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Nonviolenza. Femminile plurale. 70
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 70
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 29 Jun 2006 11:41:28 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 70 del 29 giugno 2006 In questo numero: 1. Franca Ongaro Basaglia: Fondamenti teorici e culturali della riforma psichiatrica in Italia (parte prima) 2. Giovanna Providenti: Madri contro le guerre 3. In uscita a settembre "La nonviolenza delle donne" a cura di Giovanna Providenti 1. MAESTRE. FRANCA ONGARO BASAGLIA: FONDAMENTI TEORICI E CULTURALI DELLA RIFORMA PSICHIATRICA IN ITALIA (PARTE PRIMA) [Dal sito www.asiamente.it riprendiamo il seguente intervento. Franca Ongaro Basaglia, intellettuale italiana di straordinario impegno civile, pensatrice di profondita', finezza e acutezza straordinarie, insieme al marito Franco Basaglia e' stata tra i protagonisti del movimento di psichiatria democratica; e' deceduta nel gennaio 2005. Tra i suoi libri segnaliamo particolarmente: Salute/malattia, Einaudi, Torino 1982; Manicomio perché?, Emme Edizioni, Milano 1982; Una voce: riflessioni sulla donna, Il Saggiatore, Milano 1982; Vita e carriera di Mario Tommasini burocrate scomodo narrate da lui medesimo, Editori Riuniti, Roma 1987; in collaborazione con Franco Basaglia ha scritto La maggioranza deviante, Crimini di pace, Morire di classe, tutti presso Einaudi; ha collaborato anche a L'istituzione negata, Che cos'e' la psichiatria, e a molti altri volumi collettivi. Ha curato l'edizione degli Scritti di Franco Basaglia. Dalla recente antologia di scritti di Franco Basaglia, L'utopia della realta', Einaudi, Torino 2005, da Franca Ongaro Basaglia curata, riprendiamo la seguente notizia biobibliografica, redatta da Maria Grazia Giannichedda, che di entrambi fu collaboratrice: "Franca Ongaro e' nata nel 1928 a Venezia dove ha fatto studi classici. Comincia a scrivere letteratura infantile e i suoi racconti escono sul "Corriere dei Piccoli" tra il 1959 e il 1963 insieme con una riduzione dell'Odissea, Le avventure di Ulisse, illustrata da Hugo Pratt, e del romanzo Piccole donne di Louise May Alcott. Ma sono gli anni di lavoro nell'ospedale psichiatrico di Gorizia, con il gruppo che si sta raccogliendo attorno a suo marito Franco Basaglia, a determinare la direzione dei suoi interessi e del suo impegno. Nella seconda meta' degli anni '60 scrive diversi saggi con Franco Basaglia e con altri componenti del gruppo goriziano e due suoi testi - "Commento a E. Goffman. La carriera morale del malato di mente" e "Rovesciamento istituzionale e finalita' comune" - fanno parte dei primi libri che documentano e analizzano il lavoro di apertura dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, Che cos'e' la psichiatria (1967) e L'istituzione negata (1968). E' sua la traduzione italiana dei testi di Erving Goffman Asylums e Il comportamento in pubblico, editi da Einaudi rispettivamente nel 1969 e nel 1971 con saggi introduttivi di Franco Basaglia e Franca Ongaro, che traduce e introduce anche il lavoro di Gregorio Bermann La salute mentale in Cina (1972). Dagli anni '70 Franca Ongaro e' coautrice di gran parte dei principali testi di Franco Basaglia, da Morire di classe (1969) a La maggioranza deviante (1971), da Crimini di pace (1975) fino alle Condotte perturbate. Nel 1981 e 1982 cura per Einaudi la pubblicazione dei due volumi degli Scritti di Franco Basaglia. Franca Ongaro e' anche autrice di volumi e saggi di carattere filosofico e sociologico sulla medicina moderna e le istituzioni sanitarie, sulla bioetica, la condizione della donna, le pratiche di trasformazione delle istituzioni totali. Tra i suoi testi principali, i volumi Salute/malattia. Le parole della medicina (Einaudi, Torino 1979), raccolta delle voci di sociologia della medicina scritte per l'Enciclopedia Einaudi; Una voce. Riflessioni sulla donna (Il Saggiatore, Milano 1982) che include la voce "Donna" dell'Enciclopedia Einaudi; Manicomio perche'? (Emme Edizioni, Milano 1982); Vita e carriera di Mario Tommasini burocrate scomodo narrate da lui medesimo (Editori Riuniti, Roma 1987). Tra i saggi, Eutanasia, in "Democrazia e Diritto", nn. 4-5 (1988); Epidemiologia dell'istituzione psichiatrica. Sul pensiero di Giulio Maccacaro, in Conoscenze scientifiche, saperi popolari e societa' umana alle soglie del Duemila. Attualita' del pensiero di Giulio Maccacaro, Cooperativa Medicina Democratica, Milano 1997; Eutanasia. Liberta' di scelta e limiti del consenso, in Roberta Dameno e Massimiliano Verga (a cura di), Finzioni e utopie. Diritto e diritti nella societa' contemporanea, Angelo Guerrini, Milano 2001. Dal 1984 al 1991 e' stata, per due legislature, senatrice della sinistra indipendente, e in questa veste e' stata leader della battaglia parlamentare e culturale per l'applicazione dei principi posti dalla riforma psichiatrica, tra l'altro come autrice del disegno di legge di attuazione della "legge 180" che diventera', negli anni successivi, testo base del primo Progetto obiettivo salute mentale (1989) e di diverse disposizioni regionali. Nel luglio 2000 ha ricevuto il premio Ives Pelicier della International Academy of Law and Mental Health, e nell'aprile 2001 l'Universita' di Sassari le ha conferito la laurea honoris causa in Scienze politiche. E' morta nella sua casa di Venezia il 13 gennaio 2005"] Parlare dei fondamenti teorici e culturali della riforma psichiatrica in Italia, credo richieda qualche accenno, per quanto sintetico, alla storia da cui si proviene, storia che puo' chiarire molti degli elementi su cui si e' giocato il processo di cambiamento ancora in atto oggi e a serio rischio di essere bloccato. Dividero', dunque, questa mia relazione in tre momenti: 1. un primo cenno introduttivo sull'evoluzione dell'atteggiamento nei confronti della follia che ha portato alla nascita della psichiatria e delle sue istituzioni fino alla legge di riforma del 1978; 2. un secondo paragrafo sulla filosofia della riforma e sul suo sviluppo; 3. note conclusive. Vorrei tuttavia aprire sottolineando alcuni articoli della nostra Costituzione, la cui presenza in questa analisi servira' da griglia interpretativa di cio' su cui andremo ragionando. "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita' e garantisce cure gratuite agli indigenti", cosi' recita l'art. 32 della nostra Costituzione del 1948. Dando per scontato che "gli altri" avessero comunque altri mezzi per tutelarsi personalmente, si sanciva allora l'esistenza di una medicina per i ricchi e una per i poveri che sarebbero state inevitabilmente diverse cosi' come erano sempre state. Tuttavia l'art. 3 della Costituzione affronta la contraddizione, aggiungendo un elemento di stimolo al superamento di questa macroscopica disuguaglianza di opportunita', stabilendo che "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione". E continua: "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Trent'anni dopo, nel '78, la legge di riforma sanitaria, frutto di lotte sociali e di conquiste di nuovi diritti (ricordiamo in quegli anni i movimenti per i diritti delle donne, degli anziani, dei giovani, dei malati di mente, dei detenuti, ecc.) conferma che "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita' mediante il servizio sanitario nazionale...", ma continua poi affermando l'impegno al "mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzioni di condizioni individuali e sociali e secondo modalita' che assicurino l'eguaglianza dei cittadini nei confronti dei servizi". "La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignita' e della liberta' della persona". (art. 1 della legge 833 del 31/12/1978). Dai '48 al '78, l'art. 3 della Costituzione non aveva dunque ancora portato al riconoscimento esplicito di uguali diritti a tutti i cittadini rispetto alla tutela della salute, dato che continuavano ad esistere - anche attraverso le diverse forme di mutualita' - diversita' di trattamento. La riforma sanitaria (preceduta da anni di battaglie e di esperienze nell'ambito dell'assistenza psichiatrica che avevano portato alla promulgazione della legge 180, successivamente in essa inglobata), fu dunque una grande conquista nel portare alla ribalta il problema dell'eguaglianza di diritti dei cittadini, introducendo un fattore che, indirettamente, si trovava ad incidere sulla disuguaglianza sociale: il problema della prevenzione della malattia che avrebbe dovuto prendere in considerazione anche gli elementi socio-ambientali ed economici presenti nella produzione e nell' evoluzione degli stati morbosi. Si e' trattato, dunque, di una cultura nuova che portava in primo piano la complessita' dei bisogni e la sofferenza della persona, sia da un punto di vista strettamente organico che psichico. Cultura che ha anticipato quello che l'Organizzazione mondiale della sanita' solo nel 1986, alla conferenza di Ottawa (Canada), ha incominciato a porre come problema fondamentale: lo spostamento di ottica verso un modello di salute ecologico e sociale che agisca essenzialmente su cio' che produce malattia. * 1. Evoluzione storica dell'atteggiamento nei confronti della follia Fino alla fine del '700, i folli, gli stravaganti, i pazzi, i deficienti o i menomati vivevano nella comunita' o venivano rinchiusi nella prigioni quando commettevano atti dannosi alla collettivita'. Nella miseria generale in cui viveva il popolo, un pazzo, un idiota o un ritardato mentale potevano trovare il loro posto, dato che nel panorama di indigenza, fame, malattia e sporcizia, il volto della follia o della menomazione poteva essere facilmente confuso con quello della miseria. La follia faceva comunque parte della cultura del gruppo e non ne era separata. Se poi il pazzo compiva un atto delittuoso, veniva semplicemente rinchiuso in carcere ad espiare la sua colpa insieme al delinquente, perche' come tale veniva considerato. Con l'evolversi delle conoscenze dell'uomo, anche l'atteggiamento nei confronti della pazzia muta. Si incomincia a comprendere che un pazzo non puo' essere ritenuto responsabile dei suoi atti e non puo' essere segregato e incatenato come un delinquente. Alla fine del '700, all'Ospedale Bicetre di Parigi fu, infatti, proposta dallo psichiatra Philippe Pinel l'abolizione delle catene agli alienati e la loro separazione dai delinquenti. Da questa separazione, che fu definita la prima rivoluzione psichiatrica, nacquero i manicomi. Nacquero quindi da un gesto scientifico e umanitario insieme, poiche' per la prima volta il folle veniva considerato un malato da curare e veniva riconosciuta la necessita' di tutelarlo dalla sua stessa malattia, che non poteva essere punita come un delitto compiuto "in perfetta coscienza". Tuttavia, nonostante il riconoscimento della loro malattia, i pazzi continuarono a venire segregati in luoghi non molto diversi dalle prigioni, dove l'elemento determinante resto' sempre la pericolosita' reale e presunta del comportamento folle, insieme alla classe di appartenenza di chi veniva internato, cioe' l poveri. La follia di chi puo' far fronte in proprio ai problemi di salute e di malattia, si esplica infatti altrove, fuori dal territorio in cui le risposte o sono collettive o non esistono: il denaro le da' toni stravaganti e bizzarri, finche' non intacca gli interessi patrimoniali e quindi si fa essa stessa "misera". La malattia, individuata dalla scienza medica nel groviglio della sragione e della colpa, veniva quindi trasferita dalla sfera della punizione a quella di una cura che continuava ad essere punizione, perche' cio' che non mutava in questo trasferimento era la miseria che la costituiva e che determinava il carattere essenziale del rapporto che si continuo' ad intrattenere con essa. Istituti assistenziali, brefotrofi, ospizi per vecchi, manicomi, carceri, sono stati aspetti separati di un unico problema: la miseria (quindi la mancanza di diritti) che doveva conservarsi tale anche quando la si soccorreva. Pur avendo dichiarato di sua competenza la follia nel riconoscerla come "malattia", la scienza medica non era comunque riuscita ad individuarne le origini. Prigioniera del principio filosofico che considerava l'uomo scisso in due parti distinte e separate - lo spirito e la materia - la medicina studiava il corpo ritenendolo pura materia, cioe' un "oggetto" da analizzare, smembrare e indagare. Cio' che cercava era un'alterazione organica che, studiata con lo stesso metodo con cui le scienze naturali indagavano i loro oggetti di studio, potesse giustificare lo smarrimento della ragione. Ma se l'uomo e il suo comportamento sono sempre il prodotto della contemporanea presenza di elementi di carattere biologico, psicologico-affettivo e sociale, questa ricerca non porto' mai a risultati concreti, sicche' la psichiatria, nel suo nascere e svilupparsi come scienza medica, si e' di fatto limitata a definire e a classificare le diverse forme patologiche, senza approdare ad un'esatta conoscenza delle loro cause, quindi senza riuscire ad individuare quale poteva esserne la cura piu' adeguata. Per centocinquant'anni le cure praticate nei manicomi consistevano in tecniche violente che dovevano servire a controllare e a prevenire la pericolosita' del pazzo o a scuoterlo dalla totale apatia. Camicie di forza che immobilizzavano il malato agitato, docce fredde che dovevano sedare i suoi impulsi aggressivi, bagni prolungati fino a dodici ore al giorno, per 15 o 20 giorni (il malato veniva bloccato in una vasca con la testa imprigionata in un collare di legno), sedie rotanti che provocavano vertigini ed uno stato di indebolimento generale, bagni a sorpresa attuati mediante complessi sistemi di trabocchetti che facevano precipitare il malato in acqua, pompe che lo immobilizzavano e lo stordivano sotto potenti getti d'acqua, irrigazioni (un filo d'acqua fredda lasciato colare sulla testa del paziente, immerso in un bagno caldo), revulsivi che tendevano a provocare un aumento di afflusso sanguigno, tecniche di soffocamento (si buttava sulla testa del malato un lenzuolo bagnato - cosi' da impedirgli di respirare - e lo si avvitava strettamente all'altezza del collo: la perdita di coscienza era immediata. Questa tecnica, chiamata la "strozzina", resto' in uso fino agli anni piu' recenti - e spero sia scomparsa), tecniche terrorizzanti per provocare uno stato di panico o una reazione all'apatia (si consigliava di appendere i malati ad una corda e di lasciarli penzolare per qualche tempo, mentre si sparavano nelle vicinanze colpi improvvisi di pistola e si facevano esplodere fuochi d'artificio), massaggi meccanici ed elettrici, manette di ferro, manopole e cinture in cuoio e ferro, le forme piu' svariate di sonde per alimentare forzatamente chi rifiutava il cibo. Tutte queste tecniche furono, solo in parte, soppiantate successivamente dalle terapie di shock (malarioterapia, insulinoterapia ed elettroshock) che si fondavano sullo stesso principio: provocare artificialmente, attraverso il passaggio della corrente elettrica o per mezzo di farmaci, perdita di coscienza o una crisi epilettica che avrebbero dovuto interrompere il corso della malattia. Dalle descrizioni di tali tecniche traspare chiaramente che cosa e' stato il manicomio: una violenza continua attuata ai danni del malato e giustificata dalla terapia. Ma risulta anche chiaro che c'era ben poco di terapeutico in queste forme di tortura legalizzata. Se questa era la terapia, la psichiatria doveva brancolare nel buio piu' nero, pur riconoscendosi uno statuto di scientificita'. Inoltre l'abitudine a considerare il pazzo come un corpo malato, consentiva di ignorare che ogni sua reazione a un tipo di vita piu' pesante di quella carceraria, potesse avere un significato al di la' della malattia. Tanto la violenza come l'apatia possono essere il segno del rifiuto di una vita invivibile, disumana, quando non si hanno altri mezzi per evitarla: ma tutto quanto accade, una volta varcata la soglia del manicomio, viene imputato alla malattia, come segno della gravita' delle condizioni del malato. Pure e' proprio sulla base delle manifestazioni patologiche espresse all'interno del manicomio che sono state costruite le diverse classificazioni e definizioni delle sindromi psichiatriche (Kraepelin). L'epoca in cui si da' l'avvio alla creazione dei manicomi e alle prime interpretazioni scientifiche della follia (grosso modo all'inizio dell'800), coincide con un momento storico che fu determinante nell'evoluzione dell'umanita': la nascita dell'era industriale. Questo fatto, che ha sconvolto il modo di produzione e l'organizzazione del lavoro, ha - per quanto riguarda il problema della malattia mentale - conseguenze importanti. Finche' il grado di efficienza richiesto per far parte della comunita' era minimo, pochi ne venivano esclusi perche' anche i piu' sprovveduti e i piu' deboli potevano trovare, all'interno del gruppo, un modo di sopravvivenza, non molto diverso dai modi di sopravvivenza di tutto il popolo. La produzione industriale richiede pero' un grado di efficienza piu' elevato e non tutti sono all'altezza delle nuove esigenze. Inoltre richiama mano d'opera dalle campagne nelle citta', dove gente sradicata dalle proprie origini, dalle proprie tradizioni e usanze, si trova ad affrontare un tipo di lavoro e di vita totalmente estraneo. In queste condizioni il disadattamento nei confronti di un'esistenza sempre piu' difficile, dove le regole di comportamento si vanno facendo sempre piu' rigide, aumenta e puo' esprimersi anche con forme di rifiuto, di sofferenza e di impotenza che possono tradursi in disturbo psichico. Quando il valore essenziale su cui si fonda la societa' diventa il lavoro produttivo (e il profitto che deve contenere), "normale" diventa tutto cio' che risponde alle esigenze del mondo del lavoro e che contribuisce efficacemente alla produzione e al profitto; "anormale" tutto cio' che lo intralcia. I senza tetto, gli straccioni, i disoccupati, i vecchi, i malati, gli alcolizzati, i ritardati mentali, i ribelli che affollano le strade delle citta' "industriose" sono sempre piu' spinti ai margini della vita sociale ed espulsi da ogni possibilita' di parteciparvi. Per loro e' sempre piu' difficile sopravvivere in una realta' che, anziche' aiutarli a trovare un posto adeguato alle loro capacita', che possono essere anche inferiori alle richieste e tuttavia esistono, li allontana facendoli precipitare in una situazione piu' dura e senza vie d'uscita. Essi rappresentano una minaccia alla tranquillita', all'ordine: la loro miseria ostentata nelle strade e' di pubblico scandalo, le loro abitudini oziose sono moralmente riprovevoli. Quando, nel 1904, in Italia si vara la prima legge sugli alienati fondata sulla "pericolosita' a se' e agli altri" e sul "pubblico scandalo", le motivazioni del nuovo statuto che regola l'assistenza ai malati di mente fanno preciso riferimento a queste masse incontrollate che gravitano dalle campagne nelle citta'; elemento di disordine, di conflitto e di ribellione, ma anche presenza evidente della miseria, della disoccupazione e della disgregazione sociale, conseguenti a miseria e disoccupazione. La pellagra, malattia prodotta da denutrizione e fame, era allora diffusissima, soprattutto nell'Italia del Nord, dove la coltivazione del mais, piu' redditizia per i padroni, aveva sostituito le altre colture diversificate, costringendo i contadini ad un unico tipo di alimentazione: la polenta. Tra i vari sintomi organici, la pellagra poteva presentare clamorosi quadri psichici, idee deliranti, stati maniacali. Fu allora piu' semplice ricoverare la gente in manicomio in quanto "pazza", che ammettere che nel nostro paese ci si ammalava e si impazziva per denutrizione e fame, perche' tale ammissione avrebbe comportato la necessita' di prendere misure politiche e sociali per arginare la fame. I manicomi cominciarono ad affollarsi di questi denutriti - malati che sono, in sostanza, i poveri, mangiatori di polenta, privi delle proteine necessarie -, o gli alcolizzati che cercavano di uscire dalla miseria dimenticandola, e di molti bambini epilettici (nel manicomio di Venezia, nelle cartelle cliniche dei primi anni del '900, la maggioranza delle diagnosi era "pellagroso", cui corrispondeva la condizione economica di "miserabile"). La psichiatria si trovo' cosi' a coprire, con la diagnosi psichiatrica, la poverta' in cui le classi popolari erano costrette a vivere. Perche' se e' vero che il manicomio e' il luogo dove approdava la pazzia e' anche vero che vi approdava solo la pazzia dei poveri. L'altra follia, quella di chi disponeva anche di mezzi economici e culturali, disponeva di altri luoghi e presentava un'altra evoluzione, un altro decorso, un altro esito. Inoltre secondo la legge del 1904 l'internamento veniva segnato sulla fedina penale, sicche' i poveri, che non avevano altra soluzione, venivano marchiati da questo evento, come da qualcosa di infamante che non potevano cancellare. Una volta dimessi (se e quando venivano dimessi), difficilmente avrebbero trovato lavoro: in tutti i documenti sarebbe risultato da dove provenivano, il che' li dichiarava pubblicamente pazzi e pericolosi a vita (questa misura fu cancellata soltanto nel 1968, con la legge Mariotti che apri' anche la via al "ricovero volontario" in ospedale psichiatrico). Si puo' dunque sostenere che nel manicomio sia stata realmente internata e soprattutto curata la follia? O non sarebbe piu' giusto dire che il manicomio ha contenuto e nascosto la marginalita', quindi la poverta' e la miseria che non riuscivano a sopravvivere alla durezza e alla sofferenza, rappresentando insieme un elemento di disturbo sociale? Il fatto che in manicomio ci siano stati e ci siano solo i poveri, potrebbe spiegare anche perche' non vi abbia mai avuto accesso la psicanalisi. La scoperta dell'inconscio attuata da Freud alla fine dell'800, fu considerata la seconda rivoluzione psichiatrica dopo quella di Pinel, nel riconoscere la possibilita' della follia come parte della natura umana, le cui cause psicologiche erano da rintracciare in traumi infantili. La scoperta dell'inconscio ha messo dunque in discussione la vecchia psichiatria che continuava a cercarne la causa solo in un organo malato. Ma queste teorie non hanno mai varcato le porte dei manicomi. Si tratta di tecniche terapeutiche di cui hanno potuto usufruire coloro che ne condividevano il linguaggio, il codice di riferimento. Chi poteva interessarsi di indagare, di sapere come e perche' soffrono i poveri? Sarebbero venute alla luce troppe cose che avevano poco a che fare con i traumi infantili. In quegli anni l'intera storia di quella gente era un trauma. Agli occhi della psichiatria, gli internati in manicomio - nonostante la scoperta del peso della storia individuale del malato - hanno continuato ad essere considerati solo un corpo da contenere e reprimere, perche' la scoperta dell'inconscio e delle cause psicologiche della malattia non li ha mai riguardati. Il problema della critica alla violenza del manicomio non si e', comunque, posto solo nel secolo appena trascorso. Da quando esiste, c'e' sempre stato qualcuno che ne ha denunciato la crudelta' gratuita e che ha tentato di impostare un rapporto diverso con il malato di mente. In Inghilterra, un contemporaneo di Pinel, William Tuke, aveva fondato a York un istituto chiamato "Il Rifugio", dove non esistevano ne' costrizioni, ne' catene, e i malati venivano liberamente in questa comunita' che li proteggeva. Sempre in Inghilterra, nel 1830, lo psichiatra John Conolly aveva dimostrato che era possibile trattare umanamente i malati e che la malattia stessa si manifestava in modo meno clamoroso con il "trattamento morale" da lui adottato: si trattava di un rapporto educativo nei confronti dei pazienti, che dovevano imparare a vivere con gli altri e a rispettarsi reciprocamente. Erano casi sporadici che duravano quanto durava la vita o l'attivita' dei loro promotori, perche' nessuno ne continuo' poi l'esempio. Tuttavia, il fatto che fosse praticamente dimostrato che era possibile trattare diversamente questi malati, serviva a confermare che il manicomio non era l'unico modo di affrontare il problema, e che costrizioni, catene, camicie di forza, violenze, punizioni e minacce potevano essere sostituite da un rapporto di fiducia e di speranza nei confronti del malato e della malattia; che se il malato viene trattato senza ricorrere alla violenza, difficilmente sara' violento lui stesso. Dopo la seconda guerra mondiale incominciano, soprattutto in Inghilterra (ad opera di Maxwell Jones) e in Francia (ad opera di Tosquelles e del gruppo di psicoterapia istituzionale) le prime critiche sistematiche al manicomio. E, piu' tardi, le prime interpretazioni della malattia mentale come malattia prodotta dalla societa', interpretazioni queste sancite dalla nascita negli anni '60 della psichiatria sociale. Dalla ricerca di un organo malato da parte della vecchia psichiatria positivista all'indagine sulle cause psicologiche delle teorie di Freud, si e' giunti a individuare le cause sociali della malattia, sempre pero' mantenendo separata una causa dall'altra, a ciascuna disciplina il suo settore di competenza, mentre l'uomo e' contemporaneamente corpo, psiche e animale sociale. Questo e' il punto cruciale della nostra analisi, il fondamento della nostra azione. I primi tentativi di affrontare diversamente la malattia mentale sono inoltre contemporanei alla scoperta (negli anni '50) di farmaci capaci di sedare e controllare gli stati acuti. Si parlo' allora di una scoperta che avrebbe rivoluzionato la psichiatria, dato che i nuovi farmaci erano in grado - cosi' si diceva - di mutare la faccia del malato di mente. Ma, usati all'interno del manicomio, all'interno delle sue regole feroci e punitive, essi servirono soltanto a rendere totalmente passivo l'internato, senza che questa passivita' venisse utilizzata per iniziare un reale rapporto con lui. I farmaci possono essere e sono utili se usati come uno strumento: sedando la fase acuta, essi possono consentire l'avvio di un rapporto con il malato, che faciliti la comprensione dei suoi problemi, delle sue difficolta'. Presi a se', come unica risorsa alla sofferenza, diventano un'altra camicia di forza che imprigiona l'internato e lo lega sempre piu' alla malattia e al manicomio. Anche tutto cio' che produce il farmaco (stato di torpore, intontimento, sonnolenza, passivita' e apatia) sara' sempre riconosciuto come espressione dello stato morboso. Inoltre, se i farmaci avessero davvero potuto cambiare la faccia del malato, come avevano promesso, dagli anni '50 non sarebbe stato piu' necessario l'internamento, ne' sarebbe stato piu' necessario ricorrere alle camice di forza e ai mezzi di contenzione: che invece continuarono ad essere usati, nonostante i farmaci, perche' cio' che si doveva abbattere erano il manicomio e la sua logica distruttiva e senza speranza che condizionavano ogni nuovo intervento. All'inizio degli anni '60 si incomincio' la battaglia contro il manicomio. La prima reazione a quell'orrore fu certamente una risposta etica di fronte alle condizioni di vita in cui si costringevano esseri umani gia' sofferenti, ipotizzando (o sperando) che l'internato fosse cio' che il manicomio lo faceva diventare. Mutando il manicomio e le sue gratuite violenze la faccia del malato e della malattia sarebbero cambiate? Nei primi dieci anni di lavoro a Gorizia, l'ipotesi veniva via via confermata attraverso la riabilitazione della maggior parte degli internati che incominciarono ad essere dimessi. Ma per chi non aveva piu' famiglia, casa, lavoro occorreva trovare soluzioni diverse: appartamenti in cui sistemare gruppi di dimessi; sussidi per chi non poteva lavorare o non trovava lavoro; centri di salute mentale che potessero seguire gli ex degenti nei loro problemi quotidiani, nelle loro difficolta' di inserimento, di vita. Ma per far questo occorreva che la battaglia fosse allargata su scala nazionale, coinvolgere l'opinione pubblica, e fare in modo che anche questi temi - il manicomio, la segregazione, la violenza cui i malati erano sottoposti, essenzialmente in quanto privi di risorse economiche e culturali - diventassero patrimonio delle lotte per la .salute in fabbrica, nei luoghi di lavoro, nelle case, negli ospedali. Fu questo ad allargare il campo d'azione a consentire di incominciare ad incidere sulla vecchia cultura che si era sempre limitata a spostare i problemi in luoghi adatti in cui contenerli. Il carattere scientifico ma anche politico di questa battaglia, il legame degli operatori con le forze sociali impegnate in un cambiamento, oltre al coinvolgimento della popolazione, sono cio' che ha prodotto la nuova legge sull'assistenza psichiatrica che fu approvata quasi all'unanimita' e successivamente inglobata nella riforma sanitaria. Essa prevede - come e' noto - il blocco delle nuove ammissioni in manicomio, il graduale svuotamento degli ospedali psichiatrici attraverso l'istituzione di "servizi di diagnosi e cura" negli ospedali generali per l'intervento diagnostico, sottolinea la obbligatorieta' dell'operatore alla presa in carico del paziente e non la obbligatorieta' della custodia; la creazione di strutture extraospedaliere (case, appartamenti, luoghi protetti, servizi territoriali e di reinserimento). Scompare il concetto di pericolosita' della malattia, il cui grado di gravita' viene relativizzato in rapporto alla capacita' dei nuovi servizi di far fronte al problema. Cosi' come il "trattamento sanitario obbligatorio" viene attuato solo nei casi in cui non si riesca ad ottenere il consenso del malato. Queste le linee essenziali di una riforma che, spezzato il vecchio rapporto fra psichiatria e giustizia, tende a togliere contemporaneamente dalle mani dello specialista la gestione esclusiva del problema del disturbo psichico, coinvolgendo la comunita' in un cambio di atteggiamento culturale nei confronti di ogni forma di diversita'. Essa cioe' parte dal presupposto che e' cio' che socialmente e culturalmente si fa del biologico e dello psicologico a condizionare il destino della gente, quindi dalla necessita' di tener conto di tutte le variabili sociali, economiche, esistenziali che contribuiscono al peggioramento o al miglioramento della situazione. Un esempio: un handicappato fisico nel cui handicap si riconosca un carattere di irreversibilita' (un cerebroleso, un mongoloide, ecc.) e' escluso dalla vita sociale sulla base dell'inefficienza che gli produce l'handicap, cioe' sulla base della sua diversita' naturale rispetto alla "norma". Ma e' soprattutto l'atto di esclusione che ne condiziona l'evoluzione, nell'impedirgli di sviluppare il massimo di efficienza consentitogli dall'handicap da cui e' affetto, quindi nel costringerlo al suo minimo possibile di espressione e di attivita'. In questo consiste l'erosione e l'espropriazione che l'esclusione sociale attua ai suoi danni. L'enfasi viene dunque posta sull'istituzione dei nuovi servizi, ma anche sulla creazione, attraverso i servizi stessi, di un nuovo modo, piu' partecipe, piu' solidale, di vivere il rapporto fra servizi e utenti. Dove la legge e' stata attuata, a partire dall'esperienza di Trieste che ne e' stata la base di avvio, al posto del manicomio esistono Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, in cui la malattia viene presa in carico attraverso la presa in carico di tutti i problemi di carattere biologico, psicologico e sociale presenti nel disturbo psichico. Un approccio diverso che comporti un ricovero breve - nel momento della crisi - in un servizio ospedaliero con compito essenzialmente diagnostico (servizio di diagnosi e cura), il passaggio in un centro di salute mentale che sia centro sociale e di aggregazione oltre che di cura e riabilitazione, o in una casa protetta che abbia le stesse finalita', non lasciano le pesanti conseguenze provocate da un internamento. Impedendo il ricovero ospedaliero, si assiste infatti ad un cambiamento nello stesso manifestarsi della malattia, perche' nel momento in cui la crisi viene vissuta senza l'angoscia che la accompagnava quando veniva solo repressa e compressa, puo' esprimersi come esperienza comunicabile di vita e non solo di malattia, quindi come esperienza meno angosciosa e piu' comprensibile. Disporre di alcuni letti di degenza nei centri di salute mentale, che non sono servizi rigidamente medici, ma luoghi di soggiorno, di cura, di aggregazione e di risocializzazione, o in piccole comunita' assistite, consente di affrontare il problema senza relegare, quindi dimenticare, in luoghi appositi i casi piu' difficili. Misura questa che si e' rivelata capace di impedire il processo di cronicizzazione implicito ed inevitabile nell'internamento. Puo' questa finalita' di intenti essere affidata ad un privato speculativo? In una ricerca da me fatta parecchi anni fa sulle esperienze di vent'anni di lotta all'emarginazione a Parma, nella fase di smantellamento del manicomio, dalle varie testimonianze e dai dati raccolti, e' risultato chiaro che i momenti di tensione e di partecipazione vera al processo di cambiamento in atto, avevano comportato una riduzione della "malattia", una scomparsa dei sintomi e del conseguente bisogno di farmaci e di ricoveri ospedalieri. Negli stessi luoghi, con le stesse persone, nei momenti di calo o di riflusso in cui vincono inerzia, passivita', burocrazia amministrativa, ruoli e funzioni, riaffiorano sofferenza, necessita' di farmaci e di ricovero ospedaliero. Questo sembra un dato estremamente significativo sulla malattia, su cio' che vuoI dire curare e cio' che vuoI dire guarire. Il che non significa negare l'esistenza di una sofferenza che ha bisogno di aiuto, ma significa capire cio' che ha prodotto l'averla oggettivata e chiusa in una "malattia", staccandola da cio' in rapporto al quale nasce e si sviluppa. (Parte prima - Segue) 2. RIFLESSIONE. GIOVANNA PROVIDENTI: MADRI CONTRO LE GUERRE [Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) riprendiamo il seguente articolo. Giovanna Providenti (per contatti: g.providenti at uniroma3.it) e' ricercatrice nel campo dei peace studies e women's and gender studies presso l'Universita' Roma Tre, saggista, si occupa di nonviolenza, studi sulla pace e di genere, con particolare attenzione alla prospettiva pedagogica. Ha due figli. Partecipa al Circolo Bateson di Roma. Scrive per la rivista "Noi donne". Ha curato il volume Spostando mattoni a mani nude. Per pensare le differenze, Franco Angeli, Milano 2003, e pubblicato numerosi saggi su rivista e in volume, tra cui: Cristianesimo sociale, democrazia e nonviolenza in Jane Addams, in "Rassegna di Teologia", n. 45, dicembre 2004; Imparare ad amare la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione, in M. Durst (a cura di), Identita' femminili in formazione. Generazioni e genealogie delle memorie, Franco Angeli, Milano 2005; L'educazione come progetto di pace. Maria Montessori e Jane Addams, in Attualita' di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2004. Scrive anche racconti e ha in cantiere un libro dal titolo Donne per, sulle figure di Jane Addams, Mirra Alfassa e Maria Montessori] Questo "grande enigma, grande tabu'", cosi' definisce il materno la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, accostandolo al velo delle donne da lei raccontate. La maternita' e' un fatto di donne: eppure molte sono state, e continuano ad essere, le usurpazioni maschili alla madre: attraverso una cultura che ne nega il valore, o lo esaspera nella mistica patriarcale, o anche attraverso una eccessiva medicalizzazione del momento del parto, fino ad arrivare al recente tecnicismo del momento della procreazione. Su questi temi le femministe non sono tutte d'accordo tra loro. Ma si stanno impegnando a rifletterci, come mostra, tra l'altro, il ciclo di incontri organizzato dal Circolo della Rosa di Milano, dal titolo "Tra il matricidio e il monumento alla madre: la politica delle donne" (www.libreriadelledonne.it). E come mostra la tendenza di sempre piu' donne a recuperare il valore della naturalita' di procreazione e parto, contrastando l'eccesso di progresso scientifico e scegliendo di stare dalla parte delle "madri selvagge". * Ma procediamo con ordine: tra le femministe, c'e' chi per evitare di cadere nella retorica maschilista della maternita' preferisce evitare l'argomento, chi invece si appella al potere della madre, all'ordine simbolico della madre, per recuperare una cultura femminile dalla radice. E una analoga contraddizione si ritrova tra le pacifiste: da una parte coloro che aborriscono la medaglia al valore militare appuntata sul petto della madre del soldato caduto e dell'altra le donne che, proprio a partire dal simbolo della madre donatrice di vita, si oppongono alla guerra e a ogni forma di violenza. Tra queste ultime sono molte coloro che hanno fondato organizzazioni politiche di una certa influenza nel loro paese. Come le "Madri dei soldati russi", nata negli anni Novanta, e recentemente diventata un partito politico, attiva nel denunciare le violenze fisiche e psicologiche cui sono sottoposti i militari di leva e le disumane condizioni dei soldati mandati nella guerra in Cecenia. La stessa equazione madre=vita usa l'associazione "Madri contro la pena di morte e le tortura", fondata nel 2000 da Tamara Chikunova, in un paese come l'Uzbekistan, in cui ogni anno vengono eseguite piu' di 200 condanne a morte, e dove l'organizzazione delle madri con le sue denunce coraggiose ha dato luce ad un nuovo indirizzo politico di opposizione al regime. Motivando il suo attivo impegno, Tamara Chikunova, madre rinata ad una nuova consapevolezza in seguito alla esecuzione capitale del figlio, dichiara: "Non riesco a permettere a me stessa di lasciarmi andare, perche' penso che nessuna madre debba sopportare le mie stesse sofferenze. Mi rivolgo a voi a nome di tutte le madri dell'Uzbekistan e di ogni parte del mondo, perche' questa violenza contro la vita umana possa essere cancellata". Il lutto materno, da cui scaturisce solidarieta' e sorellanza tra donne, l'appello in nome di tutte le madri del mondo, ed anche la forza sempre piu' emergente e politicamente significativa di queste organizzazioni che stanno nascendo in paesi difficili, come Russia e Uzbekistan, richiama le piu' note battaglie delle Donne in nero e l'esperienza delle Madri di Plaza de Mayo, nata in Argentina ai tempi dei desaparecidos... E richiama la storia del femminismo pacifista americano, fin dai tempi della fine della guerra civile, in cui, come pochi sanno, fu stabilita come ricorrenza di protesta la "festa della mamma", da parte di madri che avevano perduto i loro figli in guerra. Molti gruppi di donne pacifiste americane - come ci ricorda Maria G. Di Rienzo nei suoi molti articoli scritti sull'argomento - riconoscono quale loro ispiratrice colei che, nel 1870, lancio' questa idea scrivendo il "Proclama del Giorno della Madre": Julia Ward Howe, la quale cosi' si pronunciava un secolo e mezzo fa: "I nostri figli non ci verranno sottratti affinche' disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro sulla carita', la pieta' e la pazienza. Noi donne di una nazione proviamo troppa tenerezza per le donne di una qualsiasi altra nazione, per permettere che i nostri figli siano addestrati a ferire i loro". * Oggi negli Stati Uniti emerge la figura di Cindy Sheehan, che, con la semplicita' di una madre addolorata che chiede la causa per cui suo figlio e' morto, ha ultimamente denunciato a chiare lettere i risvolti dispotici e totalitari di uno stato democratico come gli Usa. In particolare Sheehan fa ricorso al concetto di "matriottismo", di origine femminista, in contrapposizione al patriottismo radicato nel patriarcato. Mentre i patrioti, spesso inconsapevolmente, vanno a morire in guerre che servono a riempire i conti in banca di pochi, "i matrioti combattono le loro battaglie quando devono, ma non fanno uso di violenza per risolvere i conflitti". E scrive ancora Sheehan: "il matriottismo si situa all'opposto, non per distruggere, ma per portare assieme lo yin e lo yang, e gettar fuori di bilancia il militarismo connesso al patriottismo. Non tutte le persone sono madri, ma c'e' una verita' universale che nessuno puo' contestare, per quanto ci si metta (e credetemi, alcuni lo faranno), e cioe' che tutti hanno una madre. Le madri danno la vita e, se il bambino e' fortunato, le madri nutrono la vita. Se un uomo ha avuto una madre che ha nutrito la vita, allora ha gia' una base di 'matriottismo'. Un matriota maschio o femmina ama il suo paese, ma non al punto di dire 'sto con il mio paese che abbia ragione o abbia torto'... il matriota sa che il suo paese e' in torto quando ha ucciso migliaia e migliaia di innocenti esseri umani, e deve risponderne. Un vero matriota non lancera' mai una bomba atomica, o bombe al fosforo bianco, radendo al suolo citta' e villaggi, e non guidera' aeroplani a migliaia di chilometri di distanza per uccidere uomini, donne e bambini innocenti" (Cindy Sheehan, 22 gennaio 2006, trad. di M. G. Di Rienzo). Questo tipo di contrapposizione posta da una donna come la Sheehan, non appartenente alla militanza femminista, ma nata in un paese in cui il femminismo e' storicamente radicato, ci ricorda una insindacabile, pur se piccola, verita': il tipo di materno cui fanno appello le molte donne che, a partire dal loro essere madri, protestano contro la guerra, la pena di morte e le ingiustizie sociali, non e' il materno della mistica e della retorica patriarcale. Di piu': e' una concezione ed una pratica della maternita', intesa come scelta e non come destino, possibile solo a partire dalla progressiva liberazione compiuta dalle donne grazie al femminismo e grazie ad una loro attiva e significativa partecipazione alla vita politica e sociale... * Le donne che si oppongono alla violenza in quanto madri, donatrici di vita, sono quel "corpo sociale che trova una qualche sintesi", scaturito grazie alla assunzione di una nuova coscienza politica, cui fa riferimento Luisa Muraro nel suo L'ordine simbolico della madre, dove leggiamo anche: "Prima della politica delle donne, molta esperienza femminile era corpo selvaggio. Per questa esperienza, che e' fuori dall'ordine sociale o vi e' dentro ma infelicemente, c'e' solo un ordine simbolico possibile: il riferimento all'autorita' della madre. Questa rappresenta infatti il principio che ha in se' la piu' grande capacita' di mediazione, poiche' riesce ad immettere nel circolo della mediazione il nostro essere corpo insieme al nostro essere parola". Non la mistica della maternita', ma la madre, come corpo sociale o corpo selvaggio, ci interessa valorizzare. Mettere insieme corpo e parola, dolore e denuncia, pratica e teoria. Come quando a idee antimilitariste e femministe si accostino concrete pratiche di disobbedienza nonviolenta, come fanno le organizzazioni delle madri nelle varie parti del mondo. E questa mi sembra una buona ragione per appellarsi al materno, distinguendosi dalla retorica faziosa dei movimenti conservatori... 3. LIBRI. IN USCITA A SETTEMBRE "LA NONVIOLENZA DELLE DONNE" A CURA DI GIOVANNA PROVIDENTI [Ringraziamo Giovanna Providenti (per contatti: g.providenti at uniroma3.it) per la seguente segnalazione] E' in stampa il volume La nonviolenza delle donne, a cura di Giovanna Providenti, "Quaderni Satyagraha", Libreria Editrice Fiorentina 2006, a fine luglio dovrebbe essere pronto, a settembre sara' disponibile al convegno di Pisa sulla nonviolenza e anche, si spera, nelle librerie. Inoltre sara' nelle vostre case se vi abbonate alla rivista "Quaderni Satyagraha", oppure se richiedete il volume. Per l'acquisto del volume (16 euro) o l'abbonamento 2006 alla prestigiosa rivista italiana di studi sulla nonviolenza "Quaderni Satyagraha" (30 euro), il versamento e' possibile attraverso bollettino postale sul conto corrente n. 000019254531 intestato a "Centro Gandhi associazione per la nonviolenza onlus", via Santa Cecilia 30, 56127 Pisa. * Indice del volume: Lidia Menapace - Giovanna Providenti, Tra femminismo e nonviolenza: un dialogo tra generazioni diverse; Giovanna Providenti, Introduzione. La libera aggiunta femminista. Riflessioni: Luisa Muraro, La forza in campo dell'amore: per un uso pensante delle differenze; Giovanna Providenti, La rispondenza delle donne alla nonviolenza; Valeria Ando', Nonviolenza e pensiero femminile: un dialogo da iniziare; Patrizia Caporossi, Il dono della liberta' femminile; Fabrizia Abbate, Il tempo al femminile. l'attesa, la cura, la cittadinanza pacifica; Debora Tonelli, Donne e nonviolenza: il ruolo di Debora nella vittoria di Israele; Elisabetta Donini, La rete delle Donne in nero: tra capacita' e limiti, tra locale e globale; Luisa Del Turco, Le donne e la comunita' internazionale: pratiche politiche e strategie. Pratiche: Donne dal Sud del mondo costruttrici di pace; Ada Donno, Donne di pace arabe ed ebree nel conflitto israelo-palestinese; Federica Ruggiero, Pratiche di resistenza delle donne nel genocidio rwandese; Sandra Endrizzi, La pace che viene da sud: donne ed economie che cambiano la vita; Luana Pistone, Il fiocco rosa e le spose bambine. Storie di donne e di resistenza nonviolenta in Bangladesh; Itala Ricaldone, Vasantha, le scuole, le donne: un percorso in espansione con l'Assefa; Diego Marani, Donne sudanesi realizzatrici di pace; Esperienze nonviolente di donne instancabili; Cecilia Brighi, Aung San Suu Kyi: un Nobel per la pace agli arresti domiciliari; Adriana Chemello, Maria Occhipinti: la "donna di Ragusa"; Monica Lanfranco, Femminismi, nonviolenza, reticenze: un'esperienza di formazione italiana; Giancarla Codrignani, Donne, diplomazie, nonviolenza: donne con la volonta' concreta di cambiare; Maria G. Di Rienzo, Per cosa mio figlio va a morire? Il linguaggio semplice delle madri statunitensi; Elena Zdravomyslova, Il Movimento delle madri dei soldati in Russia; Giovanna Providenti, Un'esperienza nonviolenta in una comunita' femminile. Recensioni: Valeria Ando', L'ape che tesse. Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci, Roma 2005; Sandra Endrizzi, Pesci piccoli. Donne e cooperazione in Bangladesh, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Francesca Brezzi, Antigone e la Philia. Le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, Milano 2004; Marlene Tuininga, Donne contro le guerre. Femminile plurale nonviolento, Nord Sud. * Le lotte delle donne rivolte alla propria liberazione sono sempre state nonviolente. E sono moltissime le donne, oggi come ieri, che creano reti tra loro, lasciando da parte ostilita' e barriere, e opponendosi alle guerre. Recuperando contenuti e pratiche femministe, e raccontando esperienze, politiche ed esistenziali, di donne rivolte all'essenziale (e per questo instancabili e profonde costruttrici di pace) questo volume si propone come un dono: il contributo che la liberta' femminile sta offrendo per la realizzazione di un mondo aperto all'esistenza, allo sviluppo e alla liberta' autentica di ogni essere. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 70 del 29 giugno 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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