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Nonviolenza. Femminile plurale. 69
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 69
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 22 Jun 2006 11:09:53 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 69 del 22 giugno 2006 In questo numero: 1. Anita Sonego: No 2. Silvia Vegetti Finzi: Il linguaggio del corpo. Un colloquio 3. Elena Loewenthal presenta "Il golem" di Moshe Idel 1. EDITORIALE. ANITA SONEGO: NO [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente appello. Anita Sonego e' la presidente della Libera Universita' delle Donne di Milano; nata nel 1945 in provincia di Treviso studia e si laurea alla Cattolica a Milano dove nel '68 partecipa al movimento degli studenti entrando, quindi, nel gruppo del "Manifesto"; iscritta alla Cgil-scuola insegna nelle scuole medie dell'hinterland e successivamente alle 150 ore; lascia poi la militanza partitica partecipando al movimento delle donne; nel 1987 fonda, assieme ad altre, la Libera Universita' delle Donne di cui e' presidente dal 1998; nel 1996 ha dato vita al gruppo "Soggettivita' lesbica"] Carissime, e' con estrema preoccupazione che scrivo questa lettera a tutte le socie e amiche della Libera Universita' delle Donne. Domenica 25 e lunedi' 26 giugno andremo a votare su una proposta di cambiamento della nostra Carta Costituzionale. Questa proposta si caratterizza, tra l'altro, per due gravissimi aspetti: 1. un grande accentramento dei poteri nelle mani del Presidente del Consiglio che contrasta con ogni richiesta di diffusione delle forme della partecipazione e dell'allargamento degli spazi democratici; 2. La dissoluzione (attraverso la cosiddetta "devolution") del concetto di convivenza e comune cittadinanza, di uguale dignita' e diritti di tutti e tutte. Se ogni Regione potra' decidere del proprio sistema scolastico e sanitario dove andra' a finire quell'uguaglianza di diritti che noi donne abbiamo considerato la base per la dignita' e la liberta' non solo nostra ma di tutti gli esseri umani discriminati e ai quali viene impedito l'accesso paritario all'istruzione, alla salute, al lavoro? Le donne lottano da molti anni per una maggiore partecipazione alla vita politica e per una societa' in cui la liberta' femminile abbia come presupposto la parita' dei diritti. Per questo questa riforma costituzionale riguarda moltissimo anche le donne. E' la prima volta che, quale presidente, mi assumo la responsabilita' di chiedere a socie e amiche di schierarsi. In questo caso non si tratta di opzioni partitiche ma di una scelta politica che tiene conto di tutta la nostra storia e delle lotte di tutto il movimento delle donne per la liberta' e l'emancipazione. Per questo, con la consapevolezza dell'importanza di questo referendum e dei suoi esiti, ti chiedo di votare "no" allo stravolgimento autoritario ed egoistico della nostra Costituzione... Un saluto cordialissimo, Anita Sonego 2. RIFLESSIONE. SILVIA VEGETTI FINZI: IL LINGUAGGIO DEL CORPO. UN COLLOQUIO [Dal sito www.emsf.rai.it riprendiamo il seguente colloquio tenuto il 10 marzo 1999 da Silvia Vegetti Finzi con le studentesse e gli studenti del Liceo classico "Michelangiolo" di Firenze e trasmesso dalla Rai il 16 novembre 1999 nel programma "Il Grillo". Su Silvia Vegetti Finzi dal sito dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.emsf.rai.it) riprendiamo la seguente notizia biografica: "Silvia Vegetti Finzi e' nata a Brescia il 5 ottobre 1938. Laureatasi in pedagogia, si e' specializzata in psicologia clinica presso l'Istituto di psicologia dell'Universita' cattolica di Milano. All'inizio degli anni '70 ha partecipato a una vasta ricerca internazionale, progettata dalle Associazioni Iard e Van Leer, sulle cause del disadattamento scolastico. Inoltre ha lavorato come psicoterapeuta dell'infanzia e della famiglia nelle istituzioni pubbliche. Dal 1975 e' entrata a far parte del Dipartimento di Filosofia dell'Universita' di Pavia ove attualmente insegna psicologia dinamica. Dagli anni '80 partecipa al movimento femminista, collaborando con l'Universita' delle donne 'Virginia Woolf' di Roma e con il Centro documentazione donne di Firenze. Nel 1990 e' tra i fondatori della Consulta (laica) di bioetica. Dal 1986 e' pubblicista del 'Corriere della Sera' e successivamente anche di 'Io donna' e di 'Insieme"' Fa parte del comitato scientifico delle riviste: 'Bio-logica', 'Adultita'', 'Imago ricercae', nonche' dell'Istituto Gramsci di Roma, della 'Casa della cultura' di Milano, della 'Libera universita' dell'autobiografia' di Anghiari. Collabora inoltre con le riviste filosofiche 'Aut Aut' e 'Iride'. Molti suoi scritti sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco e spagnolo. E' membro dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, della Societa' italiana di psicologia; della Societe' internationale d'histoire de la psychoanalyse. Nel 1998 ha ricevuto, per i suoi scritti di psicoanalisi, il premio nazionale 'Cesare Musatti', e per quelli di bioetica il premio nazionale 'Giuseppina Teodori'. Sposata con lo storico della filosofia antica Mario Vegetti, ha due figli adulti, Valentina e Matteo. Gli interessi di Silvia Vegetti Finzi seguono quattro filoni: il primo e' volto a ricostruire una genealogia della psicoanalisi da Freud ai giorni nostri, intesa non solo come storia del movimento psicoanalitico ma anche come storia della cultura; il secondo, una archelogia dell'immaginario femminile, intende recuperare nell'inconscio individuale e nella storia delle espressioni culturali, elementi di identita' femminile e materna cancellati dal prevalere delle forme simboliche maschili: a questo scopo ha analizzato i sogni e i sintomi delle bambine, i miti delle origini, i riti di iniziazione femminile nella Grecia classica, le metafore della scienza, l'iconografia delle Grandi Madri; il terzo delinea uno sviluppo psicologico, dall'infanzia all'adolescenza, che tenga conto anche degli apporti psicoanalitici. Si propone inoltre di mettere a disposizione, tramite una corretta divulgazione, la sensibilita' e il sapere delle discipline psicologiche ai genitori e agli insegnanti; il quarto, infine, si interroga sulla maternita' e sugli effetti delle biotecnologie, cercando di dar voce all'esperienza e alla sapienza delle donne in ordine al generare". Tra le opere di Silvia Vegetti Finzi: (a cura di), Il bambino nella psicoanalisi, Zanichelli, Bologna 1976; (con L. Bellomo), Bambini a tempo pieno, Il Mulino, Bologna 1978; (con altri), Verso il luogo delle origini, La Tartaruga, Milano 1982; Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano 1986; La ricerca delle donne (1987); Bioetica, 1989; Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Mondadori, Milano 1990; (a cura di), Psicoanalisi al femminile, Laterza, Roma-Bari 1992; Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme, Mondadori, Milano 1992; (con altri), Questioni di Bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993; (con Anna Maria Battistin), A piccoli passi. La psicologia dei bambini dall'attesa ai cinque anni, Mondadori, Milano 1994; Freud e la nascita della psicoanalisi, 1994; (con Marina Catenazzi), Psicoanalisi ed educazione sessuale, Laterza, Roma-Bari 1995; (con altri), Psicoanalisi ed identita' di genere, Laterza, Roma-Bari 1995; (con Anna Maria Battistin), I bambini sono cambiati. La psicologia dei bambini dai cinque ai dieci anni, Mondadori, Milano 1996; (con Silvia Lagorio, Lella Ravasi), Se noi siamo la terra. Identita' femminile e negazione della maternita', Il Saggiatore, Milano 1996; (con altri), Il respiro delle donne, Il Saggiatore, Milano 1996; Volere un figlio. La nuova maternita' fra natura e scienza, Mondadori, Milano 1997; (con altri), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1997; Il fantasma del patriarcato, Alma Edizioni, 1997; (con altri), Fedi e violenze, Rosenberg & Sellier, 1997; (con Anna Maria Battistin), L'eta' incerta. I nuovi adolescenti, Mondadori, Milano, 2000; Parlar d'amore, Rizzoli, Milano 2003; Silvia Vegetti Finzi dialoga con le mamme, Fabbri, Milano 2004; Quando i genitori si dividono, Mondadori, Milano 2005] - Silvia Vegetti Finzi: Sono Silvia Vegetti Finzi, vivo a Milano e insegno psicologia dinamica all'Universita' di Pavia. Durante la mia ricerca ho avuto piu' volte a che fare con esperienze relative al linguaggio del corpo: la prima volta che mi sono imbattuta nell'argomento e' stato quando ho scritto una storia della psicoanalisi. Come ben saprete - soprattutto se avete confidenza con i film di Woody Allen - durante la terapia lo psicanalista invita il paziente a stendersi sul lettino in modo che i loro sguardi non si incrocino e i loro gesti rimangano nascosti l'uno all'altro. Questa pratica mette "tra parentesi" il corpo e le sue capacita' espressive a favore della parola. Nella storia delle passioni, il silenzio cui vengono costretti i linguaggi prettamente corporei indica una concezione particolare: la passione viene intesa come un qualcosa di costantemente "recitato" e caratterizzato da gesti plateali, mentre il sentimento e' visto come un qualcosa di sussurrato e flebile, che si rivolge piu' che altro alla comprensione del mondo interiore. Prima di cominciare a trattare l'argomento, vediamo la scheda filmata che hanno preparato per noi. * Scheda: Nel Gargantua di Rabelais, Pantagruel sostiene che con i gesti si producono meno equivoci che con le parole. Secondo Pantagruel il linguaggio dei gesti non e' convenzionale alla stessa stregua quello delle parole. A dimostrazione di cio', racconta a Panurge la seguente storia: "Tiridate, re d'Armenia, ai tempi di Nerone visito' Roma, e fu ricevuto con solenni onori e magnifiche pompe, al fine di intrattenerlo in sempiterna amicizia col Senato e col popolo romano. E non ci fu cosa memorabile della citta' che non gli fosse mostrata e spiegata. Alla sua partenza l'imperatore gli fece doni grandi e strabocchevoli e inoltre gli concesse quello che gli piacesse di piu' in Roma, con la promessa e il giuramento di non negarglielo qualunque cosa domandasse. E quello domando' solamente un attore di farse che aveva visto a teatro - perche', senza intendere quello che diceva recitando, lui aveva capito tutto ugualmente per mezzo dei suoi segni e gesti -, allegando che sotto il suo dominio vivevano popoli di diversi linguaggi, per rispondere e parlare ai quali gli erano necessari numerosi interpreti, ma che quello li', da solo, sarebbe bastato per tutti, perche' eccelleva talmente nell'arte di significare quei gesti, che sembrava che parlasse con le dita". Veramente, come affermava il re d'Armenia, il linguaggio del corpo e' universale e identico in tutte le culture? Oppure anch'esso, come ogni sistema di segni, nasce dall'uso ed e' quindi, al pari delle lingue, diverso secondo le civilta'? Oltretutto al giorno d'oggi alle diverse lingue corrispondono quasi sempre degli Stati differenti. Un comune linguaggio del corpo non potrebbe indicare un'area culturale comune che non coincide con l'identificazione moderna di lingua e stato nazionale? * - Studentessa: Vorrei iniziare la discussione prendendo in esame l'oggetto che abbiamo scelto come simbolo della trasmissione: una camicia di forza, con riferimento al "fenomeno delle isteriche" dell'Ottocento e degli inizi del Novecento. Le "isteriche" erano donne che tentavano di uscire dalle costrizioni imposte loro dalla societa' tramite una gestualita' molto forte - a volte eccessiva - e attraverso un uso massiccio del linguaggio corporeo. La camicia di forza rappresenta la reazione della societa' a tali comportamenti: le isteriche venivano internate alla Salpetriere e la' i medici tentavano di curarle e analizzarle come potevano. Ma la camicia di forza potrebbe assumere un qualche significato anche nei confronti del linguaggio del corpo in generale, il quale, nella nostra cultura, viene sempre piu' svalutato: nel teatro contemporaneo, ad esempio, si e' partiti da una forte fisicita' per arrivare al teatro borghese di Ibsen, in cui la stessa fisicita', se proprio non scompare, viene di molto ridimensionata. Inoltre la camicia di forza vuole rappresentare il modo in cui i medici si rapportavano alle pazienti: essi tentavano di classificare e di rinchiudere entro schemi ben prefissati i diversi significati che le isteriche intendevano dare ai loro gesti. Secondo il metodo delle "attitudini professionali", ad ogni movimento corrispondeva invariabilmente un preciso significato, scelto in base ad un criterio prettamente razionale. In realta', il tentativo di comunicare di queste donne agiva attraverso un processo inconscio, e le loro movenze potevano variare di significato in relazione al contesto e alla persona con cui avevano a che fare. A cosa e' dovuto questo tentativo di annullare la gestualita', di privarla del suo significato piu' profondo, di sminuire le sue componenti inconsce e, conseguentemente, di rinchiuderla entro schemi eccessivamente razionali che non le permettono di esprimersi in maniera autonoma? - Silvia Vegetti Finzi: La domanda si riferisce a un luogo ben preciso: la Salpetriere di Parigi, una grande clinica psichiatrica che nella seconda meta' dell'Ottocento ospitava circa diecimila ricoverati. Tra questi si contavano quattromila donne, di cui parecchie erano isteriche. L'isteria si manifestava soprattutto in ragazze molto giovani, provenienti da ambienti poveri e degradati, e veniva diagnosticata dopo che la donna aveva dato in escandescenze in vari modi. Dapprincipio tali sintomi furono stimati come un problema di ordine pubblico da risolversi con il carcere, in seguito l'atteggiamento verso queste persone si fece molto piu' moderato e l'isteria venne classificata come anomalia psichica. Le donne colpite da isteria potevano dar fuoco alla propria casa o camminare sui cornicioni: la famosa figura della sonnambula, ad esempio, e' un personaggio che nasce proprio in questi anni. Ben si capisce come comportamenti del genere potessero risultare problematici per la collettivita'. E' per tale motivo che - da una certa data in poi - il malessere, il disagio e l'insofferenza rappresentata da queste donne venne descritta come una malattia: le istituzioni trovarono subito una modalita' per tradurre il fenomeno nei loro codici, e fu cosi' che una delle "cure" adottate nei confronti delle isteriche fu la camicia di forza, o camicia di contenzione. Questo strumento venne talmente interiorizzato dalle malate che a volte, non appena sentivano il sopravvenire di una crisi, erano loro stesse a richiederlo. Oltre alla camicia furono adottate altre terapie, che attualmente appaiono quanto meno fantasiose: il suono del diapason e del tamburo, i bagni freddi, le scosse elettriche, l'uso di droghe di ogni genere dagli effetti non ben conosciuti. Si compivano delle prove: era un campo sperimentale di dominio e di controllo del corpo. Al giorno d'oggi la camicia di forza - un tipo di contenzione troppo plateale - e' sparita dalle cliniche psichiatriche, cio' non di meno essa viene spesso sostituita dalla contenzione chimica, un tipo di controllo piu' subdolo praticato tramite gli psicofarmaci. Risulta ben evidente, quindi, come anche la storia delle cliniche psichiatriche occidentali sia una storia di progressiva contenzione e regolazione del corpo. * - Studentessa: La contenzione del corpo, pero', non avviene solo nelle cliniche psichiatriche: come lei ha detto in precedenza, la stessa terapia analitica tende a nascondere le espressioni corporee, tanto del paziente quanto dell'analista. - Silvia Vegetti Finzi: La nostra e' una societa' che privilegia la parola e gli scambi simbolici a discapito del corpo, che ne risulta quasi "rattrappito". Il mal di schiena, ad esempio, e' un dolore di cui tutti - chi piu' chi meno - hanno sofferto, proprio perche' si tratta di una contrazione fisica cui corrisponde anche una contrazione mentale. Nel continuo passaggio dalle passioni ai sentimenti, la nostra interiorita' si e' devitalizzata: le passioni mirano a cambiare il mondo, mentre i sentimenti vogliono mutare innanzitutto la nostra intimita', i piu' stretti rapporti privati, la nostra economia psichica. A questo proposito sarebbe bene vedere una seconda scheda. * Scheda a) Da Le supplici di Eschilo: - Voce (d'uomo): Le vesti non sono greche - Voce (d'altro uomo): I vetri e le bende che li adornano sono stranieri! b) Da Casa di bambola di Ibsen: - Voce (di donna): No! Nessuno, e' naturale, non puo' venire nessuno nel giorno di Natale! E neanche due! Forse... - Voce (della stessa donna): Non c'e' niente. Non puo' essere che egli faccia sul serio. E' impossibile! Ho tre bambini! * - Silvia Vegetti Finzi: Dal confronto tra una tragedia del teatro classico - Le supplici di Eschilo - e una dramma contemporaneo - Casa di bambola di Ibsen -, emerge la differenza nell'uso del corpo e del linguaggio considerato come gesto. Nelle tragedie greche e' presente una sorta di "urlo": il corpo si lancia in una contesa radicale, in una passione incontenibile che lo porta a vivere o a morire. Nella tragedia intimistica borghese, invece, sono in gioco i sentimenti ed e' messo in scena il disagio piu' che la sopravvivenza. In Casa di bambola, Nora - la protagonista - se ne va perche' non riesce a far comprendere le sue esigenze in seno alla famiglia e a mutare la sua situazione interna: sente di non avere piu' la forza per cambiare il mondo. Questa forza, invece, e' ben presente nelle tragedie greche: dopo che la vicenda si e' conclusa, nulla rimane uguale a prima, tutti i rapporti di forza sono messi in discussione. Da questa constatazione pare che la capacita' di imporsi del soggetto moderno risulti indebolita rispetto al soggetto antico, il quale continua ad esercitare potere su di se' e sul mondo. * - Studentessa: In precedenza ha affermato che nella societa' contemporanea il linguaggio parlato risulta preponderante rispetto a quello gestuale: non e' forse possibile che, nell'Ottocento, le isteriche reagissero ad una comunicazione essenzialmente razionale tramite un linguaggio del corpo a base inconscia? Viste in quest'ottica, tali donne non risulterebbero piu' malate, ma semplicemente divergenti rispetto alla pratica comunicativa maggiormente utilizzata. - Silvia Vegetti Finzi: Quello di malattia e' un concetto molto vago e duttile che cambia in relazione alle epoche storiche e ai contesti. Per cio' che concerne le isteriche, bisogna innanzitutto evidenziare che erano delle donne, ovvero dei soggetti che tradizionalmente sono stati legati alla casa e che per molto tempo non hanno avuto accesso alla cultura e alla socializzazione allo stesso modo degli uomini. In qualche maniera, all'epoca le donne costituivano dei "residui storici". Nel momento in cui si sviluppo' l'enorme processo di industrializzazione della citta' di Parigi - che proprio nel corso dell'Ottocento divenne una grande metropoli e si connoto' come un polo d'attrazione per le campagne, rendendo possibile l'industrializzazione su larga scala e le catene di montaggio -, vi fu una sempre maggiore richiesta di mano d'opera duttile e divento' necessario che anche le donne si inserissero nelle fabbriche. All'interno dell'industria tessile, ad esempio, lavorarono quasi esclusivamente donne e bambini; in proposito Marx affermo': "Servono delle membra molto sottili per introdursi negli ingranaggi". Le donne, pero', dovevano essere recuperate a livello di mano d'opera tramite delle rapidissime forme di "disciplinamento". Quale forma risulta migliore del definire dei gesti anomali come malattia? Essendo il gesto dichiarato patologico a livello di cultura generale, esso venne repentinamente a rattrappirsi. Il corpo divento' duttile e si arrese alla meccanizzazione della gestualita' in vista del rendimento. Si tratto' di una grave perdita: se si osservano le fotografie delle isteriche conservate nell'archivio della Salpetriere, si puo' notare come queste donne avessero un repertorio gestuale estremamente ricco, quasi che tutta la storia della cultura si fosse concentrata nelle loro membra. Alcune posture sembra siano tratte dalle rappresentazioni sacre, dalle icone religiose o dalla gestualita' forense. Tutte queste forme comunicative, che per diversi motivi si erano manifestate nelle pazienti della Salpetriere, furono catalogate attraverso la strana espressione di "attitudini passionali" - una locuzione utilizzata per le statue barocche -, considerate patologiche e archiviate: in tal modo vennero celebrati i funerali della gestualita' tradizionale. Le attuali esperienze teatrali - dopo la parentesi del teatro borghese, in cui viene messa in scena una fisicita' "rattrappita" - tentano di recuperare il gesto e di drammatizzarlo in vari modi, ad esempio attraverso i mimi. * - Studentessa: A me pare che il diverso atteggiamento dell'eroe greco nei confronti della gestualita' manifesti anche un diverso rapporto con la realta': egli e' tutto proiettato verso l'esterno in maniera "oggettiva" e propositiva, mentre il protagonista contemporaneo tende all'intimismo e alla chiusura in se stesso. Qual e' la sua opinione in proposito? - Silvia Vegetti Finzi: Mi sembra che lei ci abbia fornito un'indicazione molto utile sul senso difensivo della rinuncia al gesto. In proposito Wilhelm Reich - uno dei maggiori psicoanalisti mai esistiti - parlo' di "corazza caratteriale" e affermo' che: "il corpo e' chiuso a guscio su se stesso. Abbiamo sempre i muscoli e le vertebre contratti perche' l'aspetto difensivo della corporeita' prevale su quello propositivo e su quello espressivo". Forse abbiamo perduto fiducia e speranza nella possibilita' di com-prenderci nel senso etimologico del termine, ossia di prenderci l'uno dentro l'altro. E' venuta meno l'empatia, quel tipo di relazione che risulta cosi' forte tra madre e neonato: quest'ultimo, infatti, comunica essenzialmente con il pianto e con la gestualita' e non utilizza dei linguaggi strutturati, ciononostante la madre non fatica a comprendere quello di cui lui ha bisogno. Tale fiducia - che, fortunatamente, ancora sussiste nel primo rapporto tra madre e figlio - non e' piu' cosi' riscontrabile e in alcuni casi viene perfino considerata sconveniente. Se una persona gesticola troppo puo' essere giudicata fastidiosa, se non addirittura brutta e ignorante. Non dimentichiamo che l'inquadratura dominante nei notiziari televisivi e' il mezzo busto: ogni minimo gesto dello speaker viene valutato e analizzato. Posture del genere sono emblematiche di un corpo irrigidito e stanco. Una delle espressioni piu' brutte che la nostra capacita' di rappresentazione abbia mai creato, ad esempio, e' la foto-tessera, ciononostante la societa' vuole proprio che noi ci comportiamo come se stessimo sempre per fare una foto-tessera: l'ideale e' quello della staticita', della rigidita'. * - Studente: Finora si e' operata la distinzione tra linguaggio verbale - razionale e codificato - e linguaggio gestuale - principalmente basato sull'irrazionalita' -. Esiste una grammatica del linguaggio gestuale, una sorta di "razionalita' irrazionale" che serva a codificarlo? - Silvia Vegetti Finzi: Sicuramente: si tratta di un codice, di una retorica del linguaggio gestuale. "Fare le corna", ad esempio, e' un gesto comprensibilissimo con forte significato emotivo che in un'altra cultura potrebbe non assumere alcun significato. Cio' che veicola il gesto e' una potente passionalita', tanto che se abbiamo intenzione di offendere qualcuno ci riesce molto piu' facile farlo a gesti piuttosto che a parole: questo avviene perche' la gestualita' ha un'immediatezza che il linguaggio verbale non conosce. E' proprio per tale motivo che il gesto provoca tanto timore e deve essere costantemente disciplinato. Fin da bambini - soprattutto se si e' femmine - veniamo intimati a non muoverci in questo o in quell'altro modo, e a scuola dobbiamo mantenere le braccia conserte e osservare la lavagna: veniamo costretti a guardare nella stessa direzione e ad assumere un'identica postura. Nei convitti religiosi nell'Ottocento, le ragazze dovevano trattenere dei coperchi sotto le ascelle quando si sedevano a tavola per mangiare, in modo che i gomiti restassero vicini al busto e non si allargassero in maniera sconveniente. In tali casi viene elaborata una sorta di "ortopedia del corpo", che non tarda a coincidere anche con una "ortopedia della mente", dato che compiere gesti inconsulti significa anche mostrare in modo eccessivo le proprie emozioni. Penso che tutti noi conosciamo abbastanza bene esortazioni come "trattieniti", "controllati", "non piangere, "non ridere troppo": nel caso delle bambine alla lista va aggiunto "stai composta", perche' il corpo femminile deve rappresentare il controllo di se' al massimo grado, mentre ai maschi si concede piu' disinvoltura. La preparazione del corpo maschile e femminile obbediscono a codici diversi. Il corpo maschile e' stato tradizionalmente perfezionato attraverso l'esercizio delle armi - sebbene al giorno d'oggi questo elemento non sia piu' cosi' importante -: durante il servizio militare si impara a fare il saluto, a battere i tacchi, a stare sull'attenti e a rapportarsi ad un mondo estremamente gerarchizzato. L'uomo deve imparare a muoversi all'interno di una gerarchia precisa, a comportarsi in un certo modo con i superiori e in un altro con gli inferiori. Viceversa, il corpo femminile e' stato addestrato attraverso la danza, grazie alla quale la donna esprime bellezza, grazia e la capacita' di seguire la guida del suo cavaliere: la brava danzatrice e' quella che ben accondiscende alle manovre di colui che la conduce. Nel walzer, ad esempio, e' l'uomo che tiene il passo, e alla donna non resta che arrendersi alla volonta' di lui. Attraverso le suddette forme di educazione - che sono molto potenti - avviene cio' che Foucault chiamo' la "sterilizzazione di se'": si tratta di pratiche indirette che in un primo momento non appaiono come educative, ma che riescono a plasmarci in maniera forte e duratura, a decidere cio' che siamo e cio' che non siamo piu'. * - Studentessa: Il linguaggio del corpo muta da cultura a cultura? - Silvia Vegetti Finzi: Naturalmente si'. In precedenza abbiamo portato l'esempio delle "corna", ma si potrebbe anche prendere in considerazione il bacio, che non e' identico e non ha lo stesso significato nelle differenti culture. Esistono comunque dei codici che si rivelano universali: se una persona ferita si rotola per terra in preda al dolore, non possiamo non comprendere la sua gestualita'. Alcuni gesti, dunque, risultano maggiormente legati al fatto che siamo uomini e vengono da noi condivisi con altri animali, ad esempio con le scimmie superiori. Grattarsi, accovacciarsi o sdraiarsi, non sono dei movimenti esclusivamente umani, mentre il sorridere e' una prerogativa della nostra specie. Allo stesso modo, vi sono dei gesti che appartengono a tutte le culture, e ve ne sono altri che sono stati codificati con precisione e fanno parte di un repertorio culturale specifico. * - Studentessa: Lei crede che la concezione dell'Io cosi' come fu formulata da Freud - un Io scarsamente autonomo e fortemente condizionato da altri fattori - possa ben adattarsi all'uomo contemporaneo? - Silvia Vegetti Finzi: Sigmund Freud - come tutti i grandi intellettuali - recepi' le esigenze di un'epoca. Quando si reco' alla Salpetriere comprese che vi dimorava il bisogno di controllare il corpo e, in un certo senso, supero' tale necessita' affermando che: "il corpo puo' essere inteso come un linguaggio". Si tratto' di un enorme passo avanti, perche' egli riusci' a concepire la corporeita' non piu' come un mero sintomo o come un semplice disturbo: la fisicita' adopera un linguaggio in grado di esprimere cio' che le parole non possono comunicare perche' censurate. La persona che non puo' dire cio' di cui vorrebbe parlare perche' la societa' non glielo permette, regredisce a forme infantili di comunicazione esprimendosi attraverso il corpo. Compito dell'analista e' operare una decodificazione per trasformare il gesto in parola: il corpo viene inteso come un dialetto molto specializzato che deve essere ricondotto a termini universali. Tramite tale traslitterazione, il corpo perde la capacita' di assumere la parola in prima persona - cedendola ad un altro codice - ma guadagna la possibilita' di esprimersi, di comunicare qualcosa di suo. Si tratta di una grande conquista, anche se cio' che ne risulta compromesso e' proprio la messa in scena della corporeita'. * - Studentessa: In precedenza ha affermato che l'analista cerca di non guardare mai il paziente e di eliminare qualsiasi rapporto fisico con lui, mentre ora sostiene che compito dell'analista e' interpretare il linguaggio del corpo di colui che ha in cura. Non ci trova una contraddizione? - Silvia Vegetti Finzi: E' una bella domanda. Tra il gesto e il pensiero esistono le immagini: in ultima istanza, il gesto da' visibilita' ed espressione a delle immagini che si interpongono tra il pensiero e l'azione. Cio' che la psicoanalisi si prefigge e' proprio di recuperare tali immagini - dei "fantasmi" -, che non sono immediatamente recepibili dalla mente cosciente perche' giacciono in uno stato di rimozione. Una volta che le immagini hanno preso parola, non vi e' piu' necessita' di manifestare dei sintomi. Prendiamo il caso di una paziente molto giovane che, mentre stava assistendo il padre ammalato, venne colpita da una paresi alle gambe; in tal caso, lo stato di paralisi poteva cessare quando, dopo una ricostruzione dell'anamnesi della sua storia, la paziente si fosse avveduta che il disturbo aveva avuto inizio nel momento in cui si erano manifestate due volonta' contrapposte: da una parte il desiderio di assistere il genitore, sia per motivi affettivi che etici, dall'altra la voglia di andare ad una festa che si stava svolgendo nella casa vicina e da cui arrivava della musica. Siccome la giovane non permetteva a se stessa neppure di pensare ad un eventuale abbandono del padre malato, il suo corpo ne rimaneva immobilizzato, in modo che le gambe non potessero neanche accennare un ballo sul posto, come spesso capita. I suoi desideri le apparivano talmente sconvenienti da farla paralizzare. Tale stato, pero', ebbe termine quando la ragazza si rese conto del suo desiderio: l'immagine del ballo pote' coscientemente essere recepita dalla sua mente senza che ci fosse il bisogno di farla rientrare dalla finestra sotto forma di sintomo. * - Studentessa: A me pare che la psicoanalisi perda qualcosa nell'interpretare il linguaggio del corpo, perche' tenta di darne una spiegazione senza prima instaurare un rapporto con il paziente. - Silvia Vegetti Finzi: In realta' tale rapporto esiste: viene chiamato transfert-controtransfert e, nonostante sia veicolato dalla parola, si rivela molto intenso. Non possiamo svalutare la parola fino a slegarla completamente dal pensiero e sostenere che essa non produce una reale comunicazione. L'analista, durante le sedute con il paziente, lo esorta a dire tutto cio' che gli passa per la mente, senza selezionare nulla. In tal modo le parole non risultano inserite all'interno di un'argomentazione e diventano quasi dei "gesti verbali". Ovviamente non si tratta di gesti veri e propri, perche' non si e' ancora trovato il modo per recuperare il corpo all'interno della scena analitica. Qualcuno ci ha provato accarezzando i pazienti, ma Freud pensava che una pratica del genere fosse molto pericolosa: due corpi che si toccano ed entrano in relazione costituiscono un terreno minato, specialmente all'interno di una situazione che resta essenzialmente professionale. * - Studentessa: Forse per instaurare un rapporto basterebbe guardarsi negli occhi. - Silvia Vegetti Finzi: Guardarsi negli occhi e' un tipo di comunicazione molto intenso, forse il piu' intenso in assoluto: gli animali si guardano negli occhi solo quando vogliono sfidarsi perche', in generale, non amano questo tipo di atto comunicativo, solitamente inteso come il preludio ad un'azione aggressiva. Guardarsi negli occhi veicola un messaggio molto specifico - "o tu o io" - e contiene sempre degli elementi di disturbo. E' proprio per tale motivo che deve costantemente essere mediato dal linguaggio, il quale riesce ad inserire un terzo soggetto, una terza dimensione in grado di generalizzare, moderare e rendere comunicabili le nostre passioni. Cio' avviene perche' nel momento in cui si parla, lo si fa all'interno di codici condivisi, i quali stabiliscono che cio' che dico e' gia' stato detto e sara' detto molte altre volte in futuro: in tal modo riescono a moderare quell'atto comunicativo che ha raggiunto il massimo grado di intensita' nello sguardo. * - Studentessa: Mentre si parla si compiono spesso dei movimenti inconsapevoli che forse non possono essere ricondotti ad un linguaggio gestuale "puro". Lei crede che tali gesti servano semplicemente ad aumentare l'efficacia espressiva del discorso, o crede che possano assumere un qualche valore anche sul piano del significato? Gli argomenti di cui parliamo perderebbero di senso se non fossero accompagnati da determinati movimenti? - Silvia Vegetti Finzi: Credo che tale gestualita' non costituisca solo "un'aggiunta di pathos": spesso serve ad esprimere cio' che non puo' essere detto altrimenti. Qualche tempo fa ho visto una fotografia che ritraeva una madre algerina cui hanno ucciso ben otto figli: questa immagine riesce a rappresentare meglio di mille parole cio' che ha significato la guerra civile in Algeria, ed e' divenuta l'emblema piu' forte di un conflitto atroce ed incomprensibile. Lo strazio, il dolore senza limiti rappresentato dalla gestualita' immediata di questa figura di donna, e' riuscito a comunicare cio' che le parole non sono state capaci di veicolare. A volte i gesti non possono essere sostituiti. * - Studente: Spesso il linguaggio gestuale risulta piu' spontaneo e sincero di quello verbale. Cio' accade perche' e' piu' difficile da controllare e da sottoporre a degli schemi predefiniti o vi sono altre motivazioni? - Silvia Vegetti Finzi: Come abbiamo gia' detto, il linguaggio gestuale rappresenta il gradino meno evoluto della comunicazione: e' tipico di certi animali e dei neonati ed e' caratterizzato da una maggiore immediatezza rispetto ai linguaggi verbali. Oggigiorno si sono perduti molti codici di regolazione, ed e' per tale motivo che, nel momento in cui ci abbandoniamo ad un linguaggio gestuale, risultiamo forse piu' spontanei degli antichi greci, i quali vivevano in un mondo dove tutto era gia' dotato di un suo significato. Probabilmente il senso di alcune cose puo' essere riscoperto proprio attraverso il gesto, un ambito che e' stato tradizionalmente snobbato dalla nostra cultura e che, per tale motivo, puo' ben rappresentare una fonte di creativita'. Il teatro contemporaneo, ad esempio, e' molto interessato al recupero del gesto, come se esso costituisse una zona franca per rappresentare cio' che non e' ancora stato messo in scena. Anche in tal caso vige una sorta di sfiducia nella parola, sfiducia che risulta ancora piu' paradossale se si pensa che la nostra epoca appartiene alla parola in grado massimo. Su internet si comunica quasi esclusivamente tramite il linguaggio scritto e vi si prova addirittura una sorta di "ebbrezza della scrittura": a chi ci chiede delucidazioni sulla nostra identita', infatti, possiamo rispondere di essere maschi quando invece si e' femmine, di essere giovani mentre in realta' si e' anziani e via discorrendo. La nostra identita' riesce ad acquistare una vasta gamma di possibilita' espressive tramite la messa fuori gioco del corpo. Certe verita', pero', non possono essere negate se ci presentiamo con la nostra corporeita'. * - Studente: Il linguaggio gestuale, quindi, rappresenta una parte della comunicazione che andrebbe rivalutata, apprezzata e maggiormente studiata? - Silvia Vegetti Finzi: A mio avviso si'. Quando si analizza il linguaggio gestuale, pero', e' molto difficile salvaguardarne la spontaneita', perche' nello stesso momento in cui affermiamo che questo tipo di comunicazione dovrebbe essere maggiormente studiato e apprezzato, non possiamo fare a meno di introdurlo in un codice e riferirlo a schemi culturali ben definiti. * - Studente: Uno scrittore ha affermato che "quando si va in campagna con un amico non bisognerebbe mai parlare". Lei non crede che sia la comunicazione verbale, sia quella gestuale, implichino la mancanza di una completa intesa con l'altra persona? Non ritiene che, al contrario, il silenzio possa essere ritenuto il segno di un'intesa totale? - Silvia Vegetti Finzi: Il silenzio implica una vasta gamma di espressioni: vi e' il silenzio oppositivo - quello mantenuto dall'accusato che viene interrogato dalla polizia, ad esempio -, il silenzio comunicativo - grazie al quale si possono provare delle emozioni identiche a quelle della persona che ci e' vicina -, e diversi altri modi di tacere. A rivelare il senso del silenzio e' il contesto in cui di volta in volta ci troviamo e il suo valore dipende dalle differenti situazioni comunicative. L'idea che anche il silenzio possa essere una forma di comunicazione, pero', puo' rappresentare una grande conquista. In televisione, ad esempio, vige una sorta di horror vacui: vi e' il terrore che si possano presentare dei momenti di silenzio. Gli intervistatori tendono a fare un numero infinito di domande e, se per caso l'intervistato osa deglutire, cercano immediatamente di riempire il vuoto che si e' creato con un altro intervento. Quello televisivo e' un ambito saturato dalle parole: non ho mai visto una persona alzarsi in preda all'ira o all'entusiasmo durante una trasmissione televisiva. In televisione nessuno usa il corpo per comunicare perche' - anche nei momenti di maggior tensione - tutti obbediscono a un codice non detto, in base al quale il corpo deve essere immobilizzato a favore delle parole. Questo e', sinteticamente, il messaggio televisivo: mostrare un corpo talmente rattrappito da non lasciare nessuno spazio all'immaginazione. Dal canto suo, invece, la radio ci lascia immaginare i gesti, perche' nulla appare alla nostra vista. * - Studente: Quale tipo di messaggio potrebbero trasmettere agli spettatori la negazione e l'immobilizzazione della corporeita'? - Silvia Vegetti Finzi: La televisione e' sempre emblematica e tende a trasmettere dei messaggi che fungono da modelli. E' proprio per tale motivo che ha prodotto una omologazione culturale. Fino agli anni Cinquanta - quando il mezzo televisivo non era ancora cosi' diffuso -, nei centri piu' piccoli e periferici era possibile incontrare delle persone che comunicavano tramite una gestualita' classica: le liti magari tra comari, gli ampi gesti delle mani, il retrocedere e l'avanzare, erano simili ai movimenti che abbiamo osservato nel grande teatro tragico. Si tratta di una messa in scena ormai scomparsa, perche' la televisione, il cinema e i giornali ci hanno portato ad agire tutti allo stesso modo. * - Studentessa: A volte uno sguardo puo' valere piu' di mille parole, ma non sempre risulta cosi' diretto: come e' possibile che possa essere frainteso e perdere il suo valore intrinseco? - Silvia Vegetti Finzi: Lo sguardo e' tradizionalmente potentissimo: pensiamo agli sguardi tra innamorati o al malocchio, ossia al fatto che presso intere popolazioni si crede che uno sguardo possa recare gravi danni, se non addirittura uccidere. Guardarsi negli occhi puo' esprimere tutto, tanto da risultare inquietante e perturbante, perche' a volte corrisponde a stati d'animo conflittuali, ambigui o contraddittori. Spesso si presenta il bisogno di introdurvi la parola per moderare un messaggio eccessivo che rischia di annullare la distanza necessaria all'atto comunicativo. Se la giusta distanza viene a mancare, infatti, non vi puo' essere comunicazione: ogni volta che interloquiamo con un'altra persona, abbiamo sempre paura di esserle troppo vicini - tanto da esserne assorbiti - o troppo lontani- quanto basta per non comprendersi -. Tale corretta distanza viene difficilmente raggiunta attraverso lo sguardo, che di solito ci assorbe completamente o ci distacca del tutto: e' proprio per tale motivo che esso deve essere mediato dalla parola, anche se a volte puo' trattarsi di parola poetica, vale a dire di un linguaggio verbale a carattere percettivo. Quando si presentano determinati stati emotivi, infatti, e' possibile utilizzare un linguaggio particolare che adopera i codici della visione piuttosto che quelli simbolici e astratti. Tra il vedere troppo e il non vedere niente esiste una vasta gamma di posizioni intermedie. * - Studente: Per quanto riguarda l'odierna navigazione in Internet, abbiamo scelto delle pagine web su Charlie Chaplin, che e' considerato uno dei maggiori maestri della comunicazione attraverso la corporeita'. Gia' verso la meta' degli anni Trenta, egli anticipo' molte delle tematiche sul rapporto tra uomo e macchina, e rappresento' tale relazione attraverso un uso specifico della gestualita'. - Silvia Vegetti Finzi: In Tempi moderni, Chaplin ha messo in scena - con l'immediatezza e la brutalita' tipiche della creazione artistica - il rapporto tra l'uomo e la macchina grandiosa e plateale della prima era industriale. Attualmente tale rapporto trova una sua piu' congrua realizzazione attraverso il computer: a volte viene da chiedersi se lo strumento sia il computer o l'uomo e ci si domanda dove finisca l'uomo e inizi la macchina. Osservazioni del genere aprono un altro ambito di discussione e pongono le basi per una nuova definizione del corpo. Viviamo nell'epoca dell'informatizzazione, della telematica, dei trapianti di organi e delle protesi: il corpo non termina piu' con la superficie dell'epidermide e il mondo esterno non e' piu' quello che inizia dove finisce la pelle. La nostra fisicita' e' sempre maggiormente definita da elementi estranei, tecnici e artificiosi. 3. LIBRI. ELENA LOEWENTHAL PRESENTA "IL GOLEM" DI MOSHE IDEL Dal supplemento "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 13 maggio 2006 riprendiamo la seguente recensione del libro di Moshe Idel, Il Golem, trad. di Antonella Salomoni, Einaudi, pp. XXVIII+314, euro 24, apparsa col titolo Ripensare il Golem in tempi di biotecnologie. Elena Loewenthal, limpida saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a Torino nel 1960, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d'Israele, attivita' che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa" e a "Tuttolibri"; sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il rigore, ma anche la tenerezza e l'amista' di cui sono impastati, e fragranti e nutrienti ti vengono incontro. Nel 1997 e' stata insignita altresi' del premio Andersen per un suo libro per ragazzi. Tra le opere di Elena Loewenthal: segnaliamo particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi, Milano 1996, 2002; L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002; Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi ha curato Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando l'edizione italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis Ginzberg. Moshe Idel e' docente di pensiero ebraico alla Hebrew University di Gerusalemme, e uno dei maggiori studiosi viventi della Qabbalah. Tra le opere di Moshe Idel: L'esperienza mistica in Abraham Abulafia, Jaca Book, 1992; Cabala ed erotismo. Mimesis, 1993; Cabbala'. Nuove prospettive, La Giuntina, 1996; (con Mauro Perani), Nahmanide esegeta e cabbalista. Studi e testi, La Giuntina, 1998; Maimonide e la mistica ebraica, Il Nuovo Melangolo, 2000; Mistici messianici, Adelphi, 2004; Il Golem, Einaudi, 2006] Niente di nuovo sotto il sole, direbbe l'Ecclesiaste, il piu' disincantato e umano fra i libri del codice biblico. La sua condanna (o forse era un privilegio?) a non conoscere mai lo stupore non avrebbe il benche' minimo cedimento davanti agli ultimi orizzonti dell'ingegneria genetica, alle vertiginose prospettive della piu' avveniristica biotecnologia. Se l'Ecclesiaste non e' piu' fra noi per esternare la sua invidiabile lucidita', in fondo basta guardare il passato con un occhio un po' particolare, per non stupire. O soltanto per incontrare puntualmente un precedente anche per la storia che pare piu' inedita. E cosi', prima di entrare in un qualsiasi girone della chirurgia estetica o strabiliare di fronte alle provette di Dna, prima di preoccuparsi per le terrifiche sorti che attendono un mondo divenuto vulnerabile preda delle manipolazioni genetiche, vale la pena ripensare al Golem. Magari con il sussidio del professor Moshe Idel e del suo studio ora pubblicato in italiano e dedicato a "L'antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell'ebraismo". Golem e' una parola dalla polivalenza assai interessante, in ebraico: significa originariamente "bozzolo". Ma anche "embrione", essere non ancora giunto allo stadio definitivo. Comunemente si usa per apostrofare una persona non proprio geniale, un "tontolone" insomma. Ma il golem per antonomasia e' naturalmente, per cosi' dire, quel gigante ingenuo costruito a tavolino per vie magiche, che ha una lunga vita nella tradizione ebraica ed e' l'antenato della creatura di Frankenstein ma anche dell'incredibile Hulk (colore a parte). A mezza strada fra l'imitatio Dei e la blasfemia piu' arrogante, l'idea di un umanoide riproducibile attraverso la tecnica e l'umano ingegno e' in fondo gia' suggerita nella narrazione della Genesi: qui infatti tutto e' prodotto da Dio "soltanto" con la parola, in nome di un simultaneo "detto fatto". Tutto tranne Adamo il quale, invece, e' ricavato da una terragna materia prima con cui il Signore lo modella, prima di insufflargli la vita. Protagonista di una ricca letteratura speculativa, magica e mistica che si dispiega lungo circa millecinquecento anni, anche il golem e' un insieme di sostanza umile e concreta (polvere e fango) e di afflato superiore. Quello di Praga che, con la sua mole e la sua forza, salva la comunita' ebraica, aveva incisa in fronte una parola in lingua sacra: Emet. Che significa "verita'" ed e' una mirabile raffigurazione dell'essere, perche' inizia con la prima lettera dell'alfabeto ebraico, termina con l'ultima e porta in centro la consonante mediana. Questa parola miracolosa era l'afflato che dava vita al golem: per placarlo non restava che espungere la lettera alef ed emet diventava met, cioe' "morto". Creatura mitica ma anche prefigurazione delle potenzialita' umane al confronto con la sapienza divina (o, per dirla laicamente, con le frontiere ancora inesplorate della scienza), il golem ha una ricca letteratura che procede dalle istruzioni per l'uso alla speculazione piu' astratta. Questo homunculus corpacciuto fa la sua comparsa, a partire dall'epoca tardoantica, nei momenti di sogno e in quelli di disperazione. E' un essere insulso che non sa ragionare ma ubbidisce ciecamente agli ordini del suo demiurgo, sempre che qualcosa non vada per storto. Per secoli ha rappresentato un traguardo metafisico ma anche il modesto apparato muscolare di un popolo inerme cui era rimasta, se non altro, la licenza di vagheggiare il proprio goffo superman fatto in casa, all'occorrenza. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 69 del 22 giugno 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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