La nonviolenza e' in cammino. 1388



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1388 del 15 agosto 2006

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: Il no e il si'
2. Enzo Mazzi ricorda Bruno Borghi
3. Marina Forti: Aumenta la repressione in Iran
4. Giancarla Codrignani: Per una politica di pace
5. Lidia Menapace: Resistenze
6. Ristampe: Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia
7. Riedizioni: Pietro Giannone, Opere
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. PEPPE SINI: IL NO E IL SI'

"Dov'era il no faremo il si'"
(Franco Fortini, Sull'aria dell'Internazionale)

E' buona cosa il cessate il fuoco. Ma non basta, occorre il disarmo.
E' buona cosa l'interposizione. Ma non basta, occorre che sia nonviolenta.
E' buona cosa che cessi la guerra. Ma non basta, occorre costruire la pace.
E' buona cosa la diplomazia. Ma non basta, occorre la giustizia.
E' buona cosa non uccidere. Ma non basta, occorre salvare le vite.

2. MEMORIA. ENZO MAZZI RICORDA BRUNO BORGHI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 agosto 2006.
Enzo Mazzi (per contatti: emazzi at videosoft.it), animatore dell'esperienza
della comunita' dell'Isolotto a Firenze, e' una delle figure piu' vive
dell'esperienza delle comunita' cristiane di base, e della riflessione e
delle prassi di pace, solidarieta', liberazione, nonviolenza. Tra le opere
di Enzo Mazzi e della Comunita' dell'Isolotto segnaliamo almeno: Isolotto
1954/1969, Laterza, Bari 1969; Ernesto Balducci e il dissenso creativo,
Manifestolibri, Roma 2002.
Su Bruno Borghi (1922-2006), prete operaio, figura storica della nonviolenza
in cammino, riportiamo il seguente profilo steso da Valerio Gigante apparso
su "Adista" n. 57/2006: "Insieme a figure come Giorgio La Pira, Ernesto
Balducci, David Maria Turoldo, Giulio Facibeni, Luigi Rosadoni, Giovanni
Vannucci, Lorenzo Milani, Enzo Mazzi, don Bruno Borghi, morto a Firenze il 9
luglio 2006, e' senz'altro tra coloro che piu' fortemente hanno influenzato
e favorito la nascita di quell'originalissimo laboratorio politico ed
ecclesiale che fu la Toscana degli anni '50 e '60. E che diede origine,
oltre che alla grande stagione del rinnovamento conciliare, anche
all'apertura del dialogo tra cattolici e comunisti. La sua figura e' forse
meno conosciuta di altri protagonisti di quel periodo; Borghi fu pero' tra
coloro che, in ambito ecclesiale, fecero le scelte piu' coraggiose e
dirompenti, sempre in prima linea, ha scritto Enzo Mazzi sull'edizione
fiorentina dell'"Unita'", l'11 luglio, "nella scelta delle realta' umane
piu' emarginate, umiliate e offese". Ma, precisa don Enzo, "e' troppo facile
parlare - come spesso si fa nel mondo cattolico - di scelta dei poveri o di
'scelta preferenziale dei poveri', come dire si scelgono sia i poveri che i
ricchi con un occhio di preferenza verso i poveri. Il che significa
sostanzialmente elemosine coi soldi dei ricchi e moralismo. No, per Bruno
Borghi la scelta dei poveri, fin dal seminario negli anni Quaranta, ebbe il
significato politico in senso lato di scelta di classe". Nato nel 1922, don
Borghi fu ordinato prete alla fine degli anni '40: nel seminario di Firenze
era stato compagno di don Lorenzo Milani, con il quale conservo' una
profonda amicizia. Milani (come testimonia l'epistolario tra i due, in parte
pubblicato nell'edizione Mondadori delle Lettere di don Lorenzo Milani
priore di Barbiana) trovo' in Borghi, piu' vecchio di lui di qualche anno,
un esempio ed un solido punto di riferimento nel suo processo di
"sborghesizzazione". Gia' nel 1950, infatti, Borghi aveva scelto, subito
dopo la scomunica di Pio XII ai comunisti e in piena guerra fredda, di
lavorare in fabbrica. Don Bruno desiderava immedesimarsi totalmente nella
condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e
istanze capaci di rivitalizzare una realta' sociale ed ecclesiale in cui
cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento.
Lavoro' in diverse fabbriche fiorentine, con un progetto complessivo, capace
di coinvolgere dal basso diversi soggetti sociali, di integrare fabbrica e
territorio, lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, impegnandosi
perche' la classe operaia uscisse dalla propria condizione di separatezza e
trovasse collegamenti con altri soggetti sociali di trasformazione, le
donne, gli studenti, i preti e i cristiani impegnati nel territorio e nelle
parrocchie piu' avanzate. Nell'ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani,
di una "Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina", in cui chiedevano ai
loro colleghi sacerdoti di rompere il muro di omerta' ecclesiastica e di
prendere apertamente le difese di padre Balducci e di monsignor Gino Bonanni
(rettore del seminario di Firenze), contro l'autoritarismo del vescovo
Ermenegildo Florit, espressamente inviato a Firenze per normalizzare la
diocesi dopo la stagione del cardinal Elia Della Costa. Durissima, pochi
giorni dopo, la risposta di Florit, che parla di due sacerdoti che "tanto
avventatamente e nella forma piu' inopportuna, hanno dato a me, loro
Vescovo, pubblico motivo di sofferenza ed alla Comunita' diocesana ragione
di frattura e di dissenso". A Milani e Borghi il cardinale assicura di poter
ottenere da lui, "in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi
cosi' quella liberta' e serenita' che e' da loro richiesta, scegliendosi una
Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze". Negli anni
successivi Borghi fu di nuovo a fianco di Milani nel denunciare l'ambiguo
ruolo dei cappellani militari nell'esercito e nella difesa dell'obiezione di
coscienza, allora (e fino al 1972) fuori legge: fu infatti autore di una
Lettera aperta ai cappellani militari di poco precedente alla piu' famosa
Lettera ai cappellani militari di Milani. Nell'ottobre del 1968, fu al
fianco di un altro ex compagno di seminario, don Enzo Mazzi, che la Curia
aveva cacciato dalla parrocchia dell'Isolotto insieme a don Paolo Caciolli.
Contro l'autoritarismo del vescovo e delle gerarchie, la comunita'
dell'Isolotto occupo' la chiesa in segno di protesta. In quell'occasione don
Sergio Gomiti, parroco della Casella (periferia di Firenze), diede le
dimissioni dichiarandosi corresponsabile delle accuse che avevano portato
all'allontanamento dei preti dell'Isolotto. La stessa cosa, poco dopo, fece
anche don Bruno Borghi, allora parroco di Quintale. Nel dicembre del 1969
Borghi sara' in piazza dell'Isolotto a celebrare, con don Enzo Mazzi e il
teologo spagnolo Ruiz Gonzalez, la prima veglia di Natale all'aperto
celebrata dalla comunita' dell'Isolotto. In seguito Borghi abbandono' il
sacerdozio. Decise di dare vita ad una famiglia ed ebbe un figlio. Se
termino' il suo impegno all'interno della istituzione ecclesiastica, non
fini' quello in difesa degli oppressi. Negli ultimi anni Borghi era
impegnato a fianco dei carcerati, come volontario nel carcere fiorentino di
Sollicciano. Nessun intento assistenzialistico, ma - come nella stagione
vissuta da prete operaio - la volonta' di vivere accanto agli ultimi per
lottare al loro fianco. Per questo, nei mesi scorsi era tornato a denunciare
pubblicamente il clima di intimidazione e le violenze psicologiche e fisiche
cui vengono sottoposti i detenuti: 'Quando sentiamo - aveva scritto su
"Fuoriluogo", supplemento del "Manifesto", il 6 dicembre 2005 - raccontare
con quale rituale si svolgono alcune di queste violenze, il pensiero corre a
Guantanamo, ad Abu Ghraib. Questi luoghi dell'orrore possono incendiare la
fantasia di menti malate, fare scuola? Come volontario vengo da un'altra
scuola. Si chiama Costituzione della Repubblica Italiana. L'art. 27 della
Costituzione dice: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari
al senso di umanita', e devono tendere alla rieducazione del condannato". La
mia presenza a Sollicciano nasce direttamente da questo articolo. Se la
finalita' della pena e' esclusivamente educativa, e' incompatibile con ogni
tipo di violenza'. Perche' se 'l'utopia di una societa' senza carcere e'
molto lontana', 'l'art. 27 della Costituzione ci fa sperare che possiamo
liberarci di questo carcere'"]

A un mese dalla morte di Bruno Borghi, il primo prete operaio italiano,
conviene riflettere su una esperienza che ha segnato il dopoguerra e che
forse puo' avere ancora un significato propositivo.
"... E' venuto a trovarci don Borghi - raccontano i ragazzi di Barbiana e
don Lorenzo Milani in Lettera a una professoressa - Ci ha fatto questa
critica: 'A voi pare importante che i ragazzi vadano a scuola... E' una
scuola migliore l'officina'". Questo era Bruno Borghi, il prete fiorentino
ormai secolarizzato che ha segnato con le sue scelte di vita, forti al
limite della provocazione, la stagione di Firenze "citta' sul monte", come
la definiva La Pira nei primi decenni del dopoguerra, crocevia di una
quantita' di percorsi innovativi, crogiolo di fermenti ecclesiali, culturali
e politici capaci di sconvolgere le ossificazioni di sistemi ideologici
contrapposti, in guerra spietata fra loro ma alleati di fatto nell'impedire
che le gabbie fossero infrante.
Fra le personalita' emerse in quella stagione don Bruno Borghi e' una delle
meno conosciute. Per me e' un valore. Lo conoscono piu' i carcerati di
Sollicciano, dove nell'ultima parte della sua vita ha fatto il volontario,
che i fiorentini. E don Bruno e' nel cuore della gente della Comunita'
dell'Isolotto per la solidarieta' e la costante vicinanza delle scelte di
vita, pur nel rispetto delle tante diversita'.
*
Il primo prete operaio italiano
Eppure don Borghi apri' una strada di notevole rilievo a livello nazionale
che molti poi seguirono: fu il primo prete-operaio italiano. Oggi un prete
che lavora alla catena di montaggio di una grande fabbrica non sconvolge
piu' nulla. La classe operaia e' in paradiso e nelle fabbriche si celebrano
pontificali. Ma allora, negli anni della guerra fredda e della
contrapposizione feroce fra cattolici e comunisti, la scelta della
condizione operaia da parte di un prete creo' sconcerto e scandalo.
"I santi vanno all'inferno", celebre romanzo di Gilbert Cesbron, racconta
l'esperienza esaltante e terribile dei preti-operai. Si tratto' proprio di
un tentativo di contaminazione inaudita fra paradiso e inferno. Tanto
inaudita e sconvolgente che fu interrotta drasticamente e condannata dal
Vaticano nel 1959, creando drammatici casi di coscienza e perfino suicidi,
poco dopo che il Sant'Uffizio aveva rinnovato la scomunica contro i
comunisti, condannando perfino i preti e i cattolici che con i loro
comportamenti "favorivano" il comunismo.
*
Via le barriere
Il paradiso e l'inferno dovevano restare separati. Andava bene anche a gran
parte della dirigenza comunista. La spartizione era nelle cose. La vita,
pero', ha risorse capaci di oltrepassare sempre gli orizzonti dati.
L'esperienza dei preti operai fu feconda.
Agli inizi degli anni Sessanta avvenne una preziosa contaminazione. La
classe operaia fu costretta a uscire dalla fabbrica per cercare alleanze
contro l'affacciarsi della crisi industriale che insidiava l'occupazione. I
soggetti delle lotte per i servizi negli insediamenti abitativi avevano
raggiunto, a loro volta, una maturita' che li portava alle radici, alle
cause profonde della invivibilita' delle periferie abitative. Sentivano
forte l'esigenza di superare la cultura della separatezza. Cercavano in una
unita' piu' grande e in un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal
basso tutta la societa', lo sbocco del loro impegno di animazione e
unificazione del territorio.
*
Un prete sessantottino
Si giunse cosi' al processo di progressiva e feconda integrazione tra
fabbrica e territorio, fra lotte sindacali e lotte per i servizi e le
riforme, fra cultura operaia e cultura dei settori della societa' piu'
legati al territorio come le donne, gli studenti, i preti e i cristiani che
gravitavano intorno all'ambiente parrocchiale. E siamo alla stagione del
'68-'69.
Oggi quelle esperienze possono risultare preziose di fronte alle sfide poste
alle giovani generazioni dalla globalizzazione. Nuove forme di
contrapposizione fra altri paradisi e altri inferni incombono. Occorre
salvaguardare la memoria, nel venir meno delle persone che sono state
protagoniste di quelle stesse feconde esperienze.
L'Archivio della Comunita' dell'Isolotto, animato da don Sergio Gomiti, un
altro dei protagonisti di quella stagione, ha gia' una sezione dedicata al
tema. L'universita' e il sindacato hanno una responsabilita'. La scomparsa
di Bruno Borghi puo' essere l'occasione per intrecciare piu' proficue
collaborazioni.

3. MONDO. MARINA FORTI: AUMENTA LA REPRESSIONE IN IRAN
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 agosto 2006.
Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei
diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il
quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi
dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del
mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera.
Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati
ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004.
Shirin Ebadi, giurista iraniana, gia' magistrata, premio Nobel per la pace
nel 2003. Riportiamo di seguito alcun stralci da un articolo di Sara Sesti
gia' riprodotto su questo foglio: "Il 9 ottobre 2003 e' stato assegnato ad
Oslo il Nobel per la pace all'iraniana Shirin Ebadi, 56 anni, avvocata,
madre di due figlie. Il premio le e' stato conferito "per il suo impegno
nella difesa dei diritti umani e a favore della democrazia. Si e'
concentrata specialmente sulla battaglia per i diritti delle donne e dei
bambini". Ebadi e' l'undicesima donna a vincere il Nobel per la pace, da
quando il riconoscimento e' stato istituito nel 1903, ed e' la prima
musulmana. Shirin Ebadi, nata nel 1947, e' stata la prima donna nominata
giudice prima della rivoluzione. Laureata in legge nel 1969 all'Universita'
di Teheran, e' stata nominata presidente del tribunale dal 1975, ma dopo la
rivoluzione del 1979 e' stata costretta a dimettersi per le leggi che
limitarono autonomia e diritti civili delle donne iraniane. Con l'avvento di
Khomeini al potere infatti venne decretato che le donne sono troppo emotive
per poter amministrare la giustizia. Avvocato, ha difeso le famiglie di
alcuni scrittori e intellettuali uccisi tra il 1998 e il 1999. E' stata tra
i fondatori dell'Associazione per la protezione dei diritti dei bambini in
Iran, di cui e' ancora una dirigente. Nel 1997 ha avuto un ruolo chiave
nell'elezione del presidente riformista Khatami. E' stata avvocato di parte
civile nel processo ad alcuni agenti dei servizi segreti, poi condannati per
aver ucciso, nel 1998, il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie. Nel 2000
ha partecipato ad una conferenza a Berlino sul processo di democratizzazione
in Iran, organizzata da una fondazione vicina ai Verdi tedeschi, che
provoco' grande clamore e la pronta reazione dei poteri conservatori a
Teheran, che arrestarono diversi dei partecipanti al loro ritorno in Iran.
Perseguitata a causa delle indagini che stava svolgendo, nel 2000 e' stata
sottoposta a un processo segreto per aver prodotto e diffuso una
videocassetta sulla repressione anti-studentesca del luglio 1999, materiale
che secondo l'accusa 'disturbava l'opinione pubblica'. Arrestata, ha subito
22 giorni di carcere. Il Comitato del Nobel e' lieto di premiare 'una donna
che fa parte del mondo musulmano', si legge nella motivazione del premio che
sottolinea come Ebadi 'non veda conflitto fra Islam e i diritti umani
fondamentali'. 'Per lei e' importante che il dialogo fra culture e religioni
differenti del mondo possa partire da valori condivisi', prosegue il
comitato, la cui scelta appare particolarmente mirata in un contesto storico
di tensioni fra Islam e Occidente. 'La sua arena principale e' la battaglia
per i diritti umani fondamentali, e nessuna societa' merita di essere
definita civilizzata, se i diritti delle donne e dei bambini non vengono
rispettati' prosegue la nota. 'E' un piacere per il comitato norvegese per
il Nobel assegnare il premio per la pace a una donna che e' parte del mondo
musulmano, e di cui questo mondo puo' essere fiero, insieme con tutti coloro
che combattono per i diritti umani, dovunque vivano'". Su Shirin Ebadi cfr.
anche i profili scritti da Giuliana Sgrena e Marina Forti apparsi nei nn.
701 e 756 di questo foglio]

La notorieta' internazionale dell'avvocata Shirin Ebadi non e' bastata a
proteggere il "Centro per la difesa dei diritti umani" di Teheran, gruppo di
avvocati e giuristi di cui la Nobel per la pace 2003 e' una delle
fondatrici. Una settimana fa il ministero dell'interno iraniano ha infatti
annunciato che questo Centro non ha l'autorizzazione a operare, dunque "e'
illegale". E se i suoi membri continueranno nelle loro "illegali" attivita',
saranno arrestati.
La notizia ha suscitato grande allarme tra le organizzazioni internazionali
per i diritti umani, che hanno fatto circolare condanne e proteste. Ancora
piu' allarme suscita in Iran, anche perche' fa parte di un ulteriore giro di
vite sulle liberta' civili e politiche cominciato gia' da qualche tempo.
Shirin Ebadi ha detto che e' il ministero dell'interno a violare la legge,
con il suo annuncio.
*
Il Centro per la difesa dei diritti umani e' stato fondato nel 2002 da
cinque avvocati gia' tutti singolarmente impegnati nella difesa delle
liberta' politiche; aderisce alla Federazione internazionale per i diritti
umani e si e' dato il triplice scopo di riferire sulle violazioni dei
diritti umani che avvengono in Iran, difendere i detenuti politici
gratuitamente e sostenere le loro famiglie. Shirin Ebadi lo presiede.
Secondo la Costituzione iraniana, dice l'avvocata, le organizzazioni non
governative, associazioni e partiti che rispettano la legge e non turbano
l'ordine pubblico sono liberi di condurre le loro attivita' senza bisogno di
permessi. Nonostante cio' i fondatori del Centro avevano chiesto
un'autorizzazione legale. Era in carica allora il governo di Mohammad
Khatami; "avevamo mostrato il nostro statuto e anche accettato alcune
correzioni". L'autorizzazione e' stata promessa, ma e' sempre rimasta
implicita.
Quattro anni dopo, il governo ultraconservatore di Mahmoud Ahmadi Nejad ha
deciso di mettere a tacere il gruppo di avvocati.
*
Non che il Centro per la difesa dei diritti umani abbia mai avuto vita
facile, tra impedimenti a contattare i propri assistiti e altre angherie
(senza contare le minacce di morte a Shirin Ebadi): la magistratura e'
sempre stata in mano alle correnti piu' conservatrici dello stato iraniano.
In luglio uno dei fondatori, l'avvocato Abdolfatah Soltani, e' stato
condannato a cinque anni di prigione per il reato di "attivita' contro lo
stato" e in particolare per aver dato notizia a diplomatici stranieri delle
imputazioni nei confronti di uno dei suoi clienti. Ha fatto appello, il caso
e' aperto.
I fondatori del Centro per i diritti umani hanno una profonda fiducia nei
meccanismi della legalita' e della Costituzione iraniana, e a quella si sono
sempre appellati nel difendere giornalisti, studenti, attivisti democratici,
di recente i weblogger o "giornalisti di internet" (intervistato, uno dei
cofondatori del centro ci aveva intrattenuto a lungo sugli articoli del
codice civile e penale che garantiscono la liberta' d'espressione,
d'associazione e cosi' via: "ci battiamo per applicarli", diceva).
"Non abbiamo intenzione di chiudere il centro e continueremo le nostre
attivita'", scrive ora Ebadi in un messaggio fatto circolare dalle
organizzazioni internazionali per i diritti umani: "Pero' c'e' la
possibilita' che ci arrestino".
*
Il rischio e' reale, nel clima che si respira in questi mesi in Iran.
Il 29 luglio un giovane uomo e' morto nel carcere di Evin, a Tehran: Akbar
Mohammadi aveva partecipato al movimento degli studenti universitari nel '99
ed era detenuto da allora. Il 23 luglio aveva cominciato uno sciopero della
fame, le autorita' hanno detto che e' morto di collasso: i genitori e gli
avvocati hanno chiesto un'autopsia e indagini sulle circostanze della morte.
Poi c'e' il caso di Ramin Jahanbegloo, filosofo della politica, arrestato in
marzo (pare sia accusato di spionaggio e di aver incitato a una "rivoluzione
di velluto"). Domenica il giornale "Keyhan", vicino alla Guida suprema
[l'ayatollah Khamenei - ndr], ha riferito di alcuni interrogatori in cui
Jahanbegloo avrebbe ammesso di aver formato "un'ampia rete di
cyberspionaggio". Torna la vecchia pratica delle confessioni (vere o
manipolate) come strumento di propaganda e intimidazione. Bandita ogni
critica, media censurati su temi come la guerra tra Israele e Hezbollah o il
contenzioso nucleare, le liberta' pubbliche sono ancora piu' sotto minaccia.

4. RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: PER UNA POLITICA DI PACE
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: giancodri at libero.it) per
questo intervento. Giancarla Codrignani, presidente della Loc (Lega degli
obiettori di coscienza al servizio militare), gia' parlamentare, saggista,
impegnata nei movimenti di liberazione, di solidarieta' e per la pace, e'
tra le figure piu' rappresentative della cultura e dell'impegno per la pace
e la nonviolenza. Tra le opere di Giancarla Codrignani: L'odissea intorno ai
telai, Thema, Bologna 1989; Amerindiana, Terra Nuova, Roma 1992; Ecuba e le
altre, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1994;
L'amore ordinato, Edizioni Com nuovi tempi, Roma 2005]

Dopo le recenti divaricazioni interpretative sulla pace e sul pacifismo
occorre rassegnarsi e continuare ad usare la parola "pace" al singolare, ma
per il "pacifismo" mettere d'obbligo il plurale. Vediamo un poco di
ragionare insieme sulle diverse maniere di intenderli.
*
Intanto il termine pace. Fa parte degli astratti, come la liberta' e la
giustizia: piu' o meno tutti ci impegniamo per la loro attuazione, ben
consapevoli che nell'anno di grazia 2006 dopo Cristo tentiamo realizzazioni
che, pur graduali e selettive, non realizzano mai la pienezza della liberta'
e della giustizia. Anche perche' non siamo ancora cosi' globalizzati da
capire che, mentre tutti nel mondo usano ragionare di giustizia e di
liberta', non tutti vi attribuiscono ne' lo stesso senso ne' gli stessi
contenuti.
La pace non e' mai stata conosciuta dall'umanita', perche', da Adamo o dai
cavernicoli, ci sono sempre state le violenze e la guerra. Molti europei e
americani del nostro tempo credono di conoscerla perche' hanno oggi
esperienza marginale e non diretta delle guerre; ma nessun paese vive in
pace se ce ne fossero anche solo due che si fanno guerra. Questa base di
partenza di un ragionare sulla pace e' semplicistico, anche se si vorrebbe
che riscuotesse maggior attenzione. Serve infatti a prendere atto che di una
vera pacificazione del mondo - e, dunque, di noi - non abbiamo esperienza
alcuna. Siamo tuttavia in cammino e qualche positivita', forse piu' di
principio che di prassi, la si riscontra.
La guerra non ha piu' l'onore in cui era tenuta nei secoli passati. Il
dovere militare non e' piu' il requisito fondamentale dell'appartenenza ad
una comunita', la carriera militare non e' piu' cosi' brillante socialmente
come appare dalle narrazioni fino a tutto il secolo XIX e l'obiezione di
coscienza nei paesi occidentali e' un diritto e non un reato. La societa' si
riconosce prima di tutto nell'essere comunita' "civile" e i cives, i
cittadini si riconoscono nella partecipazione, nella rappresentanza, nella
trasparenza della politica dei propri governi. La democrazia non impedisce,
tuttavia, che ci siano le guerre; al proprio interno si tratta di conflitti
economici che producono vincitori e vinti di quel terreno di competizione
che e' il mercato, di conflitti amministrativi, di rapporti difficili fra
pubblico e privato; anche le contese fra chi ha di piu' e chi ha di meno
producono vittime.
La guerra, tuttavia, e' altra cosa. Nasce anch'essa da conflitti fra chi ha
e chi non ha (gli stessi mezzi, la stessa terra, la stessa appartenenza, la
stessa fede); tuttavia, in questi casi si sa che il conflitto arriva, prima
o poi, alla violenza e alle armi. E' un processo inevitabile e noto, noto
soprattutto da chi, esterno e spesso non disinteressato, sta a guardare per
prevedere il processo in relazione alle proprie convenienze. Spesso chi
tiene per una parte ne favorisce le iniziative, fino a sostenerla con
vendite d'armi e finanziamenti. Succede che per questa via anche altri
vengano coinvolti nei processi violenti e il conflitto dilaghi. Non accade
mai che i governi locali prevengano il degenerare di conflitti che, nati da
cause conosciute, potrebbero trovare soluzione migliore (non solo per le
vite umane da risparmiare, ma anche ai fini di interessi concreti) dalla
composizione delle vertenze mediante trattative dirette. L'esperienza
insegna che i partiti che sostengono cause contrapposte pensano di
poter/dover vincere sul campo, secondo la tradizionale logica amico/nemico.
Ma nessuno, davanti ai pericoli e non solo davanti alle stragi, chiede
l'intervento dell'Onu, che, essendo per definizione l'organismo
sovranazionale che preserva la pace fra le nazioni, potrebbe conseguire
qualche successo se la sua iniziativa fosse preventiva e non contestata da
poteri egemoni.
*
Tuttavia la violenza e la sua espressione piu' diretta, la guerra, con tutti
i suoi apparati, hanno subito modificazioni storiche di cui occorre tener
conto se si deve operare per estinguerle nella storia futura.
Intanto si constata che neppure i militari fanno piu' riferimento alla
guerra senza aggettivarla: difensiva, chirurgica, preventiva, umanitaria...
Appare evidente che la guerra, in quanto tale, non ha piu' valore positivo
nella mentalita' comune. Eppure non si riesce a produrre da questa
ricomposizione anche psicologica il cambiamento necessario: cedant arma
togae. Gli eserciti non fanno nessun passo indietro davanti alla diplomazia
che, anche per molti cittadini inesperti, non si sa bene che cosa stia a
fare. Eppure, quando qualcuno vent'anni fa penso' alla misura minima di
unificare le Commissioni parlamentari esteri e difesa, trovo' opposizione
unanime. Mentre e' ovvio che non c'e' politica militare corretta se non c'e'
politica estera competente.
In ogni caso gli eserciti ci sono: anche l'antimilitarista estremo (potrei
esserlo perfino io) sa bene che passeranno molte generazioni prima che
questi impiegati dello stato operino in altro campo e per altri fini. Per
oggi ci sono, come c'e' la produzione bellica e - qui, invece, qualche
critica abbiamo da farla - non si sa perche' dopo il grande movimento che
negli anni Ottanta del secolo scorso animo' il paese per ottenere dal
Parlamento una legge di regolamentazione sulla produzione e sul commercio
delle armi, non sia stato portato avanti l'impegno, collegandosi con altri
paesi europei, per ottenere degli standard comuni all'interno dell'Unione
Europea (il disarmo unilaterale, per quanto teoricamente generoso, non
supera la situazione se chi si ritira dal mercato viene immediatamente
sostituito dal vicino ben lieto di allargare i profitti). Il fatto che gli
eserciti ci siano dovrebbe indurre a prendersene cura: ci sono molti che
avrebbero preferito la leva obbligatoria alla professionalita' militare. A
parte il danno psicologico-comportamentale di tutti i maschi educati per
almeno dodici mesi a ubbidire a ordini anche sconsiderati, pronti a un
signorsi' estensibile a molte situazioni di vita; penso che dovrebbe partire
proprio dagli obiettori un progetto educativo nonviolento che fosse
specifico per i militari e che prevedesse un supporto di assistenza per chi
rifiutasse ordini iniqui. Ormai si tratta di diritti acquisiti teoricamente
a cui occorre dare gambe, sempre attenti alla prassi di un esercito che ha
imparato molto dalle lotte dei pacifisti e adesso istituisce corsi sui
diritti umani.
*
Un altro punto problematico e' quello della forza armata europea:
significherebbe che l'Europa avrebbe una politica estera comune?
significherebbe che e' meglio lasciare le cose come stanno con Nato e Usa
come protettori? Parlando di eserciti non ci sono principi in discussione,
solo metodi: ma si tratta di cose urgenti da verificare insieme e non quando
sono decise. Per un futuro senza eserciti meglio passare attraverso una resp
onsabilita' tutta europea o un affidamento, sia pure pro tempore, alla
grande potenza?
Tutti sanno che l'Europa e' stata piena di guerre, con qualche dissolvenza
dovuta a trattati che, come Vestafalia, nascevano dalla consapevolezza che
con la belligeranza non ci guadagnava nessuno; ma non duravano, anche se
segnavano la storia. Il secolo scorso pronuncio' il suo primo "mai piu'"
dopo la prima guerra mondiale, per ripeterlo trent'anni dopo sulle macerie
di regimi esiziali sorti non senza complicita' dei paesi liberi che, con la
scusa del male minore, misero a rischio la liberta' di un continente. Oggi
la situazione torna ad essere gravissima: l'Occidente ricco provoca reazioni
non inimmaginabili in quel Sud del mondo che ormai sa a livello di masse
sempre piu' estese di essere depredato delle proprie risorse, espropriato
della propria cultura, coinvolto in contese interne in cui le intromissioni
esterne dividono e massacrano ancor piu', beffato dai programmi di aiuto a
cui si devolvono miserie, mentre l'Occidente vive nel superfluo e reagisce
contro la crescente immigrazione, ma non contro la scarsita' degli aiuti ai
paesi poveri. Le reazioni non sono solo quelle delle "invasioni barbariche".
Ci siamo difesi dalle lotte di liberazione dei popoli favorendo approdi meno
odiosi dei regimi militari e lasciando all'evolversi delle situazioni
interne - pur che mantenessero i legami di interesse con i governi-padroni -
la responsabilita' di governo. Anche in questo campo non mancano novita':
non sempre i nuovi governi sono corrotti o del tutto conniventi con gli Usa
e l'Europa, ma si sono manifestati segni di indipendenza e di autonomia. In
altre parti, ahime' molto vicine all'Europa, ci sono manifestazioni ben
diverse: per molti, troppi la democrazia (che, in qualche modo, e' in crisi
in Occidente) viene rifiutata come bene di popoli corrotti e miscredenti.
Siamo il nemico (e lo siamo anche perche' non abbiamo mai riconosciuto
l'amico).
*
E si torna alle armi e agli eserciti: dove la violenza delle situazioni
ripropone, anche per disperazione, la vendetta, e le persone si raccolgono
sotto bandiere, si armano dietro a leader che si sono esercitati e che
comandano le azioni. Anche per questi diversi eserciti occorre capire il
ruolo delle armi oggi.
Chi possiede eserciti tradizionali li dota di armi sempre piu' sofisticate
(abbiamo ingegneri che le progettano e che si sentono non colpevoli del loro
uso); ci sono sgarri rispetto alle norme internazionali e le armi chimiche o
l'uranio ci e' sfuggito piu' volte.
Tuttavia i soliti profeti di sventura ricordavano trent'anni fa che il
chimico e il batteriologico erano le armi dei poveri. "Gran bonta' dei
cavalieri antiqui", i poveri non le hanno usate, tranne alcune sette in casi
particolari; tuttavia il gas nervino usato nella metropolitana di Tokyo fece
capire che armi letali di quel genere, predisposte tenendo separati a
distanza i componenti-base da miscelare al momento dell'uso, erano
incontrollabili. Negli anni Ottanta in Usa si lesse addirittura
un'inserzione per vendere virus di peste che mise in luce con che facilita'
possano uscire dai laboratori le provette. D'altra parte niente allarmismi:
anche Annibale avvelenava i pozzi.
Solo che oggi abbiamo paura. Ma non pensiamo alle stragi e ai danni a carico
di innocenti fatti dalle nostre armi, "convenzionali" e non. Gli "altri" si
armano anche loro e noi siamo impotenti per non aver praticato politiche di
giustizia, di condivisione, di approfondimento sulle nostre storie diverse.
Le risoluzioni delle Nazioni Unite sono rimaste inapplicate, senza nostra
rivolta, e anche oggi il cessate il fuoco arriva "dopo" distruzioni che
stanno fuori da tutte le norme del diritto internazionale, dall'antica
sovranita' agli attuali diritti umani.
Chiamarci fuori come europei che invocano la "neutralita'"? non so quali
illusioni, dopo la seconda guerra mondiale e i certamente tanti ebrei
salvati in Svizzera, ma anche l'altrettanto certo passagio di armi
attraverso il territorio elvetico. D'altra parte, le esercitazioni per la
propria aeronautica la Svizzera le pratica, per accordo, dalle parti della
Sardegna... La neutralita' svedese e' piu' gloriosa, ma anche la Svezia
produce armi. Certamente sarebbe importante che la gente conoscesse queste
possibilita' e ne ragionasse. Infatti tutti ci rendiamo conto dei problemi e
cominciamo ad annaspare quando l'acqua tocca il livello di guardia.
*
E' mancato, fino ad oggi, il "fare politica" da parte dei democratici non
potenti che si definiscono pacifisti, fanno le marce e le fiaccolate,
pubblicano le loro denunce, vanno anche a morire a fianco delle vittime. E
qualche volta si sentono molto depressi.
Non e' la prima volta che accade, anche se in situazioni diverse e, in
qualche modo, meno pericolose. A scuola non si impara la storia del
pacifismo, che e' stato proprio non solo di intellettuali illuminati come
Erasmo da Rotterdam, ma anche di persone che un secolo e mezzo fa
presentivano che tutto stava convergendo verso una futura "guerra mondiale"
(Clemence Rouvier) o che pensavano che solo l'Europa unita avrebbe potuto
favorire un'epoca di pace (cfr. la rivista "Les Etats Unis d'Europe" del
1868). Si crearono dei movimenti in quasi tutti i paesi europei e le loro
iniziative erano cosi' rilevanti, anche a livello informativo, che inviavano
telegrammi il re d'Inghilterra e lo zar di Russia. Ipocrisie di una ragion
di stato un po' piu' elegante delle nostre; ma l'esito non solo non
soddisfece le aspettative, ma quella "storia" venne cancellata e nessuno la
ricorda.
La nostra bella nonviolenza, anch'essa partita dalla notte dei tempi, e'
stata luogo ideale di minoranze; oggi il mondo e' molto piu' ridotto e,
anche se gli indiani non sono tanto memori di Gandhi, anche se i lavoratori
europei non si rendono conto del valore nonviolento della loro importante
invenzione dello sciopero, sono molte di piu' le persone che sarebbero
disponibili a seguire politiche di pace. Anche i nuovi sistemi comunicativi
ci possono aiutare. Ma occorre che divenga senso comune per il massimo
numero di persone e istituzioni un'esigenza di pace cosi' seria che crea
proposte - tutte da costruire - per fare cultura nonviolenta, per avanzare
proposte attuabili e credibili per prevenire la degenerazione di conflitti
nascenti, per sostenere le istituzioni della pace a partire dall'Onu, e
l'intervento umanitario a fianco delle vittime.
Per fare questo occorre, pero', distinguere: lo stare dalla parte delle
vittime e' doveroso sul piano umanitario e della solidarieta' umana; ma le
parti in conflitto hanno ragioni che si raccontano e in cui credono
entrambe. Se nel fare politica si sta da una parte sola senza tener conto
delle ragioni dell'altra si entra, pur non volendo, nella logica
amico/nemico. Solo con questa impostazione mentale possiamo ricorrere a
ragionare sui diritti, non quelli astratti, ma quelli internazionalmente
riconosciuti, che sono tanti e aspettano solo la sollecitazione di chi,
anche dal basso, li conosce e li vuole applicare. Altrimenti non si fa
politica di pace.

5. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: RESISTENZE
[Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) per
questo intervento. Come  e' evidente esso non e' filologicamente rigoroso,
ma la sua forza ermeneutica - come sovente negli interventi di Lidia
Menapace (che e' maestra di quelle modalita' dialogiche del pensiero su cui
la filosofia teoretica e l'epistemologia negli ultimi anni molto sono
tornate ad interrogarsi, grazie soprattutto alla riflessione femminista, un
nome per tutti: Adriana Cavarero, riconnettendosi peraltro alle piu'
classiche forme dell'attivita' conoscitiva anche come istitutiva di
convivenza, i dialoghi platonici ad esempio) - e' proprio nella forma
narrativa e relazionale della meditazione, cosicche' chi legge privilegera'
questo senso secondo del ragionamento rispetto alla non sempre perfetta
adeguazione dei riferimenti ai nessi istituiti; beninteso esiste una
rigogliosissima bibliografia sulle vicende e sugli argomenti qui
cursoriamente evocati, e ad essa - da Oscar Cullmann a Claudio Pavone, per
non dire dell'ormai fiorentissimo lavoro storiografico che si colloca in una
prospettiva specificamente nonviolenta - si rinvia senza ulteriori
digressioni. Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace at aliceposta.it) e'
nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel
movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria,
fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' significative della cultura
delle donne e dei movimenti della societa' civile. Nelle elezioni politiche
del 9-10 aprile 2006 e' stata eletta senatrice. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il
futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo.
Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento
politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia
Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza
sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara
Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il
papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; AA. VV., Nonviolenza,
Fazi, Roma 2004]

Vorrei dire qualcosa sul diritto alla resistenza dei popoli invasi. Esso e'
fondato nel diritto internazionale e per solito non riconosciuto dagli
invasori che di volta in volta chiamano ribelli banditi terroristi tutti
indistintamente i e le resistenti, considerandoli res nullius, privi di
diritti, di cui si puo' fare quel che si vuole, soprattutto ammazzarli senza
alcun processo. Tutto cio' rende sempre la resistenza un evento difficile e
ambiguo, perche' la voglia o la decisione di rispondere allo stesso modo
viene ed e' anche applicata: dopo la guerra, chi tra i resistenti ha
replicato violando le leggi, viene per solito amnistiato, date le
circostanze tremende in cui ha agito. Questa fu la motivazione per la quale
Togliatti ministro di grazia e giustizia subito dopo la Liberazione nel
primo governo del Cln fece appunto una amnistia per partigiani e anche
repubblichini, cosa giusta che ancora non gli e' stata perdonata.
Nella Resistenza (mi chiedono perche' usi la maiuscola certe volte e certe
volte no: resistenza e' parola comune e quindi minuscola, ma se indica il
nome  proprio della resistenza italiana, allora e' la Resistenza) si
discuteva molto tra noi resistenti sulle scelte lecite e quelle non lecite e
non eravamo affatto sempre d'accordo. Il caso piu' famoso fu l'attentato di
via Rasella a Roma, dopo il quale i nazi fecero la rappresaglia delle Fosse
Ardeatine: molti non erano d'accordo non per le conseguenze, che restano
comunque criminali (la rappresaglia indiscriminata e' un delitto
specialmente se viene attuata da uno stato - ad esempio Israele che replica
ad attacchi di Hezbollah in modo cosi' spropositato e indiscriminato viola
il diritto internazionale) ma perche' molti tra noi erano del parere che non
si deve mai fare un gesto che possa colpire anche la popolazione civile,
perche' cio' e' sommamente ingiusto e anche nocivo, dato che dell'appoggio
della popolazione civile la resistenza ha bisogno "come il pesce dell'acqua"
dira' decenni dopo Ho Chi Minh.
Questo per dire che resistere e' un diritto e un popolo ha anche il diritto
di scegliere di resistere in armi. Ma cio' non toglie sia a chi ne fa parte
che a chi appoggia dall'esterno il diritto di giudicare la resistenza e i
suoi metodi e programmi. La resistenza irachena si configura sempre piu'
come una guerra civile-religiosa e offrirle l'alibi di resistenza per di
piu' democratica e' davvero fuori luogo. Lo stesso si puo' dire del Libano:
gli Hezbollah tutto sono tranne che democratici e laici e una loro vittoria
sarebbe per il Libano e la sua fragile democrazia e tradizione di tolleranza
religiosa (che e' cosa diversa dalla laicita', ma e' gia' una buona cosa) un
disastro, come appunto per l'Iraq la vittoria di fazioni religiose
fondamentaliste.
*
Per spiegarmi cito un episodio evangelico che ha il pregio di essere lontano
nel tempo e quindi suscita meno passioni. Al tempo in cui visse Gesu'
Cristo, la Palestina che era abitata da ebrei soprattutto e molti di loro di
cultura greca, era sotto il duro imperialismo romano e molto riottosa contro
l'occupazione. Molti speravano in un messia come capo religioso e militare
che li liberasse e lo stesso Gesu' di Nazareth fu dai suoi equivocato in
questa veste. Tra i suoi apostoli e discepoli vi erano certamente dei
partigiani (che allora si chiamavano con nome di origine greca zeloti, che
vuol dire Hamas), i quali lottavano  anche con le armi contro i romani.
Probabilmente Pietro era uno di loro e girava armato tenendo sotto la tunica
il corto pugnale del sicario, in latino detto sica. Infatti all'arresto di
Cristo cava il pugnale da sotto il vestito e taglia un orecchio a un milite
romano. Cristo lo ammonisce con la famosa frase: "Chi di spada ferisce di
spada perisce", con la quale condanna la violenza che e' ripetitiva e non
risolve nulla. Tra gli ebrei che resistevano vi erano anche i farisei, la
buona borghesia ebraica colta ricca osservante religiosamente e
collaborazionista "con juicio": avevano stabilito con i Romani un regime di
reciproca tolleranza. Verso di loro Gesu' e' durissimo e li chiama "Razza di
vipere, sepolcri imbiancati" e nega loro che sia lecito per fare resistenza
ai Romani non pagare le tasse.
Come si vede il giudizio sulle varie forme di resistenza e' molto diverso e
molto piu' tollerante verso chi usa le armi che verso chi non rispetta lo
stato.
Sicche' per sostenere la resistenza libanese non bisogna per forza essere
d'accordo con gli Hezbollah, ma essere molto attenti e favorevoli a che si
pieghino alle decisioni del governo libanese, il che sara' bene per tutti.
Oggi e' molto difficile, perche' tutte e tre le grandi religioni monoteiste
sono in fase fondamentalista, dai teocons di Bush, agli ebrei ortodossi,
agli islamisti. E' un vero grande pericolo, al quale si deve replicare con
il massimo di laicita' e di spirito critico, governando le passioni e le
emozioni.

6. RISTAMPE. JOHANN WOLFGANG GOETHE: VIAGGIO IN ITALIA
Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori, Milano 1983, 2006, pp.
LVIII + 862, euro 12,90 (in suppl. a vari periodici Mondadori). Una delle
piu' belle edizioni italiane del Viaggio in Italia, con vasto eccellente
apparato (per le cure di Roberto Fertonani, Emilio Castellani, Herbert von
Einem).

7. RIEDIZIONI. PIETRO GIANNONE: OPERE
Pietro Giannone, Opere, Biblioteca Treccani - Il Sole 24 ore, Milano 2006,
pp. L + 628, euro 12,90 (in suppl. a "Il sole 24 ore"). Come non salutare
con gioia questa scelta di scritti di Pietro Giannone estratti dalla
classica edizione nella Letteratura Italiana Ricciardi curata da Sergio
Bertelli e Giuseppe Ricuperati? Giannone il perseguitato, l'esule, il
detenuto, Giannone il combattente per la liberta' del pensiero, il nostro
Giannone che finalmente torna. Il volume presenta l'intera autobiografia,
passi dalla Istoria civile del regno di Napoli, dal Triregno e dall'Ape
ingegnosa, e ancora i testi integrali della Professione di fede e del
Ragguaglio sul rapimento di cui fu vittima.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1388 del 15 agosto 2006

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).

L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196
("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing
list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica
alla pagina web:
http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html

L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la
redazione e': nbawac at tin.it