Voci e volti della nonviolenza. 35



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 35 del 15 agosto 2006

In questo numero:
1. Anna Segre: La difesa della normalita'
2. Et coetera

1. ANNA SEGRE: LA DIFESA DELLA NORMALITA'
[Dalla rivista "Una citta'", n. 117 del novembre-dicembre 2003 (disponibile
anche nel sito www.unacitta.it)]

Si', a un dato momento ho pensato che fosse giusto, utile, parlare di questa
cosa; credo siano passati i tempi in cui i malati di cancro si celavano
dietro malattie varie, di solito dietro l'espressione "male incurabile", e
non ne parlavano, ne' con gli amici ne' tantomeno in pubblico. Di fatto si
apprendeva sempre che qualcuno era stato malato di cancro dopo la sua morte,
dal necrologio, che diceva: "stroncato da male incurabile, il tal dei tali
eccetera eccetera".
Ecco, io credo che i malati di cancro che hanno la "fortuna" di sopravvivere
a lungo abbiano il dovere di parlarne. E non per fornire facili illusioni,
come quei saggi che si trovano in libreria o nelle erboristerie, intitolati
"Come sono guarita dal cancro", ma perche' altri possano trovare magari
nelle parole di una persona un aiuto, un modo di affrontare la malattia che
a loro non e' venuto in mente, non e' venuto spontaneo.
Teniamo presente che la stessa dizione "male incurabile" non e' piu'
appropriata perche' di fatto il cancro non e' piu' un male incurabile.
Questo va detto. Ci sono cure e modi di affrontarlo che stanno trasformando
il cancro in un "male cronico". Non vorrei essere troppo ottimista, ma sono
anche i miei medici che me ne parlano. Cure sempre piu' personalizzate,
adattate ai diversi tipi di cancro, se non riescono ancora a far guarire,
riescono pero' ad allungare la vita del malato, cronicizzando quindi la
malattia, facendola durare. E siccome e' aumentata molto anche la
possibilita' di salvaguardare la qualita' della vita di chi ha questa
malattia, la tendenza a cronicizzare il male e' da vedere come un fatto
positivo. Per questo penso che sia meglio parlarne, per raccontare come
alcune persone riescono, nonostante la malattia, a vivere in modo discreto.
Questo penso sia anche il mio caso, il che non vuol dire, pero', che non
abbia subito una rivoluzione totale della mia vita, del mio modo di pensare
al tempo, al futuro.
*
La notizia e' un vero trauma, perche' tu non sai piu' che cosa hai davanti.
Io ho reagito in modo quasi infantile. Quando una dottoressa dell'ospedale
mi ha comunicato che gli esami erano positivi e potevano far pensare a
qualcosa di canceroso, forse mi sono anche messa a piangere, pero' appena
lei mi ha lasciato, sono corsa dall'infermiera e le ho chiesto se poteva
darmi una pastiglietta di sedativo. Un'inezia rispetto alla notizia
ricevuta. Il mio primo approccio di difesa e' stata quella pastiglietta per
non agitarmi troppo. Dopodiche' e' iniziata una nuova vita in cui devi
trovare un modo di convivere con il male, tirando fuori tutte le energie per
non lasciarti sopraffare.
Dal momento che sai, poi, vieni immediatamente trasportato in un mondo che
non conoscevi prima, che e' il mondo degli ospedali oncologici. Se stai in
una grande citta' dove c'e' un centro oncologico di ricerche e cura, come
nel mio caso, e' gia' una fortuna. Puo' non capitare a tutti, soprattutto a
chi non vive in grandi citta', e magari per raggiungere questi posti deve
abbandonare la propria casa per mesi.
Ecco, una delle cose piu' fastidiose quando non si ha molto male, come nel
mio caso, e' questa continua ospedalizzazione, nel senso che tu vivi a casa
tua, fai le tue cose, pero' le scadenze vere sono quelle della visita, degli
esami, della cura, e quindi sulla tua agenda prima segni queste e poi
eventualmente aggiungi gli impegni di lavoro, se l'hai mantenuto. Tutto
dipende da quello, e non si puo' assolutamente fare diversamente...
Bisogna pero' anche dire che in questi posti i medici, e ancor piu' gli
infermieri, in genere sono meglio che negli ospedali comuni, nel senso che
veramente svolgono un lavoro difficilissimo, di responsabilita' e - non e'
una frase banale - sempre col sorriso sulle labbra, con la parola giusta,
per otto ore di seguito. Io non ho mai capito come facciano. Ammiro
tantissimo queste persone. Vedono passare i malati a migliaia e pero' si
ricordano sempre il tuo nome, o, meglio, il tuo cognome, perche' non e' piu'
il tempo in cui il paziente viene chiamato nonna, nonno, oppure per nome. Si
ricordano il tuo cognome, come e' giusto.
*
Forse l'effetto piu' pesante della chemioterapia, anche se non dal punto di
vista fisico, soprattutto per una donna, e' la perdita dei capelli. Li' si
tocca l'identita' profonda, perche' vedi un pezzo del tuo corpo, secondario
magari, come sono i capelli, venir via a ciocche fino a quando rimani
completamente rapato. Ma anche qui le donne hanno trovato diversi modi per
reagire, chi camuffandosi chi no. C'e' chi usa la parrucca, chi porta dei
foulard, chi usa cappelli appositi, dei turbantini che dicono immediatamente
che sei malato di cancro perche' nessuno li userebbe per andare a spasso; e
c'e', soprattutto tra le giovani direi, la tendenza a mostrarsi cosi' come
si e': non c'e' niente di male ad andare in giro anche completamente calvi.
Con le altre persone in cura si crea un rapporto di complicita' nella
sofferenza, nel senso che tutto sommato non c'e' bisogno di parlarne. Dove
vado io le stanze sono a due letti oppure ci sono tre poltrone per chi fa
delle chemioterapie brevi. Ecco, difficilmente ci si scambiano notizie sui
propri mali, non ci si chiede: "Ma tu dove ce l'hai?". Al limite ci si
scambiano delle informazioni sulle conseguenze delle terapie: "Io ho perso i
capelli", "A me viene la nausea, vomito tutte le volte". Ma il piu' delle
volte non si parla neanche di quello, bensi' del giornale che uno sta
leggendo o di cose quotidiane, del fatto che qualcuno viene da lontano. Si
parla tutto sommato poco della malattia in se', forse perche' questa e' gia'
terribilmente presente: se si e' li', se si e' varcata la soglia di
quell'ospedale, e' certo che e' per quel motivo, non c'e' bisogno di
parlarne. I pazienti comunque cambiano sempre, qualcuno va una volta alla
settimana, qualcuno una volta ogni tre, quindi e' difficile stabilire dei
legami. Quando sei ricoverato, invece, si stabilisce un legame fortissimo
che si mantiene anche dopo, ci si telefona...
*
Io, il primo mese di malattia credevo di non riuscire piu' a far niente,
nemmeno a leggere il giornale o un libro. Avevo subito un'operazione lunga e
complicata quindi puo' darsi che fosse anche la conseguenza di questo. Avevo
il cervello completamente svuotato, mi sembrava di non ricordare piu'
niente, di dovermi focalizzare solo su quello, sul male che sentivo, sulla
ferita fisica da guarire. Poi invece piano piano, seppur con l'inizio della
chemioterapia, tutto e' un po' cambiato, ma c'e' voluto molto tempo; ed e'
cambiato con un lavoro su me stessa veramente lungo, confrontandomi anche
con altre persone. Li' ho visto che l'unica soluzione era quella di
continuare a svolgere il proprio lavoro, pur nelle difficolta' di
programmazione che subentrano. Tu non sai mai se starai bene il tal giorno,
se la terapia te la fissano di giovedi' o di venerdi' o chissa' quando...
Io sono stata fortunata perche' ho un lavoro, quello di docente
universitario, in cui gli orari sono abbastanza gestibili. Pero', ecco, gia'
in questo il ruolo degli amici diventa indispensabile. Ad esempio, nella
settimana successiva alla chemioterapia io non sono in grado di fare
lezione, ma per fortuna ho un pool di amici-colleghi disposti a sostituirmi
in qualunque momento; dico pool perche' sono tanti e si dividono i ruoli,
non tutti hanno le stesse competenze, per cui a seconda delle necessita' va
uno o va l'altro. E questa e' una grande fortuna, che pero' si costruisce,
anche raccontando via via agli amici le difficolta'. E selezionando, perche'
non tutti sono disponibili a fare questo percorso con te. Un po' mi
dispiace, ma io ho fatto una grande scelta all'inizio: ho visto subito gli
amici che erano disposti, disponibili, capaci - perche' anche di questo si
tratta - di accompagnarmi in questo cammino, e quelli che invece non lo
erano, per difficolta' proprie, magari di comprensione, perche' e' vero che
il cancro non e' piu' la malattia killer di una volta, ma resta pur sempre
una malattia difficile da sopportare, da descrivere. E' una malattia in cui
tu devi essere seguita quotidianamente da chi ti vuol capire. E allora per
forza selezioni gli amici. Gli amici che restano hanno pero' un ruolo
fondamentale.
Le persone che invece facevano finta di niente sono uscite dalla mia vita.
E' molto difficile parlarne. Nel senso che ci sono delle persone che fanno
finta di niente perche' credono di farti del bene: non parliamone, facciamo
come se niente fosse perche' forse tu preferisci cosi'... Oppure ci sono le
persone che ne parlano anche molto a sproposito. Appunto non essendo a
conoscenza di quello che stai facendo, di tutto il tuo percorso, ti trattano
come vittima, ti compatiscono molto, e anche questa e' una cosa che non
serve assolutamente a niente. Che senso ha compatire? Condividere si' serve
a qualcosa, ma compatire no. Non e' della pieta' che hai bisogno: "Oh,
poverina"; magari poverina si', ma allora vengo con te, ti accompagno a fare
una commissione, un esame. La condivisione e' importantissima in questi
casi.
*
Si', penso che vada difesa la normalita'. E la normalita' e' innanzitutto
riuscire a fare il proprio lavoro. Certo, la parola futuro e' stata
eliminata dal mio pensiero, dal mio linguaggio. Ma ne ho avuto solo dei
benefici. Ora vivo molto alla giornata, riesco molto difficilmente a
programmare le cose, perche' poi capita sempre qualche cosa, la visita
inaspettata, l'esame che devi fare, un male che non ti aspettavi e che per
due o tre giorni ti costringe a starci dietro. Per cui il futuro non c'e'.
Poi pero' si riesce lo stesso a fare tante cose. Ad esempio, se qualcuno ti
telefona e ti chiede: "Sei disponibile il 17 luglio per un intervento al tal
convegno?", io ho imparato a dire "si'". Perche' rispondere no e' uguale.
C'e' la stessa probabilita' di essere presente come di non esserlo. Allora
tanto vale dire di si'. E non sto prendendo in giro nessuno, perche' so che
comunque faro' tutto il possibile per essere presente, e se non potro' sara'
uguale a tutti gli altri, perche' anche a un altro puo' capitare un attacco
di appendicite la sera prima o l'influenza... quindi non sono in una
situazione tanto diversa. Si', se volessimo fare il calcolo delle
probabilita' lo sarei, ma non lo faccio. Per cui, non mi carico piu' come
prima, ma sostanzialmente dico di si' agli impegni. Certo, mi sento in una
situazione diversa perche' so che dovro' superare piu' difficolta', dovute
soprattutto alla stanchezza, ma ho imparato che e' meglio sentirsi coinvolti
come prima, perche' l'alternativa vorrebbe dire rinchiudersi a casa, magari
a guardare la televisione, e questo penso sia molto peggio anche dal punto
di vista della malattia.
*
Ci sono poi delle persone che trovi occasionalmente e dalle quali arriva un
aiuto insperato. Esistono addirittura delle professioni di cui, prima di
entrare in questo circolo frenetico della malattia, non conoscevo neppure
l'esistenza.
Io ho provato anche a fare due anni di psicoterapia, con una psicoterapeuta,
come dire, normale, di buona scuola e ben nota a Torino, ma che non riusciva
a darmi assolutamente niente. Anche lei non capiva. Mi faceva continuamente
ripetere le stesse cose, ma non riusciva a darmi il minimo sollievo. Poi,
per caso (e questo e' un fatto grave perche' avrebbe dovuto esserci
un'indicazione nell'ospedale) ho incontrato una persona e ho scoperto
l'esistenza di un ramo della psicoterapia che si occupa solo dei malati
oncologici, e che si chiama psicologia oncologica. Improvvisamente ho
scoperto persone in grado di capirmi, di rispondere alle mie domande, di
consigliarmi per la vita.
Questa specializzazione dovrebbe esserci in tutti gli ospedali oncologici,
al servizio non solo dei pazienti, ma anche dei familiari, perche' i
familiari sono sottoposti a uno stress pari a quello dei pazienti quando si
sentono impotenti, incapaci di alleviare il male che affligge un figlio o un
fratello. Anche loro hanno molto bisogno di accompagnamento. Gli psicologi
oncologici infatti fanno anche questo mestiere, organizzano gruppi di
familiari, gruppi di auto-aiuto tra pazienti, come pure dei corsi per i
volontari che vanno a lavorare negli ospedali. Poi, un po' di psicologia
oncologica servirebbe anche agli oncologi, perche' a volte sono un po' duri,
anche per il fatto che, giustamente, non ti raccontano piu' balle - mentire,
pure, fa parte del passato. Insomma, ti dicono la verita' e allora sono
duri, molto duri. Tuttavia, secondo me c'e' modo e modo anche di dire la
verita'. La verita' detta con i modi dello psicologo oncologo, per esempio,
sarebbe piu' lieve da digerire: loro sanno quali sono i tuoi punti deboli,
le tue paure, e ti prevengono.
*
Per i familiari vale lo stesso discorso degli amici: bisogna scegliere. Nel
mio caso non ho dovuto neanche scegliere: avendo una famiglia minuscola, ho
visto subito chi c'era e chi non c'era. E chi c'era era un familiare nemmeno
familiare perche' era il mio compagno di vita, Claudio, che e' stato in
questi anni l'unica persona che mi ha accompagnato sempre, a fare la
terapia, dai medici, a ricevere i risultati. E io credo che abbiamo sofferto
esattamente dello stesso stress, io malata e lui no. Deve essere terribile
vedere una persona di famiglia stare male, sopportare cure, e non poter fare
assolutamente niente, per cui c'e' questa dedizione, che nel mio caso e'
stata assoluta. Se riesco ad affrontare cosi' la malattia, certamente per
meta' e' merito suo. Ma questa dedizione assoluta il familiare o l'intera
famiglia, quando c'e', quanto la paga? Certamente il prezzo e' altissimo. Io
lo so perche' in altri tempi, quand'ero giovanissima, ho avuto una mamma
malata di una malattia simile, che a quei tempi si curava poco, infatti
resistette solo un anno. Ebbene, per me, allora sedicenne, fu un anno
terribile, che mi ha segnato per tutta la vita. Da allora ho vissuto proprio
con la paura di queste malattie, di star male, di soffrire quanto ha
sofferto lei. Ecco, la paura del dolore e' ancora una cosa molto rilevante
in queste malattie. Il fatto che il dolore oggi possa essere neutralizzato
grazie a farmaci, a terapie apposite, mi sembra una conquista straordinaria.
Questo va detto al paziente. Descrivere com'e' il dolore adesso e' proprio
una delle funzioni dello psicologo oncologo. Per me, per il mio modo di
pensare, e' stato un grande salto di qualita'. La mia paura infatti non e'
mai stata quella della morte, ma quella del dolore. Pensavo al dolore come a
qualcosa di tremendo. Invece lui, praticamente, ha detto che ormai si
controlla cosi' bene che in nessun caso si soffre piu' molto. E' stato un
grande sollievo. E queste sono cose da dire.
Gli oncologi tendono a dirti solo gli effetti secondari della terapia, ti
avvertono, cioe', di tutte le sofferenze procurate dalle cure, ma non ti
dicono: "Beh, pero', se poi soffri tanto, noi sappiamo cosa fare...". Ecco
perche' credo ci dovrebbe essere molta piu' collaborazione tra oncologi e
psicologi. Per portare su un binario di vivibilita' la novita' di una tale
malattia, infatti, devi anche avere i mezzi culturali: leggere i libri
giusti, parlare con le persone giuste. Bisogna anche imparare a dire al
medico che cosa senti, che cosa provi, dove hai male, dove non hai male. Io
arrivo sempre li' con un foglietto con tutto segnato, per non dimenticarmi
niente. E il mio medico, che ormai mi conosce, si sente sottoposto a un
esame; mi dice che io non posso fare a meno di fare esami a tutti. Tra
l'altro, gli riservo sempre per ultime le domande piu' difficili, tipo:
"Ma... non guariro' perche' ho capito di no, ma potro' stare ancora
meglio?", e lui: "Sapevo che mi faceva anche la domanda per la lode!".
*
Gia', la qualita' della vita, come suol dirsi. Ecco, tutte queste persone, i
medici, gli infermieri, gli psicologi, i familiari e poi le terapie, che
sono fondamentali, insieme, riescono a farti godere di una qualita'
accettabile della vita. Che tu sai che ha un termine. Ma ciascuno di noi lo
sa. Il giorno in cui mi hanno comunicato al cellulare che una mia carissima
amica aveva avuto un infarto, io stavo entrando in ospedale per una cura.
Dove stava la differenza? Non c'era. Quella che gli statistici chiamerebbero
speranza di vita, da un momento all'altro e' diventata molto piu' breve per
l'amica che fino all'altro giorno non aveva avuto niente e piu' lunga per te
che da anni ti curi e soffri, portandoti dietro tutto il bagaglio di una
malattia gravissima.
Questa presa d'atto della non differenza, della non diversita', e' per me
molto recente e, in questo, lo psicologo mi ha aiutato molto. Voglio dire,
anche tenendo conto della teoria delle probabilita', non so quanto sia
maggiore quella di morire in un incidente automobilistico, o per un male
improvviso che senza avvisarti ti uccide. Una mia collega di universita'
qualche anno fa e' andata a letto normalmente la sera e al mattino non si e'
risvegliata. Qual e' la differenza tra me e lei? La mia scadenza non e' piu'
vicina di quella degli altri. Certo, io vivo piu' di altri con l'idea delle
scadenza, ho piu' difficolta' a far programmi, non posso dire: "L'anno
prossimo faro' un viaggio in Australia...". Si', questo non lo dico piu',
pero' due settimane prima, se sto bene, mi organizzo il mio viaggio in
Australia.
Insomma, impari a vedere in modo diverso il male che puo' arrivare
improvvisamente. Io ho avuto tante lezioni di vita in questo periodo. Ho
avuto anche una collega che, col mio stesso male, e' vissuta molto meno. A
un certo punto ha saputo che le terapie non sarebbero state piu' utili e ha
deciso di non farle piu'. Anche quella e' una scelta. Una scelta in cui sai
come va a finire. Sono comunque scelte che, finche' stai bene di testa, puoi
fare anche tu.
Ecco, la mia vera preoccupazione e' quella di arrivare a un momento in cui
non saro' piu' capace, lucida, per fare le mie scelte. Per questo io vorrei
che anche nel nostro paese ci fosse la possibilita' di fare il testamento
biologico, perche' io la ritengo una cosa fondamentale, un indice di
civilta'.
*
Il pensiero della malattia e' difficile da allontanare, questo si'. Ed e' un
pensiero invadente perche' con la malattia devi farci i patti sempre. Se
devi prendere un impegno, subito pensi: potro', non potro'? Quel che vorrei
e' riuscire a tramutarlo in un pensiero, ahime', positivo. A me piacerebbe
ad esempio riuscire a fare di piu' per chi ancora non ha trovato un modo per
convivere con la malattia. Il mio medico chiede sovente la collaborazione
dei pazienti, proprio perche' loro non riescono ancora a trasmettere
l'esperienza, le sensazioni, i passi avanti del malato. Recentemente mi ha
chiesto di partecipare a un corso per i volontari che vanno poi negli
ospedali oncologici: "A lei una lezione in piu' o in meno non costa niente,
ma le informazioni che lei mi sta dando e che potrebbe dare a tutti gli
altri sono preziose. Noi non le conosciamo finche' qualcuno non le esprime e
invece potrebbero servire a cambiare anche il nostro atteggiamento, il
nostro modo di fare". Poi anche i volontari ne avrebbero bisogno. E' infatti
ben chiaro cosa fanno tra le persone ricoverate, che possono aver bisogno di
mangiare e di tante cose materiali, ma ci sono volontari che vanno anche nei
day hospital, o a domicilio. Ecco, devono saper bene cosa si trovano
davanti, perche' fare il volontario nel day hospital e' difficilissimo: le
persone cambiano continuamente, e poi non c'e' un bisogno particolare, pero'
magari si', di parlare. Io nel day hospital mi trincero sempre dietro un
giornale quando arrivano, ma perche' non so cosa dire! Perche' questi poi
cominciano: "Come sta?", "Ha bisogno di qualcosa?"; tu sei li' seduto che
aspetti la terapia e loro: "Eh, fa un bel freddo oggi". Ecco, queste
modalita' forse si potrebbero cambiare, pero' allora i volontari devono
sapere a cosa pensa un paziente che sta li' due ore ad aspettare la terapia,
e cercare di intervenire su quei pensieri. Io non credo allo svago, per cui
mentre sei li' arriva quello in camice verdino e ti fa pensare a qualcosa
d'altro. Pero' non so, perche' magari a qualcuno completamente solo quel
contatto potrebbe anche servire. Non vorrei dare un giudizio definitivo su
questo...
Forse le persone non sono cosi' preparate alla maggior durata della
malattia. Io in qualche caso - e mi sono sentita a disagio - ho letto sul
viso di colleghi lontani, che vedi raramente, un'espressione di sorpresa,
quasi a dire: "Ma come, non avevi una malattia grave?". Sembravano sorpresi
di vederti ancora li'.
Devo dire che a me questo fa molto male, perche' vuol dire che quella
persona, che puo' essere vicina o lontana, non solo non si pone il problema
di esserti di aiuto, ma non sa nemmeno che fine ha fatto la tua malattia, se
ne sei uscita e, anzi, tutto sommato aveva previsto che non ne uscissi. Per
questo ritengo che quello attorno alla malattia sia un mondo un po' a parte,
in cui certamente e' piu' facile comunicare, capirsi, forse perche' si hanno
le stesse speranze, le stesse paure. Seenza passare attraverso quello che
una volta era chiamato il "tunnel" della malattia, e' difficile capire che
uno vuole lottare, che uno vuole essere sempre e comunque presente. Mi
sembra che invece sia proprio questa una tendenza dei malati.
Sara' una curiosita' un po' perversa, ma io faccio sovente l'analisi dei
necrologi. E mentre appunto una volta leggevi: "Dopo lunga e dolorosa
malattia, patita con cristiana rassegnazione...", adesso spesso trovi
scritto: "Avendo lavorato fino all'ultimo e sostenuto il suo impegno..." o,
come qualche giorno fa per un professore: "Avendo ricevuto gli studenti fino
al giorno prima, il tal dei tali e' deceduto". Ecco, li' sta la differenza.
E' infatti la cronicizzazione della malattia che ti permette di parlare
lucidamente coi tuoi studenti, seguirne le tesi, ecc., fino al giorno prima.
Che, soprattutto, fa si' che non si sappia piu' qual e' il giorno prima.
Altrimenti, sapendolo, uno manderebbe tutto all'aria, gli studenti, i
colleghi ecc.
Ci sono delle signore che aspettano li', tutte calve, malridotte, e che
pero' sferruzzano, lavorano a maglia, o si portano altri lavoretti da fare
nell'attesa. Questo anche vuol dire "prenderla bene". Sferruzzi quando vai
dal medico della mutua perche' hai un callo che ti fa male...
^*
A volte penso a chi non puo' curarsi. Per queste malattie ormai sei curato
in modo uguale in tutto il mondo avanzato, perche' esistono i famosi
protocolli di cura, che gli specialisti si scambiano in continuazione
attraverso convegni, pubblicazioni ecc. per cui credo che oggi non faccia
alcuna differenza essere curato a Torino, New York o Tokyo. Ma queste cure
sono costosissime; qui, ovviamente, almeno per ora, vengono passate dal
servizio sanitario nazionale.
Pensate che la cura che sto facendo adesso - me l'ha detto il mio medico, il
primario dell'ospedale - fino a due anni fa non l'avrei potuta fare perche'
non se la potevano permettere proprio come ospedale. Era una produzione
americana, che in Europa veniva a costare troppo cara. Poi c'e' stato un
intervento, non so di che tipo, dell'Unione Europea, che ha fatto ribassare
il prezzo di questa sostanza e ora si fa anche in Europa. Questo due anni
fa, io pero' sono ammalata da cinque. Quindi nei primi anni non avrei potuto
farla, pur stando nell'Italia di nordovest. Pensiamo allora ai paesi
sottosviluppati: probabilmente non si arriva neanche alla diagnosi. Ai
milioni di persone che muoiono ogni anno di queste malattie, sono infatti da
sommare tutti quelli che muoiono senza saperlo.
*
Se ho fiducia nella chemio? Io personalmente non ho dubbi. Ho sempre creduto
poco alle terapie alternative, le ho anche fatte, non in questo caso, in
altri, non avendo mai buoni risultati, forse perche' non ci credevo, ma per
il cancro credo proprio non ci sia possibilita' di curarsi in modo diverso.
Faccio dei massaggi shiatsu che mi aiutano molto a rilassarmi, che certo
servono, ma non credo nemmeno che esistano delle terapie alternative
affermate, per cui, ahime', la terapia alternativa e' non fare alcuna
terapia. Cosa che qualcuno fa, ma io mi scaglio contro queste persone,
perche' non fare nessuna terapia vuol dire morire entro brevissimo tempo.
Poi, certo, se sei al culmine della disperazione e per di piu' i medici ti
dicono che le terapie su di te non hanno effetto, cosa fai? Vai avanti a
soffrire facendole e sapendo che non hanno effetto o che hanno pochissima
probabilita' di averne? O ti arrendi? E' una scelta anche quella; questa mia
amica l'ha fatta; una scelta coraggiosa peraltro. Ma l'alternativa non
cambia: e' solo tra curarsi e non curarsi. L'ho anche scritto in una lettera
a un supplemento di "Repubblica", "Salute", in cui c'era un articolo
tremendo: "Adesso vi do io la ricetta per curare il cancro", dove la
marchesa Crespi, del Fai, Fondo Ambiente Italiano, raccontava: "Io ho avuto
cinque volte il cancro, non ho mai fatto chemioterapia e sono guarita
perche' mangio solo verdure di agricoltura biodinamica". Io mi sono molto
scandalizzata, soprattutto quando ho notato che, alla fine dell'articolo,
c'era l'indirizzo dell'azienda agricola dove si pratica l'agricoltura
biodinamica, ovviamente della signora Crespi, e i prezzi di soggiorno per
una, due, tre settimane! "Repubblica" non ha pubblicato la lettera.
*
La stanchezza e' quella che ti blocca di piu'. Ecco, la stanchezza (la
fatigue) non si vede, ma c'e' sempre nel periodo della terapia, per cui ti
muovi un po' meno volentieri, viaggi meno, soprattutto ti sposti meno
volentieri da casa. La casa diventa un posto fondamentale. Questo proprio
per la stanchezza, che peraltro non c'e' modo di alleviare. Mentre c'e' modo
di alleviare il dolore, per alleviare la stanchezza - ho gia' chiesto di
tutto - non c'e' nulla. Adesso con quest'ultima terapia vado un po' meglio,
ma certe chemio ti bloccano proprio: per alcuni giorni stai sdraiata a letto
e non sei in grado di fare alcun movimento. Anche per questo e' utile lo
psicologo oncologo, perche' in quei giorni ti sembra che non ridiventerai
mai normale, pensi: "Sono cosi' stanca, sono cosi' malridotta, possibile che
rientrero', che riusciro' di nuovo a fare delle cose?". Ma poi ti soccorre
il ricordo del mese prima: "Se l'ho fatto il mese prima, capitera' anche
adesso". E in effetti funziona.

2. ET COETERA
Anna Segre, scomparsa nel 2004, e' stata docente di geografia economica e
politica dell'ambiente all'Universita' di Torino, ricercatrice nei campi
della sostenibilita' ambientale dello sviluppo, dello sviluppo locale e dei
sistemi territoriali locali, di una visione di genere dello sviluppo, di
problemi ambientali e cartografia; persona di forte impegno civile,
impegnata nel tramandare la memoria della Shoah e nel contrastare ogni
violazione dei diritti umani.
Da un documento sottoscritto da colleghe e colleghi riprendiamo le seguenti
parole in suo ricordo: "Le linee di pensiero e di ricerca, le esperienze, le
relazioni umane e politiche in cui si e' impegnata nel corso della sua vita
sono state molto numerose e varie. Pur se e' ben difficile fare riemergere
tutta la complessita' e la ricchezza della sua figura, si vuole dare valore
almeno ad alcuni degli aspetti che paiono essere stati per lei piu' intensi
e piu' significativi. Il primo e' l'attenta tenacia con cui Anna nella
ricerca, nell'insegnamento e nell'impegno civile mirava a saldare le
dimensioni teoriche e concettuali della geografia economica e delle
politiche ambientali con il piano concreto dei problemi e dei soggetti
presenti sul territorio. Insegnava infatti Geografia economica e Politica
dell'ambiente presso la Facolta' di Lettere e Filosofia dell'Universita'
degli Studi di Torino, ma al tempo stesso si impegnava direttamente nelle
iniziative sul terreno: ricordiamo in particolare che all'inizio degli anni
'90 era stata eletta nel Consiglio Regionale del Piemonte nelle liste dei
Verdi. Importante e' stato poi il rapporto di Anna con l'ebraismo: l'amore
per la cultura ebraica, nei suoi fondamenti spirituali e nei suoi aspetti
minuti; l'interesse per la storia ebraica, in particolare la storia della
Shoah, cui non solo ha dedicato un'attenzione costante, ma ha offerto un
contributo di rilievo, pubblicando il diario che suo padre Renzo aveva
tenuto nei venti mesi dell'occupazione nazista, ricostruendo le vicende
della sua famiglia, promuovendo la conoscenza pubblica dello sterminio fino
a assumere su di se' il ruolo difficilissimo di candela della memoria.
Sensibile alle questioni sollevate dalla prospettiva di genere, e' stata
rappresentante del Dipartimento Interateneo Territorio nel Cirsde (Centro
Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne dell'Universita' di
Torino) e vicepresidente della Fondazione Langer: amava i costruttori di
ponti, gli esploratori di frontiera".
Tra le opere di Anna Segre: (a cura di), Renzo Segre, Venti mesi, Sellerio
1995; con Egidio Dansero, Politiche per l'ambiente. Dalla natura al
territorio, Utet, Torino 1996; con Egidio Dansero, Per un Atlante dei
problemi ambientali del Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte, Torino
2000; con Claudia De Benedetti, Luisa Sacerdote, La Pasqua ebraica Zamorani,
Torino 2001; (a cura di), Atlante dell'ambiente in Piemonte, Consiglio
regionale del Piemonte, Torino 2003; The local Territorial System and their
Environmental Sustainability, paper presentato alla Regional Science
Association International Conference, Pisa 12/15 aprile 2003; con A. Calvo,
E. Donini, Un approccio di genere al problema dello sviluppo, in "Rivista
Geografica Italiana", giugno 2003.
Una bella, profonda, luminosa commemorazione di Anna Segre tenuta da Anna
Bravo e' ne "La nonviolenza e' in cammino" n. 1218 del febbraio 2005.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 35 del 15 agosto 2006

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