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La nonviolenza e' in cammino. 1407
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1407
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 3 Sep 2006 00:09:18 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1407 del 3 settembre 2006 Sommario di questo numero: 1. Ann Jones: Cosa accade in Afghanistan 2. Cindy Sheehan: Obblighi e giuramenti 3. Cameron Abadi intervista Shirin Ebadi 4. Gloria Helena Rey: Ricostruire la vita mattone su mattone 5. Letture: Antonio Nanni, Stefano Curci, Buone pratiche per fare intercultura 6. Riedizioni: Ippolito Nievo, Opere 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. MONDO. ANN JONES: COSA ACCADE IN AFGHANISTAN [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Ann Jones. Ann Jones, giornalista e fotografa, ha passato la maggior parte degli ultimi quattro anni in Afghanistan; attivista per i diritti umani, lavora nel paese con le agenzie internazionali e insegna inglese ai docenti del liceo di Kabul; scrive delle sue esperienze in Afghanistan per "Nation Magazine" ed e' stato pubblicato di recente il suo libro: Kabul in inverno: vita senza pace in Afghanistan, Metropolitan Books, 2006)] Vi ricordate di quando il pacifico, democratico, ricostruito Afghanistan era il modello pubblicitario su cui si doveva rifare l'Iraq? Nell'agosto 2002, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld parlava del nuovo Afghanistan come di una "straordinaria vittoria" ed un "modello di successo per cio' che potrebbe accadere in Iraq". Come tutti ormai sanno, il modello in Iraq non sta funzionando. Percio', non dovremmo sorprenderci nel sapere che non sta funzionando neppure in Afghanistan. La storia del successo afgano e' sempre stata piu' una favola che un fatto. Ora, mentre l'amministrazione Bush passa il "peacekeeping" alle forze Nato, l'Afghanistan e' la scena della piu' vasta operazione militare nella storia del trattato del nordatlantico. Le mie mail di oggi riportano l'appello di una chirurga americana che lavora a Kabul: la sua squadra medica d'emergenza non riesce a trattare neanche la meta' dei civili feriti che le vengono inviati dalle province in cui si combatte, a sud e a est. Truppe statunitensi, britanniche e canadesi si trovano in guerra contro i combattenti talebani, mentre sconcertati comandanti Nato si stanno gia' chiedendo cos'e' che e' andato male. La risposta sta in un triplice fallimento: niente pace, niente democrazia e niente ricostruzione. * L'amministrazione Bush ha fatto politicamente le cose a rovescio. Dopo aver spinto i talebani a suon di bombe nelle periferie, nel 2001, ha messo in piedi un governo senza siglare una pace, uno scenario che piu' tardi si sarebbe ripetuto in Iraq. Invece di premere per negoziati di pace fra i partiti afgani rivali, i vittoriosi americani hanno dato il potere agli islamisti ed ai comandanti delle milizie che erano servite a sostituire i soldati Usa nella guerra contro l'Unione Sovietica degli anni '80. Poi l'amministrazione Bush ha messo in scena elezioni per questi candidati, ed ha proclamato che i risultati erano la democrazia. Ha anche confinato la International Security Assistance Force (Isaf), composta largamente da truppe europee, alla capitale, creando cosi' un'oasi di sicurezza per il governo, mentre sguinzagliava i signori della guerra di sua scelta alla ricerca di Osama bin Laden nel resto del paese. Ad est e sud, che e' come dire in meta' del paese, i talebani non hanno mai smesso di combattere. Oggi, rimpolpate dall'arrivo di combattenti importati da al-Qaida (detti arabi-afgani) e con l'ausilio di nuove tecniche apprese dall'insorgenza irachena (le bombe sulle strade o quelle suicide), le forze talebane sono piu' forti di quando gli Usa le "sconfissero" nel 2001. * Secondo la Commissione indipendente afgana per i diritti umani, la maggioranza degli afgani avrebbero visto con favore un processo di amnistia e riconciliazione, e persino il presidente Karzai ha di recente chiesto all'amministrazione Bush di cambiare metodo, e di smettere di uccidere afgani. Ma le politiche riaffermate a Kabul dalla segretaria di stato Condoleeza Rice chiedono di combattere sino all'eliminazione dell'ultimo talebano. Com'era da aspettarsi, l'opinione pubblica ha cominciato ad avversare con forza un governo centrale largamente privo di potere, tenuto sotto scorta nella capitale da forze armate straniere. L'insicurezza che la maggior parte degli afgani subiscono, l'assenza di pace, e' abbastanza per aver fatto loro perdere fiducia nel presidente Karzai, spesso definito sarcasticamente "il sindaco di Kabul" o "l'assistente dell'ambasciatore americano". Storicamente, gli afgani hanno scelto e seguito leader forti: da chi guida si aspettano sicurezza, lavoro, o almeno che faccia qualcosa. Il governo Karzai, costretto a seguire un'agenda al servizio degli Usa, si trova spesso in difficolta' nel difendere gli interessi afgani, e non ha dato nulla al cittadino medio che vive ancora in una poverta' abissale. Nel 2004, doverosamente gli afgani votarono per Karzai, quale strumento delle promesse americane. Nel 2005, quando si tennero le elezioni parlamentari, gli elettori indicarono che ne avevano abbastanza degli stessi candidati, comandanti di milizie ed estremisti islamisti, e delle stesse vuote promesse. * La parte piu' triste della storia sta qui: nonostante la finta pace e la democrazia da burletta vantate dell'amministrazione Bush, quest'ultima avrebbe potuto fare dell'Afghanistan un successo solo se avesse portato a compimento la terza e piu' grande promessa, quella di ricostruire un paese bombardato. La maggioranza degli afgani, dopo la dispersione dei talebani, era piena di speranza e desiderosa di mettersi al lavoro. I benefici tangibili della ricostruzione (impieghi, case, scuole, assistenza sanitaria) avrebbero potuto indurli a sostenere il governo e a trasformare una democrazia illusoria in qualcosa di piu' reale. Ma la ricostruzione non e' avvenuta. Quando le forze Nato si sono mosse quest'estate nelle province del sud, per "mantenere la pace e continuare lo sviluppo", il generale David Richards, comandante britannico dell'operazione, sembra essere rimasto scioccato nello scoprire che nessuno sviluppo, o ben poco, era mai cominciato. Di questo fallimento, i primi responsabili sono gli Usa. Fino a quest'ultimo anno, la coalizione guidata dagli americani ha assunto per se' sola il compito di ristabilire condizioni di sicurezza fuori Kabul, ma non vi ha impiegato sul terreno un solo uomo. Come risultato, i volontari di associazioni umanitarie (internazionali e afgane) hanno perso la vita, pressoche' tutte le ong si sono ritirate all'interno di Kabul o, come Medici senza frontiere, hanno lasciato il paese. I mercenari, ancora presenti nel paese, si trovano regolarmente coinvolti in progetti relativi alla "sicurezza", cosi' che il denaro degli aiuti umanitari, come sta accadendo anche in Iraq, finisce nel budget militare. Una recente testimonianza dell'Ispettore generale per la ricostruzione dell'Iraq ha rivelato come l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) manipoli i propri conti per nascondere i mastodontici costi che i problemi di sicurezza aggiungono ai progetti d'aiuto (si arriva a maggiorazioni del 418%). E' ragionevole pensare che se ascoltassimo l'Ispettore responsabile per l'Afghanistan ci racconterebbe le medesime storie: le ditte sotto contratto per l'Usaid sono le stesse. Senza pace non puo' esserci sicurezza, e senza sicurezza non c'e' ricostruzione. Ma c'e' di piu'. Per capire il fallimento, e la frode, di tali progetti di ricostruzione, bisogna dare un'occhiata allo specifico sistema con cui gli Usa forniscono aiuto per lo sviluppo a livello internazionale. Durante gli ultimi cinque anni gli Usa e molti altri donatori hanno mandato miliardi di dollari in Afghanistan, eppure gli afgani continuano a chiedere: Dove sono finiti i soldi? Chi paga le tasse in America dovrebbe fare la stessa domanda. La risposta ufficiale e' che i fondi inviati dai donatori si perdono nella corruzione afgana. Ma gli afgani equivoci, abituati alle bustarelle da due soldi, stanno imparando come la corruzione ad alto livello funzioni benissimo per i padroni del mondo. * Un rapporto del giugno 2005, molto circostanziato, di Action Aid (ong con sede centrale a Johannesburg in Sudafrica, assai rispettata) ci aiuta a far chiarezza su come funzioni questo mondo. Il rapporto ha studiato gli aiuti allo sviluppo forniti da tutti i paesi sul globo ed ha scoperto che solo una piccola parte di essi (forse tocca il 40%) e' concreta. Il resto e' "aiuto fantasma", il che significa che i soldi non arriveranno mai ai paesi a cui sono destinati. Parte di questi soldi non esistono proprio, se non come voce in bilancio, come quando i paesi contabilizzano la cancellazione del debito o i costi di costruzione di una bella nuova ambasciata nella colonna degli aiuti. Molti di questi soldi non lasceranno mai la propria casa: i mandati di pagamento per gli "esperti" americani sotto contratto dall'Usaid, per esempio, vanno direttamente dall'agenzia alle banche Usa, senza mai passare per i "paesi che devono essere ricostruiti". Molto altro denaro, conclude il rapporto, e' buttato via in "assistenza tecnica superpagata e inefficace" (come gli "esperti" di cui sopra, per dire). Ed un'altra bella fetta di soldi e' legata alla nazione donatrice, il che vuol dire che chi la riceve e' obbligato ad usare il denaro per comprare prodotti del paese donatore: soprattutto quando le stesse merci potrebbe trovarle a prezzo assai piu' basso in casa propria. Gli Usa sono ai piu' alti livelli nella classifica dei "donatori fantasma", solo la Francia qualche volta li supera. Il 47% dell'aiuto americano allo sviluppo va alla "superpagata assistenza tecnica"; solo il 4% dell'aiuto svedese lo fa, e il 2% dell'aiuto lussemburghese o irlandese. E per quanto riguarda il dover acquistare prodotti del paese donatore, ne' la Svezia, ne' la Norvegia, ne' l'Irlanda o il Regno Unito lo fanno. Il 70% del denaro americano legato agli aiuti ha questa clausola, di doverci comperare roba americana, soprattutto sistemi d'arma. Considerate queste pratiche, Action Aid calcola che 86 centesimi su ogni dollaro siano "aiuto fantasma". Secondo gli standard fissati anni orsono dall'Onu e ai quali ha aderito praticamente ogni nazione del mondo, un paese ricco dovrebbe dare lo 0,7% del suo introito nazionale annuale a quelli poveri. Solo i paesi scandinavi, l'Olanda ed il Lussemburgo (con lo 0,65%) si avvicinano alla percentuale; all'altro capo della fila, ci sono gli Usa con lo 0,02%: 8 dollari l'anno a persona dal "paese piu' ricco del mondo" (a confronto, pensate che la Svezia ne da' 193, la Norvegia 304 e il Lussemburgo 357). Il presidente Bush si vanta di aver mandato miliardi di dollari in Afghanistan, ma in effetti avremmo ottenuto un miglior risultato passando in giro un cappello. * L'amministrazione Usa spesso deliberatamente rappresenta in modo falso il suo programma di aiuti ad uso delle popolazioni. Lo scorso anno, per esempio, mentre il presidente Bush mandava sua moglie a Kabul per poche ore, il tempo di fare qualche fotografia pubblicitaria, il "New York Times" riportava che la missione di costei era "la promessa di un impegno a lungo termine per l'istruzione di donne e bambini". Nel suo discorso di Kabul, la signora Bush disse che gli Usa avrebbero fornito 17,7 milioni di dollari in piu' per sostenere l'istruzione in Afghanistan. Quello che e' accaduto e' che il fondo in questione e' stato usato per costruire un'universita' privata, l'Universita' americana dell'Afghanistan, diretta alle elite afgane e statunitensi, e a cui si accede a pagamento: il fatto che un'universita' privata venga finanziata dai soldi delle tasse pubbliche e costruita dal corpo dei genieri dell'esercito Usa e' un'altra delle peculiarita' degli aiuti in stile Bush. Ashraf Ghani, l'ex ministro delle finanze afgane, e presidente dell'Universita' di Kabul, si e' lamentato: "Non si puo' continuare a sostenere l'istruzione privata ed ignorare quella pubblica". * Tipicamente, gli Usa preferiscono canalizzare il danaro degli aiuti umanitari verso appaltatori statunitensi. L'assistenza umanitaria Usa e' sempre piu' privatizzata, ed e' ormai solo un meccanismo per trasferire i dollari delle tasse ai forzieri di ditte americane selezionate, ed alle tasche di chi i soldi li ha gia'. Nel 2001 Andrew Natsios, l'allora direttore di Usaid, cito' i fondi per l'assistenza all'estero come "uno strumento politico chiave", disegnato per aiutare gli altri paesi a "diventare migliori mercati per l'esportazione statunitense". Per garantire che tale missione vada a buon fine, il Dipartimento di Stato ha di recente assunto la direzione di quelle che prima, almeno formalmente, erano agenzie umanitarie semi-autonome. E poiche' lo scopo dell'aiuto americano e' quello di rendere il mondo sicuro per gli affari americani, Usaid si serve di una lista di ditte "favorite" (che puo' leggermente mutare a seconda dei risultati elettorali) a cui chiede di sottoporre progetti, e talvolta interpella un solo appaltatore, la stessa efficiente procedura che ha reso l'Halliburton cosi' fortunata in Iraq. Le ditte preselezionate stipulano un contratto con l'Usaid, detto Iqc (ovvero "per quantita' indefinite"). Le ditte presentano informazioni vaghe su cosa potrebbero fare in aree non meglio specificate, riservandosi le definizioni per un successivo contratto. La ditta di volta in volta scelta verra' invitata a materializzare le sue speculazioni tramite il formato Rfp (ovvero "richiesta di proposte"), e poi inviata in un paese straniero a cercare di rendere reale qualsiasi tipo di lavoro sognato da teorici di Washington, assolutamente non oberati dalla conoscenza di prima mano dello sfortunato paese in questione. I criteri con cui si scelgono gli appaltatori ha poco o niente a che fare con le condizioni del paese che li riceve, e non sono esattamente cio' che chiamereste campioni di trasparenza. * Prendete il caso della strada maestra Kabul-Kandahar, che il sito dell'Usaid propaganda con orgoglio come un successo. In cinque anni e' la sola strada che sia mai stata finita, il che supera almeno di un punto il record dell'amministrazione Bush nella costruzione di sistemi idrici o fognari (nessuno). Nel marzo 2005, la superstrada in questione apparve sul giornale "Kabul Weekly" sotto il titolo: "Milioni buttati via per strade di seconda mano". Il giornalista afgano Mirwais Harooni racconto' che sebbene ditte internazionali si fossero offerte per ricostruire la strada al prezzo di 250 dollari al chilometro, gli statunitensi del Louis Berger Group avevano ottenuto il lavoro al prezzo di 700 dollari al chilometro (ce ne sono 389). Perche'? La risposta standard americana e' che gli americani lavorano meglio, sebbene non sia il caso della ditta Berger che all'epoca era gia' in ritardo su un altro contratto di 665 milioni di dollari per costruire scuole in Afganistan. La Berger subappalto' la costruzione della stretta strada a due corsie, priva di guard-rail, a ditte turche ed indiane, al costo finale di un milione di dollari a miglio: e chiunque ci viaggi oggi puo' constatare che sta gia' cadendo a pezzi. L'ex ministro della pianificazione Ramazan Bashardost fece notare che in materia di strade i talebani avevano fatto un miglior lavoro, ed anche lui pose la fatidica domanda: "Dove sono finiti i soldi?". Oggi, con una mossa che certamente fara' crollare gli indici di gradimento di Karzai, e danneggera' ulteriormente le truppe Usa e Nato presenti nell'area, l'amministrazione Bush sta facendo pressione sul governo afgano affinche' questo "dono del popolo degli Stati Uniti" (cosi' venne definita la strada) sia trasformato in una strada a pagamento: 20 dollari a guidatore per un permesso di transito valido un mese. In questo modo, dicono gli esperti americani fornitori di superpagata assistenza tecnica, l'Afghanistan potrebbe avere un introito annuo di 30 milioni di dollari dai suoi cittadini immiseriti e alleggerire finalmente il "peso" dell'aiuto che grava sugli Usa. * C'e' da stupirsi se l'aiuto straniero sembra all'afgano ordinario qualcosa di cui sono gli stranieri a godere? Ad una estremita' dell'infame superstrada, a Kabul, gli afgani si lamentano dei fantasiosi ristoranti dove questi esperti ed altri forestieri si riuniscono per bere alcolici, divertirsi e piombare nudi nelle piscine. Obiettano alla presenza di bordelli in citta' (otto nel 2005), bordelli in cui donne afgane vengono trafficate per servire ai "bisogni" degli stranieri. Si lamentano del fatto che la capitale e' ancora un ammasso di rovine, che molte persone vivano ancora sotto le tende, che in migliaia non trovano lavoro, che i bambini sono denutriti, che le scuole e gli ospedali sono sovraffollati, che donne in burqa stracciati mendicano nelle strade e finiscono per prostituirsi, che i bambini vengono rapiti e venduti in schiavitu', o assassinati per ricavarne organi da trapianto. Si chiedono dove sia finito il denaro degli aiuti promessi e cosa questo governo fantoccio possa fare per migliorare le cose. All'altra estremita' della strada c'e' Kandahar, la citta' natale del presidente Karzai. Nelle provincie del sud (Kandahar, Helmand, Zabul e Uruzgan) si stima che il comandante talebano Mullah Dadullah abbia piu' di 12.000 uomini armati e squadre di suicidi pronti a farsi saltare in aria con bombe. Tendono agguati alle truppe Nato arrivate di fresco. Il comandante britannico Richards ha di recente dato il suo avviso: "Dobbiamo capire che in effetti qui possiamo fallire". Gli Usa attaccano i talebani come fecero nel 2001, con i bombardamenti aerei. Il "Times" di Londra riporta che solo nel maggio scorso ce ne sono stati 750; ogni giorno ci sono notizie di vittime prodotte dai combattimenti fra Nato e talebani, e di vittime che erano "sospetti" talebani o semplici civili, uccisi dai bombardamenti americani a largo raggio. Nel frattempo, i talebani prendono il controllo dei villaggi. Uccidono gli insegnanti e fanno saltare per aria le scuole. Le squadre antidroga guidate dagli Usa pure prendono il controllo di villaggi e distruggono le coltivazioni di papavero da oppio di contadini in miseria. Presi, come al solito, nel mezzo di due fazioni in guerra, gli afgani del sud e dell'est hanno da tempo cessato di chiedersi dove sono finiti i soldi. Si chiedono invece chi sia a governare. E che fine ha fatto la pace. 2. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: OBBLIGHI E GIURAMENTI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com "Il soldato Mark Wilkerson, di cui parla questo articolo, 'assente senza permesso' da 19 mesi per non dover tornare in Iraq, si e' presentato a Fort Hood accompagnato da dozzine di sostenitori provenienti da Camp Casey" (nota di Maria G. Di Rienzo)] Ho comperato della terra a Crawford, in Texas, per poterci tenere i nostri raduni sino a che l'orrendo incubo dell'occupazione avra' fine in Iraq, e fino a quando il mondo non dovra' piu' soffrire sotto il regime di Bush. Ma questa terra sara' anche un luogo permanente di pace e un bastione di speranza, e un rifugio per i soldati, che restino o no nell'esercito. Tantissime altre persone hanno letteralmente dato "sangue sudore e lacrime" per mettere in piedi il terzo Camp Casey e i precedenti: meravigliosi attivisti per la pace che hanno speso giorni e settimane nella calda, sudata, polverosa Crawford per mostrare a Bush e compagnia, al nostro paese e al mondo che c'e' gente negli Usa che ama la pace e la liberta' al punto da mettere in gioco la propria vita per veder realizzare pace e liberta' nel nostro tempo. Camp Casey non ha ricevuto l'attenzione di cui godemmo lo scorso anno, perche' durante questa estate George Bush ha passato meno tempo a Crawford e, per qualche strana ragione, i media lo inseguono. * Tutto il nostro duro lavoro ed ogni centesimo che io ho speso sono stati abbondantemente ripagati quando Mark Wilkerson, un soldato di 22 anni che ha lasciato l'esercito senza permesso 19 mesi orsono ha sentito del nostro rifugio a Camp Casey, ed e' venuto a passare con noi i suoi ultimi giorni di liberta', prima di consegnarsi alle autorita' militari di Fort Hood. Dopo aver passato un periodo in Iraq, Mark capi' che la guerra, di cui all'inizio era stato sostenitore, era illegale e immorale. Ha tentato in ogni modo, usando i previsti canali istituzionali, di ottenere lo status di obiettore di coscienza, ma gli e' stato negato. Percio', prima che lo inviassero in Iraq per la seconda volta, Mark e' diventato un "assente senza permesso". A Camp Casey ha trovato una nuova famiglia, che lo ama e che lo sosterra' completamente. Mark e' ansioso di pagare il prezzo che gli verra' chiesto per la sua decisione, e poi di venire a lavorare con noi all'Istituto per la pace di Camp Casey. * Una domanda che gli ho sentito porre dai giornalisti ripetutamente era piu' o meno questa: "Non pensi che quando si pronuncia un giuramento poi si ha l'obbligo di rispettarlo?". Mark si e' destreggiato benissimo, rispondendo che egli ha anche l'obbligo di seguire la propria coscienza. Sapendo che questa guerra e' illegale ed immorale per i criteri di chiunque sia sano di mente, Mark non poteva in coscienza partecipare a crimini di guerra e a crimini contro l'umanita' imposti dai nostri leader bugiardi. Io guardo un mucchio di notiziari e leggo gli articoli sulle rare conferenze stampa di Bush, ma non ho mai sentito nessuno fare a lui la stessa domanda fatta a Mark. Bush, il comandante in capo dell'esercito, non ha rispettato gli obblighi derivanti dal suo giuramento durante la guerra del Vietnam. Si fece trasferire alla Guardia nazionale aerea dell'Alabama, e nonostante abbia ricevuto una menzione onorevole, e nessuno ha mai reclamato perche' nessuno lo ha mai visto la', non e' mai stato denunciato. Vorrei che la medesima domanda posta continuamente a Mark Wilkerson fosse fatta al presidente. Come osa costui mandare un ventiduenne a combattere in Iraq, forse a morirci, forse ad uccidere innocenti, quando lui ha usato tutte le conoscenze di suo padre per tirarsi fuori da una guerra che la sua generazione ha dovuto combattere, per cui e' morta, e per cui ha ucciso innocenti? Assieme alla maggior parte dei senatori repubblicani, al congresso, all'esecutivo e a Dick Cheney (che comunque ha sempre "altre priorita'"), io non ho nessun problema con chiunque abbia fatto tutto quel che poteva per non andare in Vietnam. Il problema che ho concerne il fatto che mentre negli anni '60 e '70 loro si sono sottratti al complesso militare-industriale, successivamente gli hanno dato da mangiare i nostri figli, durante la prima guerra del nuovo secolo combattuta per l'avidita'. Il congresso si e' anche sottratto alla propria responsabilita' costituzionale di dichiarare o no un conflitto, e ha dato le chiavi della macchina della guerra in mano ad un irresponsabile disertore e al suo vice, che la leva all'epoca la schivo'. In aggiunta, il nostro comandante in capo ha l'obbligo di usare le sue truppe saggiamente, non in maniera insensata e negligente. E che ne e' stato dell'obbligo di dire la verita' al nostro paese? Invece di avere il dubbio ardire di chiedere ad un giovane uomo coraggioso, colmo di senso dell'integrita' e dell'onore, se non sente di dover rispettare un obbligo, amerei sentire qualcuno della stampa fare la stessa domanda al comandante in capo di mio figlio Casey e di Mark. George Bush ha avuto tutti i vantaggi derivanti dalla sua nascita e dalla ricchezza di suo padre, cosi' quando non ha voluto andare in guerra non ci e' andato. Mark non ha avuto questi vantaggi, ed ha vissuto nel terrore di essere scoperto per piu' di un anno e mezzo. Da sempre i ricchi mandano a morire i figli dei poveri per diventare piu' ricchi ancora. * Il movimento per la pace deve incoraggiare tutti i soldati a deporre le armi, e a rifiutarsi di morire e di uccidere per far piacere ai vigliacchi che siedono a Washington o alla macchina della guerra. Noi che ci dichiariamo attivisti per la pace dobbiamo sostenerli moralmente e finanziariamente, di modo da facilitare la loro decisione. Noi che ci dichiariamo attivisti per la pace dobbiamo lavorare per fermare ora la prossima guerra, e dare alle famiglie le informazioni e le alternative prima che i loro figli indossino un'uniforme a beneficio dei profittatori di guerra. Andare al college e' costoso, e nelle loro comunita' non c'e' lavoro. I soldi del dipartimento della guerra devono essere restituiti al futuro: i nostri figli. La guerra continuera' se continueremo a fornire i nostri figli alla sua macchina, affinche' li mastichi e poi sputi fuori i suoi malvagi profitti. Per avere maggiori informazione su come aiutare i giovani e le giovani a non andare in guerra, o ad ottenere lo status di obiettore visitate www.objector.org, per maggiori informazioni sulle alternative all'esercito visitate www.afsc.org/youthmil Avrei voluto saperle io, queste cose, prima che il mio figlio maggiore tornasse a casa chiuso in un sacco. 3. RIFLESSIONE. CAMERON ABADI INTERVISTA SHIRIN EBADI [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione la seguente intervista a Shirin Ebadi di Cameron Abadi, realizata a Teheran e pubblicata su "Spiegel online". Cameron Abadi e' corrispondente da Teheran per "Der Spiegel". Shirin Ebadi, giurista iraniana, gia' magistrata, impegnata nella difesa dei diritti umani, premio Nobel per la pace nel 2003. Riportiamo di seguito alcun stralci da un articolo di Sara Sesti gia' riprodotto su questo foglio: "Il 9 ottobre 2003 e' stato assegnato ad Oslo il Nobel per la pace all'iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata, madre di due figlie. Il premio le e' stato conferito "per il suo impegno nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si e' concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei bambini". Ebadi e' l'undicesima donna a vincere il Nobel per la pace, da quando il riconoscimento e' stato istituito nel 1903, ed e' la prima musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, e' stata la prima donna nominata giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel 1969 all'Universita' di Teheran, e' stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la rivoluzione del 1979 e' stata costretta a dimettersi per le leggi che limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Con l'avvento di Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne sono troppo emotive per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso le famiglie di alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999. E' stata tra i fondatori dell'Associazione per la protezione dei diritti dei bambini in Iran, di cui e' ancora una dirigente. Nel 1997 ha avuto un ruolo chiave nell'elezione del presidente riformista Khatami. E' stata avvocato di parte civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000 ha partecipato ad una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che provoco' grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran. Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 e' stata sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale che secondo l'accusa 'disturbava l'opinione pubblica'. Arrestata, ha subito 22 giorni di carcere. Il Comitato del Nobel e' lieto di premiare 'una donna che fa parte del mondo musulmano', si legge nella motivazione del premio che sottolinea come Ebadi 'non veda conflitto fra Islam e i diritti umani fondamentali'. 'Per lei e' importante che il dialogo fra culture e religioni differenti del mondo possa partire da valori condivisi', prosegue il comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico di tensioni fra Islam e Occidente. 'La sua arena principale e' la battaglia per i diritti umani fondamentali, e nessuna societa' merita di essere definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati' prosegue la nota. 'E' un piacere per il comitato norvegese per il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna che e' parte del mondo musulmano, e di cui questo mondo puo' essere fiero, insieme con tutti coloro che combattono per i diritti umani, dovunque vivano'". Su Shirin Ebadi cfr. anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e Marina Forti apparsi nei nn. 701 e 756 di questo foglio] All'inizio di agosto, la Premio Nobel Shirin Ebadi ha appreso dalla stampa che il suo "Centro per la difesa dei diritti umani" a Teheran era stato dichiarato illegale. "Spiegel Online" ha parlato con lei sul fatto che il governo iraniano viola le proprie stesse leggi e di come si continua ad essere attivisti per i diritti umani dovendo fronteggiare la prigione o peggio. * - Cameron Abadi: Tu sei stata minacciata di arresto se non chiuderai il Centro per i diritti umani, ma secondo la legge iraniana le ong sono libere di operare. - Shirin Ebadi: La Costituzione garantisce alle organizzazioni sociali la liberta' di condurre le proprie attivita', a meno che esse non tengano una "condotta disordinata" o violino le leggi dell'Islam. Sono "libere" nel senso che non si deve chiedere un permesso per metterle in piedi. Percio', ong come la nostra, che lavora per i diritti umani, non necessitano dell'approvazione del governo. * - Cameron Abadi: Pero' tu hai chiesto il permesso comunque. - Shirin Ebadi: Quattro anni orsono lo abbiamo fatto, perche' il governo insisteva a voler "registrare" le ong. E' una contraddizione, ma volevamo togliere ogni possibilita' al governo di sostenere che noi siamo una sorta di organizzazione segreta. Non volevamo essere fuorilegge, percio' andammo al Ministero degli Interni e presentammo la richiesta. Essa fu esaminata e nessuno ci trovo' qualcosa da ridire. Solo recentemente hanno deciso che non deve esserci permesso di agire ed hanno respinto la richiesta. * - Cameron Abadi: Cioe', il rigetto e' avvenuto a quattro anni dalla richiesta di avere un'autorizzazione? - Shirin Ebadi: Si', e questo rende il rigetto illegale, contrario al dettato della legge. Tutto quello che abbiamo fatto in questi quattro anni e' in perfetto accordo con la Costituzione della Repubblica islamica. Avevo creduto che non ci sarebbero stati problemi ad ottenere il permesso dal governo. E nelle more della concessione di tale permesso, non ho mai dovuto ripensare le mie azioni: tutto cio' che ho fatto e' legale. * - Cameron Abadi: Da un certo punto di vista, il fornire assistenza legale a chi viene accusato di crimini politici non rende cari ai governi. Non ti aspettavi reazioni di nessuna sorta? - Shirin Ebadi: No. E' stata una sorpresa. Noi non disturbiamo la pace e non siamo anti-islamici. Permettendoci di operare per quattro anni, lo stesso governo ha riconosciuto la nostra legalita'. Non so come tutto d'un tratto noi si possa divenire un'organizzazione illegale. L'ho letto sui giornali una mattina, ma devo ancora essere contattata personalmente da qualcuno. * - Cameron Abadi: In maggio, negli Usa hanno pubblicato le tue memorie con il titolo Iran Awakening: A Memoir of Revolution and Hope. Pensi che questo c'entri qualcosa? - Shirin Ebadi: Non mi e' stata fornita alcuna ragione. Hanno semplicemente detto che non avevamo il permesso. Noi abbiamo sempre rispettato la legge, loro no. E non hanno dato alcuna spiegazione. Lascia che mi ripeta: c'era una richiesta pendente da quattro anni e fino ad ora nessuno ha tentato di chiudere il Centro. Poi, di colpo, ci viene detto che quanto facciamo non e' legale. Forse il libro c'entra, e forse no, non lo so. * - Cameron Abadi: Tu dici, comunque, che lo stato iraniano e' la parte che si comporta illegalmente in questa situazione. - Shirin Ebadi: Io sto solo chiedendo: come abbiamo fatto a diventare improvvisamente fuorilegge? Siamo legali, lo siamo sempre stati. Siamo un'organizzazione che lavora per i diritti umani. Difendiamo gratuitamente gli imputati di crimini politici. Si', questo paese sta violando le proprie stesse leggi. * - Cameron Abadi: Cosa farete ora? - Shirin Ebadi: Continueremo a lavorare. Non c'e' un'altra scelta, questa e' la nostra responsabilita' perche' noi, a differenza del Ministero degli Interni, la legge la rispettiamo. Io intendo continuare a lottare fino a che avro' vita. * - Cameron Abadi: Anche se questo dovesse significare la prigione? - Shirin Ebadi: Si'. Lottero' sino a che dovro' farlo. * - Cameron Abadi: Tu hai ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2003, per la tua continua attivita' in favore dei diritti umani in Iran. Da allora sei stata soggetta a qualche forma di intimidazione? - Shirin Ebadi: L'intimidazione e' normale per chiunque lavori per i diritti umani in Iran. Da quando ho ricevuto il premio sono stata convocata in tribunale tre volte, ed accusata di attivita' sovversive. Ho contrastato queste accuse, naturalmente, e lo scorso anno sono stata assolta. * - Cameron Abadi: Il premio Nobel, ovviamente, ti ha portato molta fama e ha messo in luce il tuo impegno. Da allora hai dovuto anche fronteggiare aspettative non realistiche. - Shirin Ebadi: Qualcuno pensa che il Nobel mi abbia dato la chiave d'oro con cui si aprono le porte di tutte le prigioni politiche, ma quando spiego dei processi che ho subito e che la mia stessa ong e' stata bandita, allora queste persone cominciano ad avere un quadro piu' preciso della situazione. Sanno che non ho mai fatto parte del governo e che non detengo alcun potere esecutivo. I miei soli poteri sono la mia voce e la mia penna, con i quali parlo e scrivo. * - Cameron Abadi: Stai cercando il sostegno della comunita' internazionale? - Shirin Ebadi: E' il popolo dell'Iran che deve ottenere la propria liberta' ed un miglioramento nel rispetto dei diritti umani. Azioni militari o altre punizioni inflitte all'Iran renderanno la situazione piu' difficile per i politici riformisti e per i fautori dei diritti umani. Non credo che chi lavora per i diritti umani in Iran abbia bisogno di questo tipo di aiuto dai governi occidentali. Quello che invece mi aspetto e' che l'Occidente sostenga coloro che in Iran cercano la liberta'. 4. ESPERIENZE. GLORIA HELENA REY: RICOSTRUIRE LA VITA MATTONE SU MATTONE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Gloria Helena Rey per "Inter Press Service News Agency". Gloria Helena Rey, prestigiosa giornalista, da molti anni e' corrispondente dall'America Latina per varie testate internazionali] Cartagena, Colombia. La "Citta' delle donne" nella municipalita' di Turbaco, nel nord della Colombia, ad undici chilometri dalle mura fortificate della citta' turistica, non assomiglia per nulla al film di Federico Fellini che porta lo stesso nome, ne' al sobborgo di Buenos Aires che pure lo porta, dove tutte le strade e i luoghi pubblici sono stati intitolati a donne famose. Queste donne colombiane, al contrario, sono molto reali e tuttora vive, e stanno lasciando un segno nel paese. Rese profughe dalla guerra, sopravvissute a massacri e crimini, alcune vittime delle milizie paramilitari, altre dei guerriglieri o delle forze di sicurezza. La Colombia ha il maggior numero di profughi interni al mondo dopo il Sudan: circa due milioni e mezzo di persone secondo i dati governativi, ed il 49% del totale sono donne. La nuova comunita' nei pressi di Turbaco e' stata costruita dal duro lavoro di queste donne. All'inizio, in otto fondarono la "Liga de Mujeres Desplazadas" nel 1998, affinche' le migrazioni forzate interne fossero riconosciute come crimini di guerra, per cercare aiuto umanitario che migliorasse le terribili condizioni igieniche e nutrizionali in cui vivevano, e per reclamare i propri diritti umani e quelli delle proprie famiglie. "La vista della tremenda poverta' nelle strade era insopportabile", ricorda Patricia Guerrero, avvocata resa profuga dalla minacce ricevute, madre di tre figlie e forza motrice della Liga de Mujeres e del villaggio da essa creato. Circa cento donne si unirono a lei nel cominciare a costruirlo, mattone su mattone, nel 2003. Esse stesse hanno fabbricato i 120.000 blocchi di cemento usati per le 97 case (ciascuna di 78 metri quadri) che oggi ospitano 500 persone. Il progetto, che includeva i costi del terreno e la costruzione degli edifici fu negoziato con il proprietario per piu' di un anno e mezzo. Guerrero e' riuscita ad ottenere fondi da numerose organizzazioni pubbliche e private, fra cui l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati ed il governo spagnolo. Mano a mano che nuovi fondi arriveranno, altre abitazioni verranno costruite. * La formazione e' uno dei punti chiave dell'iniziativa: molte delle donne che ora vivono nel villaggio erano contadine o domestiche. "E' stata dura imparare a fare mattoni, ma ho dimostrato che una donna puo' riuscirci", dice Niris Romero, madre di cinque figli, una delle donne appositamente addestrate allo scopo, "Ho posato io le travi di casa mia, e ho contribuito a modellare ogni colonna, e ho mescolato il cemento che doveva fissare il tutto. Sono felice: ho un tetto e un mestiere". Tutte le donne hanno ricevuto istruzione professionale, nel lavoro coi mattoni o nel coltivare la terra; tutte hanno portato la loro formazione anche oltre, impegnandosi nel campo dello sviluppo dei diritti umani. * "E' stato estremamente difficile concretizzare il progetto", dice ancora Guerrero, "Siamo state attaccate quasi subito. Io venivo accusata di agire per interessi personali, e praticamente chiunque diceva che il progetto era destinato a fallire. Durante la costruzione delle case fummo continuamente minacciate, persone 'sparivano' e poi venivano uccise, e i loro corpi venivano lasciati nei pressi del villaggio per terrorizzarci. Volevano che ce ne andassimo, e usavano qualunque mezzo". Il marito di Simona Velasquez, quarantaseenne madre di sei figli e resa profuga dalla guerra per tre volte, fu ucciso a colpi di machete mentre sorvegliava i materiali da costruzione per l'insediamento. "Non rubarono i materiali, ma l'omicidio suscito' il panico. Molte donne sulle prime volevano abbandonare, ma nessuna lo fece", dice Guerrero. "Avrebbe significato dir loro: avete ucciso la nostra ultima speranza. Non potevamo farlo, siamo restate tutte", aggiunge Nerlides Almansa, 48 anni e anche lei madre di sei bambini, attuale coordinatrice dei progetti produttivi della Liga e della "Citta' delle donne". * Queste donne sono gia' state segnalate per il premio Nobel per la pace, in ragione del fatto che come individui e come organizzazione stanno dando un contributo significativo alla risoluzione di un conflitto armato che interessa la Colombia da ormai quarant'anni. La loro storia e' stata presa a modello in altre regioni del paese. Le famiglie delle donne hanno ricevuto anch'esse formazione ed hanno partecipato a corsi di autocoscienza. Patricia Guerrero mi spiega il lavoro fatto sul concetto di "mascolinita'" con la "Lega della gioventu'" e i mariti. "Non vogliamo mariti violenti, o figli che possano essere trascinati nella guerra e nella prostituzione. La nostra comunita' e' coesa attorno a valori etici ed educhiamo ognuno ai suoi diritti di cittadino". * Le donne hanno anche costruito un sistema di distribuzione idrica e un centro sociale diurno; hanno fondato Mujercoop, una cooperativa che commercia parte dei mattoni fabbricati, e messo in funzione un ristorante comunitario. Inoltre, hanno creato un fondo per finanziare microimprese e progetti sussidiari di istruzione. Nello scorso mese di luglio, dice la responsabile Roseli' Cardona, sono stati approvati progetti per undici nuove piccole imprese, e quello per la formazione alla fabbricazione di scarpe. Prima di giungere a Turbaco, queste donne avevano perso tutto. Il loro orgoglio e la loro dignita' erano in pezzi. Molte di esse erano state stuprate, molte avevano visto uccidere i membri delle loro famiglie. "Non ci tengo a rivangare il passato", dice Adelaida Amador, madre di cinque figli, che gestisce uno dei negozi di alimentari della comunita' e fu una delle prime ad unirsi al progetto, "Oggi abbiamo pace, un tetto sopra le nostre teste e un futuro". * "Siamo orgogliose di quello che abbiamo compiuto", sottolinea Marlenys Hurtado, madre di tre bimbi e membro della Liga, "Certo portiamo con noi tutte le sofferenze e le ferite della guerra, ma abbiamo imparato a guardare al futuro con dignita'". "Ma e' solo l'inizio", interviene Patricia Guerrero, "Abbiamo bisogno di rendere la citta' e i progetti produttivi autosufficienti e di creare un'economia basata sulla solidarieta'. Dobbiamo anche imparare a risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgeranno, e consolidare le basi della comunita' attorno ai diritti umani, l'eguaglianza, l'opposizione alla guerra e alla violenza". Immaginate di assistere all'omicidio di figli, mariti, fratelli o sorelle e poi di dover fuggire per salvare la vostra stessa vita. Immaginate di dover sconfiggere la paura, la fame, l'emarginazione sociale. E' questo cio' che le donne del villaggio hanno fatto. Isabelina Tapias, 71 anni; Doris Berrio, suo marito e i due piccoli, e Ana Luz Ortega con il marito e sette bambini, erano stati colpiti dalle forze paramilitari. La figlia di Isabelina fu uccisa, Doris e la sua famiglia scamparono per miracolo alla morte, Ana Luz decise di fuggire quando gli omicidi attorno a lei erano diventati routine e la sua bimba dodicenne era stata minacciata di stupro. "Fuggimmo dagli ammazzamenti della guerriglia", racconta Almansa, "Lasciammo tutto, e andammo via". L'attenzione di Almansa e' oggi concentrata sulle piantagioni di grano, fagioli e verdure, e sulla ricerca di risorse per migliorare i raccolti. "La mia forza la prendo dalle persone che hanno pensato il progetto, da coloro che le sostengono, e da me stessa. Vivere cosi' era il solo sogno che avevo". * Viste da lontano, le modeste casette immerse nella vegetazione tropicale sembrano silenziose. Ma stanno facendo un grande rumore. E' un suono potente e, come Patricia Guerrero sostiene, e' soprattutto "Resistenza pacifica all'impunita', alla violenza su donne e bambini, e all'omicidio. E' anche un modo per fronteggiare chi fa 'sparire' le persone, ruba la terra, e coloro che per decenni hanno sparso i semi del dolore e della fame in questa regione". 5. LETTURE. ANTONIO NANNI, STEFANO CURCI: BUONE PRATICHE PER FARE INTERCULTURA Antonio Nanni, Stefano Curci, Buone pratiche per fare intercultura, Emi, Bologna 2005, pp. 176, euro 9. Una riflessione, ma soprattutto un repertorio di materiali di lavoro assai utili (con ricche, preziose bibliografie - talvolta forse fin troppo generosamente inclusive di testi non proprio imprescindibili). Il volume apre la collana "Interculturarsi" curata dal Centro educazione alla mondialita' (in sigla: Cem) e diretta da Antonio Nanni, collana in cui la benemerita Editrice Missionaria Italiana accoglie e presenta "proposte operative per promuovere una via italiana all'intercultura e conseguire obiettivi che siano insieme pedagogici, metodologici, antropologici, etici e politici" nel segno dell'incontro, del dialogo e della convivenza, del riconoscimento di umanita' e di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani, dell'educazione coscientizzatrice, responsabilizzante e liberatrice, della nonviolenza in cammino. 6. RIEDIZIONI. IPPOLITO NIEVO: OPERE Ippolito Nievo, Opere, Biblioteca Treccani - Il Sole 24 ore, Milano 2006, pp. XLII + 674, euro 12,90 (in suppl. a "Il sole 24 ore"). Dalla classica Letteratura Italiana Ricciardi le Confessioni di un italiano, alcuni scritti politici e alcune lettere, a cura di Sergio Romagnoli. Resta un enigma e una delizia come Nievo (Padova 1831 - in mare 1861) in cosi' breve volger di anni - ed in cosi' incandescente tumulto ed urgere di vicende e di impegno militante personale senza risparmio alcuno - sia pervenuto al capolavoro delle Confessioni. Ma quel dono ci ha fatto, immenso. (E se una postilla ci e' concessa qui vorremmo segnalare per un eventuale primo ed agile ma nitido e solido accostamento alla figura e all'opera di Nievo la monografia di Marinella Colummi Camerino nella collana laterziana degli Scrittori). 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1407 del 3 settembre 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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