La domenica della nonviolenza. 81



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 81 del 9 luglio 2006

In questo numero:
1. Etica dell'irresponsabilita'
2. Luigi Cavallaro: Rileggendo l'art. 11 della Costituzione
3. Maria G. Di Rienzo: Donne afgane
4. Emanuela Citterio intervista Odile Sankara
5. Vita Cosentino: Noi e Odile
6. Giovanni Sarubbi: Per la quinta Giornata del dialogo cristiano-islamico
7. Musulmani in Italia: dieci proposte di lavoro
8. Enrico Peyretti: Venerdi', in piazza Castello

1. EDITORIALE. ETICA DELL'IRRESPONSABILITA'

In questo teatrino buffo quanto tragico non manca chi evoca addirittura
l'"etica della responsabilita'" (ovvero il farsi carico delle conseguenze
delle proprie azioni) per sostenere la tesi che sia cosa buona e giusta
continuare la guerra in Afghanistan, ovvero continuare a uccidere esseri
umani. Uccidere esseri umani. Uccidere. Esseri umani.
Chi leggera' un domani le parole proferite in questi giorni da certi
ministri e da certi loro caudatari e araldi potra' forse sorriderne. Noi
oggi ne proviamo solo orrore.

2. RIFLESSIONE. LUIGI CAVALLARO: RILEGGENDO L'ART. 11 DELLA COSTITUZIONE
[Dal quotidiano "Liberazione" del 7 luglio 2006. Luigi Cavallaro (1966) e'
in magistratura dal 1992 e magistrato del lavoro presso il Tribunale di
Palermo dal 1994; cultore di economia politica, ha pubblicato saggi e
articoli su vai quotidiani e riviste, occupandosi principalmente di temi di
storia del pensiero economico, macroeconomia ed economia pubblica. Tra le
opere di Luigi Cavallaro: La caduta tendenziale della "nuova economia",
Manifestolibri, Roma 2001; Il modello mafioso e la societa' globale,
Manifestolibri, Roma 2004; Una questione di tempo. I nipoti di Keynes e la
disoccupazione di massa, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004; Lo Stato dei
diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in Occidente, Vivarium,
Napoli 2005]

"L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta' di altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali".
Proprio cosi', "ripudia": nemmeno nella dodicesima delle disposizioni
transitorie e finali, quando vietano la ricostituzione sotto qualsiasi forma
del partito fascista, i costituenti hanno usato termini cosi' gravidi di
implicazioni etico-affettive.
La disposizione e' talmente semplice che, al suo cospetto, sembra di dover
dar torto agli innumerevoli seguaci del circolo ermeneutico e alla loro
pretesa che da un dato testo possa discendere qualsiasi norma: qui non c'e'
da interpretare, tant'e' che chi non ne voleva sapere di acquietarsi
all'unica norma desumibile dal testo ha pensato bene di negarne in radice il
significato giuridico.
Ma il testo un significato ce l'ha, eccome. Il ripudio della guerra non e'
soltanto la netta opposizione al passato delle relazioni internazionali,
centrate sulla primazia dello Stato e del suo inalienabile "diritto alla
guerra", ma - come emerge dal secondo e terzo periodo dell'art. 11, secondo
cui il nostro Paese "consente, in condizioni di parita' con gli altri Stati,
alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le Nazioni" e "promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo" - rappresenta anche la
prefigurazione di un ordine futuro, post-nazionale, post-statuale, veramente
globale.
Poiche' sempre piu' spesso si e' costretti a sentire il contrario, che cioe'
il testo costituzionale sarebbe datato e non terrebbe conto del processo di
globalizzazione e delle nuove esigenze di sicurezza che ad esso si
accompagnano, conviene esplicitare quanto piu' possibile il punto di vista
qui sostenuto.
*
E' noto che l'ordinamento giuridico internazionale si e' strutturato sul
principio secondo cui non sono gli individui ad essere diretti destinatari
delle sue norme: esso ha regolato (e tuttora regola) eminentemente i
rapporti tra gli Stati e solo mediatamente, cioe' per tramite di questi
ultimi, le situazioni soggettive individuali. Detto altrimenti, sulla scena
dell'ordinamento internazionale gli individui sono stati sin qui presenti
soltanto attraverso quella loro personificazione collettiva che e' lo Stato:
essi hanno acquistato diritti e doveri (e responsabilita') solo per tramite
degli Stati cui sono soggetti. La Dichiarazione dei diritti dell'uomo, per
fare solo un esempio, obbliga gli Stati che vi aderiscono a garantire ai
loro cittadini i diritti in essa contemplati e attribuisce per converso ai
cittadini di ciascuno Stato il diritto - da esercitarsi nei confronti dello
Stato cui appartengono - di richiederne l'applicazione.
Nasce da qui la configurabilita' della guerra come sanzione per gli illeciti
previsti dall'ordinamento internazionale: la guerra, infatti, presuppone una
responsabilita' collettiva e oggettiva in virtu' della quale gli individui
pagano - anche con la vita - per il semplice fatto di essere cittadini dello
Stato autore dell'illecito internazionale.
Ed e' stato convincentemente argomentato che non avrebbe senso
"personalizzare" tale responsabilita' facendo leva sulla rappresentativita'
degli organi statali: il principio si afferma con la sua inesorabile logica
anche nei confronti degli appartenenti a Stati dispotici, che certo nessuna
colpa hanno degli illeciti internazionali compiuti dal loro governo, visto
che non possono sceglierlo o controllarne l'operato.
Senonche', i fatti del Kosovo e i molteplici e drammatici attacchi
terroristici di questi ultimi tempi hanno portato prepotentemente alla
ribalta internazionale proprio gli individui. Donne, uomini, vecchi e
bambini, brutalizzati da regimi tirannici o vittime innocenti della follia
terroristica o responsabili di quella stessa follia. Dinanzi a fatti di
questa portata - ecco, in sintesi, la domanda che si suole porre a quanti si
ostinano a ritenere che la guerra debba essere sempre e comunque ripudiata -
quale tutela offre l'ordinamento internazionale vigente? E' possibile
restare inerti di fronte a massacri di massa? Non risuona forse imperiosa
l'esigenza di rispettare le "leggi dell'umanita'", quelle "leggi non scritte
nei codici dei re alle quali obbediva Antigone", come scrisse Piero
Calamandrei all'indomani del processo di Norimberga?
*
E' proprio nei confronti di domande come queste che l'art. 11 mostra, ad
onta dei suoi detrattori, tutta la sua perdurante vitalita' e valenza
precettiva.
Dalla sua formulazione, infatti, e' facilmente desumibile il principio per
cui l'ordinamento giuridico internazionale deve senz'altro evolversi fino a
tutelare direttamente i diritti dell'individuo e sanzionare direttamente
quegli individui che si siano resi colpevoli della loro violazione. E deve
quindi sforzarsi di apprestare una tutela nei confronti dei cittadini di
ciascuno Stato contro gli abusi compiuti anche dal loro governo, democratico
o tirannico che sia, e colpire i responsabili di crimini contro l'umanita'
come il terrorismo anche contro la volonta' degli Stati che, eventualmente,
diano loro accoglienza o protezione: e' precisamente questo l'obiettivo a
cui dovrebbero mirare quelle organizzazioni internazionali finalizzate a
promuovere la pace e la giustizia fra le nazioni, nei cui confronti i nostri
costituenti si sono risolti addirittura alla limitazione della sovranita'
statuale, vale a dire ad un passo che suonerebbe bestemmia agli orecchi di
un giuspubblicista del diciannovesimo secolo (e in verita' anche a molti del
ventesimo e del ventunesimo).
*
Il punto e' che, in un quadro del genere, la guerra non puo' piu'
rappresentare uno strumento sanzionatorio: essa infatti colpisce non i
responsabili della violazione dei diritti umani ma tutti i cittadini di
quello Stato, anch'essi titolari dei medesimi diritti inalienabili che si
vorrebbero in ipotesi tutelare o risarcire. Consapevole di questo legame,
Hans Kelsen scrisse che, nella stessa misura in cui il diritto
internazionale avesse preteso di ingerirsi in questioni prima lasciate alla
regolamentazione dei singoli Stati, avrebbe dovuto superare il principio
della responsabilita' oggettiva e collettiva e dar luogo ad un sistema di
responsabilita' personale fondata sulla colpa. La raccomandazione e' quanto
mai opportuna: nessuna bandiera di civilta' puo' sventolare, ieri come oggi,
chi si e' reso responsabile, nei confronti dei cittadini serbi o afghani o
iracheni - delle loro citta', dei loro ponti, delle loro fabbriche, della
loro vita - delle stesse indiscriminate prevaricazioni che rimproverava a
Milosevic o al regime taliban o a Saddam Hussein di compiere in danno del
loro popolo.
L'attuazione degli auspici di coloro che invocano l'ingerenza umanitaria o
la lotta al terrorismo porta insomma a conclusioni antitetiche alla loro
esortazione a superare il ripudio della guerra sancito dall'art. 11 della
Costituzione. Il quale, piuttosto, offre un discrimine semplice e netto
rispetto al quale orientarsi nelle difficili decisioni concernenti le nostre
missioni all'estero: e' evidente, infatti, che un conto e' un'operazione di
peace-keeping promossa dall'Onu e condotta con regole d'ingaggio analoghe a
quelle che informano l'azione delle forze dell'ordine all'interno del nostro
Paese, un altro la partecipazione a missioni che - comunque denominate -
avvengano al di fuori di un mandato Onu e con licenza di usare la forza
anche a fini preventivi e contro la popolazione civile.
*
Insomma, salvo il caso d'aggressione da parte di uno Stato estero, una
guerra per difendere i diritti umani e' una contraddizione in termini. Tanto
piu' che, in mancanza di organi super partes ai quali demandare
l'accertamento e la sanzione dei crimini contro l'umanita',
l'autoattribuzione del compito di "difensori dei diritti dell'uomo" da parte
di un ristretto gruppo di potenze economiche e militari occidentali, che
sarebbero giocoforza legibus solutae, rischia piuttosto di far regredire
l'ordinamento giuridico internazionale ad uno stadio anteriore rispetto a
quello faticosamente e dolorosamente conquistato dopo il secondo conflitto
mondiale: una "guerra infinita" che incarnerebbe in se' l'essenza del
fascismo, nonostante taluni ex-sessantottini si sforzino penosamente di
argomentare il contrario.

3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: DONNE AFGANE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, narratrice, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha
svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del
Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e'
impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze
di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza.
Tra le opere di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne
disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura
di), Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2005]

Era il 22 novembre del 2001 quando il famoso Edward Luttwak scriveva su
"Globe and Mail" che l'aiuto umanitario, in Afghanistan, poteva diventare
"un'arma efficacissima". Affamare i civili, era in sostanza la sua
argomentazione, avrebbe costretto i potentati afgani a "cooperare con un
governo centrale a Kabul". Affidato agli eserciti, se deve dipenderne,
l'aiuto umanitario infatti si militarizza e inevitabilmente diventa un'arma.
Naturalmente non si tratta di un'idea nuova. In Ruanda, dopo il genocidio di
mezzo milione di tutsi nel 1994, i capi hutu fuggirono nei campi profughi
dei paesi confinanti, usandoli come basi per riorganizzare gli attacchi
contro le forze tutsi. Nel 1999 Slobodan Milosevic caccio' i kosovari
musulmani dal sud della Serbia anche per alzare i costi che la Nato avrebbe
dovuto sostenere nel combattere contro di lui: creando un vasto numero di
rifugiati in Macedonia, avrebbe contribuito alla destabilizzazione di quel
paese, ove vi erano gia' tensioni fra maggioranza slava e minoranza
albanese. All'inizio del 2002, kosovari rifugiati nei campi profughi,
assieme a macedoni albanesi, lanciarono un'insurrezione armata a partire da
postazioni sicure, controllate da soldati (per quanto sotto l'egida Onu).
Come chiunque abbia lavorato a portare conforto in zone di conflitto sa, a
confronto con i civili i soldati stranieri non sono in grado di essere
altrettanto efficaci e vengono facilmente manipolati da fazioni locali. Non
parlano le lingue del posto, non sanno chi controlla effettivamente le zone
piu' remote, non sono in grado di organizzare equamente una distribuzione di
cibo e materiali perche' non conoscono le priorita' (se sono in buona fede:
in mala fede, come e' accaduto proprio in Afghanistan, vendono le razioni di
cibo al mercato nero). Non li ritengo colpevoli della loro incapacita':
fanno un altro mestiere, non sono addestrati a guarire, a curare, ma a
combattere e uccidere. Affidare a loro l'assistenza umanitaria e' un
controsenso.
Tutte le ong umanitarie cercano, in modo sensato, di stare lontane da armi e
eserciti, se non altro per la banale constatazione che essere collegati ai
soldati classifica i volontari come legati ad una fazione, e puo' essere
combustibile al prolungarsi di un conflitto.
*
Ma ultimamente scopro, leggendo diverse testate, di essere un'ingrata, ad
avere tante riserve sulla nobilta' della presenza armata straniera in
Afghanistan; bella femminista, sono, a non capire che senza la protezione
dei militari le donne ricadrebbero in uno stato d'oppressione ecc. ecc. Chi
scrive questo si alza al mattino e giacche' e' direttore del giornale, o
perche' la redazione gli affida tal compito, deve intervenire sulla
questione "calda" del momento. Non si prende la briga ne' di esaminare la
situazione da se', ne' di interpellare chi la vive in prima persona. Non
gliene e' mai importato di meno della condizione legale e sociale delle
donne, anzi: a passate miti obiezioni sul femminicidio ovunque perdurante
nel mondo ha sempre risposto di non "occidentalizzare" e di tenere conto dei
"diritti dei popoli", e ci ha invitate ad essere rispettose delle
"tradizioni" altrui.
Vorrei rassicurare queste persone cosi' preoccupate, ora, dei diritti umani
delle donne. Le afgane non possono "ricadere" in uno stato di oppressione:
esso non e' mai terminato, e la militarizzazione del paese non fa che
intensificarlo.
*
Il rapporto dell'inviata Onu Yakin Erturk, docente di sociologia
all'Universita' di Ankara, compie in questi giorni un anno (e' del 18 luglio
2005): "Nel corso di una visita di dieci giorni in Afghanistan, ho
incontrato membri del governo e della magistratura, ufficiali di polizia,
medici, rappresentanti di ong, a Kabul, Kandahar e Herat, cosi' come
rappresentanti delle numerose organizzazioni internazionali che operano in
Afghanistan. Cosa piu' importante ancora, ho visitato diverse prigioni e
rifugi per donne e raccolto testimonianze dalle donne vittime di specifica
violenza di genere... I passi in avanti pur fatti negli ultimi anni non
devono distrarci dal fatto che la violenza contro le donne resta drammatica,
in Afghanistan, per la sua intensita' e perseveranza, nelle sfere pubblica e
privata della vita... Per la stragrande maggioranza di bambine e donne non
c'e' alternativa alla sopportazione della violenza che affrontano. Donne
senza accompagnatori non hanno posto nello spazio pubblico, e vengono subito
sospettate di crimini sessuali. Se si rivolgono alla polizia o alla
magistratura per la propria protezione e' facile che subiscano violenze e
vengano ricondotte nell'ambiente che abusa di loro. Le autorita' governative
e i consigli tribali preferiscono ottenere un impegno verbale dai
perpetratori della violenza che essa cessera', percio' solo in una frazione
piccolissima di casi verra' imposta loro qualche sanzione. La maggior parte
delle donne in prigione vi si trovano per essere fuggite da casa, o perche'
sono state accusate di adulterio... Dare in spose bambine piccolissime per
averne un pagamento, e scambiare le figlie per comporre le dispute, sono
solo alcune delle pratiche che condannano le ragazze ad una vita di
disperazione. La mancanza di reti di sicurezza e di sistemi che chiamino a
rispondere i responsabili dei crimini hanno normalizzato l'uso della
violenza per costringere all'accettazione di tali pratiche... Io chiedo con
urgenza alle autorita' afgane ed alla comunita' internazionale di
riconoscere che sacrificare il rispetto dei diritti umani, in particolare
dei diritti umani delle donne, in nome della "stabilita'" non solo non
corrisponde ai principi fondatori delle Nazioni Unite, ma e' una politica
miope. La stabilita' in Afghanistan puo' essere ottenuta solo se il tessuto
sociale viene ritessuto dalle fondamenta. Cio' richiede la fine di una
situazione di violenza impunita, di cui la pervasiva ed intensa violenza
sperimentata dalle donne afgane a tutti i livelli e' elemento centrale e
purtroppo non affrontato".
*
Come non ricordare le serene ed azzeccate dichiarazioni della signora Laura
Bush, una vera e propria veggente, dopo le prime settimane di operazioni
militari in Afghanistan? "Grazie ai nostri recenti successi militari nella
maggior parte dell'Afghanistan le donne non sono piu' imprigionate nelle
loro case. La lotta contro il terrorismo e' anche una lotta per i diritti e
la dignita' delle donne".
Molti commentatori occidentali si sono convinti che la sconfitta dei
Talebani era tutto quello che serviva per liberare le donne dalla tirannia,
un assunto che non regge a cinque minuti di riflessione: ma questi, come
Laura, non riflettono. Tre decenni di guerra hanno reso le donne afgane
vulnerabili al dominio di una triste combinazione, composta da signori della
guerra, guerriglieri jihadisti ed attitudini patriarcali. Per questo
continuano ad indossare il burqa, temendo rappresaglie da parte degli
estremisti che siedono nel governo di Hamid Karzai.
Non sono solo le mani dei Talebani a grondare sangue: nell'aprile del 2005
una donna di 29 anni e' stata lapidata a morte, per adulterio, su decisione
di un tribunale della provincia di Badakshan, nel nord del paese.
Legalmente, spero sia chiaro ai giornalisti e opinionisti "femministi"
dell'ultima ora.
La violenza domestica, gli stupri ed i matrimoni forzati hanno raggiunto
livelli talmente orrendi che circa duecento ragazze e donne all'anno si
danno fuoco. In venticinquemila sono spinte dalla fame sulle strade, a
prostituirsi. I rischi che corrono mi pare siano evidenti.
Trenta gli attacchi piu' recenti segnalati dall'Onu alle scuole: combattenti
di qualsiasi tipo, non necessariamente Talebani, hanno deciso che i bambini,
e soprattutto le bambine, non devono avere istruzione. Nel dicembre 2005,
nella provincia di Helmand, un preside e' stato trascinato fuori dalla
scuola e ucciso con un colpo d'arma da fuoco in testa. Aveva ignorato le
minacce e gli avvertimenti, ed aveva continuato a permettere l'esistenza di
classi miste.
Quale democrazia e quale liberta' e quale sicurezza garantiscono gli
eserciti in Afghanistan? E per chi?

4. RIFLESSIONE. EMANUELA CITTERIO INTERVISTA ODILE SANKARA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente intervista apparsa su "Vita", anno 13, n. 11, 24
marzo 2006.
Emanuela Citterio e' giornalista, redattrice di "Vita".
Odile Sankara, nata nel 1964, anno dell'indipendenza del suo paese, il
Burkina Faso, e sorella del presidente Thomas Sankara (ucciso il 15 ottobre
1987), e' artista di teatro e di cinema, promotrice di cultura, operatrice
sociale, suscitatrice di consapevolezza e impegno per i diritti. Un profilo
di Odile Sankara e' in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 29]

Conclude l'intervista con un: "Grazie per esservi interessati alla mia
piccola persona". Odile Sankara di piccolo ha solo di essere la petite soeur
di uno dei piu' grandi leader che l'Africa abbia mai avuto: Thomas Sankara,
presidente del Burkina Faso dall'83 all'87, tragicamente ucciso dopo essere
stato protagonista di una rivoluzione pacifica che tentava una via africana
di sviluppo che non ricalcasse quella occidentale.
Anche il destino del cinema africano - soprattutto con il Fespaco, il
festival panafricano del cinema che si svolge ogni due anni nella capitale
del Burkina - e' legato al nome e all'eredita' culturale di Sankara. E'
stato lui a dare impulso al festival che ha trasformato Ouagadougou nella
sede della piu' grande e interessante manifestazione culturale di tutta
l'Africa, a cui accorrono critici e gente di cinema anche dall'Europa e
dall'America.
Odile non fa politica. Attrice di teatro e di cinema, ha fatto della cultura
la leva per lavorare per il suo paese, per l'Africa e per una nuova
relazione con l'Europa. Insieme alla Compagnie de Seeren ("fioritura")
organizza tourne' nel suo Paese in cui tocca tematiche legate ai diritti
delle donne, e a creato un'associazione, Talent des femmes, per far emergere
il talento femminile, artistico e non, spesso nell'ombra e con scarse
possibilita' di crescita.
*
- Emanuela Citterio: Odile, ha fatto scalpore la sua prefazione al libro
della giornalista francese Anne Cecile Robert "L'Africa in soccorso
dell'occidente" (in Italia edizioni Emi). Lei rovescia completamente la
prospettiva, sostenendo che l'Africa non deve rinunciare al contributo
vitale che puo' dare all'Europa...
- Odile Sankara: La ricchezza culturale dell'Africa risiede nella forza
della parola, e cio' significa apertura, condivisione di valori e relazione
con l'altro. L'occidente rischia invece di implodere nell'autismo. Sono i
valori culturali il grande contributo che l'Africa puo' dare in questo
momento di globalizzazione. Ma e' questo il punto: l'occidente e' in grado
di condividere i simboli, le tradizioni, i miti, le leggende che fanno parte
dell'Africa? E' in grado di accogliere questo bagaglio? L'Africa, volente o
nolente, non ha altro da condividere. E questo non e' necessariamente un
limite. Oggi il Burkina Faso e' uno stato che ha una sua ragion d'essere,
proprio in virtu' di una cultura di questo tipo, che si basa sulla
condivisione dei valori e sulla priorita' della relazione umana. E' cio' che
ci permette di rimanere aperti al resto del mondo. Questo tipo di cultura e
di atteggiamento verso l'altro permette al Burkina di non implodere e di
aprirsi verso l'esterno. La cultura, la tradizione, la parola sono luoghi
della resistenza. E sono i luoghi che danno vita ad alcune realta' africane
come il Burkina Faso. Ma l'occidente e' interessato a questi valori? Ha
voglia di condividerli, di accoglierli?
*
- Emanuela Citterio: Il film del sudafricano Gavin Hood, "Il suo nome e'
Tsotsi", ha appena regalato all'Africa l'oscar come miglior film straniero.
Ritiene che il cinema africano, che e' spesso legato al racconto della
realta' e a temi sociali, possa essere un veicolo di cambiamento positivo
per l'Africa?
- Odile Sankara: Assolutamente. Mi viene subito in mente l'esperienza di
Sembene Ousmane, senegalese romanziere autodidatta, uno dei padri fondatori
del Fespaco, che ha deciso subito di adattare i suoi romanzi al grande
schermo. E ha fatto questo per toccare il maggior numero possibile di
individui. In Africa tutto e' concentrato nei grandi centri di potere e
nelle grandi citta'. La maggior parte della popolazione non partecipa alle
questioni fondamentali dello sviluppo. Fare questo genere di operazione,
riportare come nel caso di Ousmane i temi sociali sul grande schermo
permette di toccare il maggior numero di persone e di raggiungere ogni ceto
sociale. Le persone si possono identificare, si rendono conto che certi temi
le riguardano personalmente.
*
- Emanuela Citterio: Anche il teatro puo' giocare questo ruolo?
- Odile Sankara: Si', anche se in modo diverso. Il prodotto cinematografico
ha capacita' di muoversi e di raggiungere qualsiasi ambito della societa',
in questo senso e' molto piu' incisivo. Per quanto riguarda il teatro, si
dice spesso che e' nato in Grecia, ma si puo' anche dire che il teatro e'
nato in Africa, parallelamente. Da tutte quelle forme di oralita', di
racconto popolare in cui tutta la comunita' e' coinvolta. Ognuno e' in grado
di prendere la parola e di raccontare una storia, non solo che faccia ridere
ma che tocchi la coscienza degli altri, su argomenti che riguardano la vita
comunitaria. E' li' che deve tornare oggi il teatro africano, deve ripartire
dalle sue tradizioni culturali. Ha senso oggi allestire uno Sheakespere o un
Moliere senza riadattarlo alla nostra realta'? In Africa c'e' un tentativo
di attualizzazione del teatro, con tematiche contemporanee.
*
- Emanuela Citterio: Il presidente Sankara ha dato grande impulso al cinema
africano, attraverso il Fespaco...
- Odile Sankara: Il cinema ha un potere straordinario. Non bisognerebbe
limitarsi al Fespaco, ma provare a organizzare qualcosa che stia prima e
dopo questo evento. In Burkina, per esempio, stiamo cercando di portare il
cinema nei villaggi. Con operazioni a poco costo - uno schermo e poco piu' -
che pero' consentono di portare questi prodotti cosi' immediati e cosi'
impattanti dove non arriverebbero.
*
- Emanuela Citterio: Ci riuscite?
- Odile Sankara: Ci stiamo provando. Per ora si tratta di esperienze
limitate a in pochi casi in luoghi ancora vicini alla capitale. Comunque
qualcosa di e' mosso.
*
- Emanuela Citterio: Perche' puntare sulla cultura?
- Odile Sankara: La parola, libera e vera, e' simbolo dei luoghi di liberta'
attorno a cui si possono riunire i popoli. Direi che la cultura e' uno dei
punti di incontro dell'umanita'.

5. INCONTRI. VITA COSENTINO: NOI E ODILE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo l'intervento di Vita Cosentino all'incontro "Donne d'Africa: un
nuovo inizio" svoltosi a Milano il 14 giugno 2006. Vita Cosentino e'
un'autorevolissima intellettuale femminista]

Sono Vita Cosentino, della Libreria delle donne di Milano. Da qualche anno
alcune di noi sostengono un progetto - ideato da Odile Sankara delle sue
compagne dell'Associazione Talents de femmes di Ouagadougou, - che non e'
una cosa grandiosa, ma ha qualcosa di speciale che cerchero' di comunicarvi.
Il progetto e' molto semplice nella sua dinamica: consiste nel migliorare la
formazione letteraria, le capacita' di scrittura delle studentesse delle
scuole superiori, tramite un concorso letterario ogni due anni, e seguire
poi le vincitrici con una serie di iniziative apposite perche' possano
esserci delle giovani scrittrici in Burkina Faso. Finora c'e' stata la prima
edizione e ha preso nome "Voix de Femme-Grazia Zerman" per via che abbiamo
trovato modo di appoggiarle economicamente con il "Premio Grazia Zerman" -
premio creato da un lascito di un'amica della Libreria delle donne di Milano
morta precocemente - e con una colletta capillare tra le nostre amicizie.
E' avvenuta nel 2004, vi hanno partecipato piu' di duecento studentesse che
frequentano in diverse zone del Burkina Faso. Luisa Muraro e' andata alla
premiazione e di ritorno ha portato con se' I testi premiati e due di
questi - uno parla del matrimonio forzato e l'altro dell'acqua - di
Christine Sayore' e Lenglengue Saibata, circolano gia' in Italia. Sono
pubblicati in Diritti in gioco, a cura di Michela Bianchi, libro rivolto
alle scuole, edito da MC editrice in collaborazione con la Fondazione
Franceschi.
L'aspetto speciale del progetto consiste nell'importanza che esse
attribuiscono alla parola, alla sua potenza trasformatrice. Avete una
sintesi del progetto in cartelletta e vi sottolineo due punti collegati tra
loro.
Il primo quando si domanda: "La donna non ha forse una sensibilita' che le
e' propria, con la quale e' tenuta a contribuire alla costruzione del
pensiero nazionale? In altre parole, puo' esistere un pensiero nazionale
senza l'apporto della donna?". La prima cosa speciale, che va oltre I
consueti progetti, e' che Odile e le sue compagne sono consapevoli del fatto
che oggi come oggi non puo' esistere la cultura del loro paese senza
l'apporto delle donne. Sono consapevoli e vogliono far valere il fatto che
la parola libera femminile possa essere arricchente per l'intera umanita'.
Il secondo viene subito dopo quando afferma che indubbiamente la ragazza
burkinabe' ha problemi che possono essere giudicati prioritari come la
scolarizzazione, l'educazione, la lotta contro le malattie sessualmente
trasmissibili, il dramma delle ragazze madri... ma esse invece pensano che
proprio perche' le giovani donne sono collocate nel punto di incrocio dei
mali del nostro tempo, e' indispensabile la loro presa di coscienza e quindi
la narrazione - la vita che si fa testo - per prendere nelle proprie mani la
propria vita. Quindi il cambiamento per loro e' impadronirsi bene della
parola perche' cosi' possono fare di cio' che vivono racconto. E non
progetti dall'esterno pensati da noi occidentali.
*
Questo modo di pensare - che nell'invito a questo convegno e' stato sentito
come un nuovo inizio, cioe' come costruzione di un pensiero proprio
dell'Africa in rapporto con le realta' sociali, politiche e storiche, con il
dinamismo delle donne e degli artisti - le mette in un rapporto complesso
con il cambiamento: non vogliono cancellare la tradizione culturale
africana, ma stare sul difficile crinale tra amore della tradizione e
cambiamenti anche duri da fare. Per Odile la tradizione e' importante.
Odile, come suo fratello Thomas, e' cresciuta nella tradizione dei villaggi
e si impegna con il suo teatro e con l'associazione perche' i valori
tradizionali africani non vengano cancellati per imitare quelli occidentali.
Anzi, pensa che alcuni di questi valori, come l'integrita', la fierezza, la
capacita' di ridere anche nelle difficolta', l'amore per il sapere, possano
"armonizzare" - cosi' lei dice - la societa' moderna. Cio' non toglie che
abbia consapevolezza che certi aspetti della tradizione pesino malamente
sulla vita delle donne e quindi cerca come cambiare.
Come ci ha detto Odile quando e' venuta assieme a Leontine a ritirare il
Premio Zerman, per lei la scrittura e' strettamente connessa alla liberta'.
"E' una presa di coscienza e padronanza di se'". "Ci potra' poi forse essere
la censura, ma intanto qualcosa e' stato pensato e tradotto in scrittura". E
Leontine ha sottolineato quanto questo sia importante per le donne del suo
paese aggiungendo: "Abbiamo voglia di parlare e abbiamo delle cose da dire.
Spesso capita che in presenza degli uomini le donne tacciano. Tuttavia,
quando abbiamo un pezzo di carta e una penna in mano, allora parliamo; con
la scrittura, le donne possono parlare di tutto quello che vogliono".
*
Noi della Libreria ci sentiamo fortemente in sintonia con questa
impostazione perche' anche nella nostra storia essenziali sono state la
presa di coscienza e la cura delle parole e non leggi o grandi progetti che
muovono soldi. Vorrei, pero', sottolineare che noi abbiamo semplicemente
accettato di essere in questo rapporto. Uso la parola accettato per dire che
non abbiamo cercato di indirizzare il loro progetto con le nostre idee: lo
abbiamo accolto per quello che era e abbiamo fatto quello che ci chiedevano.
Il protagonismo e' stato sempre loro e ci siamo trovate, per esempio, a fare
anche cose che non sono nella nostra pratica, come raccogliere soldi.
Sottolineo questi aspetti perche' a mio modo di vedere configurano un altro
tipo di rapporto politico tra donne occidentali e donne africane.
Odile ci ha raccontato perche' ha voluto mettersi in contatto con gruppi di
donne italiane. Per loro e' molto importante che qui in Occidente si
conoscano le loro idee e I loro progetti, perche' questo di rimbalzo ne
aumenta il valore nel loro paese. Anche la presenza di Luisa Muraro alla
premiazione ha avuto lo stesso senso. Odile diceva che per loro e' stata
piu' importante dei soldi. Talents de femmes ne ha avuto un rimbalzo di
prestigio simbolico considerevole e ha spostato qualcosa. E questo Odile lo
ha capito da come ne parlavano i giornali locali.
Noi diamo loro il credito che ci chiedono, perche' ce lo chiedono; ma e'
anche vero che anche noi riceviamo qualcosa di prezioso: un riconoscimento
che ci colloca fuori da quella che e' stata una odiosa storia di
colonialismo e di prevaricazione nel rapporto con l'Africa. Questo puo'
essere forse si' un nuovo inizio, con un un ruolo che chiamerei "secondo",
da parte di noi occidentali e un profondo rispetto per l'iniziativa delle
donne e degli uomini di la', badando piu' alla qualita' dei rapporti che
alla spettacolarita' delle iniziative.
*
Nelle introduzioni di questa mattina vari interventi di uomini hanno
consapevolmente parlato del ruolo marginale che hanno gli uomini in
iniziative come queste. Credo che ci sia da fare una riflessione politica
piu' approfondita sul fatto che anche le donne occidentali devono
riconsiderare il loro ruolo nel senso della secondarieta'.
Molte questioni sono aperte e rivolgo queste domande a Odile: quali
prospettive puo' avere un progetto che rimane sempre dipendente dai soldi
che vengono dall'estero? Come Odile puo' aiutarci a vedere I nostri difetti?
Come ci vede lei?

6. INIZIATIVE. GIOVANNI SARUBBI: PER LA QUINTA GIORNATA DEL DIALOGO
CRISTIANO-ISLAMICO
[Ringraziamo Giovanni Sarubbi (per contatti: giovannisarubbi at aliceposta.it)
per questa lettera inviata a varie persone, associazioni e testate
sostenitrici del dialogo interreligioso ed interculturale. Giovanni Sarubbi,
amico della nonviolenza, promotore del dialogo interreligioso, giornalista,
saggista, editore, dirige l'eccellente rivista e sito de "Il dialogo"
(www.ildialogo.org)]

Care amiche, cari amici,
come sapete il prossimo 20 ottobre 2006 si terra' la quinta Giornata del
dialogo cristianoislamico. Siamo oramai al quinto appuntamento con una
iniziativa che, nata dal basso, e' diventata una iniziativa quasi
"istituzionale" della nostra pur difficile realta' italiana.
Lo scorso anno, come ricorderete, tutti voi siete stati fra i promotori
dell'iniziativa. I risultati sono stati, come sapete, positivi e sono andati
anche molto al di la' della singola giornata del 28 ottobre 2005.
Anche nel corrente mese di luglio ci saranno incontri di dialogo
cristianoislamico. I motivi per continuare lungo questa strada iniziata nel
2001 subito dopo i tragici attentati dell'11 settembre sono ancora molti.
*
Vi proponiamo, anche per questíanno, di ripetere l'esperienza. In
particolare proponiamo di mettere alla base della quinta Giornata del
dialogo cristianoislamico, il documento in dieci punti elaborato da Paolo
Branca, docente di lingua e letteratura araba all'universita' cattolica del
Sacro Cuore di Milano; Stefano Allievi, docente di sociologia
all'universita' degli studi di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle
universita' di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega
musulmana mondiale-Italia.
L'idea di un "decalogo" di cose possibili da fare, sulla via del dialogo, ci
sembra estremamente valida e soprattutto coinvolgente. E' anche un modo per
cercare di costruire, tutti insieme, un'etica comune che abbia come elemento
fondamentale il rispetto integrale dell'altra e dell'altro, che corrisponde
al comandamento del "non uccidere" comune a tutte le religioni.
*
Lo slogan per la giornata potrebbe essere proprio quello di "Dieci motivi
per dialogare", per sottolineare anche come siano molte le iniziative che si
possono mettere in campo per rendere concreto il dialogo, mentre per la
guerra, l'odio, la xenofobia e quant'altro basta una sola grande bugia. Ma
chiediamo a voi tutte e tutti uno sforzo di elaborazione che possa produrre
un motto semplice e condiviso che poi riproporremo agli inizi del mese di
settembre.
Vi chiediamo altresi' di estendere l'invito a tutte le riviste o
associazioni che conoscete e che finora non sono state coinvolte
nell'iniziativa, in modo da giungere agli inizi di settembre con un elenco
di promotori molto piu' ampio di quello dello scorso anno.
*
Ringraziandovi per quanto farete, aspettiamo fiduciosi le vostre rinnovate
adesioni e le nuove che riusciremo a promuovere.
Cordiali saluti di pace,
Giovanni Sarubbi, direttore de "Il dialogo" (www.ildialogo.org)

7. DOCUMENTI. MUSULMANI IN ITALIA: DIECI PROPOSTE DI LAVORO
[Attraverso Giovanni Sarubbi (per contatti: giovannisarubbi at aliceposta.it)
riceviamo e volentieri diffondiamo il seguente testo elaborato da Paolo
Branca. docente di lingua e letteratura araba all'Universita' cattolica del
Sacro Cuore di Milano; Stefano Allievi, docente di sociologia
all'Universita' degli studi di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle
universita' di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega
musulmana mondiale-Italia. Il testo e' apparso su "Settimana", n. 22, del 4
giugno 2006]

La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale "massa
critica" da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso
forme d'intervento estemporanee e improvvisate, com'e' spesso stato finora.
L'impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana che da parte
islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialita' di un tessuto
sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine
di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, ci
sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non -
coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalita' per riflettere e
agire insieme all'interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e
condivisi.
Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di
riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma,
riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale
importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da se' che i
musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche
simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno
come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne
tratta in modo specifico: una buona legge sulla liberta' religiosa, ad
esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunita' e non
solamente di quella islamica.
La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva
ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identita' (reali
o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non
sembra cogliere sufficientemente le potenzialita' positive pur presenti
nell'inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensi'
tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla
contrapposizione.
Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe
portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni
culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra
e altrui identita' ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e
consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l'unica in grado di
portare a buoni risultati nell'interesse comune. Per questa ragione pensiamo
che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che
in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere.
*
I punti che ci pare necessario richiamare sono:
1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per
promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della
democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo e'
utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle
molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione
basata su semplici opinioni, anziche' su evidenze empiriche. Interventi
formativi all'interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanita',
carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo
culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la
concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente
teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze
internazionali che gia' affrontano da tempo temi e situazioni analoghe
consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche
(legislative e operative) piu' efficaci.
2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalita' per evitare il
formarsi di societa' parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino
come corpi estranei: il diritto alla differenza non puo' e non deve mai
diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.
3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della
condivisione di valori, interessi e impegno comune al servizio della
collettivita'.
4. Dare priorita' alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria
specificita' culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi
condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attivita' che favoriscono
contatti, scambi e integrazione.
5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione
a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunita', specie nei
ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i
ministri del culto, ma di favorire l'emersione e il consolidamento di
competenze e capacita' specifiche tra coloro che gia' operano nei diversi
gruppi affinche' la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalita'
dell'integrazione e della partecipazione alla vita del paese in cui
risiedono.
6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle
differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civilta'.
Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la
conservazione e lo sviluppo della lingua d'origine (del resto gia' in atto,
in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non
sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla
trasformazione dell'intero settore scolastico che non sarebbe adeguato alla
realta' di un mondo sempre piu' interdipendente se restasse ancorato a forme
di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.
7. Incoraggiare i mass-media a dare spazio alle numerose esperienze di
collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa,
evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che
confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le
problematicita', ma ancora una volta di partire dalla realta' che e' piu'
ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di
terreno empirico, informazione completa e imparziale.
8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle societa'
di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione
economica ma anche allo sviluppo della societa' civile, al rispetto dei
diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.
9. Valorizzare l'azione delle istituzioni locali, che sono a contatto
diretto con le realta' di base, nel promuovere iniziative che - per la
qualita' degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio -
possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in
stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che gia' operano in
tal senso.
10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza
rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche
iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di
gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Cio'
favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano
tesoro delle competenze e delle capacita' di chi si distingue nel lavoro
interculturale.

8. INIZIATIVE. ENRICO PEYRETTI: VENERDI', IN PIAZZA CASTELLO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha
fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il
foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel
Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian
Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro
Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo
comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione
col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento
Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora
a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del
"non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto
il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Stasera, venerdi' 7 luglio, dalle 18 alle 19, ho partecipato ad un sit-in in
piazza Castello, qui a Torino, di solidarieta' col popolo palestinese,
oggetto, nella striscia di Gaza, di una rappresaglia sproporzionatamente
violenta (ma ci sono rappresaglie proporzionate?!). Erano presenti diverse
decine di palestinesi e altri arabi, tutti uomini, con alcune bandiere
palestinesi e bandiere della pace, e alcuni cartelloni. Italiani eravamo non
piu' di sei o sette: tro o quattro uomini, tre donne (due venute da Ivrea).
Sono molto stupito che non ci fossero rappresentanti di partiti,
associazioni, gruppi pacifisti e nonviolenti. Non me lo spiego: la
comunicazione c'e' stata. Forse c'e' qualche divisione anche tra le
componenti arabe. Ma l'assenza italiana e' grave.
Io indossavo sulle spalle la mia bandiera della pace. Ho accettato di
parlare brevemente nel megafono. Ho letto la sintesi dell'articolo della
giornalista israeliana Amira Hass, del giornale "Ha'aretz" (p. 19 di
"Internazionale" del 7-13 luglio, arrivatomi oggi): "La gente palestinese
non odia gli israeliani ne' gli ebrei. Odia questa guerra, l'occupazione e
l'ingiustizia". Ho detto che il popolo palestinese, specialmente in questo
momento, merita la nostra solidarieta', e che cio' non e' contro qualcuno,
ma per il diritto e la giustizia, per il rispetto reciproco dei popoli, per
il vicendevole riconoscimento delle sofferenze, per non infliggersi piu'
l'uno all'altro alcuna sofferenza, che e' la vergogna di tutti.
Quel conflitto ci fa soffrire. Io vorrei che i palestinesi rivendicassero la
liberta' dall'occupazione ingiusta con la sola maggiore forza della
nonviolenza. Ma quando il piu' forte e enormemente piu' armato colpisce il
piu' debole, do la mia solidarieta' al piu' debole.
I palestinesi e gli altri arabi presenti hanno ripetutamente chiesto, in
perfetta lingua italiana, con parole garbate, al popolo e alle autorita'
italiane e alla comunita' internazionale, solidarieta' con la popolazione di
Gaza ora sotto attacco militare, descrivendo nei particolari la situazione
grave di queste ore. Quasi nessuno dei passanti nella piazza,
frequentatissima a quell'ora, si e' fermato o ha dato ascolto. I presenti
hanno anche recitato la preghiera rituale islamica, e alla fine hanno fatto
un'altra preghiera in piedi, in cerchio. Contemporaneamente, a qualche
distanza, ho recitato mentalmente il Padre nostro, preghiera all'unico Dio
di tutta l'umanita'. I manifestanti hanno concluso addirittura ringraziando
il popolo italiano (cioe' alcuni pochissimi passanti che si sono fermati
qualche minuto).

==============================
LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
==============================
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 81 del 9 luglio 2006

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