan,
diretta alle elite afgane e statunitensi, e a cui si accede a pagamento: il
fatto che un'universita' privata venga finanziata dai soldi delle tasse
pubbliche e costruita dal corpo dei genieri dell'esercito Usa e' un'altra
delle peculiarita' degli aiuti in stile Bush.
Ashraf Ghani, l'ex ministro delle finanze afgane, e presidente
dell'Universita' di Kabul, si e' lamentato: "Non si puo' continuare a
sostenere l'istruzione privata ed ignorare quella pubblica".
*
Tipicamente, gli Usa preferiscono canalizzare il danaro degli aiuti
umanitari verso appaltatori statunitensi. L'assistenza umanitaria Usa e'
sempre piu' privatizzata, ed e' ormai solo un meccanismo per trasferire i
dollari delle tasse ai forzieri di ditte americane selezionate, ed alle
tasche di chi i soldi li ha gia'. Nel 2001 Andrew Natsios, l'allora
direttore di Usaid, cito' i fondi per l'assistenza all'estero come "uno
strumento politico chiave", disegnato per aiutare gli altri paesi a
"diventare migliori mercati per l'esportazione statunitense". Per garantire
che tale missione vada a buon fine, il Dipartimento di Stato ha di recente
assunto la direzione di quelle che prima, almeno formalmente, erano agenzie
umanitarie semi-autonome. E poiche' lo scopo dell'aiuto americano e' quello
di rendere il mondo sicuro per gli affari americani, Usaid si serve di una
lista di ditte "favorite" (che puo' leggermente mutare a seconda dei
risultati elettorali) a cui chiede di sottoporre progetti, e talvolta
interpella un solo appaltatore, la stessa efficiente procedura che ha reso
l'Halliburton cosi' fortunata in Iraq.
Le ditte preselezionate stipulano un contratto con l'Usaid, detto Iqc
(ovvero "per quantita' indefinite"). Le ditte presentano informazioni vaghe
su cosa potrebbero fare in aree non meglio specificate, riservandosi le
definizioni per un successivo contratto. La ditta di volta in volta scelta
verra' invitata a materializzare le sue speculazioni tramite il formato Rfp
(ovvero "richiesta di proposte"), e poi inviata in un paese straniero a
cercare di rendere reale qualsiasi tipo di lavoro sognato da teorici di
Washington, assolutamente non oberati dalla conoscenza di prima mano dello
sfortunato paese in questione.
I criteri con cui si scelgono gli appaltatori ha poco o niente a che fare
con le condizioni del paese che li riceve, e non sono esattamente cio' che
chiamereste campioni di trasparenza.
*
Prendete il caso della strada maestra Kabul-Kandahar, che il sito dell'Usaid
propaganda con orgoglio come un successo. In cinque anni e' la sola strada
che sia mai stata finita, il che supera almeno di un punto il record
dell'amministrazione Bush nella costruzione di sistemi idrici o fognari
(nessuno).
Nel marzo 2005, la superstrada in questione apparve sul giornale "Kabul
Weekly" sotto il titolo: "Milioni buttati via per strade di seconda mano".
Il giornalista afgano Mirwais Harooni racconto' che sebbene ditte
internazionali si fossero offerte per ricostruire la strada al prezzo di 250
dollari al chilometro, gli statunitensi del Louis Berger Group avevano
ottenuto il lavoro al prezzo di 700 dollari al chilometro (ce ne sono 389).
Perche'? La risposta standard americana e' che gli americani lavorano
meglio, sebbene non sia il caso della ditta Berger che all'epoca era gia' in
ritardo su un altro contratto di 665 milioni di dollari per costruire scuole
in Afganistan. La Berger subappalto' la costruzione della stretta strada a
due corsie, priva di guard-rail, a ditte turche ed indiane, al costo finale
di un milione di dollari a miglio: e chiunque ci viaggi oggi puo' constatare
che sta gia' cadendo a pezzi.
L'ex ministro della pianificazione Ramazan Bashardost fece notare che in
materia di strade i talebani avevano fatto un miglior lavoro, ed anche lui
pose la fatidica domanda: "Dove sono finiti i soldi?". Oggi, con una mossa
che certamente fara' crollare gli indici di gradimento di Karzai, e
danneggera' ulteriormente le truppe Usa e Nato presenti nell'area,
l'amministrazione Bush sta facendo pressione sul governo afgano affinche'
questo "dono del popolo degli Stati Uniti" (cosi' venne definita la strada)
sia trasformato in una strada a pagamento: 20 dollari a guidatore per un
permesso di transito valido un mese. In questo modo, dicono gli esperti
americani fornitori di superpagata assistenza tecnica, l'Afghanistan
potrebbe avere un introito annuo di 30 milioni di dollari dai suoi cittadini
immiseriti e alleggerire finalmente il "peso" dell'aiuto che grava sugli
Usa.
*
C'e' da stupirsi se l'aiuto straniero sembra all'afgano ordinario qualcosa
di cui sono gli stranieri a godere?
Ad una estremita' dell'infame superstrada, a Kabul, gli afgani si lamentano
dei fantasiosi ristoranti dove questi esperti ed altri forestieri si
riuniscono per bere alcolici, divertirsi e piombare nudi nelle piscine.
Obiettano alla presenza di bordelli in citta' (otto nel 2005), bordelli in
cui donne afgane vengono trafficate per servire ai "bisogni" degli
stranieri. Si lamentano del fatto che la capitale e' ancora un ammasso di
rovine, che molte persone vivano ancora sotto le tende, che in migliaia non
trovano lavoro, che i bambini sono denutriti, che le scuole e gli ospedali
sono sovraffollati, che donne in burqa stracciati mendicano nelle strade e
finiscono per prostituirsi, che i bambini vengono rapiti e venduti in
schiavitu', o assassinati per ricavarne organi da trapianto. Si chiedono
dove sia finito il denaro degli aiuti promessi e cosa questo governo
fantoccio possa fare per migliorare le cose.
All'altra estremita' della strada c'e' Kandahar, la citta' natale del
presidente Karzai. Nelle provincie del sud (Kandahar, Helmand, Zabul e
Uruzgan) si stima che il comandante talebano Mullah Dadullah abbia piu' di
12.000 uomini armati e squadre di suicidi pronti a farsi saltare in aria con
bombe. Tendono agguati alle truppe Nato arrivate di fresco. Il comandante
britannico Richards ha di recente dato il suo avviso: "Dobbiamo capire che
in effetti qui possiamo fallire".
Gli Usa attaccano i talebani come fecero nel 2001, con i bombardamenti
aerei. Il "Times" di Londra riporta che solo nel maggio scorso ce ne sono
stati 750; ogni giorno ci sono notizie di vittime prodotte dai combattimenti
fra Nato e talebani, e di vittime che erano "sospetti" talebani o semplici
civili, uccisi dai bombardamenti americani a largo raggio.
Nel frattempo, i talebani prendono il controllo dei villaggi. Uccidono gli
insegnanti e fanno saltare per aria le scuole. Le squadre antidroga guidate
dagli Usa pure prendono il controllo di villaggi e distruggono le
coltivazioni di papavero da oppio di contadini in miseria.
Presi, come al solito, nel mezzo di due fazioni in guerra, gli afgani del
sud e dell'est hanno da tempo cessato di chiedersi dove sono finiti i soldi.
Si chiedono invece chi sia a governare. E che fine ha fatto la pace.

2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: OBBLIGHI E GIURAMENTI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George
Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per
chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla
sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento
contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More
Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito
www.koabooks.com
"Il soldato Mark Wilkerson, di cui parla questo articolo, 'assente senza
permesso' da 19 mesi per non dover tornare in Iraq, si e' presentato a Fort
Hood accompagnato da dozzine di sostenitori provenienti da Camp Casey" (nota
di Maria G. Di Rienzo)]

Ho comperato della terra a Crawford, in Texas, per poterci tenere i nostri
raduni sino a che l'orrendo incubo dell'occupazione avra' fine in Iraq, e
fino a quando il mondo non dovra' piu' soffrire sotto il regime di Bush. Ma
questa terra sara' anche un luogo permanente di pace e un bastione di
speranza, e un rifugio per i soldati, che restino o no nell'esercito.
Tantissime altre persone hanno letteralmente dato "sangue sudore e lacrime"
per mettere in piedi il terzo Camp Casey e i precedenti: meravigliosi
attivisti per la pace che hanno speso giorni e settimane nella calda,
sudata, polverosa Crawford per mostrare a Bush e compagnia, al nostro paese
e al mondo che c'e' gente negli Usa che ama la pace e la liberta' al punto
da mettere in gioco la propria vita per veder realizzare pace e liberta' nel
nostro tempo.
Camp Casey non ha ricevuto l'attenzione di cui godemmo lo scorso anno,
perche' durante questa estate George Bush ha passato meno tempo a Crawford
e, per qualche strana ragione, i media lo inseguono.
*
Tutto il nostro duro lavoro ed ogni centesimo che io ho speso sono stati
abbondantemente ripagati quando Mark Wilkerson, un soldato di 22 anni che ha
lasciato l'esercito senza permesso 19 mesi orsono ha sentito del nostro
rifugio a Camp Casey, ed e' venuto a passare con noi i suoi ultimi giorni di
liberta', prima di consegnarsi alle autorita' militari di Fort Hood.
Dopo aver passato un periodo in Iraq, Mark capi' che la guerra, di cui
all'inizio era stato sostenitore, era illegale e immorale. Ha tentato in
ogni modo, usando i previsti canali istituzionali, di ottenere lo status di
obiettore di coscienza, ma gli e' stato negato. Percio', prima che lo
inviassero in Iraq per la seconda volta, Mark e' diventato un "assente senza
permesso". A Camp Casey ha trovato una nuova famiglia, che lo ama e che lo
sosterra' completamente. Mark e' ansioso di pagare il prezzo che gli verra'
chiesto per la sua decisione, e poi di venire a lavorare con noi
all'Istituto per la pace di Camp Casey.
*
Una domanda che gli ho sentito porre dai giornalisti ripetutamente era piu'
o meno questa: "Non pensi che quando si pronuncia un giuramento poi si ha
l'obbligo di rispettarlo?". Mark si e' destreggiato benissimo, rispondendo
che egli ha anche l'obbligo di seguire la propria coscienza. Sapendo che
questa guerra e' illegale ed immorale per i criteri di chiunque sia sano di
mente, Mark non poteva in coscienza partecipare a crimini di guerra e a
crimini contro l'umanita' imposti dai nostri leader bugiardi.
Io guardo un mucchio di notiziari e leggo gli articoli sulle rare conferenze
stampa di Bush, ma non ho mai sentito nessuno fare a lui la stessa domanda
fatta a Mark. Bush, il comandante in capo dell'esercito, non ha rispettato
gli obblighi derivanti dal suo giuramento durante la guerra del Vietnam. Si
fece trasferire alla Guardia nazionale aerea dell'Alabama, e nonostante
abbia ricevuto una menzione onorevole, e nessuno ha mai reclamato perche'
nessuno lo ha mai visto la', non e' mai stato denunciato.
Vorrei che la medesima domanda posta continuamente a Mark Wilkerson fosse
fatta al presidente. Come osa costui mandare un ventiduenne a combattere in
Iraq, forse a morirci, forse ad uccidere innocenti, quando lui ha usato
tutte le conoscenze di suo padre per tirarsi fuori da una guerra che la sua
generazione ha dovuto combattere, per cui e' morta, e per cui ha ucciso
innocenti?
Assieme alla maggior parte dei senatori repubblicani, al congresso,
all'esecutivo e a Dick Cheney (che comunque ha sempre "altre priorita'"), io
non ho nessun problema con chiunque abbia fatto tutto quel che poteva per
non andare in Vietnam. Il problema che ho concerne il fatto che mentre negli
anni '60 e '70 loro si sono sottratti al complesso militare-industriale,
successivamente gli hanno dato da mangiare i nostri figli, durante la prima
guerra del nuovo secolo combattuta per l'avidita'.
Il congresso si e' anche sottratto alla propria responsabilita'
costituzionale di dichiarare o no un conflitto, e ha dato le chiavi della
macchina della guerra in mano ad un irresponsabile disertore e al suo vice,
che la leva all'epoca la schivo'. In aggiunta, il nostro comandante in capo
ha l'obbligo di usare le sue truppe saggiamente, non in maniera insensata e
negligente. E che ne e' stato dell'obbligo di dire la verita' al nostro
paese?
Invece di avere il dubbio ardire di chiedere ad un giovane uomo coraggioso,
colmo di senso dell'integrita' e dell'onore, se non sente di dover
rispettare un obbligo, amerei sentire qualcuno della stampa fare la stessa
domanda al comandante in capo di mio figlio Casey e di Mark. George Bush ha
avuto tutti i vantaggi derivanti dalla sua nascita e dalla ricchezza di suo
padre, cosi' quando non ha voluto andare in guerra non ci e' andato. Mark
non ha avuto questi vantaggi, ed ha vissuto nel terrore di essere scoperto
per piu' di un anno e mezzo. Da sempre i ricchi mandano a morire i figli dei
poveri per diventare piu' ricchi ancora.
*
Il movimento per la pace deve incoraggiare tutti i soldati a deporre le
armi, e a rifiutarsi di morire e di uccidere per far piacere ai vigliacchi
che siedono a Washington o alla macchina della guerra. Noi che ci
dichiariamo attivisti per la pace dobbiamo sostenerli moralmente e
finanziariamente, di modo da facilitare la loro decisione. Noi che ci
dichiariamo attivisti per la pace dobbiamo lavorare per fermare ora la
prossima guerra, e dare alle famiglie le informazioni e le alternative prima
che i loro figli indossino un'uniforme a beneficio dei profittatori di
guerra. Andare al college e' costoso, e nelle loro comunita' non c'e'
lavoro. I soldi del dipartimento della guerra devono essere restituiti al
futuro: i nostri figli. La guerra continuera' se continueremo a fornire i
nostri figli alla sua macchina, affinche' li mastichi e poi sputi fuori i
suoi malvagi profitti.
Per avere maggiori informazione su come aiutare i giovani e le giovani a non
andare in guerra, o ad ottenere lo status di obiettore visitate
www.objector.org, per maggiori informazioni sulle alternative all'esercito
visitate www.afsc.org/youthmil
Avrei voluto saperle io, queste cose, prima che il mio figlio maggiore
tornasse a casa chiuso in un sacco.

3. RIFLESSIONE. CAMERON ABADI INTERVISTA SHIRIN EBADI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione la seguente intervista a
Shirin Ebadi di Cameron Abadi, realizata a Teheran e pubblicata su "Spiegel
online".
Cameron Abadi e' corrispondente da Teheran per "Der Spiegel".
Shirin Ebadi, giurista iraniana, gia' magistrata, impegnata nella difesa dei
diritti umani, premio Nobel per la pace nel 2003. Riportiamo di seguito
alcun stralci da un articolo di Sara Sesti gia' riprodotto su questo foglio:
"Il 9 ottobre 2003 e' stato assegnato ad Oslo il Nobel per la pace
all'iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata, madre di due figlie. Il premio
le e' stato conferito "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a
favore della democrazia. Si e' concentrata specialmente sulla battaglia per
i diritti delle donne e dei bambini". Ebadi e' l'undicesima donna a vincere
il Nobel per la pace, da quando il riconoscimento e' stato istituito nel
1903, ed e' la prima musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, e' stata la
prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel
1969 all'Universita' di Teheran, e' stata nominata presidente del tribunale
dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 e' stata costretta a dimettersi
per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane.
Con l'avvento di Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne
sono troppo emotive per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso
le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il
1999. E' stata tra i fondatori dell'Associazione per la protezione dei
diritti dei bambini in Iran, di cui e' ancora una dirigente. Nel 1997 ha
avuto un ruolo chiave nell'elezione del presidente riformista Khatami. E'
stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi
segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush
Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato ad una conferenza a Berlino
sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione
vicina ai Verdi tedeschi, che provoco' grande clamore e la pronta reazione
dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti
al loro ritorno in Iran. Perseguitata a causa delle indagini che stava
svolgendo, nel 2000 e' stata sottoposta a un processo segreto per aver
prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del
luglio 1999, materiale che secondo l'accusa 'disturbava l'opinione
pubblica'. Arrestata, ha subito 22 giorni di carcere. Il Comitato del Nobel
e' lieto di premiare 'una donna che fa parte del mondo musulmano', si legge
nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi 'non veda conflitto
fra Islam e i diritti umani fondamentali'. 'Per lei e' importante che il
dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori
condivisi', prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente
mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente. 'La sua
arena principale e' la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna
societa' merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e
dei bambini non vengono rispettati' prosegue la nota. 'E' un piacere per il
comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna
che e' parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo puo' essere fiero,
insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque
vivano'". Su Shirin Ebadi cfr. anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e
Marina Forti apparsi nei nn. 701 e 756 di questo foglio]

All'inizio di agosto, la Premio Nobel Shirin Ebadi ha appreso dalla stampa
che il suo "Centro per la difesa dei diritti umani" a Teheran era stato
dichiarato illegale. "Spiegel Online" ha parlato con lei sul fatto che il
governo iraniano viola le proprie stesse leggi e di come si continua ad
essere attivisti per i diritti umani dovendo fronteggiare la prigione o
peggio.
*
- Cameron Abadi: Tu sei stata minacciata di arresto se non chiuderai il
Centro per i diritti umani, ma secondo la legge iraniana le ong sono libere
di operare.
- Shirin Ebadi: La Costituzione garantisce alle organizzazioni sociali la
liberta' di condurre le proprie attivita', a meno che esse non tengano una
"condotta disordinata" o violino le leggi dell'Islam. Sono "libere" nel
senso che non si deve chiedere un permesso per metterle in piedi. Percio',
ong come la nostra, che lavora per i diritti umani, non necessitano
dell'approvazione del governo.
*
- Cameron Abadi: Pero' tu hai chiesto il permesso comunque.
- Shirin Ebadi: Quattro anni orsono lo abbiamo fatto, perche' il governo
insisteva a voler "registrare" le ong. E' una contraddizione, ma volevamo
togliere ogni possibilita' al governo di sostenere che noi siamo una sorta
di organizzazione segreta. Non volevamo essere fuorilegge, percio' andammo
al Ministero degli Interni e presentammo la richiesta. Essa fu esaminata e
nessuno ci trovo' qualcosa da ridire. Solo recentemente hanno deciso che non
deve esserci permesso di agire ed hanno respinto la richiesta.
*
- Cameron Abadi: Cioe', il rigetto e' avvenuto a quattro anni dalla
richiesta di avere un'autorizzazione?
- Shirin Ebadi: Si', e questo rende il rigetto illegale, contrario al
dettato della legge. Tutto quello che abbiamo fatto in questi quattro anni
e' in perfetto accordo con la Costituzione della Repubblica islamica. Avevo
creduto che non ci sarebbero stati problemi ad ottenere il permesso dal
governo. E nelle more della concessione di tale permesso, non ho mai dovuto
ripensare le mie azioni: tutto cio' che ho fatto e' legale.
*
- Cameron Abadi: Da un certo punto di vista, il fornire assistenza legale a
chi viene accusato di crimini politici non rende cari ai governi. Non ti
aspettavi reazioni di nessuna sorta?
- Shirin Ebadi: No. E' stata una sorpresa. Noi non disturbiamo la pace e non
siamo anti-islamici. Permettendoci di operare per quattro anni, lo stesso
governo ha riconosciuto la nostra legalita'. Non so come tutto d'un tratto
noi si possa divenire un'organizzazione illegale. L'ho letto sui giornali
una mattina, ma devo ancora essere contattata personalmente da qualcuno.
*
- Cameron Abadi: In maggio, negli Usa hanno pubblicato le tue memorie con il
titolo Iran Awakening: A Memoir of Revolution and Hope. Pensi che questo
c'entri qualcosa?
- Shirin Ebadi: Non mi e' stata fornita alcuna ragione. Hanno semplicemente
detto che non avevamo il permesso. Noi abbiamo sempre rispettato la legge,
loro no. E non hanno dato alcuna spiegazione. Lascia che mi ripeta: c'era
una richiesta pendente da quattro anni e fino ad ora nessuno ha tentato di
chiudere il Centro. Poi, di colpo, ci viene detto che quanto facciamo non e'
legale. Forse il libro c'entra, e forse no, non lo so.
*
- Cameron Abadi: Tu dici, comunque, che lo stato iraniano e' la parte che si
comporta illegalmente in questa situazione.
- Shirin Ebadi: Io sto solo chiedendo: come abbiamo fatto a diventare
improvvisamente fuorilegge? Siamo legali, lo siamo sempre stati. Siamo
un'organizzazione che lavora per i diritti umani. Difendiamo gratuitamente
gli imputati di crimini politici. Si', questo paese sta violando le proprie
stesse leggi.
*
- Cameron Abadi: Cosa farete ora?
- Shirin Ebadi: Continueremo a lavorare. Non c'e' un'altra scelta, questa e'
la nostra responsabilita' perche' noi, a differenza del Ministero degli
Interni, la legge la rispettiamo. Io intendo continuare a lottare fino a che
avro' vita.
*
- Cameron Abadi: Anche se questo dovesse significare la prigione?
- Shirin Ebadi: Si'. Lottero' sino a che dovro' farlo.
*
- Cameron Abadi: Tu hai ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2003, per
la tua continua attivita' in favore dei diritti umani in Iran. Da allora sei
stata soggetta a qualche forma di intimidazione?
- Shirin Ebadi: L'intimidazione e' normale per chiunque lavori per i diritti
umani in Iran. Da quando ho ricevuto il premio sono stata convocata in
tribunale tre volte, ed accusata di attivita' sovversive. Ho contrastato
queste accuse, naturalmente, e lo scorso anno sono stata assolta.
*
- Cameron Abadi: Il premio Nobel, ovviamente, ti ha portato molta fama e ha
messo in luce il tuo impegno. Da allora hai dovuto anche fronteggiare
aspettative non realistiche.
- Shirin Ebadi: Qualcuno pensa che il Nobel mi abbia dato la chiave d'oro
con cui si aprono le porte di tutte le prigioni politiche, ma quando spiego
dei processi che ho subito e che la mia stessa ong e' stata bandita, allora
queste persone cominciano ad avere un quadro piu' preciso della situazione.
Sanno che non ho mai fatto parte del governo e che non detengo alcun potere
esecutivo. I miei soli poteri sono la mia voce e la mia penna, con i quali
parlo e scrivo.
*
- Cameron Abadi: Stai cercando il sostegno della comunita' internazionale?
- Shirin Ebadi: E' il popolo dell'Iran che deve ottenere la propria liberta'
ed un miglioramento nel rispetto dei diritti umani. Azioni militari o altre
punizioni inflitte all'Iran renderanno la situazione piu' difficile per i
politici riformisti e per i fautori dei diritti umani. Non credo che chi
lavora per i diritti umani in Iran abbia bisogno di questo tipo di aiuto dai
governi occidentali. Quello che invece mi aspetto e' che l'Occidente
sostenga coloro che in Iran cercano la liberta'.

4. ESPERIENZE. GLORIA HELENA REY: RICOSTRUIRE LA VITA MATTONE SU MATTONE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Gloria Helena Rey per "Inter Press Service News Agency". Gloria Helena Rey,
prestigiosa giornalista, da molti anni e' corrispondente dall'America Latina
per varie testate internazionali]

Cartagena, Colombia. La "Citta' delle donne" nella municipalita' di Turbaco,
nel nord della Colombia, ad undici chilometri dalle mura fortificate della
citta' turistica, non assomiglia per nulla al film di Federico Fellini che
porta lo stesso nome, ne' al sobborgo di Buenos Aires che pure lo porta,
dove tutte le strade e i luoghi pubblici sono stati intitolati a donne
famose.
Queste donne colombiane, al contrario, sono molto reali e tuttora vive, e
stanno lasciando un segno nel paese. Rese profughe dalla guerra,
sopravvissute a massacri e crimini, alcune vittime delle milizie
paramilitari, altre dei guerriglieri o delle forze di sicurezza. La Colombia
ha il maggior numero di profughi interni al mondo dopo il Sudan: circa due
milioni e mezzo di persone secondo i dati governativi, ed il 49% del totale
sono donne. La nuova comunita' nei pressi di Turbaco e' stata costruita dal
duro lavoro di queste donne.
All'inizio, in otto fondarono la "Liga de Mujeres Desplazadas" nel 1998,
affinche' le migrazioni forzate interne fossero riconosciute come crimini di
guerra, per cercare aiuto umanitario che migliorasse le terribili condizioni
igieniche e nutrizionali in cui vivevano, e per reclamare i propri diritti
umani e quelli delle proprie famiglie.
"La vista della tremenda poverta' nelle strade era insopportabile", ricorda
Patricia Guerrero, avvocata resa profuga dalla minacce ricevute, madre di
tre figlie e forza motrice della Liga de Mujeres e del villaggio da essa
creato.
Circa cento donne si unirono a lei nel cominciare a costruirlo, mattone su
mattone, nel 2003. Esse stesse hanno fabbricato i 120.000 blocchi di cemento
usati per le 97 case (ciascuna di 78 metri quadri) che oggi ospitano 500
persone. Il progetto, che includeva i costi del terreno e la costruzione
degli edifici fu negoziato con il proprietario per piu' di un anno e mezzo.
Guerrero e' riuscita ad ottenere fondi da numerose organizzazioni pubbliche
e private, fra cui l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati ed il
governo spagnolo. Mano a mano che nuovi fondi arriveranno, altre abitazioni
verranno costruite.
*
La formazione e' uno dei punti chiave dell'iniziativa: molte delle donne che
ora vivono nel villaggio erano contadine o domestiche. "E' stata dura
imparare a fare mattoni, ma ho dimostrato che una donna puo' riuscirci",
dice Niris Romero, madre di cinque figli, una delle donne appositamente
addestrate allo scopo, "Ho posato io le travi di casa mia, e ho contribuito
a modellare ogni colonna, e ho mescolato il cemento che doveva fissare il
tutto. Sono felice: ho un tetto e un mestiere".
Tutte le donne hanno ricevuto istruzione professionale, nel lavoro coi
mattoni o nel coltivare la terra; tutte hanno portato la loro formazione
anche oltre, impegnandosi nel campo dello sviluppo dei diritti umani.
*
"E' stato estremamente difficile concretizzare il progetto", dice ancora
Guerrero, "Siamo state attaccate quasi subito. Io venivo accusata di agire
per interessi personali, e praticamente chiunque diceva che il progetto era
destinato a fallire. Durante la costruzione delle case fummo continuamente
minacciate, persone 'sparivano' e poi venivano uccise, e i loro corpi
venivano lasciati nei pressi del villaggio per terrorizzarci. Volevano che
ce ne andassimo, e usavano qualunque mezzo".
Il marito di Simona Velasquez, quarantaseenne madre di sei figli e resa
profuga dalla guerra per tre volte, fu ucciso a colpi di machete mentre
sorvegliava i materiali da costruzione per l'insediamento. "Non rubarono i
materiali, ma l'omicidio suscito' il panico. Molte donne sulle prime
volevano abbandonare, ma nessuna lo fece", dice Guerrero.
"Avrebbe significato dir loro: avete ucciso la nostra ultima speranza. Non
potevamo farlo, siamo restate tutte", aggiunge Nerlides Almansa, 48 anni e
anche lei madre di sei bambini, attuale coordinatrice dei progetti
produttivi della Liga e della "Citta' delle donne".
*
Queste donne sono gia' state segnalate per il premio Nobel per la pace, in
ragione del fatto che come individui e come organizzazione stanno dando un
contributo significativo alla risoluzione di un conflitto armato che
interessa la Colombia da ormai quarant'anni. La loro storia e' stata presa a
modello in altre regioni del paese. Le famiglie delle donne hanno ricevuto
anch'esse formazione ed hanno partecipato a corsi di autocoscienza.
Patricia Guerrero mi spiega il lavoro fatto sul concetto di "mascolinita'"
con la "Lega della gioventu'" e i mariti. "Non vogliamo mariti violenti, o
figli che possano essere trascinati nella guerra e nella prostituzione. La
nostra comunita' e' coesa attorno a valori etici ed educhiamo ognuno ai suoi
diritti di cittadino".
*
Le donne hanno anche costruito un sistema di distribuzione idrica e un
centro sociale diurno; hanno fondato Mujercoop, una cooperativa che
commercia parte dei mattoni fabbricati, e messo in funzione un ristorante
comunitario. Inoltre, hanno creato un fondo per finanziare microimprese e
progetti sussidiari di istruzione. Nello scorso mese di luglio, dice la
responsabile Roseli' Cardona, sono stati approvati progetti per undici nuove
piccole imprese, e quello per la formazione alla fabbricazione di scarpe.
Prima di giungere a Turbaco, queste donne avevano perso tutto. Il loro
orgoglio e la loro dignita' erano in pezzi. Molte di esse erano state
stuprate, molte avevano visto uccidere i membri delle loro famiglie.
"Non ci tengo a rivangare il passato", dice Adelaida Amador, madre di cinque
figli, che gestisce uno dei negozi di alimentari della comunita' e fu una
delle prime ad unirsi al progetto, "Oggi abbiamo pace, un tetto sopra le
nostre teste e un futuro".
*
"Siamo orgogliose di quello che abbiamo compiuto", sottolinea Marlenys
Hurtado, madre di tre bimbi e membro della Liga, "Certo portiamo con noi
tutte le sofferenze e le ferite della guerra, ma abbiamo imparato a guardare
al futuro con dignita'". "Ma e' solo l'inizio", interviene Patricia
Guerrero, "Abbiamo bisogno di rendere la citta' e i progetti produttivi
autosufficienti e di creare un'economia basata sulla solidarieta'. Dobbiamo
anche imparare a risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgeranno, e
consolidare le basi della comunita' attorno ai diritti umani, l'eguaglianza,
l'opposizione alla guerra e alla violenza".
Immaginate di assistere all'omicidio di figli, mariti, fratelli o sorelle e
poi di dover fuggire per salvare la vostra stessa vita. Immaginate di dover
sconfiggere la paura, la fame, l'emarginazione sociale. E' questo cio' che
le donne del villaggio hanno fatto.
Isabelina Tapias, 71 anni; Doris Berrio, suo marito e i due piccoli, e Ana
Luz Ortega con il marito e sette bambini, erano stati colpiti dalle forze
paramilitari. La figlia di Isabelina fu uccisa, Doris e la sua famiglia
scamparono per miracolo alla morte, Ana Luz decise di fuggire quando gli
omicidi attorno a lei erano diventati routine e la sua bimba dodicenne era
stata minacciata di stupro.
"Fuggimmo dagli ammazzamenti della guerriglia", racconta Almansa, "Lasciammo
tutto, e andammo via". L'attenzione di Almansa e' oggi concentrata sulle
piantagioni di grano, fagioli e verdure, e sulla ricerca di risorse per
migliorare i raccolti. "La mia forza la prendo dalle persone che hanno
pensato il progetto, da coloro che le sostengono, e da me stessa. Vivere
cosi' era il solo sogno che avevo".
*
Viste da lontano, le modeste casette immerse nella vegetazione tropicale
sembrano silenziose. Ma stanno facendo un grande rumore. E' un suono potente
e, come Patricia Guerrero sostiene, e' soprattutto "Resistenza pacifica
all'impunita', alla violenza su donne e bambini, e all'omicidio. E' anche un
modo per fronteggiare chi fa 'sparire' le persone, ruba la terra, e coloro
che per decenni hanno sparso i semi del dolore e della fame in questa
regione".

5. LETTURE. ANTONIO NANNI, STEFANO CURCI: BUONE PRATICHE PER FARE
INTERCULTURA
Antonio Nanni, Stefano Curci, Buone pratiche per fare intercultura, Emi,
Bologna 2005, pp. 176, euro 9. Una riflessione, ma soprattutto un repertorio
di materiali di lavoro assai utili (con ricche, preziose bibliografie -
talvolta forse fin troppo generosamente inclusive di testi non proprio
imprescindibili). Il volume apre la collana "Interculturarsi" curata dal
Centro educazione alla mondialita' (in sigla: Cem) e diretta da Antonio
Nanni, collana in cui la benemerita Editrice Missionaria Italiana accoglie e
presenta "proposte operative per promuovere una via italiana
all'intercultura e conseguire obiettivi che siano insieme pedagogici,
metodologici, antropologici, etici e politici" nel segno dell'incontro, del
dialogo e della convivenza, del riconoscimento di umanita' e di tutti i
diritti umani a tutti gli esseri umani, dell'educazione coscientizzatrice,
responsabilizzante e liberatrice, della nonviolenza in cammino.

6. RIEDIZIONI. IPPOLITO NIEVO: OPERE
Ippolito Nievo, Opere, Biblioteca Treccani - Il Sole 24 ore, Milano 2006,
pp. XLII + 674, euro 12,90 (in suppl. a "Il sole 24 ore"). Dalla classica
Letteratura Italiana Ricciardi le Confessioni di un italiano, alcuni scritti
politici e alcune lettere, a cura di Sergio Romagnoli. Resta un enigma e una
delizia come Nievo (Padova 1831 - in mare 1861) in cosi' breve volger di
anni - ed in cosi' incandescente tumulto ed urgere di vicende e di impegno
militante personale senza risparmio alcuno - sia pervenuto al capolavoro
delle Confessioni. Ma quel dono ci ha fatto, immenso. (E se una postilla ci
e' concessa qui vorremmo segnalare per un eventuale primo ed agile ma nitido
e solido accostamento alla figura e all'opera di Nievo la monografia di
Marinella Colummi Camerino nella collana laterziana degli Scrittori).

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1407 del 3 settembre 2006

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