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La nonviolenza e' in cammino. 1330
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1330
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 18 Jun 2006 00:20:34 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1330 del 18 giugno 2006 Sommario di questo numero: 1. Rossana Rossanda: Guerre 2. Per Aung San Suu Kyi 3. Giuliana Sgrena; Nell'Afghanistan in guerra 4. Sergio Paronetto: Afghanistan, che fare 5. Gerard Lutte: Due lettere 6. Elena Loewenthal ricorda Karin Michaelis 7. Vittoria Giannuzzi: Alcune figure del Rinascimento delle donne nere nella letteratura nordamericana 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: GUERRE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 giugno 2006. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste] Il ritiro italiano dall'Iraq era stato promesso da Prodi ed era la logica conseguenza del giudizio dato sulla guerra di Bush: una guerra sbagliata. Che il ritiro fosse condizionato a tempi tecnici - manifestamente non solo l'allestimento dei camion o degli aerei - era per non somigliare a Zapatero; piccola vilta' ma pazienza. Senonche' il tempo passa e i "tempi tecnici" si prolungano, col governo iracheno, con gli umori della coalizione e con quelli di Bush. Non irritare Bush, invocano Prodi e D'Alema. Andarsene ma piano e in punta di piedi. Per ora la brigata Sassari e' stata sostituita dalla Garibaldi a ranghi ridotti. Il resto si vedra' dopo, in agosto o a ottobre o entro la fine dell'anno. Ma anche Berlusconi prevedeva di andarsene entro l'anno. E, un giorno si' e un altro no, un ritiro lo ventila lo stesso Bush. L'ideale del nostro governo sembra, diciamo la verita', poter andarsene con la sua benedizione, invece che con l'iraconda battuta di Donald Rumsfeld: "E se ne vadano, non cambia niente". Infatti, non siamo mai stati decisivi militarmente, ma qualcuno dei nostri militari ci ha lasciato la vita. E decisivi eravamo per coprire l'unilateralismo degli Usa. Questo e' stato grave, e a questo ci si aspetta che il nuovo governo metta fine in modo netto. Invece non avviene. Anzi ci si appresta a rafforzare la nostra presenza in Afghanistan, con la scusa che quella operazione - che pareva liquidata in quattro e quattr'otto - era avallata anche dall'Onu. Ma sono passati cinque anni dall'arrivo a Kabul e tre da quello a Baghdad, e non vogliamo verificarne i risultati? In Afghanistan non si e' trovato Osama Bin Laden. I suoi santuari sono altrove, probabilmente in Pakistan, alleato cosi' caro agli Stati Uniti che gli permettono persino l'atomica. A Kabul e' insediato Karzai, dubbia e cedevole figura, per cui sono rispuntati i signori della guerra e sotto la corruzione imperante rifioriscono i talebani, che al sud del paese si muovono come a casa loro. Gli scontri sono sempre piu' accesi. In Iraq non si sono trovate le armi di sterminio. Nessuna pacificazione e' in atto. Il governo non e' in grado di controllare nulla, tanto meno le guerriglie fondamentaliste, dovute anche alla scelta della coalizione tutta in favore di Al Sistani. Come in Afghanistan, gli Usa avevano alimentato i talebani per liberarsi dell'Urss, e in Iraq foraggiato la guerra di Saddam Hussein contro l'Iran, per liberarsi di Saddam hanno appoggiato gli sciiti - anzi, una parte di essi. Difficile immaginare scelte di piu' breve respiro. Risultato, in Iraq sciiti e sunniti, ma anche gli sciiti fra di loro, si fanno a pezzi. In comune hanno solo l'odio per la coalizione che li ha invasi. Muoiono piu' marines oggi che in tempi di guerra dichiarata, e quanto ai morti iracheni, nessuno li ha mai contati. Non basta. La razzia a Bagdad avrebbe dovuto portare a un appeasement fra Israele e Palestina, che e' piu' che mai in alto mare - anche il popolo palestinese, fino a quaranta anni fa il piu' laico e moderno della regione, sotto l'occupazione ha prodotto i suoi kamikaze e ha finito con il votare per Hamas, sola organizzazione che lo abbia aiutato quando le rappresaglie israeliane hanno demolito ogni infrastruttura dell'Anp. Ma Washington non impara mai nulla. Si azzarda ad aprire il capitolo Iran, che e' nazione tutta diversa, mentre sotto i nostri occhi diventa una repubblica islamica la Somalia, altro territorio di interventi a vanvera lasciandovi poi solo desolazione e odio. Il mondo se ne rende conto. Mai e' stato cosi' basso il prestigio degli Stati Uniti, ha constatato il sondaggio dell'americana Pez. Mai e' stata cosi' bassa la popolarita' di Bush. Un dubbio comincia a traversare quell'immenso paese, pronto a perdonargli le morti altrui ma non quelle dei propri figli, che anch'essi tornano nelle bare con la bandiera a stelle e strisce sopra. E le istituzioni e l'intellettualita' si preoccupano ormai della guerra infinita e delle sue molte derive - dai danni collaterali alle crudelta' di truppe spaventate ed esasperate, da Abu Graib a Guantanamo, dal Patriot Act al rinserrarsi del controllo poliziesco sulla loro propria societa'. Il nostro nuovo governo non se ne rende conto? Non trova opportuno valutare la nostra politica estera in un quadro che non e' piu' quello del 2001 ne' del 2003, nel quale si sono moltiplicati i disastri, l'Europa si e' distinta per inerzia e ora e' in panne, e nessun pericolo appare sventato? Il nostro primo problema non e': non irritare Bush, e': a quale America, a quali Stati Uniti parliamo? Ragionevolezza vuole che non si cerchino scontri acuti. Ma ammonisce anche che l'alternativa non e' fra l'ubbidienza e lo scontro - i "no" di Zapatero non hanno portato a uno sbarco dei marines a Malaga, ne' quelli di Chirac all'attacco di Brest. Un poco freddi, i rapporti diplomatici continuano. Un conto e' dover incontrare Condolezza Rice, un conto e' quel che le si va a dire, altro e' tessere un dialogo per domani, delineandone i temi fin da oggi. Non pare che sia, finora, la scelta ne' di Prodi ne' di D'Alema. Ma neanche la sinistra del centrosinistra vi sembra molto interessata: la discussione si limita al ritiro dall'Iraq, affrontando di passaggio il rinnovo della missione in Afghanistan - con relative ripicche fra Rifondazione e Comunisti italiani. E lo stucchevole ricatto: si puo' o non si puo' far cadere il governo per Kabul? Come Washington ha dovuto prendere atto che l'Europa non e' tutta vassalla, che nessuna alleanza giustifica l'unilateralismo, che e' meglio non tirare la corda, lo stesso avverrebbe nel centrosinistra se il Premier e il Ministro degli esteri -che fino a prova contraria non sono ne' Bush ne' Rumsfeld - fossero indotti dalle Camere ad andare fino in fondo nel merito alle Camere. Che io sappia, il nuovo parlamento un bilancio ragionato dal 2001 ad oggi non l'ha fatto. Eppure si dice che dall'11 settembre nulla e' come prima. No, nulla e' come prima. Ma neanche come si poteva pensare un mese dopo. E' da un pezzo che sulla politica degli Usa e di Blair e' arrivato il momento della verita'. E' d'obbligo guardarlo in faccia. 2. APPELLI. PER AUNG SAN SUU KYI [Dall'associazione di solidarieta' "Ebo" (per contatti: burma at euro-burma.be) riceviamo e volentieri diffondiamo. Aung San Suu Kyi , figlia di Aung San (il leader indipendentista birmano assassinato a 32 anni), e' la leader nonviolenta del movimento democratico in Myanmar (Birmania) ed ha subito - e subisce tuttora - durissime persecuzioni da parte della dittatura militare; nel 1991 le e' stato conferito il premio Nobel per la pace. Opere di Aung San Suu Kyi: Libera dalla paura, Sperling & Kupfer, Milano 1996, 1998] Cari amici e colleghi, mobilitiamoci ancora una volta per per Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. Il prossimo 19 giugno Aung San Suu Kyi compira' 61 anni. Ricordiamo con indignazione che Aung San Suu Kyi e' tuttora agli arresti domiciliari senza mai essere stata incriminata e processata. Sappiamo che e' stata completamente isolata dal mondo esterno, non puo' ricevere alcuna visita, la sua linea telefonica e' interrotta e la sua posta intercettata e controllata. Non dimentichiamo e continuiamo a richiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi, pace e democrazia per il popolo birmano. Che fare? inviate un fax o una e-mail o una lettera di protesta all'ambasciata del Myanmar in Italia. Anche solo la frase "freedom for Aung San Suu Kyi" fara' il suo effetto. Eccovi le coordinate: Alla cortese attenzione di S. E. U Than Tun, ambasciatore straordinario e plenipotenziario di Myanmar in Italia, indirizzo: Unione di Myanmar, sezione consolare, via della Camilluccia 551, 00135 Roma, tel. 0636303753, fax: 0636298566, e-mail meroma at tiscali.it Inoltrate questo messaggio a chiunque possa essere interessato. Grazie, lo staff di "Assistenza Birmania" (e-mail: assistenzabirmania at hotmail.com) 3. RIFLESSIONE. GIULIANA SGRENA: NELL'AFGHANISTAN IN GUERRA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 giugno 2006. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005] L'Afghanistan non e' l'Iraq ma gli scenari di guerra si stanno sempre piu' sovrapponendo. Tanto da cominciare a preoccupare persino D'Alema, che pure conferma una nostra presenza militare sul territorio afghano. A ricordarcelo, oltre alle battaglie sono stati anche i rapimenti, che, per fortuna, a Kabul hanno avuto esiti meno drammatici. Ma la situazione non era ancora cosi' degenerata. E' apprezzabile che il ministro degli esteri alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti abbia ricordato l'ostruzionismo statunitense sul caso Calipari: "Ci saremmo aspettati la collaborazione americana con la giustizia italiana nella ricerca della verita' e nell'accertamento delle responsabilita'", annunciando che lo fara' presente alla Rice. La coincidenza con l'imminente richiesta di rinvio a giudizio per Mario Lozano da parte dei magistrati italiani rende importanti le affermazioni di D'Alema. Soprattutto se paragonate a quelle dell'ex ministro della giustizia Castelli che si era accontentato, ringraziando, della risposta negativa da parte Usa. Tuttavia non si capisce quale coerenza ci sia tra questa denuncia del ministro degli esteri e la sua promessa di rimanere a supporto degli americani in Afghanistan. L'uccisione di Calipari e' stata giustificata dal comando militare americano con il fatto che in Iraq di guerra si tratta e quando c'e' la guerra si spara, poco importa dove vanno a finire i proiettili. E anche al "fuoco amico" si e' ormai avvezzi. Per di piu' a quei tempi all'ambasciata Usa di Baghdad c'era John Negroponte gia' sperimentato fautore di squadroni della morte sudamericani. A sostituirlo e' arrivato da Kabul "l'afghano" Zalmay Khalilzad. Sara' pura coincidenza? Sicuramente i legami tra i due scenari sono molti e non solo per la presenza di al Qaeda. Per questo l'ampliamento della missione Nato-Isaf nel sud dell'Afghanistan voluta soprattutto dagli Usa per sganciare gli uomini impegnati in Enduring freedom per utilizzarli in Iraq, non puo' essere assunta e appoggiata come normale avvicendamento. Anche chi e' stato sempre contrario a una missione militare in Afghanistan non puo' ingnorare i cambiamenti intervenuti dall'istituzione dell'Isaf con mandato Onu che non prevedeva nessun coinvolgimento della Nato. Quindi il primo snaturamento della missione avviene nell'agosto del 2003 quando la Nato assume il comando e il ruolo di leadership dell'Isaf. Dopo lo scippo Isaf della Nato ora si passa dal ruolo di peace-keeping (che doveva assistere l'autorita' afghana ad interim a mantenere il controllo a Kabul e nei dintorni, poi esteso al nord del paese) a quello aggressivo di peace-enforcing. Quindi restando in Afghanistan, e a maggior ragione accettando la richiesta Nato di aumentare il contingente o peggio ancora mandando i caccia, l'Italia entra in guerra, quella guerra che nelle regioni tribali pashtun e' gia' realta' di ogni giorno. L'offensiva dei taleban non sembra destinata ad esaurirsi. Anzi potrebbe persino arrivare alle porte di Kabul. Cosa fara' la Nato investita di Enduring freedom (la lotta al terrorismo)? Si alleera' con una gruppo tribale contro l'altro come hanno fatto gli Usa entrando direttamente nella guerra afghana? Il gioco e' pericoloso e l'arrivo in massa delle truppe britanniche ripropone lo spettro del "grande gioco" che dovrebbe far riflettere gli occidentali. E anche l'Italia. D'Alema andra' a Washington con i ricordi del precedente viaggio del 1999 e del "successo" dell'intervento euro-americano in Kosovo. Anche i pacifisti si ricordano quei "successi", sarebbe bene che li ricordassero ogni giorno al ministro degli esteri. 4. RIFLESSIONE. SERGIO PARONETTO: AFGHANISTAN, CHE FARE? [Ringraziamo Sergio Paronetto (per contatti: paxchristi_paronetto at yahoo.com) per questo intervento. Sergio Paronetto insegna presso l'Istituto Tecnico "Luigi Einaudi" di Verona dove coordina alcune attivita' di educazione alla pace e ai diritti umani. Tra il 1971 e il 1973 e' in Ecuador a svolgere il servizio civile alternativo del militare con un gruppo di volontari di Cooperazione internazionale (Coopi). L'obiezione di coscienza al servizio militare gli viene suggerita dalla testimonianza di Primo Mazzolari, di Lorenzo Milani e di Martin Luther King. In Ecuador opera prima nella selva amazzonica presso gli indigeni shuar e poi sulla Cordigliera assieme al vescovo degli idios (quechua) Leonidas Proano con cui collabora in programmi di alfabetizzazione secondo il metodo del pedagogista Paulo Freire. Negli anni '80 e' consigliere comunale a Verona, agisce nel Comitato veronese per la pace e il disarmo e in gruppi promotori delle assemblee in Arena suscitate dall'Appello dei Beati i costruttori di pace. In esse incontra o reincontra Alessandro Zanotelli, Tonino Bello, Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Desmond Tutu, Rigoberta Menchu', Perez Esquivel, Beyers Naude' e tanti testimoni di pace. Negli anni '90 aderisce a Pax Christi (che aveva gia' conosciuto negli anni Sessanta) del cui Consiglio nazionale e del cui Centro studi fa parte. E' membro del Gruppo per il pluralismo e il dialogo e, ultimamente, del Sinodo diocesano di Verona. Opere di Sergio Paronetto, La nonviolenza dei volti. Forza di liberazione, Editrice Monti, Saronno (Va) 2004] Leggo dell'ipotesi di mandare piu' soldati in Afghanistan. Secondo il generale Tricarico, capo di stato maggiore dell'aeronautica, sei aerei Amx sono pronti a partire. L'idea mi sembra non solo incoerente con il programma della coalizione politica oggi al governo ma anche del tutto controproducente proprio ai fini della lotta al terrorismo e del ripristino della democrazia. Sono gia' passati cinque anni dall'intervento militare. Pochissimi ricordano le morti civili. Solo nei primi tre mesi dell'intervento (7 ottobre 2001 - 16 gennaio 2002) i civili uccisi, gli "effetti collaterali", sono stati 3.800 (inchiesta Marc Herold, Universita' del New Hampshire). Ogni settimana aumentano gli attentati e i morti sia tra i soldati "occidentali" sia tra i civili afgani. Cosa stiamo difendendo realmente in Afghanistan? Proteggiamo la permanente sottomissione delle donne? Secondo il Rapporto 2005 di Amnesty International, esse "hanno continuato a subire livelli di violenza sistematica e diffusa e discriminazioni sia in ambito pubblico che privato". Sosteniamo la mancanza di liberta' religiosa tanto sbandierata come regola fondamentale della democrazia? La vicenda di Abdul Rahaman, l'"apostata" afgano che stava per essere condannato a morte per la sua conversione al cristianesimo, e' emblematica di una situazione diffusa. Per quanto tempo dovremo rimanere in forme militari? Al di la' del comportamento individuale dei nostri soldati, bisogna saper vedere la cruda realta' dei fatti. Ci interessa prevenire la tossicodipendenza nel mondo, in Italia, e colpire i mercanti di morte? Allora bisogna dolorosamente ma lucidamente ammettere che, al di la' delle intenzioni, i soldati sono alleati dei "signori della guerra", padroni del commercio dell'oppio, che stanno guadagnando cifre colossali. "Il narcotraffico, dichiara l'Ufficio Antidroga dell'Onu, e' la fonte principale dell'instabilita' e del terrorismo. Ci sta a cuore la lotta all'eroina, ottenuta con l'oppio afgano, che uccide molti giovani? Il giro d'affari afgano, osserva Luciano Bertozzi ("Rocca", n. 11, 2006) e' "stimabile in 2,3 miliardi di dollari che sono reinvestiti nelle armi e nel pagamento dei combattenti, in una spirale perversa che promette sempre maggiori sofferenze". E' certamente piu' produttivo investire risorse per la risoluzione di alcuni problemi economici e sociali e attivare un'ampia rete di solidarieta' e di cooperazione legata alle Nazioni Unite, alla Comunita' europea e all'iniziativa internazionale. Uno degli obiettivi prioritari e' quello di sminare il paese, uno dei piu' a rischio nel mondo. Mi sembra urgente riprendere la Campagna per la messa al bando delle mine, mettendo a fuoco l'obiettivo dello sminamento e della riabilitazione delle numerose vittime colpite da queste armi di distruzione di massa che uccidono o mutilano dopo ogni guerra per moltissimi anni tantissime persone. Penso non solo all'Afghanistan ma anche al Sudan e al Corno d'Africa, alla Cambogia e all'Angola. Un impegno umanitario di lunga durata. Una vera grande missione di pace, un'azione solidale legata alla guarigione di immense ferite, alla riconciliazione tra le persone e i popoli, alla difesa e alla cura della vita, di ogni vita sempre e ovunque. 5. ESPERIENZE. GERARD LUTTE: DUE LETTERE [Attraverso Manila D'Angelomaria (per contatti: manilita at libero.it) riceviamo e diffondiamo le due seguenti lettere di Gerard Lutte. Gerard Lutte (per contatti: gerardlutte at tin.it), di origine belga, da molti anni in Italia, docente universitario di psicologia dell'eta' evolutiva, ha partecipato a Roma alla vita e alle lotte degli abitanti di una borgata di baraccati e di un quartiere popolare e ad un lavoro sociale con i giovani piu' emarginati; collabora con movimenti di solidarieta' ed esperienze di accoglienza; ha promosso iniziative mirate e concrete di solidarieta' internazionale dal basso e di auto-aiuto, con particolar riferimento alla situazione centroamericana, di impegno di liberazione con i giovani e soprattutto le bambine e i bambini di strada. Tra le opere di Gerard Lutte: Quando gli adolescenti sono adulti... I giovani in Nicaragua, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Sopprimere l'adolescenza?, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Psicologia degli adolescenti e dei giovani, Il Mulino, Bologna 1987; Dalla religione al vangelo, Kappa, Roma 1989; Cinquantanove ragazze e ragazzi di strada con Gerard Lutte, Principesse e sognatori nelle strade in Guatemala, Kappa, Roma 1994 (ne e' stata successivamente pubblicata una seconda edizione aggiornata). Il sito della Rete di amicizia con le ragazze e i ragazzi di strada del Guatemala, che contiene progetti, testimonianze, ricerche, libri, bollettini e centinaia di foto, sezioni francese, italiana, spagnola ed inglese, e' www.reteamicizia.net] Roma, 14 giugno 2006 Care amiche e cari amici delle ragazze e dei ragazzi di strada, vi volevo mandare un affettuoso saluto e augurarvi buone vacanze prima dalla partenza per il Guatemala dove mi fermero' fino alla nostra prossima assemblea generale in ottobre. Purtroppo devo anche comunicarvi due informazioni molto preoccupanti. Ieri Patty, coordinatrice tecnica del movimento delle ragazze e dei ragazzi di strada [di qui in poi in sigla: Mojoca - ndr] in Guatemala, mi ha scrito che Edy, un ex ragazzo di strada e' stato assassinato. Hanno trovato in una discarica il suo corpo seminudo con tracce di tortura. Edy era il compagno di Alma Veronica, un quetzalita di 25 anni, madre di tre bambine e in attesa di un altro figlio. Come fara' ad allevarli da sola? Qualche settimana orima era Pantera, del parco centrale, ritrovato annegato in una fontana della citta'. La guerra contro i giovani continua e tutto lascia prevedere che si intensifichera'. E ora anche i nostri operatori sono osteggiati dalla polizia. Il Mojoca e' l'unica organizzazione a fare un lavoro di strada, al punto che "Medici senza frontiere" che chiuda alla fine di quest'anno il servizio per la strada ci vuole affidare alcuni dei suoi programmi. Il mojoca e' l'unica difesa delle ragazze e dei ragazzi che vivono in strada. Purtroppo anche l'esistenza del Mojoca e' minacciata. Nell'ultima riunione del comitato di gestione abbiamo constatato una forte diminuzione dei versamenti: solo 25.000 euro in cinque mesi, e se continua in questo modo mancheranno da 60.000 a 70.000 euro per il prossimo anno sperando che la rete belga riesca a raccogliere 50.000 euro. Questo significa che molti programmi dovranno essere soppressi (la casa delle ragazze e bambini, le borse di studio, i laboratori di formazione professionale, ad esempio), che molti operatori dovranno essere licenziati, e che il mojoca sara' fortemente indebolito. Gia' stiamo vivendo una situazione difficile, una o due volte alla settimana mangiamo le zampe e interiora dei polli generosamente regalati da "Bienestar social" della moglie del presidente del Guatemala. Non so piu' cosa fare. Ora spetta a ciascuno di noi, ad ogni socia e socio della nostra rete, ad ogni gruppo, decidere se il Mojoca deve continuare il suo impegno o morire. Gerardo Lutte * 15 giugno 2006 Care amiche ed amici, purtroppo anche oggi vi devo comunicare una cattiva notizia: una quetzalita di 18 anni, Rita Gonzales, e' stata assassinata l'altro ieri alle sette e mezza della sera, assieme a suo figlio David di sei mesi e al suo compagno. Rita faceva parte del mojoca da circa tre anni. Era del gruppo della Bolivar. Lo scorso anno quando era incinta le sue amiche l'hanno accompagnata incoraggiandola ad allontanarsi dalla droga per la vita che cresceva in lei. Rita faceva parte del gruppo di ragazze che visitarono la casa 8 marzo per decidere di comprarla. L'ho rivista durante il mio ultimo soggiorno, donna-bambina con il suo figlio in braccia, l'abbiamo invitata alla riunione delle quetzalitas ed e' venuta. Non immaginavo che era l'ultima volta che la vedevo. Per allontanarsi dalla strada e dalla droga Rita era andata a vivere fuori dalla capitale dai parenti. Cercava la vita e ha trovata la morte, non si sa perche', forse solo perche' il suo compagno aveva dei tatuaggi. Non si poteva non volere bene a Rita, era una bambina, ingenua, non aveva studiato, viveva vendendo caramelle sulla strada. Aveva voglia di vivere e amava suo figlio. Non riesco a dire altro se non che il Movimento delle ragazze e dei ragazzi di strada deve vivere per tutte le Rita, tutti i David e Edy della strada. Abbiamo perso una sorellina amata. Gerardo * www.amistrada.net e' il sito della Rete di amicizia con le ragazze e i ragazzi di strada: contiene testimonianze, ricerche, libri, bollettini e centinaia di foto, con sezioni in francese, italiana, spagnola ed inglese. Per aiutare il movimento delle ragazze e i ragazzi di strada guatemaltechi si puo' indicare nella casella del 5 per mille della dichiarazione dei redditi il codice di Amistrada, 97218030589. 6. MEMORIA. ELENA LOEWENTHAL RICORDA KARIN MICHAELIS [Da "La stampa" del 17 febbraio 2006 riprendiamo il seguente articolo della rubrica di recensioni librarie di Elena Loewenthal (il libro all'origine dell'articolo e': Karin Michaelis, Bibi. Una bambina del Nord, traduzione di Eva Kampmann, illustrazioni di Edwig Collin, Edizioni: Salani, pp. 263, 8,50 euro; il titolo originale dell'articolo e': "C'e' del buono in Danimarca: ricordate Bibi!"). .Elena Loewenthal, limpida saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a Torino nel 1960, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d'Israele, attivita' che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa" e a "Tuttolibri"; sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il rigore, ma anche la tenerezza e l'amista' di cui sono impastati, e fragranti e nutrienti ti vengono incontro. Nel 1997 e' stata insignita altresi' del premio Andersen per un suo libro per ragazzi. Tra le opere di Elena Loewenthal: segnaliamo particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi, Milano 1996, 2002; L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002; Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi ha curato Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando l'edizione italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis Ginzberg. Karin Bech-Brondum Michaelis (1872-1950), scrittrice danese, conferenziera, giornalista, attivista umanitaria, autrice di opere di intenso impegno sociale ma anche di apprezzati libri per l'infanzia (quelli che hanno per protagonista la ragazzina Bibi), moglie del poeta, drammaturgo e romanziere Sophus Michaelis (1865-1932); negli anni Trenta la sua casa di Thuro fu un rifugio per i perseguitati dal nazismo, nella seconda guerra mondiale lei stessa fu costretta all'esilio in America per sfuggire al nazismo; solo alla fine della guerra torno' in Danimarca] La Danimarca e' un Paese piccolo e sparpagliato in mare. Sulla carta geografica d'Europa non e' certo che salti all'occhio. E, buon per lei e per i suoi abitanti, capita assai di rado di vederla salire alla ribalta della cronaca, della politica internazionale. Non e' stato cosi' negli ultimi giorni, dietro l'ondata di violenze scatenate in nome del rispetto (sic! che ossimoro...). La Danimarca ha difeso la liberta' di espressione. Ma non per puntiglio, per dispetto ne' tantomeno per provocazione. Perche' lassu', in quel Nord Europa di cui, per fortuna loro, solitamente si parla poco sui giornali, la liberta' d'espressione e' sacra. Come spesso capita, la storia aiuta a capire. Basta guardarsi un poco indietro per meglio comprendere le ragioni della Danimarca. Per non bollarla di oltranzismo alla rovescia, di intenti bellicosi. Lassu', la liberta' e la democrazia sono una tradizione, non un dettato. Non c'e' niente di meglio di una storia per rendersene conto. Quella di Karin Michaelis, ad esempio. Per noi che siamo cresciute nell'ovatta del boom economico postbellico, lei e' solo un nome sopra il titolo. La sua Bibi era invece ben piu' di un personaggio lungo il filo di sei volumi. Era una specie di piccola donna ma piu' spiritosa e scanzonata, meno impettita. Anche perche' lei andava in bicicletta. Ed era un tipo abbastanza tosto. Noi che l'abbiamo letta e amata nella serenita' del dopo Liberazione non potevamo immaginare che i suoi sei libri, coraggiosamente pubblicati per la prima volta in Italia da Vallardi fra il 1933 e il 1941, erano stati gli unici non appartenenti all'asse nazifascista arrivati intatti sui nostrani scaffali, mentre le edizioni tedesche venivano incenerite. Nemmeno potevamo conoscere il calibro della sua autrice, Karin Michaelis. Per noi restava soltanto un nome sopra Bibi e le sue avventure. Ma proprio in quegli anni tremendi in cui Bibi approdava in Italia per la prima volta, Karin Michaelis, dalla sua isoletta in Danimarca, faceva grandi cose. Degne di essere ricordate. Nata nel 1872 in un piccolo villaggio, dal 1930, e soprattutto durante il periodo piu' nero, ospito' nella sua isoletta gente come Bertolt Brecht, Rilke, Einstein, Walter Benjamin, Oskar Kokoschka. Vi nascose anche molti ebrei braccati dai nazisti. Aveva avuto persino il coraggio di rispondere per le rime a Goebbels che le proponeva grandi onori se avesse scritto un libro per bambini nazisticamente orientato. Tanto che nel 1939 fu costretta all'esilio in America. "Cara Karin, non penso tu ti sia molto stupita nel trovarti in esilio; io invece sarei stupito se tu non fossi in esilio - con il tuo amore per la verita' e la tua avversione per l'ingiustizia", le scrive Brecht per il suo settantesimo compleanno, nel 1942. In Danimarca Karin torno' solo alla fine della guerra. E' una storia ricca, quella di questa donna e scrittrice. Impegnata non solo a divertire con la letteratura d'evasione. L'editore Giunti ha infatti recentemente ristampato il suo L'eta' pericolosa, un saggio prefemminista di grande intensita' e coraggio. Ma certo di lei resta, sulla pagina, soprattutto l'indimenticabile Bibi. E resta il ricordo, rinfocolato dalla passione di una giovane regista tedesca, Angela Huemer, che l'ha presa a cuore. E da quella di Donatella Ziliotto che, dalla scrivania delle edizioni Salani, ci ha regalato questa scoperta. 7. PROFILI. VITTORIA GIANNUZZI: ALCUNE FIGURE DEL RINASCIMENTO DELLE DONNE NERE NELLA LETTERATURA NORDAMERICANA [Dal sito www.dilifile.uniba.it/afroweb riprendiamo il seguente testo. Vittoria Giannuzzi studia all'Universita' di Bari, si occupa di formazione, giornalismo e cultura delle donne] Non solo Toni Morrison Se Toni Morrison rappresenta la figura di sicuro piu' famosa della narrativa femminile afroamericana d'oggi, anche grazie al Premio Nobel per la letteratura ricevuto nel 1993, tuttavia la sua fama non puo' mettere in ombra il successo che altre romanziere come lei hanno ottenuto a partire dagli anni '70, in quello che molti hanno definito il "Rinascimento" delle donne nere. In quegli anni, infatti, cominciano ad emergere le idee di quelle donne africane americane che si oppongono alla profonda oppressione che da sempre vivono negli Stati Uniti: discriminate, in quanto donne, dagli uomini bianchi e dagli uomini neri, e discriminate, in quanto nere, dalle donne bianche. Senza contare l'ulteriore emarginazione subita anche all'interno della lotta per i diritti civili, dove comunque le donne occupavano un ruolo minore, e all'interno del movimento femminista, che, in generale, quando lottava per i diritti delle donne, parlava essenzialmente di donne bianche. Sono tante percio' le scrittrici, alcune delle quali poco note in Italia, di cui si potrebbe parlare; ma senza dubbio un posto di rilievo all'interno di questo excursus lo occupa Alice Walker, la scrittrice che, piu' di ogni altra, contende alla Morrison il titolo di scrittrice afroamericana piu' popolare nel mondo. * Alice Walker Alice Walker e' nata a Eatonton, in Georgia, ed ha trascorso poi l'infanzia in un villaggio di neri nel profondo Sud rurale. Dopo aver vinto una borsa di studio a partire dagli anni '60 si e' impegnata nel movimento per i diritti civili nel Sud (esperienza poi rievocata e riportata nel romanzo Meridian, 1976). Dopo aver tentato, nel '64, di ritrovare una patria spirituale in Africa, la Walker, tornata negli Usa, ha accostato alla sua attivita' letteraria un'intensa attivita' politica e di critica rivolta non solo alla comunita' bianca, ma anche al mondo nero: per questo motivo ha attirato su di se' non poche critiche all'interno della societa' africana americana nel momento in cui, nei saggi e nei romanzi, ha parlato della sua comunita' anche in termini di discriminazione femminile, amori lesbici, violenza e infibulazione. Temi che, almeno in parte, emergono in quello che e' forse il suo romanzo piu' famoso, Il colore viola, giunto all'attenzione del mainstream americano grazie al film diretto da Spielberg. A partire da questo romanzo, con cui ha vinto il premio Pulitzer e che le ha dato una vasta notorieta', la scrittrice ha elaborato un linguaggio altamente musicale, da lei stessa definito "black folk english", che riprende, nella sua struttura, quel vernacolo afroamericano gia' usato da Zora Neale Hurston, scrittrice che la Walker stessa ha fatto riscoprire a critica e pubblico e che lei ritiene sua madrina letteraria. Alice Walker definisce se stessa una womanist, una femminista nera, ribadendo il concetto secondo cui le donne della sua "razza" sono le piu' antiche eroine d'America: questo e' il motivo per cui in uno dei suoi saggi piu' celebri, In Search of our Mothers' Garden, la scrittrice ripercorre le fondamenta artistiche della letteratura delle donne afroamericane, partendo da Phillis Wheatley (storicamente definita madre della letteratura afroamericana) per giungere sino a sua madre, sottolineando cosi' l'idea che quelle donne si siano comunque espresse artisticamente anche quando cio' era proibito loro, e che quindi il valore delle loro opere, superficialmente definite minori, o non artistiche, e' in realta' inestimabile. * Zora Neale Hurston Zora Neale Hurston (1891-1960) nacque a Eatonville, in Florida, ma si formo' culturalmente a New York, dove studio' antropologia e dove si avvicino' ai poeti della Harlem Renaissance: influenzata dai canoni del movimento, e dalle sue ricerche di carattere etnografico sulle comunita' afroamericane, scrisse i primi romanzi, tutti con un linguaggio fortemente modellato sulla parlata dei neri, con l'intento di esaltare le peculiarita' espressive del vernacolo afroamericano. Ritornata nel Sud, luogo privilegiato della sua immaginazione, scrisse I loro occhi guardavano al cielo (1937), per il quale Alice Walker scrisse: "There's no book more important to me than this one". Ed e' proprio quest'ultima la scrittrice a cui si deve, dalla fine degli anni '60, una generale riscoperta di questa donna e delle sue opere. La potenza delle sue immagini e la ricchezza della cultura afroamericana che traspare dai suoi lavori hanno trovato, soprattutto negli ultimi anni, moltissimi sostenitori che, fra l'altro, si sono appassionati anche alla sua figura: Zora e' da tempo considerata un "personaggio", anticonformista e ribelle a tutte le convenzioni attraverso cui si guardano le donne, bianche o nere che siano. La Hurston trascorse gli ultimi anni della sua vita in Florida, continuando a scrivere saggi, articoli e romanzi che non sempre furono pubblicati. La sua morte passo' inosservata e il suo corpo fu addirittura seppellito in una tomba senza nome. Solo nel '73 Alice Walker vi mise una lapide, che ancora oggi dice: "Zora Neale Hurston A genius of the South 1901-1960 Novelist, Folklorist Anthropologist". * Paule Marshall Paule Marshall, benche' attiva come scrittrice sin dagli anni '50, raggiunge appieno fama e prestigio letterario durante il rinascimento delle donne nere. Nasce a Brooklin da una famiglia appena emigrata dalle Barbados. Oltre ad essere influenzata da questa componente, pero', la Marshall riflette nella sua scrittura anche la cultura e la lingua india, essendo stata allevata all'interno di una comunita' di indiani dell'Ovest. La peculiarita' di questa scrittrice sta, in generale, nella sua attenzione alla varieta' di culture comprese all'interno del termine "afroamericano": il suo lavoro, infatti, mette a nudo i conflitti che le famiglie di immigrati caraibico-americani, come la sua, si trovano ad affrontare negli Stati Uniti. Di questo parla il suo primo romanzo, Brown Girl, Brownstones (1959), dove la lotta della protagonista per trovare se stessa, insieme ad un'affermazione come artista, corre parallelamente al tentativo della sua comunita', afrocaraibica, di differenziare se stessa dal nuovo ambiente sociale, facendo sopravvivere la propria cultura. Il punto cardine della sua poetica, in sostanza, riguarda il senso di alienazione e di dislocamento tipico di ogni minoranza. Per la scrittrice bisogna, percio', riconciliare i conflitti culturali (elementi peculiari e caratteristici degli Stati Uniti) attraverso la consapevolezza della propria identita'; consapevolezza che pero' diventa possibile solo grazie ad un cosciente mescolamento con gli altri membri della propria realta'. Per questo motivo la Marshall usa le parole in maniera tale da costruire una rete che contenga la propria esperienza di vita e quella dei suoi antenati: per poter esaminare appieno i problemi tipici dell'eredita' caraibico-americana. * bell hooks bell hooks e', senza dubbio, una delle figure di punta del femminismo e del pensiero radicale statunitensi. Nata nel 1952 in una famiglia appartenente al proletariato povero afroamericano, costrui' una propria coscienza critica sin dall'adolescenza, tanto che pubblico' il suo primo libro a soli diciannove anni. In esso, Ain't I a woman: Black Women and Feminism, la hooks combina il suo amore per l'inglese e la sua rabbia per quello che chiama white supremist capitalist patriarchy che, secondo la scrittrice, struttura, negativamente, la societa' americana. Tutto il suo lavoro, in generale, copre un'ampia gamma di argomenti, tra cui il concetto di genere, la razza, il valore dell'insegnamento e l'importanza dei media per la cultura contemporanea. bell hooks crede fermamente che questi non siano argomenti separati, ma che vadano analizzati in quanto strettamente interconnessi. Innegabile e', pero', che bell hooks sia popolare soprattutto in quanto impegnata come femminista, benche' anche in questo caso lei ribadisca che l'attuale situazione delle donne nere nella societa' sia un tema strettamente connesso con i concetti di genere e di razza. Distaccandosi dalla battaglia femminista tradizionale (che nasce dall'unione di donne bianche, di buona classe sociale, eterosessuali e acculturate), la hooks si colloca in una posizione nettamente opposta e, in Scrivere al buio (1998) dichiara: "La loro posizione... era radicalmente diversa dalla mia: per loro il problema centrale era l'esclusione delle donne dalla forza lavoro. Tornavo a casa dicendomi che non riuscivo neppure a capire di cosa stessero parlando: tutte le donne [nere] che in vita mia avevo conosciuto avevano sempre lavorato". Partendo da questa posizione, la hooks s'impegna ad analizzare l'importanza delle donne nere nella battaglia per la liberta' degli afroamericani, sostenendo come, storicamente, le donne abbiano resistito al dominio suprematista bianco impegnandosi nella costruzione di un "focolare domestico", difendendo i loro figli e i loro uomini dalla disperazione, consentendo cosi' a molti di loro di essere in grado di combattere per la liberta'. Il suo impegno in questo campo e' evidente nel deliberato uso di uno pseudonimo: bell come la madre, hooks come la nonna materna. Minuscole, in entrambi i casi, le iniziali. Lo pseudonimo militante con cui Gloria Jean Watkins (questo il vero nome) sostituisce il proprio nome anagrafico ha la funzione di rigettare quell'identita' che vi era legata e che la scrittrice non considerava completamente sua, e di ancorare il nuovo io ad un continuum femminile che, attraverso il rifiuto del sistema dei nomi, sfida il potere (maschile) di attribuzione di individualita' e continuita'. L'uso delle minuscole e dello pseudonimo sono delle maniere attraverso cui la scrittrice vuol focalizzare l'attenzione del lettore non sull'autore, ma sul contenuto del suo lavoro. Le idee, in sostanza, vengono sempre prima del nome e dell'identita' dell'autore. * Audre Lorde Audre Geraldine Lorde (1934-1992) nacque a New York da una famiglia india dell'Ovest. Ebbe la possibilita' di studiare, prima a Manhattan e poi a New York, e si laureo' alla Columbia University. Prima di dedicarsi esclusivamente alla poesia e alla scrittura creativa lavoro' anche come bibliotecaria presso l'Universita' di New York. Fu saggista e poeta, di sicuro una delle piu' importanti rappresentanti del femminismo afroamericano e del Rinascimento delle donne nere. Mori' di cancro a cinquantotto anni. La Lorde descrive se stessa come una "black lesbian feminist mother lover poet": la sua forza sta proprio in questa consapevolezza di essere al contempo una donna (nera, femminista e lesbica dichiarata) ed una sognatrice, un'idealista che combatte per un mondo migliore. Le sue parole, i suoi testi, si rivelano dunque come il paradigma attraverso cui leggere la sua lotta contro le oppressioni razziali, ma allo stesso tempo la sua voglia di contrastare le avversita' personali (pensiamo, a questo proposito, a The cancer Journals, in cui la scrittrice analizza la solitudine e la disperazione provate nell'essere di fronte alla morte. Fu lei stessa ad affermare che la scrittura di questo libro le diede la forza di analizzare la sua esperienza di malata e la possibilita' di condividerla con altre donne). Lorde parlo' di razzismo nel movimento femminista, di sessismo nella comunita' afroamericana, di amore e di amore lesbico. Ma non scrisse mai per se', il suo obiettivo erano gli altri: i suoi figli, i bambini, le donne, gli omosessuali. Scrisse in onore di tutti quelli che non potevano parlare con la propria voce. Scrisse per quelle donne che avevano paura di parlare perche' era stato insegnato loro a rispettare la paura piu' che se stesse. Sia nelle poesie che nei saggi la Lorde pone l'accento sul valore della parola come forma di resistenza, come mezzo di riappropriazione della propria vita da parte di coloro che nella societa' vengono relegati ai margini, perche' donne, perche' nere, perche' omosessuali. Tra i meriti della scrittrice va ricordata la sua partecipazione alla nascita di Kitchen Table: Women of color Press, casa editrice riservata alla pubblicazione delle opere di donne di colore, il cui lavoro, secondo la scrittrice, andava incentivato perche' fosse colmato il divario esistente tra le voci maschili e quelle femminili nel panorama culturale americano. * Toni Cade Bambara Toni Cade Bambara (1939-1995) visse i primi dieci anni della sua vita ad Harlem e fu lei stessa ad ammettere come la vita in quella che, sin dagli anni '20, e' stata definita "la capitale nera del mondo" e che si era rivelata un centro particolarmente vivace e sperimentale in tutte le arti, letteratura compresa, avesse influenzato in maniera significativa il suo fare arte. Il nome di questa scrittrice rimane, in generale, profondamente legato al Rinascimento delle donne nere: nel 1970, infatti, Toni Cade Bambara curo' la pubblicazione della prima antologia letteraria che articolasse le problematiche critiche del femminismo nero; cio', all'interno di un contesto politico tutto teso alla lotta per i diritti civili e l'emancipazione della donna. L'uscita di The Black Woman assume quindi valore anche dal punto di vista storico, perche' si e' soliti identificare la nascita del Rinascimento proprio a partire da questo evento. Importante prodotto del Black Arts Movement, The Black Woman e' una raccolta di scritti di autrici come Audre Lorde, Alice Walker, Paule Marshall ed altre ancora, e tenta di far fronte alla mancanza di pubblicazioni per donne afroamericane che siano pero' scritti da altre donne. La stessa Bambara, inoltre, inserisce tre saggi scritti di suo pugno, in cui riassume molti dei temi analizzati nell'antologia e li inserisce all'interno di una piu' ampia analisi del contesto sociale. The Black Woman e' solo la prima antologia che Bambara curo', a questa ne seguirono altre; cosi' come ritroviamo anche suoi libri di racconti: la short story e', infatti, il genere letterario che la scrittrice preferi' utilizzare, perche' piu' immediato e di maggior impatto sul lettore. Oltre a scrivere, pero', quest'autrice viaggio' molto, sempre nell'intento di allargare la sua visione della condizione femminile nel mondo. Dai suoi racconti emergono viaggi fatti a Cuba, ad Atlanta ed in Vietnam: in essi la scrittrice analizza come le donne siano in grado di superare, anche attraverso il proprio lavoro, i conflitti razziali, sociali e sessuali. Il tema di fondo dei suoi racconti rimane, comunque, l'argomento tipico degli scritti del femminismo nero: analisi della condizione dei soggetti sociali oppressi (le minoranze, e le donne e i bambini soprattutto) e messa a fuoco della lotta delle donne contro ogni oppressione. Toni Cade Bambara non fu solo una scrittrice, un'attivista politica e una femminista; fu anche regista, e si dedico' soprattutto alla produzione di documentari incentrati sulla discriminazione razziale del popolo africano americano. Tutta la sua arte, in generale, scorre su due binari: uno incentrato sull'ironia e sulla voglia di far sorridere il suo pubblico (elemento che deriva dalla sua fiducia nella famiglia e nella comunita' afro); l'altro incentrato sulla rabbia, una rabbia che le nasce dopo aver visto i "trattamenti" riservati ai bambini e agli adulti della comunita' nera. Tutto il suo lavoro si rivela teso, quindi, a modificare questo stato di cose, e solo il cancro pote' fermare la sua lotta nella societa' americana. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1330 del 18 giugno 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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