[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La domenica della nonviolenza. 81
- Subject: La domenica della nonviolenza. 81
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 9 Jul 2006 12:08:15 +0200
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 81 del 9 luglio 2006 In questo numero: 1. Etica dell'irresponsabilita' 2. Luigi Cavallaro: Rileggendo l'art. 11 della Costituzione 3. Maria G. Di Rienzo: Donne afgane 4. Emanuela Citterio intervista Odile Sankara 5. Vita Cosentino: Noi e Odile 6. Giovanni Sarubbi: Per la quinta Giornata del dialogo cristiano-islamico 7. Musulmani in Italia: dieci proposte di lavoro 8. Enrico Peyretti: Venerdi', in piazza Castello 1. EDITORIALE. ETICA DELL'IRRESPONSABILITA' In questo teatrino buffo quanto tragico non manca chi evoca addirittura l'"etica della responsabilita'" (ovvero il farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni) per sostenere la tesi che sia cosa buona e giusta continuare la guerra in Afghanistan, ovvero continuare a uccidere esseri umani. Uccidere esseri umani. Uccidere. Esseri umani. Chi leggera' un domani le parole proferite in questi giorni da certi ministri e da certi loro caudatari e araldi potra' forse sorriderne. Noi oggi ne proviamo solo orrore. 2. RIFLESSIONE. LUIGI CAVALLARO: RILEGGENDO L'ART. 11 DELLA COSTITUZIONE [Dal quotidiano "Liberazione" del 7 luglio 2006. Luigi Cavallaro (1966) e' in magistratura dal 1992 e magistrato del lavoro presso il Tribunale di Palermo dal 1994; cultore di economia politica, ha pubblicato saggi e articoli su vai quotidiani e riviste, occupandosi principalmente di temi di storia del pensiero economico, macroeconomia ed economia pubblica. Tra le opere di Luigi Cavallaro: La caduta tendenziale della "nuova economia", Manifestolibri, Roma 2001; Il modello mafioso e la societa' globale, Manifestolibri, Roma 2004; Una questione di tempo. I nipoti di Keynes e la disoccupazione di massa, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente, Vivarium, Napoli 2005] "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Proprio cosi', "ripudia": nemmeno nella dodicesima delle disposizioni transitorie e finali, quando vietano la ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista, i costituenti hanno usato termini cosi' gravidi di implicazioni etico-affettive. La disposizione e' talmente semplice che, al suo cospetto, sembra di dover dar torto agli innumerevoli seguaci del circolo ermeneutico e alla loro pretesa che da un dato testo possa discendere qualsiasi norma: qui non c'e' da interpretare, tant'e' che chi non ne voleva sapere di acquietarsi all'unica norma desumibile dal testo ha pensato bene di negarne in radice il significato giuridico. Ma il testo un significato ce l'ha, eccome. Il ripudio della guerra non e' soltanto la netta opposizione al passato delle relazioni internazionali, centrate sulla primazia dello Stato e del suo inalienabile "diritto alla guerra", ma - come emerge dal secondo e terzo periodo dell'art. 11, secondo cui il nostro Paese "consente, in condizioni di parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni" e "promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo" - rappresenta anche la prefigurazione di un ordine futuro, post-nazionale, post-statuale, veramente globale. Poiche' sempre piu' spesso si e' costretti a sentire il contrario, che cioe' il testo costituzionale sarebbe datato e non terrebbe conto del processo di globalizzazione e delle nuove esigenze di sicurezza che ad esso si accompagnano, conviene esplicitare quanto piu' possibile il punto di vista qui sostenuto. * E' noto che l'ordinamento giuridico internazionale si e' strutturato sul principio secondo cui non sono gli individui ad essere diretti destinatari delle sue norme: esso ha regolato (e tuttora regola) eminentemente i rapporti tra gli Stati e solo mediatamente, cioe' per tramite di questi ultimi, le situazioni soggettive individuali. Detto altrimenti, sulla scena dell'ordinamento internazionale gli individui sono stati sin qui presenti soltanto attraverso quella loro personificazione collettiva che e' lo Stato: essi hanno acquistato diritti e doveri (e responsabilita') solo per tramite degli Stati cui sono soggetti. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo, per fare solo un esempio, obbliga gli Stati che vi aderiscono a garantire ai loro cittadini i diritti in essa contemplati e attribuisce per converso ai cittadini di ciascuno Stato il diritto - da esercitarsi nei confronti dello Stato cui appartengono - di richiederne l'applicazione. Nasce da qui la configurabilita' della guerra come sanzione per gli illeciti previsti dall'ordinamento internazionale: la guerra, infatti, presuppone una responsabilita' collettiva e oggettiva in virtu' della quale gli individui pagano - anche con la vita - per il semplice fatto di essere cittadini dello Stato autore dell'illecito internazionale. Ed e' stato convincentemente argomentato che non avrebbe senso "personalizzare" tale responsabilita' facendo leva sulla rappresentativita' degli organi statali: il principio si afferma con la sua inesorabile logica anche nei confronti degli appartenenti a Stati dispotici, che certo nessuna colpa hanno degli illeciti internazionali compiuti dal loro governo, visto che non possono sceglierlo o controllarne l'operato. Senonche', i fatti del Kosovo e i molteplici e drammatici attacchi terroristici di questi ultimi tempi hanno portato prepotentemente alla ribalta internazionale proprio gli individui. Donne, uomini, vecchi e bambini, brutalizzati da regimi tirannici o vittime innocenti della follia terroristica o responsabili di quella stessa follia. Dinanzi a fatti di questa portata - ecco, in sintesi, la domanda che si suole porre a quanti si ostinano a ritenere che la guerra debba essere sempre e comunque ripudiata - quale tutela offre l'ordinamento internazionale vigente? E' possibile restare inerti di fronte a massacri di massa? Non risuona forse imperiosa l'esigenza di rispettare le "leggi dell'umanita'", quelle "leggi non scritte nei codici dei re alle quali obbediva Antigone", come scrisse Piero Calamandrei all'indomani del processo di Norimberga? * E' proprio nei confronti di domande come queste che l'art. 11 mostra, ad onta dei suoi detrattori, tutta la sua perdurante vitalita' e valenza precettiva. Dalla sua formulazione, infatti, e' facilmente desumibile il principio per cui l'ordinamento giuridico internazionale deve senz'altro evolversi fino a tutelare direttamente i diritti dell'individuo e sanzionare direttamente quegli individui che si siano resi colpevoli della loro violazione. E deve quindi sforzarsi di apprestare una tutela nei confronti dei cittadini di ciascuno Stato contro gli abusi compiuti anche dal loro governo, democratico o tirannico che sia, e colpire i responsabili di crimini contro l'umanita' come il terrorismo anche contro la volonta' degli Stati che, eventualmente, diano loro accoglienza o protezione: e' precisamente questo l'obiettivo a cui dovrebbero mirare quelle organizzazioni internazionali finalizzate a promuovere la pace e la giustizia fra le nazioni, nei cui confronti i nostri costituenti si sono risolti addirittura alla limitazione della sovranita' statuale, vale a dire ad un passo che suonerebbe bestemmia agli orecchi di un giuspubblicista del diciannovesimo secolo (e in verita' anche a molti del ventesimo e del ventunesimo). * Il punto e' che, in un quadro del genere, la guerra non puo' piu' rappresentare uno strumento sanzionatorio: essa infatti colpisce non i responsabili della violazione dei diritti umani ma tutti i cittadini di quello Stato, anch'essi titolari dei medesimi diritti inalienabili che si vorrebbero in ipotesi tutelare o risarcire. Consapevole di questo legame, Hans Kelsen scrisse che, nella stessa misura in cui il diritto internazionale avesse preteso di ingerirsi in questioni prima lasciate alla regolamentazione dei singoli Stati, avrebbe dovuto superare il principio della responsabilita' oggettiva e collettiva e dar luogo ad un sistema di responsabilita' personale fondata sulla colpa. La raccomandazione e' quanto mai opportuna: nessuna bandiera di civilta' puo' sventolare, ieri come oggi, chi si e' reso responsabile, nei confronti dei cittadini serbi o afghani o iracheni - delle loro citta', dei loro ponti, delle loro fabbriche, della loro vita - delle stesse indiscriminate prevaricazioni che rimproverava a Milosevic o al regime taliban o a Saddam Hussein di compiere in danno del loro popolo. L'attuazione degli auspici di coloro che invocano l'ingerenza umanitaria o la lotta al terrorismo porta insomma a conclusioni antitetiche alla loro esortazione a superare il ripudio della guerra sancito dall'art. 11 della Costituzione. Il quale, piuttosto, offre un discrimine semplice e netto rispetto al quale orientarsi nelle difficili decisioni concernenti le nostre missioni all'estero: e' evidente, infatti, che un conto e' un'operazione di peace-keeping promossa dall'Onu e condotta con regole d'ingaggio analoghe a quelle che informano l'azione delle forze dell'ordine all'interno del nostro Paese, un altro la partecipazione a missioni che - comunque denominate - avvengano al di fuori di un mandato Onu e con licenza di usare la forza anche a fini preventivi e contro la popolazione civile. * Insomma, salvo il caso d'aggressione da parte di uno Stato estero, una guerra per difendere i diritti umani e' una contraddizione in termini. Tanto piu' che, in mancanza di organi super partes ai quali demandare l'accertamento e la sanzione dei crimini contro l'umanita', l'autoattribuzione del compito di "difensori dei diritti dell'uomo" da parte di un ristretto gruppo di potenze economiche e militari occidentali, che sarebbero giocoforza legibus solutae, rischia piuttosto di far regredire l'ordinamento giuridico internazionale ad uno stadio anteriore rispetto a quello faticosamente e dolorosamente conquistato dopo il secondo conflitto mondiale: una "guerra infinita" che incarnerebbe in se' l'essenza del fascismo, nonostante taluni ex-sessantottini si sforzino penosamente di argomentare il contrario. 3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: DONNE AFGANE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005] Era il 22 novembre del 2001 quando il famoso Edward Luttwak scriveva su "Globe and Mail" che l'aiuto umanitario, in Afghanistan, poteva diventare "un'arma efficacissima". Affamare i civili, era in sostanza la sua argomentazione, avrebbe costretto i potentati afgani a "cooperare con un governo centrale a Kabul". Affidato agli eserciti, se deve dipenderne, l'aiuto umanitario infatti si militarizza e inevitabilmente diventa un'arma. Naturalmente non si tratta di un'idea nuova. In Ruanda, dopo il genocidio di mezzo milione di tutsi nel 1994, i capi hutu fuggirono nei campi profughi dei paesi confinanti, usandoli come basi per riorganizzare gli attacchi contro le forze tutsi. Nel 1999 Slobodan Milosevic caccio' i kosovari musulmani dal sud della Serbia anche per alzare i costi che la Nato avrebbe dovuto sostenere nel combattere contro di lui: creando un vasto numero di rifugiati in Macedonia, avrebbe contribuito alla destabilizzazione di quel paese, ove vi erano gia' tensioni fra maggioranza slava e minoranza albanese. All'inizio del 2002, kosovari rifugiati nei campi profughi, assieme a macedoni albanesi, lanciarono un'insurrezione armata a partire da postazioni sicure, controllate da soldati (per quanto sotto l'egida Onu). Come chiunque abbia lavorato a portare conforto in zone di conflitto sa, a confronto con i civili i soldati stranieri non sono in grado di essere altrettanto efficaci e vengono facilmente manipolati da fazioni locali. Non parlano le lingue del posto, non sanno chi controlla effettivamente le zone piu' remote, non sono in grado di organizzare equamente una distribuzione di cibo e materiali perche' non conoscono le priorita' (se sono in buona fede: in mala fede, come e' accaduto proprio in Afghanistan, vendono le razioni di cibo al mercato nero). Non li ritengo colpevoli della loro incapacita': fanno un altro mestiere, non sono addestrati a guarire, a curare, ma a combattere e uccidere. Affidare a loro l'assistenza umanitaria e' un controsenso. Tutte le ong umanitarie cercano, in modo sensato, di stare lontane da armi e eserciti, se non altro per la banale constatazione che essere collegati ai soldati classifica i volontari come legati ad una fazione, e puo' essere combustibile al prolungarsi di un conflitto. * Ma ultimamente scopro, leggendo diverse testate, di essere un'ingrata, ad avere tante riserve sulla nobilta' della presenza armata straniera in Afghanistan; bella femminista, sono, a non capire che senza la protezione dei militari le donne ricadrebbero in uno stato d'oppressione ecc. ecc. Chi scrive questo si alza al mattino e giacche' e' direttore del giornale, o perche' la redazione gli affida tal compito, deve intervenire sulla questione "calda" del momento. Non si prende la briga ne' di esaminare la situazione da se', ne' di interpellare chi la vive in prima persona. Non gliene e' mai importato di meno della condizione legale e sociale delle donne, anzi: a passate miti obiezioni sul femminicidio ovunque perdurante nel mondo ha sempre risposto di non "occidentalizzare" e di tenere conto dei "diritti dei popoli", e ci ha invitate ad essere rispettose delle "tradizioni" altrui. Vorrei rassicurare queste persone cosi' preoccupate, ora, dei diritti umani delle donne. Le afgane non possono "ricadere" in uno stato di oppressione: esso non e' mai terminato, e la militarizzazione del paese non fa che intensificarlo. * Il rapporto dell'inviata Onu Yakin Erturk, docente di sociologia all'Universita' di Ankara, compie in questi giorni un anno (e' del 18 luglio 2005): "Nel corso di una visita di dieci giorni in Afghanistan, ho incontrato membri del governo e della magistratura, ufficiali di polizia, medici, rappresentanti di ong, a Kabul, Kandahar e Herat, cosi' come rappresentanti delle numerose organizzazioni internazionali che operano in Afghanistan. Cosa piu' importante ancora, ho visitato diverse prigioni e rifugi per donne e raccolto testimonianze dalle donne vittime di specifica violenza di genere... I passi in avanti pur fatti negli ultimi anni non devono distrarci dal fatto che la violenza contro le donne resta drammatica, in Afghanistan, per la sua intensita' e perseveranza, nelle sfere pubblica e privata della vita... Per la stragrande maggioranza di bambine e donne non c'e' alternativa alla sopportazione della violenza che affrontano. Donne senza accompagnatori non hanno posto nello spazio pubblico, e vengono subito sospettate di crimini sessuali. Se si rivolgono alla polizia o alla magistratura per la propria protezione e' facile che subiscano violenze e vengano ricondotte nell'ambiente che abusa di loro. Le autorita' governative e i consigli tribali preferiscono ottenere un impegno verbale dai perpetratori della violenza che essa cessera', percio' solo in una frazione piccolissima di casi verra' imposta loro qualche sanzione. La maggior parte delle donne in prigione vi si trovano per essere fuggite da casa, o perche' sono state accusate di adulterio... Dare in spose bambine piccolissime per averne un pagamento, e scambiare le figlie per comporre le dispute, sono solo alcune delle pratiche che condannano le ragazze ad una vita di disperazione. La mancanza di reti di sicurezza e di sistemi che chiamino a rispondere i responsabili dei crimini hanno normalizzato l'uso della violenza per costringere all'accettazione di tali pratiche... Io chiedo con urgenza alle autorita' afgane ed alla comunita' internazionale di riconoscere che sacrificare il rispetto dei diritti umani, in particolare dei diritti umani delle donne, in nome della "stabilita'" non solo non corrisponde ai principi fondatori delle Nazioni Unite, ma e' una politica miope. La stabilita' in Afghanistan puo' essere ottenuta solo se il tessuto sociale viene ritessuto dalle fondamenta. Cio' richiede la fine di una situazione di violenza impunita, di cui la pervasiva ed intensa violenza sperimentata dalle donne afgane a tutti i livelli e' elemento centrale e purtroppo non affrontato". * Come non ricordare le serene ed azzeccate dichiarazioni della signora Laura Bush, una vera e propria veggente, dopo le prime settimane di operazioni militari in Afghanistan? "Grazie ai nostri recenti successi militari nella maggior parte dell'Afghanistan le donne non sono piu' imprigionate nelle loro case. La lotta contro il terrorismo e' anche una lotta per i diritti e la dignita' delle donne". Molti commentatori occidentali si sono convinti che la sconfitta dei Talebani era tutto quello che serviva per liberare le donne dalla tirannia, un assunto che non regge a cinque minuti di riflessione: ma questi, come Laura, non riflettono. Tre decenni di guerra hanno reso le donne afgane vulnerabili al dominio di una triste combinazione, composta da signori della guerra, guerriglieri jihadisti ed attitudini patriarcali. Per questo continuano ad indossare il burqa, temendo rappresaglie da parte degli estremisti che siedono nel governo di Hamid Karzai. Non sono solo le mani dei Talebani a grondare sangue: nell'aprile del 2005 una donna di 29 anni e' stata lapidata a morte, per adulterio, su decisione di un tribunale della provincia di Badakshan, nel nord del paese. Legalmente, spero sia chiaro ai giornalisti e opinionisti "femministi" dell'ultima ora. La violenza domestica, gli stupri ed i matrimoni forzati hanno raggiunto livelli talmente orrendi che circa duecento ragazze e donne all'anno si danno fuoco. In venticinquemila sono spinte dalla fame sulle strade, a prostituirsi. I rischi che corrono mi pare siano evidenti. Trenta gli attacchi piu' recenti segnalati dall'Onu alle scuole: combattenti di qualsiasi tipo, non necessariamente Talebani, hanno deciso che i bambini, e soprattutto le bambine, non devono avere istruzione. Nel dicembre 2005, nella provincia di Helmand, un preside e' stato trascinato fuori dalla scuola e ucciso con un colpo d'arma da fuoco in testa. Aveva ignorato le minacce e gli avvertimenti, ed aveva continuato a permettere l'esistenza di classi miste. Quale democrazia e quale liberta' e quale sicurezza garantiscono gli eserciti in Afghanistan? E per chi? 4. RIFLESSIONE. EMANUELA CITTERIO INTERVISTA ODILE SANKARA [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa su "Vita", anno 13, n. 11, 24 marzo 2006. Emanuela Citterio e' giornalista, redattrice di "Vita". Odile Sankara, nata nel 1964, anno dell'indipendenza del suo paese, il Burkina Faso, e sorella del presidente Thomas Sankara (ucciso il 15 ottobre 1987), e' artista di teatro e di cinema, promotrice di cultura, operatrice sociale, suscitatrice di consapevolezza e impegno per i diritti. Un profilo di Odile Sankara e' in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 29] Conclude l'intervista con un: "Grazie per esservi interessati alla mia piccola persona". Odile Sankara di piccolo ha solo di essere la petite soeur di uno dei piu' grandi leader che l'Africa abbia mai avuto: Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dall'83 all'87, tragicamente ucciso dopo essere stato protagonista di una rivoluzione pacifica che tentava una via africana di sviluppo che non ricalcasse quella occidentale. Anche il destino del cinema africano - soprattutto con il Fespaco, il festival panafricano del cinema che si svolge ogni due anni nella capitale del Burkina - e' legato al nome e all'eredita' culturale di Sankara. E' stato lui a dare impulso al festival che ha trasformato Ouagadougou nella sede della piu' grande e interessante manifestazione culturale di tutta l'Africa, a cui accorrono critici e gente di cinema anche dall'Europa e dall'America. Odile non fa politica. Attrice di teatro e di cinema, ha fatto della cultura la leva per lavorare per il suo paese, per l'Africa e per una nuova relazione con l'Europa. Insieme alla Compagnie de Seeren ("fioritura") organizza tourne' nel suo Paese in cui tocca tematiche legate ai diritti delle donne, e a creato un'associazione, Talent des femmes, per far emergere il talento femminile, artistico e non, spesso nell'ombra e con scarse possibilita' di crescita. * - Emanuela Citterio: Odile, ha fatto scalpore la sua prefazione al libro della giornalista francese Anne Cecile Robert "L'Africa in soccorso dell'occidente" (in Italia edizioni Emi). Lei rovescia completamente la prospettiva, sostenendo che l'Africa non deve rinunciare al contributo vitale che puo' dare all'Europa... - Odile Sankara: La ricchezza culturale dell'Africa risiede nella forza della parola, e cio' significa apertura, condivisione di valori e relazione con l'altro. L'occidente rischia invece di implodere nell'autismo. Sono i valori culturali il grande contributo che l'Africa puo' dare in questo momento di globalizzazione. Ma e' questo il punto: l'occidente e' in grado di condividere i simboli, le tradizioni, i miti, le leggende che fanno parte dell'Africa? E' in grado di accogliere questo bagaglio? L'Africa, volente o nolente, non ha altro da condividere. E questo non e' necessariamente un limite. Oggi il Burkina Faso e' uno stato che ha una sua ragion d'essere, proprio in virtu' di una cultura di questo tipo, che si basa sulla condivisione dei valori e sulla priorita' della relazione umana. E' cio' che ci permette di rimanere aperti al resto del mondo. Questo tipo di cultura e di atteggiamento verso l'altro permette al Burkina di non implodere e di aprirsi verso l'esterno. La cultura, la tradizione, la parola sono luoghi della resistenza. E sono i luoghi che danno vita ad alcune realta' africane come il Burkina Faso. Ma l'occidente e' interessato a questi valori? Ha voglia di condividerli, di accoglierli? * - Emanuela Citterio: Il film del sudafricano Gavin Hood, "Il suo nome e' Tsotsi", ha appena regalato all'Africa l'oscar come miglior film straniero. Ritiene che il cinema africano, che e' spesso legato al racconto della realta' e a temi sociali, possa essere un veicolo di cambiamento positivo per l'Africa? - Odile Sankara: Assolutamente. Mi viene subito in mente l'esperienza di Sembene Ousmane, senegalese romanziere autodidatta, uno dei padri fondatori del Fespaco, che ha deciso subito di adattare i suoi romanzi al grande schermo. E ha fatto questo per toccare il maggior numero possibile di individui. In Africa tutto e' concentrato nei grandi centri di potere e nelle grandi citta'. La maggior parte della popolazione non partecipa alle questioni fondamentali dello sviluppo. Fare questo genere di operazione, riportare come nel caso di Ousmane i temi sociali sul grande schermo permette di toccare il maggior numero di persone e di raggiungere ogni ceto sociale. Le persone si possono identificare, si rendono conto che certi temi le riguardano personalmente. * - Emanuela Citterio: Anche il teatro puo' giocare questo ruolo? - Odile Sankara: Si', anche se in modo diverso. Il prodotto cinematografico ha capacita' di muoversi e di raggiungere qualsiasi ambito della societa', in questo senso e' molto piu' incisivo. Per quanto riguarda il teatro, si dice spesso che e' nato in Grecia, ma si puo' anche dire che il teatro e' nato in Africa, parallelamente. Da tutte quelle forme di oralita', di racconto popolare in cui tutta la comunita' e' coinvolta. Ognuno e' in grado di prendere la parola e di raccontare una storia, non solo che faccia ridere ma che tocchi la coscienza degli altri, su argomenti che riguardano la vita comunitaria. E' li' che deve tornare oggi il teatro africano, deve ripartire dalle sue tradizioni culturali. Ha senso oggi allestire uno Sheakespere o un Moliere senza riadattarlo alla nostra realta'? In Africa c'e' un tentativo di attualizzazione del teatro, con tematiche contemporanee. * - Emanuela Citterio: Il presidente Sankara ha dato grande impulso al cinema africano, attraverso il Fespaco... - Odile Sankara: Il cinema ha un potere straordinario. Non bisognerebbe limitarsi al Fespaco, ma provare a organizzare qualcosa che stia prima e dopo questo evento. In Burkina, per esempio, stiamo cercando di portare il cinema nei villaggi. Con operazioni a poco costo - uno schermo e poco piu' - che pero' consentono di portare questi prodotti cosi' immediati e cosi' impattanti dove non arriverebbero. * - Emanuela Citterio: Ci riuscite? - Odile Sankara: Ci stiamo provando. Per ora si tratta di esperienze limitate a in pochi casi in luoghi ancora vicini alla capitale. Comunque qualcosa di e' mosso. * - Emanuela Citterio: Perche' puntare sulla cultura? - Odile Sankara: La parola, libera e vera, e' simbolo dei luoghi di liberta' attorno a cui si possono riunire i popoli. Direi che la cultura e' uno dei punti di incontro dell'umanita'. 5. INCONTRI. VITA COSENTINO: NOI E ODILE [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo l'intervento di Vita Cosentino all'incontro "Donne d'Africa: un nuovo inizio" svoltosi a Milano il 14 giugno 2006. Vita Cosentino e' un'autorevolissima intellettuale femminista] Sono Vita Cosentino, della Libreria delle donne di Milano. Da qualche anno alcune di noi sostengono un progetto - ideato da Odile Sankara delle sue compagne dell'Associazione Talents de femmes di Ouagadougou, - che non e' una cosa grandiosa, ma ha qualcosa di speciale che cerchero' di comunicarvi. Il progetto e' molto semplice nella sua dinamica: consiste nel migliorare la formazione letteraria, le capacita' di scrittura delle studentesse delle scuole superiori, tramite un concorso letterario ogni due anni, e seguire poi le vincitrici con una serie di iniziative apposite perche' possano esserci delle giovani scrittrici in Burkina Faso. Finora c'e' stata la prima edizione e ha preso nome "Voix de Femme-Grazia Zerman" per via che abbiamo trovato modo di appoggiarle economicamente con il "Premio Grazia Zerman" - premio creato da un lascito di un'amica della Libreria delle donne di Milano morta precocemente - e con una colletta capillare tra le nostre amicizie. E' avvenuta nel 2004, vi hanno partecipato piu' di duecento studentesse che frequentano in diverse zone del Burkina Faso. Luisa Muraro e' andata alla premiazione e di ritorno ha portato con se' I testi premiati e due di questi - uno parla del matrimonio forzato e l'altro dell'acqua - di Christine Sayore' e Lenglengue Saibata, circolano gia' in Italia. Sono pubblicati in Diritti in gioco, a cura di Michela Bianchi, libro rivolto alle scuole, edito da MC editrice in collaborazione con la Fondazione Franceschi. L'aspetto speciale del progetto consiste nell'importanza che esse attribuiscono alla parola, alla sua potenza trasformatrice. Avete una sintesi del progetto in cartelletta e vi sottolineo due punti collegati tra loro. Il primo quando si domanda: "La donna non ha forse una sensibilita' che le e' propria, con la quale e' tenuta a contribuire alla costruzione del pensiero nazionale? In altre parole, puo' esistere un pensiero nazionale senza l'apporto della donna?". La prima cosa speciale, che va oltre I consueti progetti, e' che Odile e le sue compagne sono consapevoli del fatto che oggi come oggi non puo' esistere la cultura del loro paese senza l'apporto delle donne. Sono consapevoli e vogliono far valere il fatto che la parola libera femminile possa essere arricchente per l'intera umanita'. Il secondo viene subito dopo quando afferma che indubbiamente la ragazza burkinabe' ha problemi che possono essere giudicati prioritari come la scolarizzazione, l'educazione, la lotta contro le malattie sessualmente trasmissibili, il dramma delle ragazze madri... ma esse invece pensano che proprio perche' le giovani donne sono collocate nel punto di incrocio dei mali del nostro tempo, e' indispensabile la loro presa di coscienza e quindi la narrazione - la vita che si fa testo - per prendere nelle proprie mani la propria vita. Quindi il cambiamento per loro e' impadronirsi bene della parola perche' cosi' possono fare di cio' che vivono racconto. E non progetti dall'esterno pensati da noi occidentali. * Questo modo di pensare - che nell'invito a questo convegno e' stato sentito come un nuovo inizio, cioe' come costruzione di un pensiero proprio dell'Africa in rapporto con le realta' sociali, politiche e storiche, con il dinamismo delle donne e degli artisti - le mette in un rapporto complesso con il cambiamento: non vogliono cancellare la tradizione culturale africana, ma stare sul difficile crinale tra amore della tradizione e cambiamenti anche duri da fare. Per Odile la tradizione e' importante. Odile, come suo fratello Thomas, e' cresciuta nella tradizione dei villaggi e si impegna con il suo teatro e con l'associazione perche' i valori tradizionali africani non vengano cancellati per imitare quelli occidentali. Anzi, pensa che alcuni di questi valori, come l'integrita', la fierezza, la capacita' di ridere anche nelle difficolta', l'amore per il sapere, possano "armonizzare" - cosi' lei dice - la societa' moderna. Cio' non toglie che abbia consapevolezza che certi aspetti della tradizione pesino malamente sulla vita delle donne e quindi cerca come cambiare. Come ci ha detto Odile quando e' venuta assieme a Leontine a ritirare il Premio Zerman, per lei la scrittura e' strettamente connessa alla liberta'. "E' una presa di coscienza e padronanza di se'". "Ci potra' poi forse essere la censura, ma intanto qualcosa e' stato pensato e tradotto in scrittura". E Leontine ha sottolineato quanto questo sia importante per le donne del suo paese aggiungendo: "Abbiamo voglia di parlare e abbiamo delle cose da dire. Spesso capita che in presenza degli uomini le donne tacciano. Tuttavia, quando abbiamo un pezzo di carta e una penna in mano, allora parliamo; con la scrittura, le donne possono parlare di tutto quello che vogliono". * Noi della Libreria ci sentiamo fortemente in sintonia con questa impostazione perche' anche nella nostra storia essenziali sono state la presa di coscienza e la cura delle parole e non leggi o grandi progetti che muovono soldi. Vorrei, pero', sottolineare che noi abbiamo semplicemente accettato di essere in questo rapporto. Uso la parola accettato per dire che non abbiamo cercato di indirizzare il loro progetto con le nostre idee: lo abbiamo accolto per quello che era e abbiamo fatto quello che ci chiedevano. Il protagonismo e' stato sempre loro e ci siamo trovate, per esempio, a fare anche cose che non sono nella nostra pratica, come raccogliere soldi. Sottolineo questi aspetti perche' a mio modo di vedere configurano un altro tipo di rapporto politico tra donne occidentali e donne africane. Odile ci ha raccontato perche' ha voluto mettersi in contatto con gruppi di donne italiane. Per loro e' molto importante che qui in Occidente si conoscano le loro idee e I loro progetti, perche' questo di rimbalzo ne aumenta il valore nel loro paese. Anche la presenza di Luisa Muraro alla premiazione ha avuto lo stesso senso. Odile diceva che per loro e' stata piu' importante dei soldi. Talents de femmes ne ha avuto un rimbalzo di prestigio simbolico considerevole e ha spostato qualcosa. E questo Odile lo ha capito da come ne parlavano i giornali locali. Noi diamo loro il credito che ci chiedono, perche' ce lo chiedono; ma e' anche vero che anche noi riceviamo qualcosa di prezioso: un riconoscimento che ci colloca fuori da quella che e' stata una odiosa storia di colonialismo e di prevaricazione nel rapporto con l'Africa. Questo puo' essere forse si' un nuovo inizio, con un un ruolo che chiamerei "secondo", da parte di noi occidentali e un profondo rispetto per l'iniziativa delle donne e degli uomini di la', badando piu' alla qualita' dei rapporti che alla spettacolarita' delle iniziative. * Nelle introduzioni di questa mattina vari interventi di uomini hanno consapevolmente parlato del ruolo marginale che hanno gli uomini in iniziative come queste. Credo che ci sia da fare una riflessione politica piu' approfondita sul fatto che anche le donne occidentali devono riconsiderare il loro ruolo nel senso della secondarieta'. Molte questioni sono aperte e rivolgo queste domande a Odile: quali prospettive puo' avere un progetto che rimane sempre dipendente dai soldi che vengono dall'estero? Come Odile puo' aiutarci a vedere I nostri difetti? Come ci vede lei? 6. INIZIATIVE. GIOVANNI SARUBBI: PER LA QUINTA GIORNATA DEL DIALOGO CRISTIANO-ISLAMICO [Ringraziamo Giovanni Sarubbi (per contatti: giovannisarubbi at aliceposta.it) per questa lettera inviata a varie persone, associazioni e testate sostenitrici del dialogo interreligioso ed interculturale. Giovanni Sarubbi, amico della nonviolenza, promotore del dialogo interreligioso, giornalista, saggista, editore, dirige l'eccellente rivista e sito de "Il dialogo" (www.ildialogo.org)] Care amiche, cari amici, come sapete il prossimo 20 ottobre 2006 si terra' la quinta Giornata del dialogo cristianoislamico. Siamo oramai al quinto appuntamento con una iniziativa che, nata dal basso, e' diventata una iniziativa quasi "istituzionale" della nostra pur difficile realta' italiana. Lo scorso anno, come ricorderete, tutti voi siete stati fra i promotori dell'iniziativa. I risultati sono stati, come sapete, positivi e sono andati anche molto al di la' della singola giornata del 28 ottobre 2005. Anche nel corrente mese di luglio ci saranno incontri di dialogo cristianoislamico. I motivi per continuare lungo questa strada iniziata nel 2001 subito dopo i tragici attentati dell'11 settembre sono ancora molti. * Vi proponiamo, anche per questíanno, di ripetere l'esperienza. In particolare proponiamo di mettere alla base della quinta Giornata del dialogo cristianoislamico, il documento in dieci punti elaborato da Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba all'universita' cattolica del Sacro Cuore di Milano; Stefano Allievi, docente di sociologia all'universita' degli studi di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle universita' di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia. L'idea di un "decalogo" di cose possibili da fare, sulla via del dialogo, ci sembra estremamente valida e soprattutto coinvolgente. E' anche un modo per cercare di costruire, tutti insieme, un'etica comune che abbia come elemento fondamentale il rispetto integrale dell'altra e dell'altro, che corrisponde al comandamento del "non uccidere" comune a tutte le religioni. * Lo slogan per la giornata potrebbe essere proprio quello di "Dieci motivi per dialogare", per sottolineare anche come siano molte le iniziative che si possono mettere in campo per rendere concreto il dialogo, mentre per la guerra, l'odio, la xenofobia e quant'altro basta una sola grande bugia. Ma chiediamo a voi tutte e tutti uno sforzo di elaborazione che possa produrre un motto semplice e condiviso che poi riproporremo agli inizi del mese di settembre. Vi chiediamo altresi' di estendere l'invito a tutte le riviste o associazioni che conoscete e che finora non sono state coinvolte nell'iniziativa, in modo da giungere agli inizi di settembre con un elenco di promotori molto piu' ampio di quello dello scorso anno. * Ringraziandovi per quanto farete, aspettiamo fiduciosi le vostre rinnovate adesioni e le nuove che riusciremo a promuovere. Cordiali saluti di pace, Giovanni Sarubbi, direttore de "Il dialogo" (www.ildialogo.org) 7. DOCUMENTI. MUSULMANI IN ITALIA: DIECI PROPOSTE DI LAVORO [Attraverso Giovanni Sarubbi (per contatti: giovannisarubbi at aliceposta.it) riceviamo e volentieri diffondiamo il seguente testo elaborato da Paolo Branca. docente di lingua e letteratura araba all'Universita' cattolica del Sacro Cuore di Milano; Stefano Allievi, docente di sociologia all'Universita' degli studi di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle universita' di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia. Il testo e' apparso su "Settimana", n. 22, del 4 giugno 2006] La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale "massa critica" da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d'intervento estemporanee e improvvisate, com'e' spesso stato finora. L'impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana che da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialita' di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalita' per riflettere e agire insieme all'interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi. Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma, riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da se' che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla liberta' religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunita' e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identita' (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialita' positive pur presenti nell'inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensi' tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione. Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identita' ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l'unica in grado di portare a buoni risultati nell'interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. * I punti che ci pare necessario richiamare sono: 1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo e' utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziche' su evidenze empiriche. Interventi formativi all'interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanita', carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che gia' affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) piu' efficaci. 2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalita' per evitare il formarsi di societa' parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non puo' e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri. 3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interessi e impegno comune al servizio della collettivita'. 4. Dare priorita' alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificita' culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attivita' che favoriscono contatti, scambi e integrazione. 5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunita', specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l'emersione e il consolidamento di competenze e capacita' specifiche tra coloro che gia' operano nei diversi gruppi affinche' la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalita' dell'integrazione e della partecipazione alla vita del paese in cui risiedono. 6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civilta'. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d'origine (del resto gia' in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell'intero settore scolastico che non sarebbe adeguato alla realta' di un mondo sempre piu' interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale. 7. Incoraggiare i mass-media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicita', ma ancora una volta di partire dalla realta' che e' piu' ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale. 8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle societa' di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della societa' civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello. 9. Valorizzare l'azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realta' di base, nel promuovere iniziative che - per la qualita' degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che gia' operano in tal senso. 10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Cio' favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacita' di chi si distingue nel lavoro interculturale. 8. INIZIATIVE. ENRICO PEYRETTI: VENERDI', IN PIAZZA CASTELLO [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario] Stasera, venerdi' 7 luglio, dalle 18 alle 19, ho partecipato ad un sit-in in piazza Castello, qui a Torino, di solidarieta' col popolo palestinese, oggetto, nella striscia di Gaza, di una rappresaglia sproporzionatamente violenta (ma ci sono rappresaglie proporzionate?!). Erano presenti diverse decine di palestinesi e altri arabi, tutti uomini, con alcune bandiere palestinesi e bandiere della pace, e alcuni cartelloni. Italiani eravamo non piu' di sei o sette: tro o quattro uomini, tre donne (due venute da Ivrea). Sono molto stupito che non ci fossero rappresentanti di partiti, associazioni, gruppi pacifisti e nonviolenti. Non me lo spiego: la comunicazione c'e' stata. Forse c'e' qualche divisione anche tra le componenti arabe. Ma l'assenza italiana e' grave. Io indossavo sulle spalle la mia bandiera della pace. Ho accettato di parlare brevemente nel megafono. Ho letto la sintesi dell'articolo della giornalista israeliana Amira Hass, del giornale "Ha'aretz" (p. 19 di "Internazionale" del 7-13 luglio, arrivatomi oggi): "La gente palestinese non odia gli israeliani ne' gli ebrei. Odia questa guerra, l'occupazione e l'ingiustizia". Ho detto che il popolo palestinese, specialmente in questo momento, merita la nostra solidarieta', e che cio' non e' contro qualcuno, ma per il diritto e la giustizia, per il rispetto reciproco dei popoli, per il vicendevole riconoscimento delle sofferenze, per non infliggersi piu' l'uno all'altro alcuna sofferenza, che e' la vergogna di tutti. Quel conflitto ci fa soffrire. Io vorrei che i palestinesi rivendicassero la liberta' dall'occupazione ingiusta con la sola maggiore forza della nonviolenza. Ma quando il piu' forte e enormemente piu' armato colpisce il piu' debole, do la mia solidarieta' al piu' debole. I palestinesi e gli altri arabi presenti hanno ripetutamente chiesto, in perfetta lingua italiana, con parole garbate, al popolo e alle autorita' italiane e alla comunita' internazionale, solidarieta' con la popolazione di Gaza ora sotto attacco militare, descrivendo nei particolari la situazione grave di queste ore. Quasi nessuno dei passanti nella piazza, frequentatissima a quell'ora, si e' fermato o ha dato ascolto. I presenti hanno anche recitato la preghiera rituale islamica, e alla fine hanno fatto un'altra preghiera in piedi, in cerchio. Contemporaneamente, a qualche distanza, ho recitato mentalmente il Padre nostro, preghiera all'unico Dio di tutta l'umanita'. I manifestanti hanno concluso addirittura ringraziando il popolo italiano (cioe' alcuni pochissimi passanti che si sono fermati qualche minuto). ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 81 del 9 luglio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1351
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1352
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1351
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1352
- Indice: