[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Nonviolenza. Femminile plurale. 71
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 71
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 6 Jul 2006 12:14:41 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 71 del 6 luglio 2006 In questo numero: 1. Per carita' 2. Emergency: Ripudiare la guerra o la Costituzione? 3. Cindy Sheehan: "E le bombe esplodono in aria" 4. Franca Ongaro Basaglia: Fondamenti teorici e culturali della riforma psichiatrica in Italia (parte seconda e conclusiva) 1. EDITORIALE. PER CARITA' Circola un appello con cui all'incirca si propone di demandare "al popolo dell'Unione" di dichiarare se e' giusto o meno fare la guerra in Afghanistan. Ci duole per "il popolo dell'Unione" (qualunque cosa esso sia, e certo un tal nome non promette nulla di buono), ma e' la Costituzione della Repubblica Italiana che proibisce quella guerra. Non c'e' nessuna consultazione da fare: la consultazione sulla Costituzione l'abbiamo fatta alla fine del mese scorso, adesso c'e' solo da applicare quello che essa stabilisce: "L'Italia ripudia la guerra". 2. RIFLESSIONE. EMERGENCY: RIPUDIARE LA GUERRA O LA COSTITUZIONE? [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 luglio 2006 riprendiamo il seguente intervento dell'associazione umanitaria Emergency] Ripudiare la guerra o la Costituzione? Il governo italiano rifinanzia la missione militare in Afghanistan. Il governo italiano decide cosi' di accettare la guerra "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Questa decisione e' compatibile con la lettera e con lo spirito dell'articolo 11 della Costituzione? Il governo italiano e' determinato a violare l'articolo 11 della Costituzione? I componenti del governo hanno giurato di rispettare la Costituzione. I componenti del governo sono determinati a violare i loro giuramenti? Quando questo governo decide di portarla, la guerra in Afghanistan e' durata per l'Italia gia' quanto la seconda guerra mondiale. Nessun presidente o ministro ha detto a quale risultato raggiungibile miri la guerra in Afghanistan; nessuno sa seriamente dire che cosa dovrebbe o potrebbe accadere per considerarla conclusa. La guerra in Afghanistan e' potenzialmente una guerra infinita. Il governo italiano ribadisce la partecipazione a questa guerra infinita. L'aggressione all'Afghanistan e' avvenuta per scelta unilaterale nell'ottobre 2001 senza alcuna parvenza di legalita' internazionale, in violazione dello Statuto delle Nazioni Unite. Le sole ragioni addotte per la rinnovata partecipazione dell'Italia sono di appartenenza e di subordinazione. Ragioni false, peraltro. Non ha fondamento o contenuto l'affermazione che, rifiutando la partecipazione a questa guerra, l'Italia "uscirebbe dall'Europa". E' altrettanto improbabile che rifiutarsi a questa guerra comporterebbe per l'Italia "uscire dalla Nato", un'alleanza militare nata come difensiva per un'area e divenuta strumento di aggressione in altre parti del mondo. L'aggressione di apparati e media a parlamentari che intendono rispettare l'articolo 11 ignora e viola l'articolo 67: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". La coscienza dei parlamentari merita rispetto se si parla di un grumo di cellule, ma deve tacere sulla vita o la morte di esseri umani gia' perfettamente formati? C'e' chi sottomette le convinzioni alle opportunita'. Abbiamo il massimo apprezzamento per chi antepone la coerenza morale e istituzionale a qualsiasi genere di convenienza. 3. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: "E LE BOMBE ESPLODONO IN ARIA" [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com] "E i razzi risplendono rossi, le bombe esplodono in aria, assicurandoci nel mezzo della notte che la nostra bandiera e' ancora la'. Oh, di' che la bandiera stellata ancora sventola sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi" (Star-spangled banner, inno nazionale Usa) La bandiera stellata e' stata spesso sui giornali ultimamente. Alcuni senatori "coraggiosi", fra cui una dei senatori del mio collegio, Dianne Feinstein, e la prediletta dell'ala liberal Hillary Clinton, si sono arditamente esposti per sostenere un emendamento che rendera' illegale bruciare una bandiera statunitense in determinate circostanze. Ma il cielo non voglia che qualche pusillanime parlamentare introduca, o sostenga, la richiesta dell'immediata fine dell'occupazione dell'Iraq, oppure chieda che il presidente fissi una data per il ritiro delle truppe dalla palude mortale dell'occupazione, mentre gli assegnano ancor piu' denaro per compiere crimini di guerra in Iraq. Intanto i figli della nostra nazione stanno tentando di sopravvivere nelle peggiori circostanze immaginabili, e nel sopravvivere stanno commettendo terribili atrocita' a danno di un popolo innocente (specialmente a Ramadi, proprio in questo momento) attorno a cui "le bombe esplodono in aria", e in tale contesto il nostro Senato sta dibattendo se sottrarre il Primo emendamento agli americani: tutto questo e' di una sciagurata ironia. Chiamatemi ingenua, ma io ho sempre pensato che eleggessimo dei rappresentanti affinche' proteggessero i nostri diritti, non perche' ce li portassero via. * Quando guardo la bandiera stellata, penso a mio figlio, che ha indossato un'uniforme con quella bandiera sopra gia' quando entro' negli scout a 6 anni. Penso anche all'ultima foto di Casey, presa mentre stava aspettando di essere trasferito dal Kuwait in Iraq. E' in piedi in una tenda, con una bottiglia d'acqua in mano, e indossa l'uniforme da deserto con una toppa a forma di bandiera sul petto. Quando lo seppellimmo, poche settimane dopo che quella fotografia era stata scattata, io reggevo una bandiera ripiegata, che mi ricordava il lenzuolino in cui lo fasciai prima di portarlo a casa dall'ospedale in cui era nato, circa 25 anni prima. La bandiera stellata, che ora vedo mossa dal vento fuori dal terminal dell'aeroporto in cui sto scrivendo queste righe, non mi riempie di orgoglio: mi riempie di vergogna, e quella bandiera per me simboleggia dolore e corruzione, in questo momento. Rappresenta cosi' tante menzogne, elezioni truccate, profitto dalla macchina della guerra, alti prezzi del gas, spionaggio sugli americani, rapida erosione delle nostre liberta', mentre Bush e compagnia letteralmente si lanciano a commettere omicidi, a perpetrare torture e detenzioni in condizioni estreme, a contaminare il mondo con l'uranio impoverito e guerre illegali ed immorali che sono responsabili della morte di tante persone. Un simbolo che era solito rappresentare la speranza ora riempie di disgusto. Quando guardo a quel pezzo rettangolare di stoffa con le strisce rosse e bianche e le stelle in campo blu, mi chiedo cosa pensano gli iracheni quando vedono i carri armati e gli altri veicoli, decorati di tale blasone, impazzare per le loro strade. O cosa tale bandiera possa rappresentare per essi, quando le donne vengono stuprate e poi bruciate per nascondere il crimine, ed intere famiglie sono assassinate da soldati la cui uniforme reca quel simbolo. Sono sicura che per loro quella bandiera e' un simbolo di morte e distruzione, cose che spero non vengano confuse con la liberta' e la democrazia. * Mi si dice spesso che dovrei "amare l'America o lasciarla". Questa logica e' ridicola, e' vuota retorica. Io amo il paese in cui sono nata, e amo gli americani. Sono americana, e sono americani i miei figli. Casey e' nato e morto da buon americano, vittima degli stessi leader che stanno abusando del mondo intero mentre io scrivo. Potrei andarmene, se volessi, e in effetti ho ricevuto numerose offerte di restare come espatriata in diversi amichevoli paesi. Tuttavia, io voglio restare e lottare per il mio paese. Voglio che il mio paese e la bandiera che ne e' il simbolo significhino, in tutto il mondo, qualcosa per cui essere di nuovo orgogliosi. Bush e il regime neo-con si sono imbarcati in questa disastrosa impresa, in Iraq, per testimoniare al mondo quanto forte e virile sia la Pax Americana. Hanno abiettamente fallito la missione, che era malvagia e corrotta sin dall'inizio, e non ha provato quanto forte sia la nostra nazione ma, al contrario, quanto essa sia debole. I neo-con sono riusciti a dimostrare che persino avendo la piu' potente macchina da guerra al mondo, l'insorgenza in un paese piu' piccolo della California puo' tenere a bada la loro falsa liberta' e la loro mortale democrazia. Un'altra cosa che i neo-con hanno dimostrato e' che l'America non e' piu' la pietra miliare morale del mondo, ma una nazione che commette torture e crimini contro l'umanita' con il sigillo presidenziale di approvazione. Bush e compagnia hanno distrutto ogni credibilita' che la nostra nazione aveva al mondo, e tutti noi dobbiamo lottare per riottenerla, e persino per redimere le nostre stesse anime. * Io vi imploro, mentre vi state godendo l'insalata di patate e i fuochi d'artificio del 4 di luglio, di riflettere su cio' che la bandiera stellata significa per voi. Se la nostra bandiera simboleggia per voi le stesse cose di cui e' simbolo per i neo-con, allora arruolatevi e andate in Iraq, cosi' da permettere ad alcuni dei nostri soldati, stanchi di soffrire e di commettere crimini di guerra per l'Halliburton, Cheney e Rumsfeld, di tornare a casa. Se invece capite che la bandiera non sventola piu' "sopra la terra dei liberi", e vorreste che lo facesse di nuovo, vi invitiamo a venire a Camp Casey durante quest'estate, ad aiutarci a lottare per il cuore e l'anima della nostra nazione. Se mentre vi profondete in esclamazioni sui bei fuochi d'artificio, capite che ci sono vere bombe che stanno scoppiando sugli iracheni, che li stanno uccidendo e distruggono il loro paese per nessun'altra ragione se non che Dick Cheney lo vuole, allora dovete digerire il barbecue del 4 luglio e venire via, per mostrare a Cheney e al mondo che non stiamo scherzando quando diciamo che vogliamo il ritiro delle truppe per salvare i nostri soldati e i nostri fratelli e le nostre sorelle in Iraq. Migliaia di membri della razza umana che amano la pace e odiano la guerra, provenienti da tutto il mondo, stanno pianificando il proprio arrivo a Crawford, in Texas, a Camp Casey, durante quest'estate: per fronteggiare, in piedi o seduti o campeggiando, la macchina della guerra neo-con, e dimostrare che ci sono americani che con coraggio parleranno per il popolo iracheno e per i nostri soldati, che non hanno voce, ma che vorrebbero essere lasciati in pace. Venite a Camp Casey. Abbiamo posto per tutti, e ognuno e' il benvenuto. 4. MAESTRE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: FONDAMENTI TEORICI E CULTURALI DELLA RIFORMA PSICHIATRICA IN ITALIA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.asiamente.it riprendiamo il seguente intervento. Franca Ongaro Basaglia, intellettuale italiana di straordinario impegno civile, pensatrice di profondita', finezza e acutezza straordinarie, insieme al marito Franco Basaglia e' stata tra i protagonisti del movimento di psichiatria democratica; e' deceduta nel gennaio 2005. Tra i suoi libri segnaliamo particolarmente: Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982; Manicomio perché?, Emme Edizioni, Milano 1982; Una voce: riflessioni sulla donna, Il Saggiatore, Milano 1982; Vita e carriera di Mario Tommasini burocrate scomodo narrate da lui medesimo, Editori Riuniti, Roma 1987; in collaborazione con Franco Basaglia ha scritto La maggioranza deviante, Crimini di pace, Morire di classe, tutti presso Einaudi; ha collaborato anche a L'istituzione negata, Che cos'e' la psichiatria, e a molti altri volumi collettivi. Ha curato l'edizione degli Scritti di Franco Basaglia. Dalla recente antologia di scritti di Franco Basaglia, L'utopia della realta', Einaudi, Torino 2005, da Franca Ongaro Basaglia curata, riprendiamo la seguente notizia biobibliografica, redatta da Maria Grazia Giannichedda, che di entrambi fu collaboratrice: "Franca Ongaro e' nata nel 1928 a Venezia dove ha fatto studi classici. Comincia a scrivere letteratura infantile e i suoi racconti escono sul "Corriere dei Piccoli" tra il 1959 e il 1963 insieme con una riduzione dell'Odissea, Le avventure di Ulisse, illustrata da Hugo Pratt, e del romanzo Piccole donne di Louise May Alcott. Ma sono gli anni di lavoro nell'ospedale psichiatrico di Gorizia, con il gruppo che si sta raccogliendo attorno a suo marito Franco Basaglia, a determinare la direzione dei suoi interessi e del suo impegno. Nella seconda meta' degli anni '60 scrive diversi saggi con Franco Basaglia e con altri componenti del gruppo goriziano e due suoi testi - "Commento a E. Goffman. La carriera morale del malato di mente" e "Rovesciamento istituzionale e finalita' comune" - fanno parte dei primi libri che documentano e analizzano il lavoro di apertura dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, Che cos'e' la psichiatria (1967) e L'istituzione negata (1968). E' sua la traduzione italiana dei testi di Erving Goffman Asylums e Il comportamento in pubblico, editi da Einaudi rispettivamente nel 1969 e nel 1971 con saggi introduttivi di Franco Basaglia e Franca Ongaro, che traduce e introduce anche il lavoro di Gregorio Bermann La salute mentale in Cina (1972). Dagli anni '70 Franca Ongaro e' coautrice di gran parte dei principali testi di Franco Basaglia, da Morire di classe (1969) a La maggioranza deviante (1971), da Crimini di pace (1975) fino alle Condotte perturbate. Nel 1981 e 1982 cura per Einaudi la pubblicazione dei due volumi degli Scritti di Franco Basaglia. Franca Ongaro e' anche autrice di volumi e saggi di carattere filosofico e sociologico sulla medicina moderna e le istituzioni sanitarie, sulla bioetica, la condizione della donna, le pratiche di trasformazione delle istituzioni totali. Tra i suoi testi principali, i volumi Salute/malattia. Le parole della medicina (Einaudi, Torino 1979), raccolta delle voci di sociologia della medicina scritte per l'Enciclopedia Einaudi; Una voce. Riflessioni sulla donna (Il Saggiatore, Milano 1982) che include la voce "Donna" dell'Enciclopedia Einaudi; Manicomio perche'? (Emme Edizioni, Milano 1982); Vita e carriera di Mario Tommasini burocrate scomodo narrate da lui medesimo (Editori Riuniti, Roma 1987). Tra i saggi, Eutanasia, in "Democrazia e Diritto", nn. 4-5 (1988); Epidemiologia dell'istituzione psichiatrica. Sul pensiero di Giulio Maccacaro, in Conoscenze scientifiche, saperi popolari e societa' umana alle soglie del Duemila. Attualita' del pensiero di Giulio Maccacaro, Cooperativa Medicina Democratica, Milano 1997; Eutanasia. Liberta' di scelta e limiti del consenso, in Roberta Dameno e Massimiliano Verga (a cura di), Finzioni e utopie. Diritto e diritti nella societa' contemporanea, Angelo Guerrini, Milano 2001. Dal 1984 al 1991 e' stata, per due legislature, senatrice della sinistra indipendente, e in questa veste e' stata leader della battaglia parlamentare e culturale per l'applicazione dei principi posti dalla riforma psichiatrica, tra l'altro come autrice del disegno di legge di attuazione della "legge 180" che diventera', negli anni successivi, testo base del primo Progetto obiettivo salute mentale (1989) e di diverse disposizioni regionali. Nel luglio 2000 ha ricevuto il premio Ives Pelicier della International Academy of Law and Mental Health, e nell'aprile 2001 l'Universita' di Sassari le ha conferito la laurea honoris causa in Scienze politiche. E' morta nella sua casa di Venezia il 13 gennaio 2005"] 2. Filosofia della riforma e suo sviluppo La riforma psichiatrica italiana, promulgata nel '78, e' tuttora solo parzialmente realizzata a causa delle sterili discussioni che ne hanno seguito l'emanazione e che per anni hanno rinviato la formulazione degli strumenti giuridici, amministrativi, finanziari necessari alla concreta realizzazione di servizi adeguati alla qualita' del cambiamento. Dove questi servizi sono stati realizzati con alta qualita' professionale e umana le cose funzionano, ma tutto e' ancora affidato alla capacita' di capire il senso profondo di questo processo di trasformazione. Per questo, parlare ora della filosofia di questa riforma richiede una messa a punto di concetti, significati, passaggi pratici e teorici spesso fraintesi o intenzionalmente ignorati circa le premesse e l'evoluzione dell'azione di rinnovamento in vista di un cambio di giudizio e di approccio nei confronti di ogni tipo di diversita'. Parlare della filosofia della riforma comporta, dunque, un'analisi di cio' che costituisce la base pratica e teorica delle esperienze che l'hanno prodotta e sostenuta e, contemporaneamente, la presa d'atto di cio' che e' stato il reale governo della riforma, cioe' la sua gestione politica e amministrativa. Quest'ultima si e' infatti rivelata in totale contraddizione con la riforma stessa, quale parte integrante di un'operazione, da anni in atto in Italia, di smantellamento del Servizio sanitario nazionale, in perfetta coerenza con l'attuale linea di demolizione dello stato sociale. Si deve comunque aggiungere che, negli anni di inerzia e di boicottaggi intenzionali vissuti nella contraddizione fra filosofia della riforma e suo governo, non si e' ancora riusciti a modificare la legge, anche se proprio oggi che e' cosi' seriamente minacciata, si sta ancora faticosamente lavorando per attuarla, dopo piu' di vent'anni dalla sua emanazione. E' su questa contraddizione fra filosofia e governo della riforma che intendo incentrare questa parte del mio intervento, per tentare di chiarire alcuni degli elementi che stanno alla base della riforma stessa sia delle difficolta' da essa incontrate nella fase di attuazione, difficolta' legate alla qualita' culturale del cambiamento scientifico e sociale che essa presuppone e insieme produce: - il carattere socio-politico e non solo medico-specialistico del movimento che l'ha promossa; - l'insistenza sugli elementi socio-economici e ambientali-relazionali presenti nel disturbo psichico e nel suo cronicizzarsi; - la necessita' di far uscire dall'alveo strettamente medico e giuridico un disagio in cui possono giocare, insieme, elementi biologici, psicologici e sociali che necessitano di interventi integrati, non frazionati in specialita' separate; - il carattere relativo delle nostre categorie di normalita'/anormalita' su cui si fonda la discriminante assoluta fra sano e malato. La qualita' delle resistenze incontrate discende, dunque, direttamente dalla qualita' del cambiamento proposto. Non ci si limita alla sostituzione di una tecnica d'intervento con un'altra, ma si coinvolgono il modo di essere di una societa', la qualita' dei rapporti che vi si instaurano, la qualita' della vita che essa produce, le relazioni di potere che vi dominano e che consentono o reprimono l'espressione dei bisogni di tutti, compresi i piu' deboli e svantaggiati. Da cio' l'enfasi viene posta su un giudizio di malattia che comprenda queste variabili, quindi sull'istituzione di servizi che non abbiano un carattere esclusivamente medico-ospedaliero, che tengano conto della molteplicita' degli elementi di cui e' fatto il "sintomo"; che siano piu' vicini alla vita quotidiana della gente, promuovendo nuove forme di solidarieta', modi piu' partecipi, piu' umani di vivere i rapporti, quindi una pratica sociale diversa da cui possa emergere una scienza capace di cogliere i bisogni da cui nasce il disagio, bisogni e disagio che spesso la definizione classica di malattia nasconde e che la cura tradizionale spesso amplifica e cronicizza. Si tratta, quindi, di qualcosa di piu' della messa in crisi della vecchia gestione organizzativa dell'assistenza psichiatrica, nel coinvolgere la definizione stessa di normalita', malattia, devianza in rapporto alla molteplicita' dei bisogni, ai diritti dei cittadini e al mutare dei valori della societa'. Il conflitto aperto dalla riforma psichiatrica italiana ha dunque un carattere piu' profondo del semplice cambio dell'organizzazione di una branca della medicina: la riforma parte, infatti, dallo svelamento della natura non esclusivamente medica dei problemi psichiatrici, punta su una responsabilizzazione diffusa, sulla riduzione della delega totale ai tecnici e alle istituzioni, su forme diversificate di tutela che non si costituiscano come forme di potere su chi viene tutelato. Nella evoluzione storica dell'atteggiamento culturale e delle pratiche istituzionali relativi ai problemi del controllo dei disturbi psichici e delle devianze, si e' passati attraverso una profonda trasformazione delle forme di tutela nei confronti della minorita', della menomazione, della devianza, della malattia, dell'handicap. Cio' che, tuttavia, sembra aver condizionato questa evoluzione non risulterebbe soltanto il progredire del pensiero scientifico rispetto al problema, quanto piuttosto la graduale acquisizione di diritti di cittadinanza da parte di fasce di popolazione che ne erano escluse e l'assunzione da parte dello stato democratico affermatosi in Europa dal dopoguerra, del dovere di promuovere e attuare questa tutela e questi diritti (gli articoli della nostra Costituzione citati all'inizio ne sono un riferimento esplicito). Affrontare il problema della sofferenza psichica e della devianza dall'evoluzione di forme diversificate di tutela mi consente di individuare alcuni elementi chiarificatori delle difficolta' che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo in Italia dall'entrata in vigore della legge di riforma psichiatrica e sanitaria. Disagi e difficolta' che nascono dalla sua ancora parziale realizzazione, ma anche dallo scontro di esigenze di natura diversa, storicamente contrapposte (tutela del malato/tutela della societa') che ora si trovano a coesistere tanto da richiedere risposte che tengano conto di entrambe. Le fasi dell'evoluzione del concetto di tutela possono essere, grosso modo, identificate in tre momenti: 1. La tutela come espropriazione dei corpi che coincide con l'internamento manicomiale e con l'esplicita difesa della societa' a scapito del "tutelato"; internamento consentito dalla totale assenza di diritti da parte del "miserabile", utente elettivo di queste istituzioni, quindi dalla totale assenza di giustizia sociale. La delega ai tecnici e' in questo caso assoluta in quanto incentrata sul prevalere della difesa della comunita' da ogni minaccia di pericolosita', a prezzo dell'eliminazione di chi viene tutelato. Si trattava in definitiva di una soluzione finale, attuata sulla base di una razionalita' che contemplava l'esistenza della sragione solo nel momento in cui la imbrigliava nello schema di una malattia e di un'istituzione deputate a contenerla. 2. La tutela come forma di assistenza invalidante che coincide con la logica dello stato assistenziale quale risultato della conquista, da parte dei cittadini, del diritto all'assistenza; diritto che tuttavia non intacca il nodo di fondo della disuguaglianza sociale e anzi spesso la conferma attraverso l'invalidazione dell'assistito. E' quanto la cultura medica continua a garantire: che l'espressione soggettiva del bisogno, della sofferenza, del disturbo ma anche della diseguaglianza si indirizzi su canali gia' prestabiliti, continui cioe' a garantire che la domanda sia sempre quella di un trattamento terapeutico che ha il compito di appiattire e organizzare solo in termini medici il conflitto, impedendo quindi al tutelato di riproporlo in quanto bisogno radicale. La necessita' del "trattamento" non viene dunque messa in discussione in rapporto ad altre variabili ambientali e sociali che possono produrre il sintomo e ci si limita ad ampliare la gamma delle soluzioni attraverso l'ampliamento della gamma dei ruoli degli operatori in essi coinvolti, con cui discriminare i diversi livelli di intervento che restano comunque di tipo "curativo". 3. La terza fase, che corrisponde a cio' che e' accaduto da noi, dopo l'emanazione di riforme che hanno riconosciuto l'universalita' dei diritti della persona, si riferisce ad un tipo di tutela a doppia faccia. Da un lato la tutela di ogni minorita' che ha bisogno di aiuto, non piu' come forma di esclusione o di invalidazione della persona, ma come progetto di abilitazione, cioe' come promozione di capacita', autonomia, responsabilita' nel rispetto dei nuovi diritti acquisiti, ma anche dei nuovi doveri che ne conseguono per lo stesso tutelato. Dall'altro lato, la tutela della societa' sana e produttiva, portatrice anch'essa del diritto ad essere aiutata e difesa da cio' con cui puo' risultare difficile convivere e che puo' presentarsi come minaccia. Tenendo conto pero' che questo diritto non cancella il contemporaneo dovere sociale e politico di promuovere e sostenere il farsi reale dei diritti della parte piu' debole e svantaggiata. Il problema consiste dunque nel come far coesistere questa doppia esigenza che non vuole e non puo' piu' essere antagonista, in quanto nasce dal rispetto di bisogni e diritti da entrambi i lati irrinunciabili. Siamo tutti consapevoli del fatto che puo' essere difficile, talvolta impossibile, convivere con un disturbato psichico, e che spesso la convivenza in famiglia puo' risultare intollerabile e malata, per entrambi i poli. Cio' non significa, tuttavia, che l'unica soluzione sia l'internamento. Chi soffre di disturbi psichici ha raramente bisogno di un letto d'ospedale. Cio' di cui ha bisogno - nel caso la famiglia e i servizi nella comunita' non siano in grado di farvi fronte - e' un luogo protetto dove poter ristabilire, al riparo da ogni repressione e violenza, l'equilibrio fra se', il mondo, gli altri: un luogo che puo' essere anche una casa con un'alta concentrazione di assistenza, capacita' professionale e umana, di accettazione del conflitto che ogni soggetto produce, dove l'intervento tecnico strettamente medico si riduce via via che si amplia la gamma di risposte alle variabili sociali, economiche, affettive, esistenziali presenti nel disturbo. E' questo il nodo cruciale del problema, e ovviamente del diversificarsi in questi anni delle posizioni. Alcuni elementi su cui si articolano queste diversificazioni possono essere cosi' sintetizzati: - la convinzione che si sia trattato solo di umanizzare l'assistenza e d'inglobare la psichiatria nella medicina, quale garanzia della scientificita' dell'intervento e del superamento della violenza istituzionale; mentre l'avvio di questa dimensione, giocata tra tutela e diritto come misura di avvicinamento alla contrattualita' ed al riconoscimento della cittadinanza, quindi ad una maggiore giustizia sociale, presume una messa in discussione delle diverse discipline che hanno a che fare con la persona, delle violazioni dei diritti dei cittadini perpetrate in nome della cura e della terapia, implicite in modelli scientifici che si fondano sull'oggettivazione del corpo, sulla delega totale al tecnico di cui chi ha bisogno di cura e di assistenza e' in completa balia. - la visione di una tutela considerata sempre come riduzione dello spazio fisico, psicologico e sociale in cui il tutelato possa esprimersi, quale unica garanzia di controllo (e questo accade spesso anche nell'educazione dei figli quando non si accettano aperture vigili al rischio); mentre si possono perseguire forme di tutela che, proprio attraverso l'ampliamento di questi spazi, consentano la graduale conquista di una autonomia e di una responsabilita' perdute o mai o non ancora raggiunte. Si tratta quindi di una visione del rischio come primo elemento di reciprocita' in un rapporto disuguale, in quanto il rischio della liberta' dell'altro e' anche rischio della propria liberta', delle proprie certezze che ci tengono prigionieri: e' solo sulla base di un primo livello comune che si puo' costruire qualcosa che modifichi entrambi in vista di un possibile ulteriore cambiamento. - la convinzione che i fenomeni da tutelare, quindi ogni tipo di diversita' che si considera immodificabile in quanto naturale e che percio' si ritiene necessario controllare e dominare, presentino un carattere totalizzante capace di trasformare non solo il comportamento, ma ogni elemento costitutivo della personalita' di chi viene tutelato; mentre si puo' agire su tutti gli elementi in gioco che consentano un grado maggiore di consapevolezza e di responsabilita', attraverso l'aprirsi di nuove prospettive, nuove alternative e opportunita'. - il fatto che l'acquisizione del diritto alla tutela della salute e l'enfasi posta dalla riforma sanitaria sul momento preventivo, cioe' anche sui fattori ambientaIi e sociali presenti nella malattia, non consentono piu' la copertura di questi fattori attraverso cura e terapia, lasciando scoperta la natura vera dei conflitti. Mentre proprio il conflitto, cioe' ogni relazione che ponga problemi, diritti, attriti, difficolta' sul piano del potere (quindi i conflitti di potere e di interessi fra il malato e la famiglia, fra il medico e il paziente, fra l'adulto e il giovane, il docente e lo scolaro, fra l'uomo e la donna, l'individuo e la societa') non piu' utilizzato come occasione per cancellare il polo piu' debole e incapacitarlo, puo' diventare fonte di conoscenza reciproca, di cambiamento, di ulteriore comprensione e modifica di se' e dell'altro. Accettare il conflitto significa allora tenere aperta la contraddizione, viverla e spostarla ad un livello sempre piu' alto per maturare, attraverso la risposta, la qualita' stessa delle domande e la nostra stessa capacita' di rispondere. Nell'accettazione dell'altro e nel conflitto che produce c'e' sempre il rischio della perdita di se' quando il ruolo - qualunque esso sia - non ti difende piu', non ti ripara, non ti copre. Ma e' questa uscita dal ruolo pur giocandolo che consente di passare da una domanda all'apertura di un'altra domanda qualitativamente diversa. Dall'analisi di questi fattori si puo' dedurre un elemento che mi pare li accomuni: cioe' il fatto che non puo' esistere una trasformazione culturale e sociale di questa portata se nel processo di emancipazione, di liberazione, di conquista di diritti da parte di categorie in precedenza escluse, non si emancipa insieme dalla vecchia cultura, dalle vecchie credenze, dai vecchi pregiudizi, dai vecchi privilegi anche chi da questi diritti e' da sempre garantito. Perche' comunque resta in qualche misura prigioniero della stessa rigidita' di queste certezze e delle conseguenze che essa produce su quanti gli sono vicini, traducendo si in problemi, aggressivita', incomprensioni, drammi e malattia. In questo contesto assumono allora un'importanza cruciale l'aumento e il cambio qualitativo delle responsabilita' dei tecnici delle diverse professioni che hanno a che fare con la persona, nei confronti di fenomeni che risultano molto piu' complessi e articolati di quanto la semplice riduzione in termini di "malattia" o di diversita' abbia consentito di comprendere; nei confronti di un rischio che non puo' essere pagato solo da chi e' portatore di conflitto per farlo sparire, nei confronti di una delega che per la complessivita' degli elementi in gioco non puo' essere affidata solo ai tecnici della medicina ma deve contribuire a creare una cultura di integrazione fra le diverse competenze, per produrre una realta' piu' complessa e partecipe capace di produrre altra cultura. Le difficolta' incontrate da alcune delle principali riforme promosse da grandi movimenti fin dagli inizi degli anni '60 e di cui i governi, negli anni '70, si sono assunta la responsabilita', hanno dimostrato qualcosa di piu' della semplice volonta' di non realizzarle. Dopo anni di lotta minuta per ottenere i livelli minimi di applicazione (del resto non ancora raggiunti), pare infatti si possa chiaramente individuare un elemento di cui si e' tenuto scarsamente conto e che e' stato alla base del movimento che da piu' di quarant'anni opera nel settore della salute mentale: se l'acquisizione del diritto di un nuovo rispetto della persona (malato, disturbato mentale, menomato o detenuto che sia, e quanto piu' e' disagiato e privo di risorse economiche e culturali piu' ha bisogno di questo rispetto) non riesce a modificare i corpi professionali e le discipline che non lo hanno mai contemplato e che ora dovrebbero garantirlo, essa si riduce a pura enunciazione di principio, priva di possibilita' di realizzazione concreta. In assenza di questa modifica, la reazione piu' semplicistica alle difficolta' che si incontrano e' tentare di emendare le leggi di riforma, per mantenerle adeguate ai vecchi corpi professionali e alle vecchie discipline che restano ciascuna padrona in casa sua, senza interferenze e senza verifiche. Ma in una societa' disuguale e democratica le riforme - se sono reali - dovrebbero puntare, come tappa di un processo evolutivo, all'acquisizione di diritti settoriali capaci di riproporre, da un livello contrattuale piu' alto, il problema della disuguaglianza dei bisogni (che e' disuguaglianza sociale ma anche diversita' di sesso, di opportunita', livelli diversi di potere, stato di sofferenza e di impotenza, impossibilita' di espressione soggettiva). Questi diritti settoriali - democraticamente riconosciuti - si trovano pero' ad essere garantiti e tutelati dalla stessa cultura che, nata e sviluppatasi in coerenza con i valori espressi da una societa' diseguale, ha contribuito a mantenere ed occultare tutte le variabili sociali che costituiscono i fenomeni di cui ci si occupa. L'acquisizione di un nuovo diritto per tutti in un settore specifico per poter essere concretamente e quotidianamente rispettata, dovrebbe dunque comportare l'esigenza di agire anche sui processi culturali, sui modelli operativi e sulle pratiche istituzionali ad essi conseguenti che devono, insieme, promuovere e tutelare questo diritto. Tuttavia nel caso di modelli operativi che continuano a mettere tra parentesi il problema della disuguaglianza (che riguarda il malato e non la malattia, la persona e non il fenomeno) per occuparsi di diversita' separate, piu' o meno naturali (malattia, devianza, vecchiaia, disabilita', organi, geni, per ogni disciplina il suo luogo e suoi esperti) il diritto soggettivo e' ancora rappresentato solo dal tecnico, unico padrone dell' esperienza malata. E' dunque alle risposte tecniche implicite nel vecchio modello che accedono i nuovi diritti acquisiti in questo settore. Il che e' come dire che i "diritti del malato", le "carte dei diritti" possono essere garantiti solo da un cambio radicale dei corpi professionali e dei fondamenti culturali delle diverse discipline che agiscono essenzialmente su parti separate dei corpi, mentre dovrebbero misurarsi con l'essere questi corpi intrisi di bisogni soggettivi, affettivi, sociali che la stessa acquisizione dei diritti esprime piu' esplicitamente. La distanza fra teoria e pratica delle diverse discipline consiste essenzialmente nel fatto che solo la pratica e' costretta a incontrarsi con questi bisogni mentre la teoria puo' permettersi di ignorarli. I diritti nuovi ancora non hanno, di fatto, profondamente modificato la cultura che deve rispondervi, traducendoli in nuove responsabilita' individuali, professionali e sociali. Cio' che e' accaduto in Italia nel settore della psichiatria e che ne ha modificato le fondamenta - anche se il livello di applicazione della legge di riforma puo' ancora solo in parte dimostrarlo, e anche se sintomi di razionalizzazione di vecchi modelli e di vecchi strumenti sono gia' molto diffusi - e' stato esattamente questo: agendo contemporaneamente sul fenomeno specifico (malattia, devianza, ecc.) e sulla disuguaglianza (intendendo con questo tutto cio' di cui e' fatta la problematica del vivere quotidiano degli utenti dei servizi pubblici: disoccupazione, sottoccupazione, mancanza di casa, convivenze familiari impossibili, mancanza di spazi soggettivi per esprimere la propria sofferenza, assenza di prospettive e di significato che possono manifestarsi attraverso malattia e devianza, arginando i quali malattia e devianza possono manifestarsi diversamente) la sfera reale del bisogno psichiatrico, quindi del bisogno sanitario, si riduce notevolissimamente. Le misure tecniche piu' adeguate alla specificita' del bisogno sanitario dovrebbero allora essere approntate a questa dimensione ridotta del fenomeno ed e' in questa operazione che consiste la prevenzione piu' efficace nei confronti della cronicizzazione del disturbo o dell'assunzione impropria di malattia, quindi la vera riforma di riduzione del bisogno sanitario. Riduzione che non si realizza attraverso i tagli della spesa ma ampliando le opportunita' concrete di vita, di relazione, e riducendo l'induzione di consumi sanitari superflui e quindi nocivi. Nonostante i venti anni di discussione fra richieste di modifica e difesa della riforma, il problema della salute mentale continua a riproporsi in questi termini radicali, perche' non si e' trattato di un semplice cambio di teoria interpretativa sulla malattia, ma e' stata costruita nella pratica la possibilita' di inventare e usare altri strumenti attraverso una diversificazione delle risposte, un'integrazione dei servizi, delle competenze, delle varie discipline, dei ruoli, in un intreccio fra sociale, sanitario e psicologico che tenesse conto contemporaneamente di tutti gli elementi anche affettivi che sono il corpo stesso del nostro star male. Non credo si possa tornare indietro. Ci sono ormai troppi protagonisti e troppi testimoni, compresa la maggioranza delle associazioni dei familiari dei malati. Protagonisti - utenti dei servizi, operatori, familiari - che hanno rimesso in gioco il rapporto medico-paziente trovando un significato diverso anche alla propria vita, nella riscoperta e nell'invenzione provocate dalla nuova complicita' con i bisogni dell'altro che in realta' sono i nostri stessi bisogni. Questo significa pero' capovolgere l'ottica all'interno di ogni corpo professionale, ponendo il problema prioritario della disuguaglianza e del conflitto che essa produce come radice con cui ogni disciplina deve confrontarsi (ed e' sulla pratica che si verifica questo incontro-scontro quotidiano), o continueremo a restare nell'ambito di diversita' piu' o meno naturali, oggetto di elezione delle diverse discipline, in cui nessuna soggettivita' trova posto tranne quella del tecnico e dei pazienti ad alto livello contrattuale. In questo contesto i diritti conquistati si limiterebbero all'accesso a settori sempre piu' vasti di tecniche specialistiche, di istituzioni differenziate sempre piu' parcellizzate, dove l'interezza del corpo e la sofferenza dell'uomo sono ignorate o delegate ad altri, ad una solidarieta' che rischia di riproporre la vecchia faccia della carita' o del mercato. Il che continuerebbe a consentire che il conflitto, l'inquietudine, il rischio, la diversita', abbiano i loro spazi e i loro esperti, sicche' non emergano come contraddizioni dell'umano e, soprattutto, che non risulti evidente quanto spesso si accompagnino alla disuguaglianza sociale, alla disparita' nelle opportunita' di vita e nei diritti di cittadinanza, all'impossibilita' soggettiva di esprimersi. Tutto questo in nome del progresso, dimenticando pero' che il progresso ha sempre comportato anche un regresso in quanto e' sempre costruito a spese di qualcuno, ma e' anche costruito sulla perdita di valori comuni, forme di aggregazione, punti di riferimento unificanti, qualita' di vita e di rapporti. Un progresso teso solo allo sviluppo della tecnologia e del profitto ha bisogno di frantumare ogni elemento unificante, di distruggerlo per poter contare su una individualita' di azioni e di interessi, di bisogni e di egoismi, che si avvicini il piu' possibile al modello di vita proposto e imposto. Il calcolo dei costi/benefici cancella la dialettica tra progresso e regresso, nel momento stesso in cui il beneficio coincide con il profitto, con il consumo che lo consente e che occorre promuovere, e con la conferma dell'onnipotenza del modello, mentre il "costo" resta sempre lo scarto, la perdita in termini umani di chi e' fuori gioco. Se non si arriva a questa consapevolezza, una tecnologia sempre piu' spinta risultera' vincente, continuando a proporre una immagine onnipotente della scienza e degli esperti che sembra sempre piu' cancellare la morte dalla vita, quasi si potesse morire solo di eutanasia, o per offrire i propri organi per i trapianti. Con questo non intendo sottovalutare l'importanza della tecnologia medica. Voglio solo ricordare che la morte fa parte della vita e, a maggior ragione, ne e' parte la malattia, nel senso che quanto piu' e' nostra, nelle nostre mani anche quando abbiamo bisogno di aiuto, tanto piu' possiamo dominarla. La storia della psichiatria occidentale ci ha insegnato a difenderci da cio' che non e' nella norma. Ma si e' dimostrato praticamente che spostando o non tenendo conto delle ristrettezze dei limiti di norma (Goffmann parlava della banalita', delle scorrettezze che portano all'avvio della carriera di malato mentale), rompendo il pregiudizio, c'e' meno paura e se ne trasmette meno, quindi anche meno necessita' di escludere e di allontanare. L'esclusione non fa che aggravare e sovrapporre altri elementi ad uno stato di sofferenza gia' in atto, e renderlo sempre meno comprensibile e piu' compatto. La questione viene dunque spostata da cio' che e' stato definito "incomprensibile" alla capacita' di chi deve comprendere, reggere lo sforzo che richiede e ricavarne insieme l'arricchimento, un alimento anche per la comprensione di se'. * 3. Note conclusive Da quanto ho fin qui sostenuto, si puo' dire che l'orrore dei manicomi non scompare solo per legge e soprattutto non "riemerge" solo nella vecchia forma istituzionale ma nella manicomialita' che si reistituzionalizza anche nei nuovi servizi, nelle contenzioni che sono riaccettate come "naturali" perche' risultano "necessarie", nell'assenza di progetti e di speranze comuni, e questo vale tanto per i sani che per i malati. Per questo occorrono una politica e una cultura professionale che siano convinti della necessita' scientifica e semplicemente etica e umana di voler un cambiamento che si e' rivelato possibile. Ma occorrono anche partecipazione, vigilanza, governo reale della riforma e disponibilita' a capire che si tratta di un cambiamento radicale che mette in discussione ciascuno di noi, la societa' intera e i suoi valori non soltanto nell'ambito della psichiatria. In molti casi invece si assiste ad un cambio di etichetta, da "struttura psichiatrica" a "centro di riabilitazione" e le cose restano esattamente come prima, come se per la "riabilitazione" non valessero gli stessi principi di rispetto, di recupero, di reale abilitazione alla vita del degente. La partecipazione della popolazione cambia se vede che cambiano le risposte, i servizi, se vede compresi i suoi bisogni, se sa dove andare in caso di necessita', chi chiamare, su chi contare. Se comprende che veramente ci si prende carico dei suoi problemi e si rispettano i suoi diritti. E' vero che tutto questo fa parte di una cultura che ha bisogno di tempo, ma sono passati piu' di venti anni dalla riforma e quaranta dalla prima esperienza di Gorizia. La cultura del cambiamento agisce nell'atto stesso in cui si cambia, ma per agire occorre convinzione perche' se una legge impone e non realizza e' difficile che convinca. La cultura di un cambiamento che veramente si vuole, che veramente si cerca, e' una cultura che pone problemi via via che li affronta. Cioe' che vive nella tensione continua verso un progetto comune che si sposta via via che si agisce producendo il cambiamento anche delle domande. Negli anni di battaglia, la tensione nello scontro e' sempre stata unificante e contagiosa. Il contagio e' stato allora produttore di altre esperienze che crescevano con le stesse qualita'. Forse la loro generalizzazione che e' andata sviluppandosi dal '68 in poi avrebbe potuto procedere piu' attraverso quel contagio che attraverso una legge che la imponeva e che tuttavia e' risultata necessaria. Cio' che si e' salvato di questi anni, anche in questa epoca di semplificazioni e di appiattimento delle contraddizioni, e' la forza della testimonianza: se la cosa e' stata possibile, se e' stato ed e' ancora possibile rispondere in modo diverso alla sofferenza mentale, se e' stata completamente smentita la necessita' scientifica e politico-sociale dell'internamento, se e' stato possibile radere al suolo il manicomio e la manicomialita' attraverso la creazione di risposte vere, vicine alla sofferenza della popolazione, coinvolgendo la popolazione stessa in questa operazione, cio' significa avere infranto le certezze di una scienza e di una politica che continuano a tutelare discriminazione e disuguaglianza. Per questo si e' sempre parlato di liberazione piu' che di guarigione. Credo si sia quasi sempre trattato di una scuola di convivenza con la sofferenza, di rispetto, di riappropriazione di se', di spazi di autonomia anche se con i sostegni necessari, di riconquista di diritti di cittadinanza soprattutto, ma non solo, per gli internati in manicomio. Il dolore, la sofferenza sono parte della vita anche nelle persone che si definiscono o sembrano normali. Alcune, sempre piu' spesso, non reggono questa sofferenza perche' spesso il vivere supera gli stessi argini che vi si oppongono. Pure ho visto anche cosa vuoI dire e cosa produce per persone variamente sofferenti, essere parte di un progetto, di una speranza comune di vita, coinvolti in una azione comune dove ti senti preso in un intreccio pratico, intellettuale, affettivo, in cui serieta' ed allegria si mescolano e i problemi tuoi si sciolgono o fanno parte anche dei problemi di altri con cui li condividi. E allora anche salute e malattia possano mescolarsi con una qualita' della vita che sia umana, con legami, rapporti, riconoscimento di se' e dell'altro, complicita' nel progetto comune che potrebbe unirci anziche' dividere e isolare. Ma se tutto questo e' stato possibile, significa anche che ora ricade su tutti la responsabilita' di continuare a cercare e, per me, per quelli che sanno che cosa siano stati la forza ed il significato di questo cambiamento, di continuare a testimoniarlo, continuando a metterlo in pratica. (Parte seconda - Fine) ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 71 del 6 luglio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1348
- Next by Date: La nonviolenza e' in cammino. 1349
- Previous by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1348
- Next by thread: La nonviolenza e' in cammino. 1349
- Indice: