La nonviolenza e' in cammino. 1301



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1301 del 20 maggio 2006

Sommario di questo numero:
1. Per il vero 2 giugno
2. Anna Bravo: La compassione nella Resistenza
3. Tiziano Tissino: Bombe atomiche in Italia
4. Umberto Santino: Voci per un dizionario antimafia: stereotipi e paradigmi
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. APPELLI. PER IL VERO 2 GIUGNO
[Riproponiamo ancora l'appello per il 2 giugno festa della Costituzione,
senza l'abusiva parata militare, scritto da Enrico Peyretti (per contatti:
e.pey at libero.it) e sottoscritto gia' da numerose persone. Per esigenze di
spazio oggi non riportiamo l'elenco delle adesioni pervenute]

Signor Presidente della Repubblica,
insieme ai nostri vivi auguri per il Suo alto compito, Le rivolgiamo una
calda richiesta, che viene dal popolo della pace, di festeggiare il prossimo
2 giugno come vera festa della Costituzione, come festa del voto popolare
che ha voluto la Repubblica e eletto la Costituente, e niente affatto come
festa militare.
Ammessa, per amore di dialogo, e non concessa la necessita' dell'esercito -
che noi come tale discutiamo (tra esercito e polizia democratica la
differenza e' essenziale, come tra la violenza e la forza, la forza omicida
e la forza non omicida) - esso non e' assolutamente il simbolo piu' bello e
vero della patria, non e' l'esibizione giusta per il giorno della festa
della Repubblica: nell'ipotesi piu' benevola, e' soltanto una triste
necessita'.
La parata militare e' brutta tristezza e non e' festa. La parata delle armi
non festeggia la vita e le istituzioni civili del popolo, non dimostra
amicizia verso gli altri popoli, non e' saggezza politica. Non e' neppure un
vero rispetto per chi, sotto le armi, ha perso la vita.
Rispettando le diverse opinioni, e' un fatto inoppugnabile che l'esercito
non ha avuto alcuna parte nell'evento storico del 2 giugno 1946, quando
unico protagonista e' stato il popolo sovrano e l'azione democratica
disarmata: il voto.
Nella festa del 2 giugno l'esercito e' fuori luogo, occupa un posto che non
e' suo.
*
Per aderire all'iniziativa: scrivere lettere recanti il testo dell'appello
al Presidente della Repubblica (all'indirizzo di posta elettronica:
presidenza.repubblica at quirinale.it, ricordando che si deve firmare con il
proprio nome, cognome e indirizzo completo, altrimenti le lettere non
vengono prese in considerazione), e comunicare a "La nonviolenza e' in
cammino" (e-mail: nbawac at tin.it) di avere scritto al Presidente.

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: LA COMPASSIONE NELLA RESISTENZA
[Ringraziamo Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it) per averci messo a
disposizione questo suo intervento apparso sul quotidiano "La repubblica"
del 24 aprile 2006. Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e
lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle
donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile,
cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche
partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del
comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita
promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa
parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici
dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione
Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo:
(con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini
nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,
Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie
di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia),
Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta
Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza,
Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta
Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza,
Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003]

Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo
Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che
ha stimolato reazioni le piu' varie. Si e' parlato del tasso aggiuntivo di
violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi
fasciste e naziste. Ma quasi mai si e' puntato a una nuova sacralizzazione
della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva
ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle
generalizzazioni in negativo non si e' risposto con generalizzazione di
segno contrario, come avviene con i temi piu' esposti all'uso pubblico della
storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabu' politici
e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda.
Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie
discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso
rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto e' che Il
sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul
versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza
partigiana. Con il rischio di ridare legittimita' alla vecchia divisione dei
ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti,
l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas -
in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi,
tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per
esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata
sulla tutela di regole elementari di umanita' e sulla salvaguardia di beni
essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la
dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama
nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo
modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza
distinzioni. Non solo i vescovi, per la verita': ci sono donne che
nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione
aiutano isolati militari tedeschi, perche' un nemico vinto e in fuga smette
di essere un vero nemico.
*
Puo' allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo
"scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che
ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si
e' fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra
interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si
identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come
e' avvenuto per decenni. E' vero che il ritiro del consenso al regime e'
diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili
alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra
all'orgoglio individuale o di comunita' - penso a molti episodi di
protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo
"esistenziale", che cosi' come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima
persona, puo' svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave
politica e' stato una sorta di imperialismo retrospettivo.
Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da
altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel
concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla
droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla societa', e punta
invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male
senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e
provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza
e per la sua versatilita', che puo' aiutare a rompere la contrapposizione
fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso
senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono
radicali.
Sul piano generale, ogni  movimento di resistenza si muove nella logica
della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio,
ed e' loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorita'
e' colpire il nemico, il che puo' portare a esiti drammatici. Ne racconta un
esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di
rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per
travolgere tutti i protagonisti.
*
Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei
mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da
una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna
capitalizzare i piccoli passi.
Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una
partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La
resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era
specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con
partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa
della donna, l'organizzazione piu' attiva nel sostenere le proteste contro
la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani
e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E
Nelia non e' stata certo la sola.
Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto
piu' noto e' la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne
contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso
del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per
farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare
la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto
della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio
economico e di potere, e' stata incoraggiata dai partigiani. A volte si
concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi
di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala.
*
Mi chiedo perche' temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal
dibattito. E mi rispondo cosi': forse a qualcuno sarebbe sembrato di
accampare attenuanti per una responsabilita' che si stentava a attribuire ai
propri compagni. Forse semplicemente non ci si e' pensato, e non e' una
dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale
inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile
riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura,
della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E si'
che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziche' a
distruggere, capace di una pieta' dolorosa e affettuosa verso persone,
animali, piccole cose, verso tutto cio' che e' esposto, indifeso, alla
guerra, e' un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne
tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino).
Gli aspetti piu' singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del
danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per
organizzare le onoranze funebri delle  vittime dei tedeschi, impresa
decisiva per l'autostima di una collettivita'; spiccano quei Cln che  si
fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati citta' gia' normalizzate.
Ma quello spirito si puo' esprimere in occasioni e attraverso soggetti
imprevisti, fino a fondersi con una bellicosita' all'apparenza fine a se
stessa.
*
Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava
Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i
partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di
un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina.
Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri
o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora
piu' pittoresco del solito (e il suo solito era gia' spettacolare);
indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto
con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho
sentito le persone piu' disparate ricordarlo con compiacimento mentre
passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari"
con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa ne' gradi, e
alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella
esibizione di mascolinita' superarmata curava una ferita simbolica piu'
diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria.
Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre
colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della
rispettabilita' pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino
dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi
agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro merce'.
Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun
significato negativo: la marcia del sale di Gandhi e' stata un grande pezzo
di teatro politico). In piu', con il suo talento di eroe popolare, sapeva
che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi piu' micidiali rincuorava
persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che
con ogni probabilita' temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle
grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e
nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto.
Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che
avevano in mente i partiti antifascisti.
Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse piu' spazio per
storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso.

3. INIZIATIVE. TIZIANO TISSINO: BOMBE ATOMICHE IN ITALIA
[Ringraziamo Tiziano Tissino (per contatti: t.tissino at itaca.coopsoc.it) per
questo intervento. Tiziano Tissino e' impegnato nel movimento nonviolento
dei "Beati i costruttori di pace" ed in numerose altre esperienze ed
iniziative nonviolente; e' tra i promotori dell'azione legale contro la
presenza delle bombe atomiche americane ad Aviano]

Le atomiche, ad Aviano e Ghedi, ci sono o no? Molte volte, anche negli
ultimi anni, vari parlamentari lo hanno ripetutamente chiesto al ministro
della difesa e/o al comandante di turno delle basi in questione. La risposta
e' sempre stata interlocutoria. O un secco "no comment", oppure una lunga
dissertazione sugli obblighi di riservatezza imposti della fedelta'
atlantica. Dobbiamo dunque tenerci il dubbio, in mancanza di una conferma
ufficiale? Beh, da un punto di vista "filosofico" l'apertura al dubbio deve
sempre essere presente, cosi' come la scienza non puo' escludere a priori
che un giorno si metta a piovere all'insu'.
Detto questo, in attesa di vedere dove e quando si mettera' a piovere al
contrario, penso si possa dichiarare senza tema (leggi: senza speranza) di
smentita che le atomiche in casa nostra ci sono. Magari non saranno proprio
novanta, ma qualcuna in piu' o in meno. Che pero' ci siano, ormai mi
permetto di darlo per assodato.
Intendiamoci: se faccio questo passaggio, pur in assenza di una prova certa
e definitiva, non e' per mancanza di spirito critico, anzi. Una delle cose
che piu' mi da' fastidio e' il pressappochismo con cui troppa gente continua
ad accogliere come oro colato qualsiasi panzana arrivi da internet o dalla
televisione, tanto che spesso mi ritrovo stizzito a rimproverare chi colgo
in fallo. Anche se non riesco a capacitarmene, ormai sono rassegnato a
ritenere la credulita' popolare senza limiti e tento, nel mio piccolo, di
porre un argine a questo degrado non dando mai nulla per scontato e
cercando, per quanto possibile, le fonti.
Ma proprio qui sta il punto: riguardo alle atomiche, queste fonti non sono
accessibili a noi comuni mortali. E non lo sono per una scelta esplicita del
governo (di tutti i governi che si sono succeduti finora), una scelta
scellerata e profondamente antidemocratica. Come scriveva Anders, nelle sue
"Tesi sull'eta' atomica", "Se la parola 'democrazia' ha un senso, e' proprio
quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che
concernono la 'res publica'... E un problema piu' 'pubblico' dell'attuale
decisione sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai".
Vedremo presto se il nuovo governo sara' capace di marcare un segno di
discontinuita' anche su questo tema.
Comunque, in mancanza ed in attesa di una risposta definitiva, quel che ci
resta da fare e' raccogliere e mettere insieme gli indizi, per poi trarne le
conseguenze. Altri lo hanno fatto prima e meglio di me: hanno rilevato dalle
foto satellitari che le basi in questione ospitano numerosi shelters atomici
e che in quelle basi operano reparti militari espressamente addestrati a
manovrare armi nucleari, hanno messo insieme vecchi documenti ufficiali
ormai desecretati con indiscrezioni raccolte tra gli addetti ai lavori. Ed
hanno concluso questo lavoro investigativo dichiarando che, a loro parere,
in Italia ci sono 90 atomiche e che altre 390 sono distribuite in altri
cinque paesi Nato.
Questo studio e' stata pubblicato dall'Nrdc
(www.nrdc.org/nuclear/euro/contents.asp), un autorevole centro di ricerca
indipendente statunitense. A testimonianza, per quanto parziale, della sua
autorevolezza, basti effettuare una ricerca su Google con "europe nuclear
weapons": su oltre trenta milioni di risultati, sette dei primi dieci vi
fanno riferimento.
Certo, di per se' questo studio non e' in grado di fornire la prova
definitiva, ma per me e' piu' che sufficiente. In queste condizioni, credo
sia non solo legittimo, ma necessario vivere "come se" la bomba ci fosse. E'
una scelta tutt'altro che facile e scontata: molto piu' semplice sarebbe
l'opzione opposta, vivere come se la bomba non ci fosse, che e' poi quello
che fanno quasi tutti. Come diceva Anders, siamo "utopisti a rovescio":
mentre gli utopisti non sanno produrre cio' che concepiscono, noi non
sappiamo immaginare cio' che abbiamo prodotto.
Ma non sara' certo esorcizzando il problema, rifiutandosi di affrontarlo,
che potremo superarlo.
Le atomiche ad Aviano e Ghedi ci sono. Prendiamone atto e cerchiamo di
capire come fare a liberarcene.

4. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: VOCI PER UN DIZIONARIO ANTIMAFIA:
STEREOTIPI E PARADIGMI
[Dal sito del Centro Impastato (per contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144
Palermo, tel. 0916259789, fax: 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito:
www.centroimpastato.it) riprendiamo il seguente testo pubblicato su
"Narcomafie", n. 1, gennaio 2006. Umberto Santino ha fondato e dirige il
Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da
decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i
suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di
questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra
economia, politica e criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura
di), L'antimafia difficile,  Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza
programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi,
Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa
mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio
Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote.
Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli,
Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro
la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra,
progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia
mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per
l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi,
paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti
nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La
democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione
delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la
legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e
il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni
nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento
antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo
studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. Su
Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata "Contro la mafia. Una breve
rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino" apparsa su questo stesso
foglio nei nn. 931-934]

Il termine "mafia" e' stato e continua a essere usato con una forte dose di
indeterminatezza per cui la prima operazione da compiere, se si vuole
avviare uno studio scientifico, e' un'ispezione dell'"immaginario
collettivo", cioe' il vaglio delle idee correnti. Tali idee possono
classificarsi come stereotipi se sono prive di qualsiasi statuto
scientifico, cioe' sono soltanto dei luoghi comuni ripetuti per abitudine e
recepiti per pigrizia mentale, e come paradigmi se sono il frutto di
elaborazioni in qualche misura scientifiche, cioe' sono prodotte in base a
una metodologia, esplicita o implicita, e verificate, anche parzialmente, da
indagini e ricerche empiriche, sulla base della raccolta e interpretazione
di una certa massa di dati.
*
Funzione e catalogo degli stereotipi
La funzione degli stereotipi e' di avallare-indurre-diffondere conformismi
di massa o di gruppo, confermando il gia' noto, piu' esattamente il presunto
noto, facendolo apparire come qualcosa di ovvio e di scontato. Gli
stereotipi si possono identificare con le "certezze consolidate", con quello
che viene chiamato "senso comune", cioe' "l'ovvio per eccellenza", quello
che "sanno tutti" (Jedlowski 1994, p. 49), ma in realta' e' ben lontano dal
somigliare a una conoscenza effettiva, anzi e' produttore e riproduttore di
disinformazione.
Si possono individuare due funzioni, strettamente legate: "la prima e' una
funzione rassicuratrice, di avallo della giustezza delle rappresentazioni e
dei comportamenti dati, cioe' dei conformismi sedimentati; la seconda e'
quella di rimozione e demotivazione di processi di conoscenza che
porterebbero alla problematizzazione e messa in crisi dei comportamenti
correnti" (Crisantino 1994, p. 48). Il dato piu' significativo e' che alcuni
degli stereotipi piu' diffusi e piu' manifestamente infondati non circolano
soltanto tra la gente comune ma, come vedremo, godono di ampio credito anche
sui mezzi di informazione e informano la stessa attivita' legislativa.
Si puo' dire che fin dall'apparire del termine "mafia" si sia dato l'avvio
alla nascita dello stereotipo. Fa parte delle curiosita' letterarie la
citazione di un documento relativo a un Atto di fede dell'Inquisizione del
1658, che contiene un elenco di eretici riconciliati, tra cui figura una
fattucchiera, "Catarina la Licatisa, nomata ancor Maffia", soprannome che
potrebbe riferirsi alle asperita' del suo carattere (in Sciascia 1964, p.
120). Il termine "mafiusi" compare per la prima volta nel titolo di una
fortunata commedia popolare (I mafiusi di la Vicaria) rappresentata nel
1863, ma nel testo l'organizzazione di cui fanno parte i protagonisti viene
denominata in vari modi (sucivita', "santa chiesa", "famiglia") e gli
affiliati vengono chiamati "camorristi". La parola "maffia" e' usata per la
prima volta in un documento ufficiale del 1865, un rapporto del prefetto di
Palermo Filippo Gualterio, in cui veniva adoperata ambiguamente: designava
infatti sia un'"associazione malandrinesca" sia le forme di opposizione al
neonato Stato unitario, considerate alla stregua di fenomeni criminali.
Farebbero parte infatti di un "partito della Maffia" tanto oppositori
politici che criminali, entrambi "al servizio dei Borboni" (Santino 2000a,
p. 159).
Volendo redigere un catalogo degli stereotipi correnti, vecchi e nuovi o
riverniciati, senza nessuna pretesa di esaustivita', possiamo fermare
l'attenzione su alcuni di essi particolarmente radicati e duri a scomparire,
anche di fronte all'emergere di realta' in aperta contraddizione con essi.
Forse la palma dello stereotipo piu' diffuso, in ambienti diversi, dai piu'
bassi ai piu' alti, e' quello della mafia come emergenza, secondo cui la
mafia esiste quando spara, e' particolarmente preoccupante quando produce
una montagna di morti, assurge a questione nazionale quando colpisce
personaggi arcinoti, come Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Lo stereotipo
si incontra a ogni piu' sospinto nelle conversazioni, figura nelle pagine
dei quotidiani piu' noti, ha un posto riservato nell'ideario del
legislatore. Non per caso tutta la legislazione antimafia del nostro Paese
e' nel solco dell'emergenza: la legge antimafia del 1982, che per la prima
volta definisce come reato l'associazione a delinquere di stampo mafioso,
viene una settimana dopo l'assassinio di Dalla Chiesa, mentre la
documentazione sull'esistenza dell'organizzazione puo' agevolmente reperirsi
gia' nella prima meta' dell'Ottocento (Santino 2000a, pp.137-147). E legata
all'emergenza, cioe' alle manifestazioni piu' eclatanti della violenza
mafiosa, e' l'ulteriore produzione legislativa: la legge antiracket
approvata dopo l'omicidio dell'imprenditore Libero Grassi (mentre le
estorsioni sono documentabili sulla piazza di Palermo gia' nel XVI secolo,
in quelli che ho chiamati "fenomeni premafiosi": Santino 2000a); la
legislazione premiale dei mafiosi collaboratori di giustizia viene dopo le
stragi del 1992 in cui sono caduti Falcone e Borsellino, e si potrebbe
continuare. Mentre all'affievolirsi della violenza corrisponde la
cancellazione o l'attenuazione dei provvedimenti, elaborati e messi in atto
nell'ottica della riposta emergenziale allo scatenarsi e all'infierire della
violenza mafiosa. E' quello che e' avvenuto negli ultimi anni, una volta che
i mafiosi, anche per i colpi che hanno ricevuto dopo le stragi, hanno capito
che se vogliono continuare ad avere un ruolo debbono controllare la violenza
e sospendere quella rivolta verso l'alto. La "mafia sommersa" di cui parlano
le cronache recenti per molti, compreso il legislatore, e' una mafia vinta o
comunque tanto indebolita da non destare preoccupazione e da consentire lo
smantellamento della legislazione emergenziale. Lo stereotipo si limita a
registrare i fatti delittuosi, ha una visione della mafia meramente
congiunturale, la identifica come una fabbrica di omicidi che andrebbe in
letargo tra un delitto e l'altro e ignora che essa e' un fenomeno
continuativo, dedita a molteplici attivita'.
Un altro stereotipo abbastanza diffuso e' quello secondo cui la mafia
sarebbe un antistato e un contropotere criminale, eversivo dello Stato
democratico: i delitti contro uomini delle forze dell'ordine, magistrati,
rappresentanti delle istituzioni e di partiti governativi vengono
considerati come atti di guerra contro lo Stato nel suo complesso, mentre a
ben vedere essi mirano a colpire singoli personaggi o settori impegnati
nella lotta contro la mafia, spesso isolati o con scarso peso all'interno
delle istituzioni di cui fanno parte. Si ricordino, tra le vicende piu'
note, le richieste non accolte di poteri adeguati da parte del
generale-prefetto Dalla Chiesa, e l'isolamento, gli attacchi fino alla
denigrazione subiti dai magistrati Falcone e Borsellino. Un'analisi della
mafia, nel suo percorso storico e nella realta' attuale, non puo' non
registrare come dato caratterizzante il rapporto con settori istituzionali,
senza di cui molte attivita' non sarebbero pensabili, a cominciare dagli
appalti di opere pubbliche e dalle complicita' che rendono possibili
latitanze pluridecennali, come quella di Bernardo Provenzano, ampiamente
documentate da inchieste giudiziarie. E l'impunita' goduta dai mafiosi per
molti anni, una vera e propria forma di legittimazione, si spiega soltanto
con la funzionalita' della violenza mafiosa alla conservazione e
perpetuazione di determinati assetti di potere: si pensi alla lunga catena
di delitti consumati contro i dirigenti e i militanti delle lotte contadine,
dai Fasci siciliani (1891-'94) agli anni '50 del XX secolo (Santino 2000b).
Sono classificabili come stereotipi anche le visioni che considerano la
mafia come una subcultura comune a tutta la popolazione della Sicilia
occidentale o di tutta la Sicilia, su cui torneremo nella voce apposita, o
inducono una generalizzazione-criminalizzazione universale, come
suggeriscono le rappresentazioni mediatiche di successo che utilizzano
l'immagine della Piovra: una mafia onnipresente e onnipotente, sotto il
comando di una cupola mondiale e di un superboss planetario, contrastata da
eroi solitari che sopravvivono unicamente per esigenze di copione.
Operano anche sul terreno della mafia e di altri fenomeni ad essa
assimilabili stereotipi che si riferiscono generalmente alla societa'
siciliana e meridionale, come il familismo amorale o la mancanza di senso
civico. Una discutibile ricerca, condotta negli anni '50 in un paesino
meridionale dall'antropologo americano Edward Banfield, ha portato alla
conclusione che la societa' meridionale sarebbe dominata da un ethos fondato
sul nucleo familiare ristretto e non sarebbe capace di darsi strutture
associative al di fuori di esso (Banfield 1961-1976).
Per cio' che riguarda il fenomeno mafioso, c'e' da dire che l'organizzazione
mafiosa siciliana si basa sulla famiglia di sangue ma non si esaurisce in
essa, estendendosi al di la' della cerchia parentale con cooptazioni fondate
sulle doti personali (l'abilita' nell'uso delle armi, ma pure la verifica
delle capacita' degli affiliandi attraverso l'attenta osservazione dei
selezionatori). Il figlio del capomafia non e' detto che gli succedera',
mentre le dinastie monarchiche e imprenditoriali-finanziarie sono piu'
rigidamente determinate dal legame parentale.
La tesi della mancanza di senso civico e' sostenuta da un altro studioso
statunitense, Robert Putnam, che riconduce tale deficit a radici storiche,
come la monarchia normanna, mentre nel Nord operavano le istituzioni
comunali (Putnam 1993). Una tesi un po' troppo frettolosa, che ignora i
movimenti di massa sviluppatisi in particolare in Sicilia, con una diffusa
capacita' di dar vita a strutture organizzative e a forme di partecipazione.
*
I paradigmi: associazione tipica e impresa. Il paradigma eziologico
Le idee diffuse, ma con un grado di diffusione di gran lunga inferiore a
quello degli stereotipi, classificabili come paradigmi sono essenzialmente
due: la mafia come associazione a delinquere tipica e la mafia come impresa.
Il primo paradigma, giuridico-criminologico, ha il suo statuto ufficiale
nell'articolo 416 bis della Legge n. 646 del 13 settembre 1982 (legge
Rognoni - La Torre o legge antimafia) che cosi' definisce l'associazione
mafiosa:
"L'associazione e' di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si
avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e omerta' che ne deriva per commettere
delitti, per acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o comunque
il controllo di attivita' economiche, di concessioni, di autorizzazioni,
appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per
se' o per altri".
L'associazione di tipo mafioso rispetto all'associazione a delinquere
semplice (che richiede il vincolo associativo, la struttura organizzativa,
il programma criminoso) presenta come aspetto specifico la forza
intimidatrice del vincolo associativo, produttrice di assoggettamento e
induttrice di omerta' (usualmente intesa come legge del silenzio, a tutela
della segretezza).
L'ultima parte della definizione data dalla legge contiene elementi del
paradigma economico-sociologico che considera la mafia come impresa. Al suo
interno possiamo individuare due specificazioni: l'impresa mafiosa e la
mafia-impresa. Le attivita' imprenditoriali formalmente lecite possono
configurarsi come mafiose per la presenza di uno di questi elementi: il
soggetto imprenditoriale e' direttamente o indirettamente legato alla mafia,
il capitale investito e' di provenienza illecita, la concorrenza adopera
mezzi illeciti, come la violenza e la minaccia. La mafia e' impresa nel
senso che l'agire mafioso si configura come una razionale combinazione di
mezzi e di fini indirizzata al perseguimento di scopi di arricchimento (il
riferimento e' all'impresa illecita).
A questi due paradigmi si potrebbe aggiungere un terzo, derivante
dall'approccio culturalista-psicologico, che sottolinea la rilevanza dei
codici comportamentali, con particolare riferimento alle implicazioni
psicologiche. Si parla di "cultura mafiosa", di "sentire mafioso", di
"psichismo mafioso", e se gli aspetti culturali hanno indubbiamente un peso
notevole l'insistenza sulle pulsioni inconsce, che sarebbero alla base della
trasmissione dei codici culturali, rischia di riproporre modelli
antropologici di tipo razziale: tutti i siciliani sarebbero coinvolti,
transpersonalmente, cioe' inconsciamente, nella perpetuazione del sentire
mafioso, affermazione che ignora che nella storia della Sicilia
contemporanea ci sono stati movimenti di massa, tra i piu' grandi e
continuativi d'Europa, che si sono scontrati con la mafia pagando un
altissimo costo di sangue.
Allo stato attuale dell'elaborazione saremmo in una fase preparadigmatica,
con ampio uso di stereotipi, come l'immagine della Sicilia secolarmente
inchiodata alla passivita' e alla rassegnazione (Santino, dattiloscritto).
Per quanto riguarda le cause e i processi di formazione della mafia e piu'
in generale dei fenomeni criminali, il paradigma eziologico piu' diffuso si
fonda sul deficit, o deprivazione relativa, cioe' su una carenza di
controllo, di socializzazione, di opportunita'. Alle radici del crimine
sarebbe comunque una patologia sociale ma negli ultimi anni si e' fatta
sempre piu' strada la convinzione che per analizzare le cause della
criminalita' organizzata occorre un capovolgimento delle categorie
tradizionali: invece di un deficit bisognerebbe parlare di un'ipertrofia
delle opportunita' offerte dalle attivita' criminali (Ruggiero 1992, Santino
1995, pp. 95 ss.). Una prospettiva certamente piu' adeguata per spiegare i
processi di causazione delle varie forme di criminalita' organizzata, in
particolare di quella mafiosa e delle altre forme ad essa assimilabili.
*
Il paradigma della complessita'
Se gli stereotipi producono piu' disinformazione che informazione, i
paradigmi esaminati colgono aspetti essenziali del fenomeno mafioso che
pero' non si esaurisce in essi. Un'analisi adeguata della mafia e di altre
forme similari deve preliminarmente demistificare gli stereotipi ed
elaborare un paradigma che integri ed estenda il quadro delineato dai
paradigmi della mafia come associazione specifica e impresa. L'operazione di
demistifica degli stereotipi e' abbastanza agevole sul piano scientifico, ma
se si tiene conto della loro diffusione attraverso i mass-media e della loro
sedimentazione nel tempo e' una battaglia condotta con armi impari e con
mezzi inadeguati. Non e' difficile dimostrare che la mafia non e'
un'emergenza ma un fenomeno permanente, non e' solo fabbrica di omicidi ma
e' impegnata in una vasta gamma di attivita', illegali e legali; che essa
non e' un contropotere e un antistato ma ha rapporti complessi con settori
istituzionali; il problema e' veicolare questi contenuti in modo che
diventino conoscenza condivisa e sentire comune.
Il paradigma che ad avviso di chi scrive puo' darci una rappresentazione
adeguata del fenomeno mafioso e' quello che ho chiamato "paradigma della
complessita'", che si fonda sulla seguente ipotesi definitoria:
Mafia e' un insieme di organizzazioni criminali, di cui la piu' importante
ma non l'unica e' Cosa nostra, che agiscono all'interno di un contesto
relazionale, configurando un sistema di violenza e di illegalita'
finalizzato all'accumulazione del capitale e all'acquisizione e gestione di
posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo
consenso sociale.
I vari aspetti (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso)
interagiscono tra di loro dando vita a un fenomeno polimorfico, strutturato
e persistente; isolare uno di questi aspetti e attribuirgli una funzione
prevalente e' un'operazione scorretta che porta a una rappresentazione
riduttiva e fuorviante.
I gruppi criminali, formati da uomini in carne e ossa, boss e gregari,
professionisti del crimine, individuabili con nomi e cognomi, e non da
personaggi da romanzo o da sceneggiato televisivo, sfuggenti e caricaturali,
operano dentro un sistema di relazioni che danno vita a un blocco sociale di
cui e' possibile analizzare composizione, caratteristiche, interessi, codici
culturali, tipologie di rapporti, rifuggendo da criminalizzazioni
generalizzate come pure da visioni che riducono relazioni complesse
all'angusto pseudoparadigma protettori-protetti. I gruppi criminali hanno
composizione transclassista, figurando al loro interno soggetti provenienti
dalle fasce basse della popolazione, semianalfabeti come gli stessi capi
militari Riina e Provenzano, e professionisti, nullafacenti e imprenditori.
Transclassista e' pure il blocco sociale con cui i criminali organizzati
intessono rapporti, ma al suo interno le varie componenti hanno un peso
diversificato: sul popolo dei subalterni e dei gregari domina un gruppo di
comando composto dai soggetti illegali e legali piu' ricchi e potenti,
definibili come "borghesia mafiosa" (rimando alla voce apposita di questo
Dizionario).
*
Storia: mafia vecchia - mafia nuova. Continuita' e trasformazione
Anche sull'evoluzione storica del fenomeno mafioso imperversano gli
stereotipi, da quello secondo cui a una mafia vecchia arroccata nelle sue
posizioni di potere succederebbe, a scadenza piu' o meno determinabile, una
mafia nuova all'assalto dei vecchi e aperta a nuove attivita' e a nuovi
orizzonti. Nella variante colta lo stereotipo assume i panni del paradigma
(in realta' uno pseudoparadigma, in quanto travestimento dello stereotipo),
presentando una "mafia tradizionale" in competizione per l'onore e il
prestigio che solo negli anni '70 del XX secolo avrebbe ceduto il passo a
una "mafia imprenditrice" che solo allora avrebbe scoperto la competizione
per la ricchezza. Una corretta lettura ci avverte che il dato generazionale
condiziona ogni fenomeno umano, che i fenomeni di lunga durata fondano la
loro persistenza nel tempo intrecciando continuita' e innovazione e che
l'arricchimento e' una delle finalita' dell'agire mafioso, riscontrabile
anche in quelli che possono definirsi "fenomeni premafiosi" (come abbiamo
visto, gia' nel XVI secolo sulla piazza di Palermo venivano praticate le
estorsioni e reati come l'abigeato, il furto di centinaia di capi di
bestiame, avevano insieme il carattere di esercizio della signoria
territoriale, con la complicita' delle forze dell'ordine del tempo, e
funzione di accumulazione).
La distinzione tra mafia vecchia e mafia nuova e' usata con chiaro intento
apologetico da parte di mafiosi collaboratori di giustizia, che hanno dato
un contributo utile alle inchieste ma sono apertamente o surrettiziamente
impegnati in una difesa della loro mafia, contrapposta a quella degli
avversari. Cosi' la mafia del passato, anche recente, viene rappresentata
come strettamente osservante di codici d'onore ("non uccideva le donne e i
bambini"), parsimoniosa nel ricorso alla violenza, ancorata ai principi
dell'etica sociale e della democrazia interna, mentre la mafia degli
avversari, per esempio dei "corleonesi", viene presentata come una forma di
degenerazione, derivante dall'arricchimento prodotto dal traffico di droghe,
mentre e' documentato che in tale traffico gli alleati di Toto' Riina hanno
avuto per molti anni un ruolo subalterno rispetto a quello degli alleati di
Tommaso Buscetta.
In realta' la mafia si e' sviluppata coniugando continuita' e
trasformazione-innovazione, fedelta' alle radici e adattamento ai mutamenti
del contesto, rigidita' formali ed elasticita' di fatto. Cosi' la signoria
territoriale, che e' una forma arcaica, prestatuale, di dominio
tendenzialmente totalitario sulle attivita' che si svolgono in un
determinato territorio, anche sulla vita privata, si intreccia
funzionalmente con le proiezioni internazionali, sulla via dei grandi
traffici (di tabacchi, di droghe, di armi, di esseri umani).
Anche per cio' che riguarda le distinzioni di genere, la mafia, pur essendo
formalmente monosessuale, cioe' composta da soli uomini (in obbedienza non
tanto a una regola interna quanto a una prassi di carattere generale, che
voleva le donne subalterne ed escluse dalla vita pubblica e dalle
professioni), di fatto ha assegnato e assegna alle donne ruoli non
secondari, che vanno dalla gestione delle attivita' legali alle supplenze
nel caso della carcerazione degli affiliati (Puglisi 2005). E non bisogna
sorprendersi se recentemente una donna della famiglia mafiosa di Partinico,
Giusy Vitale, ha rivelato che e' stata eletta formalmente capomandamento.
Un'ulteriore prova di un'elasticita' e capacita' di adattamento che spesso
viene sottovalutata da chi si ostina a leggere il fenomeno mafioso
attraverso le lenti degli stereotipi, dimostrando che quella pseudoscienza
che va sotto il nome di "mafiologia" piu' che produrre analisi adeguate
riproduce e rafforza banalita' e luoghi comuni.
*
Voglia di mafia e societa' mafiogena
Sui rapporti tra fenomeno mafioso e contesto sociale abbiamo gia' detto che
i gruppi criminali agiscono all'interno di un sistema relazionale e come per
tutti i fenomeni sociali "cause ed effetti si rigenerano continuamente in un
circuito di reciproco rafforzamento. Cosi' la mafia e' insieme prodotto di
una societa' e riproduttrice di essa" (Santino 2002a, p. 53).
Piu' che parlare di "bisogno di mafia", di "richiesta di mafia", o peggio di
"voglia di mafia", espressioni tanto generiche da rientrare tra gli
stereotipi, si puo' parlare di "societa' mafiogena" per una societa' che,
rifuggendo da generalizzazioni in blocco, presenta caratteristiche ben
individuate e individuabili. Alcuni esempi:
- violenza e illegalita' sono moralmente accettate da buona parte della
popolazione, sono considerate mezzi di sopravvivenza e canali per
l'acquisizione di ricchezza e di ruoli sociali, difficilmente ottenibili per
altre vie, e sono normalmente impunite;
- l'economia legale e' troppo esigua per offrire opportunita' consistenti e
appetibili e il tessuto della societa' civile e' troppo fragile e precario;
- lo Stato e le istituzioni in genere sono sentiti come mondi lontani ed
estranei, spesso collusi con soggetti mafiosi;
- la memoria delle lotte precedenti e' stata cancellata e rimane soltanto
l'idea dell'ineluttabilita' della sconfitta e dell'immodificabilita' della
realta';
- si e' sedimentata una cultura della sfiducia e del fatalismo, per cui la
mafia viene considerata come un fenomeno naturale: "c'e' sempre stata e
sempre ci sara'; non possiamo farci niente", mentre e' facilmente
documentabile che essa e' un fenomeno storico, le cui origini non si perdono
"nella notte dei tempi" ma rimontano al XIX secolo;
- nella vita quotidiana domina l'aggressivita' anche nei rapporti piu'
banali, vige la solidarieta' nell'illegalita'; tutto e' visto in base a
criteri di tornaconto e di interesse.
Queste caratteristiche, prima presenti nella societa' siciliana e
meridionale, negli ultimi decenni si sono estese ad altri contesti,
sull'onda dei processi di globalizzazione neoliberista, che aggravano gli
squilibri territoriali e i divari sociali, smantellano lo Stato sociale e le
economie piu' deboli, spingendo gran parte della popolazione mondiale verso
l'accumulazione illegale, potenziano la finanziarizzazione speculativa,
rendendo sempre piu' difficile la distinzione tra capitale illegale e
legale. In tal mondo tanto nei centri che nelle periferie si sviluppano le
attivita' illegali e proliferano organizzazioni criminali complesse di tipo
mafioso. Possiamo dire che la globalizzazione, in alcuni suoi aspetti
fondamentali, e' criminogena, piu' che tout court criminale (Santino 2002b).
Anche qui allo stereotipo "piovra universale", "cupola mondiale" diretta da
una sorta di superboss, bisogna sostituire analisi adeguate, capaci di
leggere i fenomeni criminali nel contesto attuale, sulla base di criteri
elaborati scientificamente e dell'accertamento dei dati.
*
Riferimenti bibliografici
- Banfield Edward, Una comunita' del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1961,
ripubblicato con il titolo Le basi morali di una societa' arretrata, il
Mulino, Bologna 1976.
- Crisantino Amelia, La fabbrica degli stereotipi, in A. Cavadi (a cura di),
A scuola di antimafia, Centro Impastato, Palermo 1994, pp. 48-56.
- Jedlowski Paolo, "Quello che tutti sanno". Per una discussione sul
concetto di senso comune, in "Rassegna Italiana di Sociologia", a. XXXV, n.
1, gennaio-marzo 1994, pp. 49-77.
- Puglisi Anna, Donne, mafia e antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005.
- Putnam Robert, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori,
Milano 1993.
- Ruggiero Vincenzo, Crimine organizzato: una proposta di aggiornamento
delle definizioni, in "Dei delitti e delle pene", n. 3, 1992, pp. 7-30.
- Santino Umberto, La mafia interpretata, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995;
La cosa e il nome, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000a; Storia del movimento
antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000b; Oltre la legalita'. Appunti per un
programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo, 2002a;
Modello mafioso e globalizzazione, in M. A. Pirrone e S. Vaccaro (a cura
di), I crimini della globalizzazione, Asterios Editore, Trieste 2002b, pp.
81-110; La mafia dentro, dattiloscritto, capitolo della nuova edizione de La
mafia interpretata, in corso di stampa.
- Sciascia Leonardo, Appunti su mafia e letteratura, in "Nuovi Quaderni del
Meridione", n. 5, 1964, pp. 118-126.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1301 del 20 maggio 2006

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