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La nonviolenza e' in cammino. 1301
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1301
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 20 May 2006 00:15:58 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1301 del 20 maggio 2006 Sommario di questo numero: 1. Per il vero 2 giugno 2. Anna Bravo: La compassione nella Resistenza 3. Tiziano Tissino: Bombe atomiche in Italia 4. Umberto Santino: Voci per un dizionario antimafia: stereotipi e paradigmi 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. APPELLI. PER IL VERO 2 GIUGNO [Riproponiamo ancora l'appello per il 2 giugno festa della Costituzione, senza l'abusiva parata militare, scritto da Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) e sottoscritto gia' da numerose persone. Per esigenze di spazio oggi non riportiamo l'elenco delle adesioni pervenute] Signor Presidente della Repubblica, insieme ai nostri vivi auguri per il Suo alto compito, Le rivolgiamo una calda richiesta, che viene dal popolo della pace, di festeggiare il prossimo 2 giugno come vera festa della Costituzione, come festa del voto popolare che ha voluto la Repubblica e eletto la Costituente, e niente affatto come festa militare. Ammessa, per amore di dialogo, e non concessa la necessita' dell'esercito - che noi come tale discutiamo (tra esercito e polizia democratica la differenza e' essenziale, come tra la violenza e la forza, la forza omicida e la forza non omicida) - esso non e' assolutamente il simbolo piu' bello e vero della patria, non e' l'esibizione giusta per il giorno della festa della Repubblica: nell'ipotesi piu' benevola, e' soltanto una triste necessita'. La parata militare e' brutta tristezza e non e' festa. La parata delle armi non festeggia la vita e le istituzioni civili del popolo, non dimostra amicizia verso gli altri popoli, non e' saggezza politica. Non e' neppure un vero rispetto per chi, sotto le armi, ha perso la vita. Rispettando le diverse opinioni, e' un fatto inoppugnabile che l'esercito non ha avuto alcuna parte nell'evento storico del 2 giugno 1946, quando unico protagonista e' stato il popolo sovrano e l'azione democratica disarmata: il voto. Nella festa del 2 giugno l'esercito e' fuori luogo, occupa un posto che non e' suo. * Per aderire all'iniziativa: scrivere lettere recanti il testo dell'appello al Presidente della Repubblica (all'indirizzo di posta elettronica: presidenza.repubblica at quirinale.it, ricordando che si deve firmare con il proprio nome, cognome e indirizzo completo, altrimenti le lettere non vengono prese in considerazione), e comunicare a "La nonviolenza e' in cammino" (e-mail: nbawac at tin.it) di avere scritto al Presidente. 2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: LA COMPASSIONE NELLA RESISTENZA [Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a disposizione questo suo intervento apparso sul quotidiano "La repubblica" del 24 aprile 2006. Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003] Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che ha stimolato reazioni le piu' varie. Si e' parlato del tasso aggiuntivo di violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi fasciste e naziste. Ma quasi mai si e' puntato a una nuova sacralizzazione della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle generalizzazioni in negativo non si e' risposto con generalizzazione di segno contrario, come avviene con i temi piu' esposti all'uso pubblico della storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabu' politici e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda. Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto e' che Il sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza partigiana. Con il rischio di ridare legittimita' alla vecchia divisione dei ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti, l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas - in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi, tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata sulla tutela di regole elementari di umanita' e sulla salvaguardia di beni essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza distinzioni. Non solo i vescovi, per la verita': ci sono donne che nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione aiutano isolati militari tedeschi, perche' un nemico vinto e in fuga smette di essere un vero nemico. * Puo' allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo "scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si e' fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come e' avvenuto per decenni. E' vero che il ritiro del consenso al regime e' diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra all'orgoglio individuale o di comunita' - penso a molti episodi di protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo "esistenziale", che cosi' come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima persona, puo' svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave politica e' stato una sorta di imperialismo retrospettivo. Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla societa', e punta invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza e per la sua versatilita', che puo' aiutare a rompere la contrapposizione fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono radicali. Sul piano generale, ogni movimento di resistenza si muove nella logica della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio, ed e' loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorita' e' colpire il nemico, il che puo' portare a esiti drammatici. Ne racconta un esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per travolgere tutti i protagonisti. * Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna capitalizzare i piccoli passi. Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa della donna, l'organizzazione piu' attiva nel sostenere le proteste contro la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E Nelia non e' stata certo la sola. Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto piu' noto e' la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio economico e di potere, e' stata incoraggiata dai partigiani. A volte si concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala. * Mi chiedo perche' temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal dibattito. E mi rispondo cosi': forse a qualcuno sarebbe sembrato di accampare attenuanti per una responsabilita' che si stentava a attribuire ai propri compagni. Forse semplicemente non ci si e' pensato, e non e' una dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura, della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E si' che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziche' a distruggere, capace di una pieta' dolorosa e affettuosa verso persone, animali, piccole cose, verso tutto cio' che e' esposto, indifeso, alla guerra, e' un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino). Gli aspetti piu' singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per organizzare le onoranze funebri delle vittime dei tedeschi, impresa decisiva per l'autostima di una collettivita'; spiccano quei Cln che si fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati citta' gia' normalizzate. Ma quello spirito si puo' esprimere in occasioni e attraverso soggetti imprevisti, fino a fondersi con una bellicosita' all'apparenza fine a se stessa. * Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina. Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora piu' pittoresco del solito (e il suo solito era gia' spettacolare); indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho sentito le persone piu' disparate ricordarlo con compiacimento mentre passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari" con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa ne' gradi, e alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella esibizione di mascolinita' superarmata curava una ferita simbolica piu' diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria. Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della rispettabilita' pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro merce'. Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun significato negativo: la marcia del sale di Gandhi e' stata un grande pezzo di teatro politico). In piu', con il suo talento di eroe popolare, sapeva che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi piu' micidiali rincuorava persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che con ogni probabilita' temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto. Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che avevano in mente i partiti antifascisti. Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse piu' spazio per storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso. 3. INIZIATIVE. TIZIANO TISSINO: BOMBE ATOMICHE IN ITALIA [Ringraziamo Tiziano Tissino (per contatti: t.tissino at itaca.coopsoc.it) per questo intervento. Tiziano Tissino e' impegnato nel movimento nonviolento dei "Beati i costruttori di pace" ed in numerose altre esperienze ed iniziative nonviolente; e' tra i promotori dell'azione legale contro la presenza delle bombe atomiche americane ad Aviano] Le atomiche, ad Aviano e Ghedi, ci sono o no? Molte volte, anche negli ultimi anni, vari parlamentari lo hanno ripetutamente chiesto al ministro della difesa e/o al comandante di turno delle basi in questione. La risposta e' sempre stata interlocutoria. O un secco "no comment", oppure una lunga dissertazione sugli obblighi di riservatezza imposti della fedelta' atlantica. Dobbiamo dunque tenerci il dubbio, in mancanza di una conferma ufficiale? Beh, da un punto di vista "filosofico" l'apertura al dubbio deve sempre essere presente, cosi' come la scienza non puo' escludere a priori che un giorno si metta a piovere all'insu'. Detto questo, in attesa di vedere dove e quando si mettera' a piovere al contrario, penso si possa dichiarare senza tema (leggi: senza speranza) di smentita che le atomiche in casa nostra ci sono. Magari non saranno proprio novanta, ma qualcuna in piu' o in meno. Che pero' ci siano, ormai mi permetto di darlo per assodato. Intendiamoci: se faccio questo passaggio, pur in assenza di una prova certa e definitiva, non e' per mancanza di spirito critico, anzi. Una delle cose che piu' mi da' fastidio e' il pressappochismo con cui troppa gente continua ad accogliere come oro colato qualsiasi panzana arrivi da internet o dalla televisione, tanto che spesso mi ritrovo stizzito a rimproverare chi colgo in fallo. Anche se non riesco a capacitarmene, ormai sono rassegnato a ritenere la credulita' popolare senza limiti e tento, nel mio piccolo, di porre un argine a questo degrado non dando mai nulla per scontato e cercando, per quanto possibile, le fonti. Ma proprio qui sta il punto: riguardo alle atomiche, queste fonti non sono accessibili a noi comuni mortali. E non lo sono per una scelta esplicita del governo (di tutti i governi che si sono succeduti finora), una scelta scellerata e profondamente antidemocratica. Come scriveva Anders, nelle sue "Tesi sull'eta' atomica", "Se la parola 'democrazia' ha un senso, e' proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la 'res publica'... E un problema piu' 'pubblico' dell'attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai". Vedremo presto se il nuovo governo sara' capace di marcare un segno di discontinuita' anche su questo tema. Comunque, in mancanza ed in attesa di una risposta definitiva, quel che ci resta da fare e' raccogliere e mettere insieme gli indizi, per poi trarne le conseguenze. Altri lo hanno fatto prima e meglio di me: hanno rilevato dalle foto satellitari che le basi in questione ospitano numerosi shelters atomici e che in quelle basi operano reparti militari espressamente addestrati a manovrare armi nucleari, hanno messo insieme vecchi documenti ufficiali ormai desecretati con indiscrezioni raccolte tra gli addetti ai lavori. Ed hanno concluso questo lavoro investigativo dichiarando che, a loro parere, in Italia ci sono 90 atomiche e che altre 390 sono distribuite in altri cinque paesi Nato. Questo studio e' stata pubblicato dall'Nrdc (www.nrdc.org/nuclear/euro/contents.asp), un autorevole centro di ricerca indipendente statunitense. A testimonianza, per quanto parziale, della sua autorevolezza, basti effettuare una ricerca su Google con "europe nuclear weapons": su oltre trenta milioni di risultati, sette dei primi dieci vi fanno riferimento. Certo, di per se' questo studio non e' in grado di fornire la prova definitiva, ma per me e' piu' che sufficiente. In queste condizioni, credo sia non solo legittimo, ma necessario vivere "come se" la bomba ci fosse. E' una scelta tutt'altro che facile e scontata: molto piu' semplice sarebbe l'opzione opposta, vivere come se la bomba non ci fosse, che e' poi quello che fanno quasi tutti. Come diceva Anders, siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre cio' che concepiscono, noi non sappiamo immaginare cio' che abbiamo prodotto. Ma non sara' certo esorcizzando il problema, rifiutandosi di affrontarlo, che potremo superarlo. Le atomiche ad Aviano e Ghedi ci sono. Prendiamone atto e cerchiamo di capire come fare a liberarcene. 4. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: VOCI PER UN DIZIONARIO ANTIMAFIA: STEREOTIPI E PARADIGMI [Dal sito del Centro Impastato (per contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it) riprendiamo il seguente testo pubblicato su "Narcomafie", n. 1, gennaio 2006. Umberto Santino ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Su Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata "Contro la mafia. Una breve rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino" apparsa su questo stesso foglio nei nn. 931-934] Il termine "mafia" e' stato e continua a essere usato con una forte dose di indeterminatezza per cui la prima operazione da compiere, se si vuole avviare uno studio scientifico, e' un'ispezione dell'"immaginario collettivo", cioe' il vaglio delle idee correnti. Tali idee possono classificarsi come stereotipi se sono prive di qualsiasi statuto scientifico, cioe' sono soltanto dei luoghi comuni ripetuti per abitudine e recepiti per pigrizia mentale, e come paradigmi se sono il frutto di elaborazioni in qualche misura scientifiche, cioe' sono prodotte in base a una metodologia, esplicita o implicita, e verificate, anche parzialmente, da indagini e ricerche empiriche, sulla base della raccolta e interpretazione di una certa massa di dati. * Funzione e catalogo degli stereotipi La funzione degli stereotipi e' di avallare-indurre-diffondere conformismi di massa o di gruppo, confermando il gia' noto, piu' esattamente il presunto noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato. Gli stereotipi si possono identificare con le "certezze consolidate", con quello che viene chiamato "senso comune", cioe' "l'ovvio per eccellenza", quello che "sanno tutti" (Jedlowski 1994, p. 49), ma in realta' e' ben lontano dal somigliare a una conoscenza effettiva, anzi e' produttore e riproduttore di disinformazione. Si possono individuare due funzioni, strettamente legate: "la prima e' una funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e dei comportamenti dati, cioe' dei conformismi sedimentati; la seconda e' quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi dei comportamenti correnti" (Crisantino 1994, p. 48). Il dato piu' significativo e' che alcuni degli stereotipi piu' diffusi e piu' manifestamente infondati non circolano soltanto tra la gente comune ma, come vedremo, godono di ampio credito anche sui mezzi di informazione e informano la stessa attivita' legislativa. Si puo' dire che fin dall'apparire del termine "mafia" si sia dato l'avvio alla nascita dello stereotipo. Fa parte delle curiosita' letterarie la citazione di un documento relativo a un Atto di fede dell'Inquisizione del 1658, che contiene un elenco di eretici riconciliati, tra cui figura una fattucchiera, "Catarina la Licatisa, nomata ancor Maffia", soprannome che potrebbe riferirsi alle asperita' del suo carattere (in Sciascia 1964, p. 120). Il termine "mafiusi" compare per la prima volta nel titolo di una fortunata commedia popolare (I mafiusi di la Vicaria) rappresentata nel 1863, ma nel testo l'organizzazione di cui fanno parte i protagonisti viene denominata in vari modi (sucivita', "santa chiesa", "famiglia") e gli affiliati vengono chiamati "camorristi". La parola "maffia" e' usata per la prima volta in un documento ufficiale del 1865, un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio, in cui veniva adoperata ambiguamente: designava infatti sia un'"associazione malandrinesca" sia le forme di opposizione al neonato Stato unitario, considerate alla stregua di fenomeni criminali. Farebbero parte infatti di un "partito della Maffia" tanto oppositori politici che criminali, entrambi "al servizio dei Borboni" (Santino 2000a, p. 159). Volendo redigere un catalogo degli stereotipi correnti, vecchi e nuovi o riverniciati, senza nessuna pretesa di esaustivita', possiamo fermare l'attenzione su alcuni di essi particolarmente radicati e duri a scomparire, anche di fronte all'emergere di realta' in aperta contraddizione con essi. Forse la palma dello stereotipo piu' diffuso, in ambienti diversi, dai piu' bassi ai piu' alti, e' quello della mafia come emergenza, secondo cui la mafia esiste quando spara, e' particolarmente preoccupante quando produce una montagna di morti, assurge a questione nazionale quando colpisce personaggi arcinoti, come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Lo stereotipo si incontra a ogni piu' sospinto nelle conversazioni, figura nelle pagine dei quotidiani piu' noti, ha un posto riservato nell'ideario del legislatore. Non per caso tutta la legislazione antimafia del nostro Paese e' nel solco dell'emergenza: la legge antimafia del 1982, che per la prima volta definisce come reato l'associazione a delinquere di stampo mafioso, viene una settimana dopo l'assassinio di Dalla Chiesa, mentre la documentazione sull'esistenza dell'organizzazione puo' agevolmente reperirsi gia' nella prima meta' dell'Ottocento (Santino 2000a, pp.137-147). E legata all'emergenza, cioe' alle manifestazioni piu' eclatanti della violenza mafiosa, e' l'ulteriore produzione legislativa: la legge antiracket approvata dopo l'omicidio dell'imprenditore Libero Grassi (mentre le estorsioni sono documentabili sulla piazza di Palermo gia' nel XVI secolo, in quelli che ho chiamati "fenomeni premafiosi": Santino 2000a); la legislazione premiale dei mafiosi collaboratori di giustizia viene dopo le stragi del 1992 in cui sono caduti Falcone e Borsellino, e si potrebbe continuare. Mentre all'affievolirsi della violenza corrisponde la cancellazione o l'attenuazione dei provvedimenti, elaborati e messi in atto nell'ottica della riposta emergenziale allo scatenarsi e all'infierire della violenza mafiosa. E' quello che e' avvenuto negli ultimi anni, una volta che i mafiosi, anche per i colpi che hanno ricevuto dopo le stragi, hanno capito che se vogliono continuare ad avere un ruolo debbono controllare la violenza e sospendere quella rivolta verso l'alto. La "mafia sommersa" di cui parlano le cronache recenti per molti, compreso il legislatore, e' una mafia vinta o comunque tanto indebolita da non destare preoccupazione e da consentire lo smantellamento della legislazione emergenziale. Lo stereotipo si limita a registrare i fatti delittuosi, ha una visione della mafia meramente congiunturale, la identifica come una fabbrica di omicidi che andrebbe in letargo tra un delitto e l'altro e ignora che essa e' un fenomeno continuativo, dedita a molteplici attivita'. Un altro stereotipo abbastanza diffuso e' quello secondo cui la mafia sarebbe un antistato e un contropotere criminale, eversivo dello Stato democratico: i delitti contro uomini delle forze dell'ordine, magistrati, rappresentanti delle istituzioni e di partiti governativi vengono considerati come atti di guerra contro lo Stato nel suo complesso, mentre a ben vedere essi mirano a colpire singoli personaggi o settori impegnati nella lotta contro la mafia, spesso isolati o con scarso peso all'interno delle istituzioni di cui fanno parte. Si ricordino, tra le vicende piu' note, le richieste non accolte di poteri adeguati da parte del generale-prefetto Dalla Chiesa, e l'isolamento, gli attacchi fino alla denigrazione subiti dai magistrati Falcone e Borsellino. Un'analisi della mafia, nel suo percorso storico e nella realta' attuale, non puo' non registrare come dato caratterizzante il rapporto con settori istituzionali, senza di cui molte attivita' non sarebbero pensabili, a cominciare dagli appalti di opere pubbliche e dalle complicita' che rendono possibili latitanze pluridecennali, come quella di Bernardo Provenzano, ampiamente documentate da inchieste giudiziarie. E l'impunita' goduta dai mafiosi per molti anni, una vera e propria forma di legittimazione, si spiega soltanto con la funzionalita' della violenza mafiosa alla conservazione e perpetuazione di determinati assetti di potere: si pensi alla lunga catena di delitti consumati contro i dirigenti e i militanti delle lotte contadine, dai Fasci siciliani (1891-'94) agli anni '50 del XX secolo (Santino 2000b). Sono classificabili come stereotipi anche le visioni che considerano la mafia come una subcultura comune a tutta la popolazione della Sicilia occidentale o di tutta la Sicilia, su cui torneremo nella voce apposita, o inducono una generalizzazione-criminalizzazione universale, come suggeriscono le rappresentazioni mediatiche di successo che utilizzano l'immagine della Piovra: una mafia onnipresente e onnipotente, sotto il comando di una cupola mondiale e di un superboss planetario, contrastata da eroi solitari che sopravvivono unicamente per esigenze di copione. Operano anche sul terreno della mafia e di altri fenomeni ad essa assimilabili stereotipi che si riferiscono generalmente alla societa' siciliana e meridionale, come il familismo amorale o la mancanza di senso civico. Una discutibile ricerca, condotta negli anni '50 in un paesino meridionale dall'antropologo americano Edward Banfield, ha portato alla conclusione che la societa' meridionale sarebbe dominata da un ethos fondato sul nucleo familiare ristretto e non sarebbe capace di darsi strutture associative al di fuori di esso (Banfield 1961-1976). Per cio' che riguarda il fenomeno mafioso, c'e' da dire che l'organizzazione mafiosa siciliana si basa sulla famiglia di sangue ma non si esaurisce in essa, estendendosi al di la' della cerchia parentale con cooptazioni fondate sulle doti personali (l'abilita' nell'uso delle armi, ma pure la verifica delle capacita' degli affiliandi attraverso l'attenta osservazione dei selezionatori). Il figlio del capomafia non e' detto che gli succedera', mentre le dinastie monarchiche e imprenditoriali-finanziarie sono piu' rigidamente determinate dal legame parentale. La tesi della mancanza di senso civico e' sostenuta da un altro studioso statunitense, Robert Putnam, che riconduce tale deficit a radici storiche, come la monarchia normanna, mentre nel Nord operavano le istituzioni comunali (Putnam 1993). Una tesi un po' troppo frettolosa, che ignora i movimenti di massa sviluppatisi in particolare in Sicilia, con una diffusa capacita' di dar vita a strutture organizzative e a forme di partecipazione. * I paradigmi: associazione tipica e impresa. Il paradigma eziologico Le idee diffuse, ma con un grado di diffusione di gran lunga inferiore a quello degli stereotipi, classificabili come paradigmi sono essenzialmente due: la mafia come associazione a delinquere tipica e la mafia come impresa. Il primo paradigma, giuridico-criminologico, ha il suo statuto ufficiale nell'articolo 416 bis della Legge n. 646 del 13 settembre 1982 (legge Rognoni - La Torre o legge antimafia) che cosi' definisce l'associazione mafiosa: "L'associazione e' di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omerta' che ne deriva per commettere delitti, per acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attivita' economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se' o per altri". L'associazione di tipo mafioso rispetto all'associazione a delinquere semplice (che richiede il vincolo associativo, la struttura organizzativa, il programma criminoso) presenta come aspetto specifico la forza intimidatrice del vincolo associativo, produttrice di assoggettamento e induttrice di omerta' (usualmente intesa come legge del silenzio, a tutela della segretezza). L'ultima parte della definizione data dalla legge contiene elementi del paradigma economico-sociologico che considera la mafia come impresa. Al suo interno possiamo individuare due specificazioni: l'impresa mafiosa e la mafia-impresa. Le attivita' imprenditoriali formalmente lecite possono configurarsi come mafiose per la presenza di uno di questi elementi: il soggetto imprenditoriale e' direttamente o indirettamente legato alla mafia, il capitale investito e' di provenienza illecita, la concorrenza adopera mezzi illeciti, come la violenza e la minaccia. La mafia e' impresa nel senso che l'agire mafioso si configura come una razionale combinazione di mezzi e di fini indirizzata al perseguimento di scopi di arricchimento (il riferimento e' all'impresa illecita). A questi due paradigmi si potrebbe aggiungere un terzo, derivante dall'approccio culturalista-psicologico, che sottolinea la rilevanza dei codici comportamentali, con particolare riferimento alle implicazioni psicologiche. Si parla di "cultura mafiosa", di "sentire mafioso", di "psichismo mafioso", e se gli aspetti culturali hanno indubbiamente un peso notevole l'insistenza sulle pulsioni inconsce, che sarebbero alla base della trasmissione dei codici culturali, rischia di riproporre modelli antropologici di tipo razziale: tutti i siciliani sarebbero coinvolti, transpersonalmente, cioe' inconsciamente, nella perpetuazione del sentire mafioso, affermazione che ignora che nella storia della Sicilia contemporanea ci sono stati movimenti di massa, tra i piu' grandi e continuativi d'Europa, che si sono scontrati con la mafia pagando un altissimo costo di sangue. Allo stato attuale dell'elaborazione saremmo in una fase preparadigmatica, con ampio uso di stereotipi, come l'immagine della Sicilia secolarmente inchiodata alla passivita' e alla rassegnazione (Santino, dattiloscritto). Per quanto riguarda le cause e i processi di formazione della mafia e piu' in generale dei fenomeni criminali, il paradigma eziologico piu' diffuso si fonda sul deficit, o deprivazione relativa, cioe' su una carenza di controllo, di socializzazione, di opportunita'. Alle radici del crimine sarebbe comunque una patologia sociale ma negli ultimi anni si e' fatta sempre piu' strada la convinzione che per analizzare le cause della criminalita' organizzata occorre un capovolgimento delle categorie tradizionali: invece di un deficit bisognerebbe parlare di un'ipertrofia delle opportunita' offerte dalle attivita' criminali (Ruggiero 1992, Santino 1995, pp. 95 ss.). Una prospettiva certamente piu' adeguata per spiegare i processi di causazione delle varie forme di criminalita' organizzata, in particolare di quella mafiosa e delle altre forme ad essa assimilabili. * Il paradigma della complessita' Se gli stereotipi producono piu' disinformazione che informazione, i paradigmi esaminati colgono aspetti essenziali del fenomeno mafioso che pero' non si esaurisce in essi. Un'analisi adeguata della mafia e di altre forme similari deve preliminarmente demistificare gli stereotipi ed elaborare un paradigma che integri ed estenda il quadro delineato dai paradigmi della mafia come associazione specifica e impresa. L'operazione di demistifica degli stereotipi e' abbastanza agevole sul piano scientifico, ma se si tiene conto della loro diffusione attraverso i mass-media e della loro sedimentazione nel tempo e' una battaglia condotta con armi impari e con mezzi inadeguati. Non e' difficile dimostrare che la mafia non e' un'emergenza ma un fenomeno permanente, non e' solo fabbrica di omicidi ma e' impegnata in una vasta gamma di attivita', illegali e legali; che essa non e' un contropotere e un antistato ma ha rapporti complessi con settori istituzionali; il problema e' veicolare questi contenuti in modo che diventino conoscenza condivisa e sentire comune. Il paradigma che ad avviso di chi scrive puo' darci una rappresentazione adeguata del fenomeno mafioso e' quello che ho chiamato "paradigma della complessita'", che si fonda sulla seguente ipotesi definitoria: Mafia e' un insieme di organizzazioni criminali, di cui la piu' importante ma non l'unica e' Cosa nostra, che agiscono all'interno di un contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalita' finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale. I vari aspetti (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso) interagiscono tra di loro dando vita a un fenomeno polimorfico, strutturato e persistente; isolare uno di questi aspetti e attribuirgli una funzione prevalente e' un'operazione scorretta che porta a una rappresentazione riduttiva e fuorviante. I gruppi criminali, formati da uomini in carne e ossa, boss e gregari, professionisti del crimine, individuabili con nomi e cognomi, e non da personaggi da romanzo o da sceneggiato televisivo, sfuggenti e caricaturali, operano dentro un sistema di relazioni che danno vita a un blocco sociale di cui e' possibile analizzare composizione, caratteristiche, interessi, codici culturali, tipologie di rapporti, rifuggendo da criminalizzazioni generalizzate come pure da visioni che riducono relazioni complesse all'angusto pseudoparadigma protettori-protetti. I gruppi criminali hanno composizione transclassista, figurando al loro interno soggetti provenienti dalle fasce basse della popolazione, semianalfabeti come gli stessi capi militari Riina e Provenzano, e professionisti, nullafacenti e imprenditori. Transclassista e' pure il blocco sociale con cui i criminali organizzati intessono rapporti, ma al suo interno le varie componenti hanno un peso diversificato: sul popolo dei subalterni e dei gregari domina un gruppo di comando composto dai soggetti illegali e legali piu' ricchi e potenti, definibili come "borghesia mafiosa" (rimando alla voce apposita di questo Dizionario). * Storia: mafia vecchia - mafia nuova. Continuita' e trasformazione Anche sull'evoluzione storica del fenomeno mafioso imperversano gli stereotipi, da quello secondo cui a una mafia vecchia arroccata nelle sue posizioni di potere succederebbe, a scadenza piu' o meno determinabile, una mafia nuova all'assalto dei vecchi e aperta a nuove attivita' e a nuovi orizzonti. Nella variante colta lo stereotipo assume i panni del paradigma (in realta' uno pseudoparadigma, in quanto travestimento dello stereotipo), presentando una "mafia tradizionale" in competizione per l'onore e il prestigio che solo negli anni '70 del XX secolo avrebbe ceduto il passo a una "mafia imprenditrice" che solo allora avrebbe scoperto la competizione per la ricchezza. Una corretta lettura ci avverte che il dato generazionale condiziona ogni fenomeno umano, che i fenomeni di lunga durata fondano la loro persistenza nel tempo intrecciando continuita' e innovazione e che l'arricchimento e' una delle finalita' dell'agire mafioso, riscontrabile anche in quelli che possono definirsi "fenomeni premafiosi" (come abbiamo visto, gia' nel XVI secolo sulla piazza di Palermo venivano praticate le estorsioni e reati come l'abigeato, il furto di centinaia di capi di bestiame, avevano insieme il carattere di esercizio della signoria territoriale, con la complicita' delle forze dell'ordine del tempo, e funzione di accumulazione). La distinzione tra mafia vecchia e mafia nuova e' usata con chiaro intento apologetico da parte di mafiosi collaboratori di giustizia, che hanno dato un contributo utile alle inchieste ma sono apertamente o surrettiziamente impegnati in una difesa della loro mafia, contrapposta a quella degli avversari. Cosi' la mafia del passato, anche recente, viene rappresentata come strettamente osservante di codici d'onore ("non uccideva le donne e i bambini"), parsimoniosa nel ricorso alla violenza, ancorata ai principi dell'etica sociale e della democrazia interna, mentre la mafia degli avversari, per esempio dei "corleonesi", viene presentata come una forma di degenerazione, derivante dall'arricchimento prodotto dal traffico di droghe, mentre e' documentato che in tale traffico gli alleati di Toto' Riina hanno avuto per molti anni un ruolo subalterno rispetto a quello degli alleati di Tommaso Buscetta. In realta' la mafia si e' sviluppata coniugando continuita' e trasformazione-innovazione, fedelta' alle radici e adattamento ai mutamenti del contesto, rigidita' formali ed elasticita' di fatto. Cosi' la signoria territoriale, che e' una forma arcaica, prestatuale, di dominio tendenzialmente totalitario sulle attivita' che si svolgono in un determinato territorio, anche sulla vita privata, si intreccia funzionalmente con le proiezioni internazionali, sulla via dei grandi traffici (di tabacchi, di droghe, di armi, di esseri umani). Anche per cio' che riguarda le distinzioni di genere, la mafia, pur essendo formalmente monosessuale, cioe' composta da soli uomini (in obbedienza non tanto a una regola interna quanto a una prassi di carattere generale, che voleva le donne subalterne ed escluse dalla vita pubblica e dalle professioni), di fatto ha assegnato e assegna alle donne ruoli non secondari, che vanno dalla gestione delle attivita' legali alle supplenze nel caso della carcerazione degli affiliati (Puglisi 2005). E non bisogna sorprendersi se recentemente una donna della famiglia mafiosa di Partinico, Giusy Vitale, ha rivelato che e' stata eletta formalmente capomandamento. Un'ulteriore prova di un'elasticita' e capacita' di adattamento che spesso viene sottovalutata da chi si ostina a leggere il fenomeno mafioso attraverso le lenti degli stereotipi, dimostrando che quella pseudoscienza che va sotto il nome di "mafiologia" piu' che produrre analisi adeguate riproduce e rafforza banalita' e luoghi comuni. * Voglia di mafia e societa' mafiogena Sui rapporti tra fenomeno mafioso e contesto sociale abbiamo gia' detto che i gruppi criminali agiscono all'interno di un sistema relazionale e come per tutti i fenomeni sociali "cause ed effetti si rigenerano continuamente in un circuito di reciproco rafforzamento. Cosi' la mafia e' insieme prodotto di una societa' e riproduttrice di essa" (Santino 2002a, p. 53). Piu' che parlare di "bisogno di mafia", di "richiesta di mafia", o peggio di "voglia di mafia", espressioni tanto generiche da rientrare tra gli stereotipi, si puo' parlare di "societa' mafiogena" per una societa' che, rifuggendo da generalizzazioni in blocco, presenta caratteristiche ben individuate e individuabili. Alcuni esempi: - violenza e illegalita' sono moralmente accettate da buona parte della popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per l'acquisizione di ricchezza e di ruoli sociali, difficilmente ottenibili per altre vie, e sono normalmente impunite; - l'economia legale e' troppo esigua per offrire opportunita' consistenti e appetibili e il tessuto della societa' civile e' troppo fragile e precario; - lo Stato e le istituzioni in genere sono sentiti come mondi lontani ed estranei, spesso collusi con soggetti mafiosi; - la memoria delle lotte precedenti e' stata cancellata e rimane soltanto l'idea dell'ineluttabilita' della sconfitta e dell'immodificabilita' della realta'; - si e' sedimentata una cultura della sfiducia e del fatalismo, per cui la mafia viene considerata come un fenomeno naturale: "c'e' sempre stata e sempre ci sara'; non possiamo farci niente", mentre e' facilmente documentabile che essa e' un fenomeno storico, le cui origini non si perdono "nella notte dei tempi" ma rimontano al XIX secolo; - nella vita quotidiana domina l'aggressivita' anche nei rapporti piu' banali, vige la solidarieta' nell'illegalita'; tutto e' visto in base a criteri di tornaconto e di interesse. Queste caratteristiche, prima presenti nella societa' siciliana e meridionale, negli ultimi decenni si sono estese ad altri contesti, sull'onda dei processi di globalizzazione neoliberista, che aggravano gli squilibri territoriali e i divari sociali, smantellano lo Stato sociale e le economie piu' deboli, spingendo gran parte della popolazione mondiale verso l'accumulazione illegale, potenziano la finanziarizzazione speculativa, rendendo sempre piu' difficile la distinzione tra capitale illegale e legale. In tal mondo tanto nei centri che nelle periferie si sviluppano le attivita' illegali e proliferano organizzazioni criminali complesse di tipo mafioso. Possiamo dire che la globalizzazione, in alcuni suoi aspetti fondamentali, e' criminogena, piu' che tout court criminale (Santino 2002b). Anche qui allo stereotipo "piovra universale", "cupola mondiale" diretta da una sorta di superboss, bisogna sostituire analisi adeguate, capaci di leggere i fenomeni criminali nel contesto attuale, sulla base di criteri elaborati scientificamente e dell'accertamento dei dati. * Riferimenti bibliografici - Banfield Edward, Una comunita' del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1961, ripubblicato con il titolo Le basi morali di una societa' arretrata, il Mulino, Bologna 1976. - Crisantino Amelia, La fabbrica degli stereotipi, in A. Cavadi (a cura di), A scuola di antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 48-56. - Jedlowski Paolo, "Quello che tutti sanno". Per una discussione sul concetto di senso comune, in "Rassegna Italiana di Sociologia", a. XXXV, n. 1, gennaio-marzo 1994, pp. 49-77. - Puglisi Anna, Donne, mafia e antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005. - Putnam Robert, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993. - Ruggiero Vincenzo, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento delle definizioni, in "Dei delitti e delle pene", n. 3, 1992, pp. 7-30. - Santino Umberto, La mafia interpretata, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; La cosa e il nome, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000a; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000b; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo, 2002a; Modello mafioso e globalizzazione, in M. A. Pirrone e S. Vaccaro (a cura di), I crimini della globalizzazione, Asterios Editore, Trieste 2002b, pp. 81-110; La mafia dentro, dattiloscritto, capitolo della nuova edizione de La mafia interpretata, in corso di stampa. - Sciascia Leonardo, Appunti su mafia e letteratura, in "Nuovi Quaderni del Meridione", n. 5, 1964, pp. 118-126. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1301 del 20 maggio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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