Voci e volti della nonviolenza. 22



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 22 del 16 maggio 2006

In questo numero:
1. Umberto Santino
2. Umberto Santino: Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra
stereotipi e paradigmi
3. Et coetera

1. UMBERTO SANTINO
Questo pensiamo: che la lotta contro il potere mafioso e' il decisivo banco
di prova della nonviolenza in cammino. Non solo: alcune delle piu' grandi e
decisive esperienze della storia e del pensiero della nonviolenza si sono
date in questa lotta. Ed anche: del movimento che si e' opposto alla mafia
la scelta della nonviolenza, le tecniche della nonviolenza, la proposta
teorica e pratica, assiologica e metodologica, organizzativa ed operativa
della nonviolenza, sono costantemente state un elemento centrale e
caratterizzante.
Del movimento antimafia, e della riflessione che ha alimentato nel modo piu'
coerente, adeguato e rigoroso la lotta contro la mafia, Umberto Santino e' -
per unanime riconoscimento - la figura maggiore.

2. UMBERTO SANTINO: SCIENZE SOCIALI, MAFIA E CRIMINE ORGANIZZATO, TRA
STEREOTIPI E PARADIGMI
[Dal sito del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato"
(www.centroimpastato.it) riprendiamo il seguente saggio del marzo 2006
scritto per la rivista "Dei delitti e delle pene"]

Sommario: 1. Immaginario collettivo e paradigma della complessita'. - 2. Il
paradigma imprenditoriale, il capitale sociale, lo psichismo mafioso.- 3.
Cosa nostra e societa', mafia e sviluppo, deficit e ipertrofia delle
opportunita' nel postfordismo.- 4. Il paradigma della complessita' e la
globalizzazione. - 5. Raccontare l'antimafia. Dalla lotta di classe
all'impegno civile. - 6. Scienze sociali e societa' contemporanea.
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1. Immaginario collettivo e paradigma della complessita'
Se negli anni '80 e nei primi anni '90, in cui esplodeva la violenza
mafiosa, l'idea piu' diffusa nel cosiddetto immaginario collettivo era
quella della mafia come emergenza, dalla seconda meta' degli anni '90 a oggi
si parla soprattutto o esclusivamente di mafia sommersa o invisibile. Prima
la mafia era considerata come una fabbrica di omicidi e, tenuto conto della
personalita' delle vittime (uomini delle forze dell'ordine, magistrati,
politici di opposizione e di governo), come contropotere criminale e
antistato; successivamente la sospensione della violenza omicida ha indotto
la sensazione che la mafia fosse ormai alle corde o in ogni caso non
destasse piu' particolare preoccupazione. Emergenza e invisibilita' non sono
soltanto idee correnti condivise da gran parte della popolazione ma hanno
informato e informano anche l'attivita' del legislatore. Bastera' ricordare
che tutta la legislazione antimafia del nostro Paese e' all'insegna
dell'emergenza, cioe' si configura come risposta all'esplosione della
violenza mafiosa. La legge antimafia del 13 settembre 1982 viene subito dopo
il delitto Dalla Chiesa, con piu' di un secolo di ritardo rispetto
all'esistenza documentabile dell'associazionismo mafioso; altre disposizioni
legislative sono venute dopo le stragi di Capaci e di via d'Amelio, in cui
sono morti i magistrati Falcone, Morvillo, Borsellino e gli agenti di
scorta. Una volta sospeso l'uso delle armi, con una mafia che abbandonava la
ribalta, anche la legislazione e l'attenzione delle istituzioni per il
fenomeno mafioso sono state attenuate fino a scomparire dall'agenda.
Gli studi apparsi dagli anni '80 a oggi hanno segnato il passaggio
dall'impostazione culturalista (la mafia come mentalita', codice
comportamentale, subcultura, senza organizzazione) a quella organizzativista
(la mafia solo e unicamente come Cosa nostra). A fare da spartiacque la
"scoperta" dell'organizzazione mafiosa, legata in gran parte alle
dichiarazioni dei cosiddetti pentiti.
Scrivevo qualche anno fa: "La produzione scientifico-accademica ha avuto
negli ultimi anni un'inversione di rotta, passando dall''indigestione di
informale' (disorganized crime, non corporate groups) all''overdose del
super-strutturato', cioe' da una visione centrata su una mafia amebica,
invertebrata, a un'altra totalmente occupata da una mafia iperorganizzata,
cartesiana... Si ripropone ancora una volta la polarizzazione. Prima tutto
si riduceva a dati di carattere culturale, dimenticando che da varie fonti
era possibile ricavare informazioni serie sull'esistenza di una struttura
organizzativa; ora si riduce tutto all'organizzazione, dimenticando i
fattori culturali e sociali che hanno avuto e continuano ad avere una
notevole importanza" (U. Santino 1994a,  p. 118 s.).
E proponevo che invece di una chiave di lettura che usava l'aut-aut si
usasse l'et-et, "criterio che andrebbe seguito da chi si occupa di fenomeni
complessi, frutto del combinarsi di aspetti molteplici" (ivi, p. 120). La
mia proposta nasceva dall'esigenza di rappresentare il fenomeno mafioso come
fenomeno polimorfico che mi aveva portato ad elaborare il "paradigma della
complessita'", frutto di una riflessione che aveva mosso i primi passi
dall'analisi critica delle idee correnti, classificabili come stereotipi e
come paradigmi. I primi rappresentati da una serie di luoghi comuni
ampiamente diffusi (dall'emergenza all'antistato, dalla subcultura marginale
alla Piovra universale); i secondi catalogabili in pochi esemplari: un
paradigma giuridico-criminologico (la mafia come associazione a delinquere
tipica, definita dalla legge antimafia del 1982) e un paradigma
sociologico-economico (la mafia come impresa).
Il paradigma della complessita' poneva la necessita' di elaborare un modello
analitico composito, interdisciplinare o transdisciplinare, in correlazione
con un'esigenza avvertita dai cultori delle scienze sociali, almeno da
quelli piu' preoccupati che le monoculture accademiche fossero sempre piu'
inadatte a comprendere la realta'. Allo stato dei lavori, si puo' dire che
questa esigenza di rompere gli schemi e produrre nuove sintesi e' piu'
enunciata che praticata. Per questa ragione la rassegna che propongo in
queste pagine, che sintetizzano le riflessioni ospitate in una nuova
edizione del mio La mafia interpretata (U. Santino 1995), segue le tracce
della produzione piu' recente delle varie discipline.
*
2. Il paradigma imprenditoriale, il capitale sociale, lo psichismo mafioso
Se i giuristi e gli operatori giudiziari sono interessati ad analizzare e
applicare lo schema dell'associazione tipica, connotata rispetto
all'associazione semplice dall'omerta' e dall'assoggettamento, coniugandolo
con quello del concorso esterno in associazione mafiosa, di elaborazione
giurisprudenziale, sociologi, antropologi e politologi hanno operato
soprattutto sul paradigma imprenditoriale e su quello organizzativo, ma si
segnala negli ultimi tempi anche la ripresa dell'approccio culturalista.
Il paradigma imprenditoriale, elaborato gia' dagli anni '60 negli Stati
Uniti, era stato rilanciato in Italia dalla tesi sulla cosiddetta "mafia
imprenditrice", frutto di un'elaborazione frettolosa e semplicistica, che
segnava negli anni '70 il passaggio da una mafia in competizione
esclusivamente per l'onore e il potere a una mafia in competizione per la
ricchezza, trasformatasi improvvisamente in soggetto produttivo (P. Arlacchi
1983). Lo stesso autore successivamente correggeva il tiro parlando della
mafia come "ostacolo allo sviluppo" (P. Arlacchi 1985) e per scoprire
l'esistenza della struttura organizzativa, prima esplicitamente negata,
doveva attendere il colloquio rivelatore con un capomafia pentito (P.
Arlacchi 1992).
Il paradigma imprenditoriale veniva ripreso da altri studiosi (R. Catanzaro
1988, E. Fanto' 1999) e doveva fare da base a successive riflessioni che
riducevano il fenomeno mafioso a "industria della protezione privata" (D.
Gambetta 1992). La mafia veniva presentata come una sorta di istituto
assicurativo che in una societa' dominata dalla sfiducia e dall'insicurezza
dispensava protezione. Il fondamento storico della sfiducia veniva riportato
alla politica dell'impero spagnolo, in base a ricostruzioni dilettantesche,
e la delittuosita', anche quella stragista, da Portella della Ginestra alle
stragi di Capaci e di via D'Amelio, veniva considerata come un attestato di
garanzia del marchio della ditta assicurativa ("vedete di cosa siamo capaci?
Mettetevi sotto la nostra tutela!"); in tal modo il multiforme attivismo
mafioso veniva ridotto al moncherino protezionista, ignorando non solo che i
mafiosi inducono insicurezza, minacciando ritorsioni a chi non cede alle
richieste estorsive, ma che hanno ampiamente goduto della protezione
assicurata dai detentori di potere, ufficiale o di fatto. Nonostante
l'evidente gratuita' dell'assunto, piu' postulato che dimostrato, lo
pseudoparadigna della mafia come industria della protezione privata e' stato
accolto da sociologi italiani e stranieri (R. Sciarrone 1998, You Chu Kong
2000, F. Varese 2001, P. Hill 2003, S. Costantino 2004), da storici (F.
Renda 1997), da magistrati (G: Caselli, A. Ingroia 2002], da sedi
istituzionali (relazione di minoranza alla Commissione parlamentare
antimafia 2006) ed e' diventato un luogo comune della letteratura degli
ultimi anni. Il marchio editoriale (Einaudi) ha garantito la bonta' del
prodotto, nonostante la presenza di autentici strafalcioni. Il piu'
emblematico: il lavoro teatrale I mafiusi di la Vicaria, il primo testo
letterario in cui si usa la parola "mafiusi" apparso nel 1863, sarebbe stato
scritto da Placido Rizzotto, il sindacalista assassinato nel 1948 (gli
autori erano Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca).
Altri studiosi si sono dedicati soprattutto a declinare il paradigma
organizzativo, analizzando le relazioni degli affiliati all'associazione
mafiosa come contratti di status e legami di fratellanza rituale, con
un'accentuazione degli aspetti tradizionali che finisce con il diagnosticare
una crisi irreversibile dell'associazionismo mafioso, indotta dai processi
di modernizzazione (L. Paoli 2000), che mal si concilia con la sua
persistenza nel tempo e fino ai nostri giorni.
La ricerca etnografica ha analizzato i processi di trasformazione del
fenomeno mafioso, attraverso uno sguardo antropologico che, per
l'impossibilita' di un'osservazione dall'interno, usa soprattutto le
dichiarazioni dei mafiosi collaboratori di giustizia e gli atti giudiziari
(A. Dino 2002). Forme di osservazione partecipante erano state sperimentate
in passato, in tempi in cui dominava l'idea di mafia come mentalita' senza
organizzazione, con soggiorni in comunita' della Sicilia occidentale (A.
Blok 1974, J. e P. Schneider 1976); ora la scelta, condivisibile, di un
"politeismo metodologico" deve fare i conti con un materiale che finisce con
il diventare un deus ex machina decisivo e ingombrante.
L'analisi sociologica si e' soffermata su quello che ho chiamato "blocco
sociale" o "sistema" o "contesto relazionale" (U. Santino 1995),
ribattezzato come "relazioni esterne", con l'uso del concetto di "capitale
sociale" (R. Sciarrone 1998). Tale concetto, elaborato dalla sociologia
nordamericana (J. Coleman 1990), mirava a correggere l'impostazione
dell'individualismo metodologico introducendo le nozioni di relazione e di
rete di relazioni fiduciarie. Si e' cosi' confezionato un
concetto-contenitore, in cui puo' trovarsi di tutto, di cui non si vede
l'utilita' ma che potrebbe portare a una sorta di "deriva culturalista",
sulle tracce di R. Putnam (1993), che riconduce il mancato sviluppo del
Mezzogiorno italiano alla carenza di senso civico, o di F. Fukuyama (1995),
con la sua enfatizzazione delle "radici culturali". Beninteso, gli aspetti
culturali non sono da sottovalutare ma vanno inseriti in un gioco
interattivo piu' ampio. Nasce cosi' una visione della mafia che cerca di
sposare organizzazione, traffici illeciti e relazioni esterne, utilizzando
la distinzione introdotta da Alan Block (1980) per la criminalita' di New
York tra power syndicate e enterprise syndicate; si ignora che l'analisi di
Block parte dall'idea che ci sia soltanto un organizing crime, alquanto
diverso dalla Cosa nostra siciliana, organizzazione rigida e verticistica.
Il power syndicate, avverte inequivocabilmente Block, e' disorganizzato,
informale e flessibile, opera sia sul terreno lecito che illecito, e non si
puo' distinguere nettamente dall'enterprise, operante sul terreno illecito,
ma le avvertenze dello studioso americano non hanno dissuaso gli studiosi
italiani dall'impiegare gli stessi termini per analizzare realta' diverse.
Emblematico l'uso che fa delle categorie analitiche di Block uno storico
come Salvatore Lupo (1993) che le applica per lo studio di Cosa nostra
siciliana e interpreta le guerre di mafia siciliane come scontro tra
organizzazione e rete degli affari, in mancanza di qualsiasi riscontro
empirico (per le mie osservazioni rimando a Santino 1995, pp. 78 ss.). Ma se
nel caso di Block si tratta di categorie analitiche che hanno dato un
contributo significativo allo studio del crimine americano, in altri casi la
dipendenza da modelli made in Usa si spiega soltanto con una sorta di
autocolonizzazione degli studiosi italiani. Mi riferisco in particolare a
uno degli stereotipi piu' longevi, come il "familismo amorale", la tesi
dell'antropologo Edward Banfield (1958) che, sulla base di una ricerca molto
poco scientifica, ha individuato nell'ethos della famiglia ristretta la
chiave di volta del sottosviluppo meridionale. Cosi' tutto il Mezzogiorno,
che e' stato ed e' una realta' ben piu' complessa, e' diventato una grande
Montegrano, il paesino lucano scenario della ricerca di Banfield.
Il fantasma del familismo amorale aleggia ancora in analisi sulla condizione
femminile (T. Principato, A. Dino 1997) e negli studi di psicologi. Le
ricerche sul ruolo delle donne nella mafia e nella lotta contro di essa
hanno dati risultati significativi, introducendo uno sguardo di genere sul
fenomeno mafioso e sono segnate da due differenti, ma non necessariamente
contrapposte, visioni: una che, sulla base della considerazione della mafia
come organizzazione monosessuale, limita il ruolo delle donne all'esercizio
di quella che ho chiamato "signoria territoriale" (R. Siebert 1994); l'altra
che considera la mafia come organizzazione formalmente rigida ma di fatto
elastica e, tenendo conto anche dei dati di cronaca, non esclude un ruolo
anche all'interno degli organigrammi associativi (A. Puglisi, U. Santino
2005).
Di indubbio interesse le analisi di psicanalisti e psicologi apparse negli
ultimi anni, soprattutto per la sperimentazione di percorsi intrecciati tra
discipline e pratiche diverse, ma purtroppo affette o da una sorta di
"sindrome di Copernico" (pensare di avere scoperto la chiave della
fenomenologia mafiosa) o pesantemente condizionate da stereotipi. Alla base
degli studi degli psicanalisti (F. Di Forti 1971, 1982; S. Di Lorenzo 1996)
e' l'immagine di una comunita' dominata dal parricidio e dalla Grande Madre,
principio femminile dommaticamente definito negativo, di fronte a un
principio maschile dogmaticamente positivo (Jung dixit), mentre gli
psicologi hanno riproposto il mito della Sicilia inchiodata alla sua
diversita', affetta da un sentire e da uno psichismo mafiosi trasmessi
transpersonalmente, cioe' inconsciamente, in cui il familismo amorale non
consente lo svilupparsi del senso dello Stato, e i comportamenti
controcorrente si limitano a pochi personaggi considerati alieni (F. Di
Maria, G. Lavanco 1995; I. Fiore 1997; G. Lo Verso 1998; F. Di Maria 2005).
Si propone cosi' una sorta di lombrosismo psichico e si ignora che senza il
rapporto con le istituzioni la mafia non esisterebbe e che allo scontro con
la mafia si sono mossi in Sicilia movimenti di massa tra i piu' grandi
d'Europa, la cui sconfitta si deve proprio al ruolo della mafia come
componente di un blocco dominante e alla sua interazione con il potere
costituito (U. Santino 2000a).
La ripresa d'attenzione della ricerca sociologica e sociostorica per le
tematiche culturali, in particolare per il contributo di C. Geerz (1993), ha
riportato tali tematiche anche sul terreno degli studi sulla mafia. Si e' in
particolare avviata un'analisi mirante a sviluppare una teoria culturale
della mafia come istituzione politica (M. Santoro 1998). Nel fenomeno
mafioso si ritroverebbero i quattro elementi che caratterizzano il concetto
di cultura: norme, valori, credenze e simboli espressivi. La norma sociale
della mafia sarebbe l'omerta', onore e rispetto i suoi valori, la credenza
sarebbe lo spirito di mafia e i simboli espressivi si sprecano,
dall'armamentario delle minacce agli ingredienti dei rituali. La mafia
sarebbe una categoria del linguaggio politico e anche la protezione sarebbe
da riportare piu' che a una dimensione economico-impreditoriale a un sistema
di relazioni sociali piu' complesse.
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3. Cosa nostra e societa', mafia e sviluppo, deficit e ipertrofia delle
opportunita' nel postfordismo
L'interesse degli storici e' stato rivolto sia allo studio di Cosa nostra
che del contesto sociale. Sulla scorta delle inchieste giudiziarie e delle
dichiarazioni dei pentiti la scoperta dell'organizzazione mafiosa per
eccellenza, Cosa nostra, identificata tout court con l'associazionismo
mafioso, che invece ha dato vita ad altre formazioni (Stidda, altri gruppi),
e' stata posta come terreno obbligato per una ricostruzione che non fosse
una storia generale mascherata da storia della mafia (S. Lupo 1993). Il
rischio di questa impostazione e' di ignorare o mettere in secondo piano i
legami con il contesto sociale che non sono secondari o eventuali ma
costituiscono un carattere irrinunciabile dell'associazionismo mafioso. Gli
studi storici non hanno pero' potuto ignorare tali legami, ponendo l'accento
sulla genesi del "paradigma mafioso" e sui rapporti con le istituzioni e la
politica (P. Pezzino 1987, 1990, 1994), o sostenendo esplicitamente che
essendo la mafia un'organizzazione segreta non si puo' fare storia che del
modo in cui la societa' l'ha intesa e vissuta (F. Renda 1997), o dando ampio
spazio al contesto socio-politico (G. C:Marino 1998) o proponendo una summa
delle tesi piu' accreditate in una sorta di storia-romanzo (J. Dickie 2004).
Sulle origini del fenomeno mafioso gli storici sono concordi nel datarle
all'interno del processo che porta all'Unita' d'Italia, con qualche
concessione alla possibilita' di guardare anche piu' indietro nel tempo alla
ricerca di quelli che ho chiamato "fenomeni premafiosi" (U. Santino 2000b;
O. Cancila 1984). Sulle evoluzioni piu' recenti e' ormai largamente
condivisa una ricostruzione del ruolo della mafia nel corso della seconda
guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra che calca l'accento, piu' che
sul contributo militare nello sbarco degli Alleati, sul controllo sociale
nel periodo successivo, mentre il dibattito sul rapporto mafia-politica
registra una contrapposizione tra chi sostiene che esso e' episodico e
tattico (S. Lupo) e chi lo considera strutturale e costitutivo (U. Santino).
Qui si pone il problema della riflessione su quella che ho chiamato
"borghesia mafiosa" (U. Santino 1994b). Visione che, ben lontana dal
postulare una criminalizzazione generalizzata, si fonda sui legami,
documentabili, tra capimafia, professionisti, imprenditori, amministratori e
politici, che rendono praticabili le molteplici attivita' svolte dai
mafiosi. Le critiche mosse a tale visione si fondano sul timore di una
dilatazione eccessiva del fenomeno mafioso, derivante piu' che da un'attenta
lettura degli scritti sull'argomento sulla vulgata secondo cui tutto, o
quasi tutto, sarebbe o potrebbe essere mafia. Piu' implicitamente che
esplicitamente si contesta che la mafia possa considerarsi una classe o
frazione di classe e si ritiene obsoleta un'analisi che faccia riferimento
alle classi sociali. In effetti, i gruppi mafiosi hanno composizione sociale
transclassista e il blocco sociale entro cui agiscono e' anch'esso
transclassista. Solo che tanto gli uni che l'altro sono contrassegnati da
una forte disuguaglianza (capi e gregari, soggetti con differente ruolo
sociale e diversa dotazione culturale ed economica) e si possono
concretamente individuare all'interno del fenomeno mafioso considerato
complessivamente rapporti di dominio e di subalternita'. C'e' da dire poi
che l'analisi di classe e' un ferrovecchio arrugginito se ripropone moduli
datati e rigidi, ma puo' essere uno strumento adeguato per leggere le
societa' contemporanee se riesce a darsi le articolazioni necessarie per
seguire dinamiche sociali complesse e in movimento. Un terreno in larga
parte da costruire se si tiene conto che il Marx teorico non e' andato al di
la' del frammento (il cinquantaduesimo capitolo del Capitale, dedicato alle
classi, contiene solo una pagina e mezza e l'accenno alle "tre grandi classi
della societa' moderna", cioe' gli operai salariati, i capitalisti e i
proprietari fondiari, e' accompagnato da un'avvertenza: c'e' un "infinito
frazionamento di interessi e di posizioni": K. Marx 1965, pp. 1003 s.) e il
Marx storico (Il 18 brumaio, Lotte di classe in Francia) ha elaborato
modelli plurali e fluidi che vanno ripensati e adattati ai contesti sociali
in esame.
Gli economisti italiani, con molti anni di ritardo rispetto ai colleghi
nordamericani, hanno analizzato l'economia mafiosa ponendosi in particolare
il problema del rapporto mafia-sviluppo (S. Zamagni 1993). La mafia
costituirebbe un ostacolo allo sviluppo in quanto avrebbe un effetto
depressivo sugli investimenti e influirebbe sul reddito e sul risparmio.
Pero' l'equazione mafia = sottosviluppo non regge: anche nelle regioni a
piu' alta densita' mafiosa operano imprese di successo, capaci di adattarsi
al contesto (M. Centorrino, A. La Spina, G. Signorino 1999). Il problema e'
definire lo sviluppo: se con esso s'intende solo la crescita del Pil,
bisogna non solo calcolare i costi dell'illegalita' ma pure i vantaggi (i
profitti dei traffici illeciti, a cominciare dal traffico di stupefacenti).
Se invece per sviluppo si intende il miglioramento delle condizioni
complessive di vita, il ruolo della mafia non puo' non essere negativo, per
il condizionamento che essa esercita sulla vita quotidiana delle persone e
sulle relazioni sociali. Una cosa e' certa ed e' messa in luce da studi
recenti: economia illegale e legale troppo spesso si intersecano e diventa
sempre piu' difficile distinguerle nettamente (D. Masciandaro - A. Pansa
2000).
Anche i criminologi insistono nel sottolineare la natura simbiotica del
crimine organizzato contemporaneo, e nello studio dell'eziologia del crimine
evidenziano che il classico paradigma del deficit va sostituito con quello
dell'ipertrofia delle opportunita' offerte dalle attivita' etichettate come
criminali e che la criminologia tradizionale deve cedere il passo
all'anticriminologia, intesa come rinuncia a una teoria unificata del
crimine e proposta di un'analisi integrata, che concilia variabili opposte
(V. Ruggiero 1999). Nella societa' postfordista la mafia adatta schemi
organizzativi e comportamenti, abbandonando cupole e gerarchie rigide e
introducendo una sorta di flessibilita' criminale (V. Scalia).
Il futuro del crimine organizzato dovrebbe vedere l'affermazione del modello
gangsteristico, variegato e flessibile, rispetto a quello della cosca,
rigido e gerarchico (A. Becchi 2000), ma e' sicuro che la cosca mafiosa sia
cosi' rigida come si crede o la storia della stessa Cosa nostra non dimostra
il contrario, cioe' un alto grado di elasticita' e di adattabilita' al
mutare dei tempi e dei contesti?
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4. Il paradigma della complessita' e la globalizzazione
Lo studio della mafia e di altri fenomeni ad essa assimilabili attraverso il
"paradigma della complessita'" implica due considerazioni di fondo. La
prima: il polimorfismo del fenomeno mafioso, risultante dall'interazione di
vari aspetti (crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso);
la seconda: il network di relazioni dei gruppi criminali con il contesto
sociale (U. Santino 1995). Il crimine puo' essere organized o organizing ma
una qualche forma di collaborazione tra i soggetti non puo' non esserci (il
disorganized crime propriamente si dovrebbe riferire a forme di criminalita'
episodiche e individuali). L'accumulazione sfrutta sia le occasioni dello
sviluppo che del sottosviluppo, dei centri e delle periferie. La mafia e'
soggetto politico, in duplice senso: con l'esercizio della signoria
territoriale, una sorta di dominio dittatoriale sulle attivita' e sulla vita
quotidiana, e con il condizionamento delle istituzioni (U. Santino 1994a).
Il codice culturale si configura come "transcultura", coniugando aspetti
arcaici e aspetti postmoderni. Il consenso si fonda sulle cointeressenze e
sulla condivisione dei codici culturali e si declina a seconda dei
comportamenti della popolazione: si riduce nei periodi di mobilitazione, si
rafforza nelle fasi di passivita'.
Concetti come signoria territoriale, borghesia mafiosa, negli ultimi anni
ritornano frequentemente in rapporti e dichiarazioni di magistrati, come
l'attuale Procuratore nazionale antimafia, e in documenti ufficiali come la
recente relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia
(anche se non ci si preoccupa di citare le fonti), e corrono anch'essi il
rischio di ridursi a slogan e stereotipi se non sono ancorati ad analisi
concrete e documentate.
Gli studiosi che si rifanno al paradigma della complessita' non sono molti
ma hanno dato contributi significativi. Penso in particolare a Fabio Armao e
a Vincenzo Sanfilippo.
Il primo, con un approccio prevalentemente politologico, si e' posto il
problema della possibilita' di una teoria generale delle forme piu'
sperimentate di criminalita' organizzata, definendo la mafia un "sistema
totalitario" e allargando lo sguardo alle "comunita' di sostegno" (F. Armao
2000, p. 17). Le mafie si inserirebbero in un flusso di lunga durata che si
identifica con la storia del capitalismo e sulla base dello schema
dipendenza-indipendenza-prevalenza vengono tratteggiati gli sviluppi di
varie organizzazioni (mafia siculo-americana, French connection, yakuza,
triadi), in un processo che dall'economia-mondo porta al dominio locale.
Come si vede, la prospettiva e' rovesciata rispetto a quella usuale.
L'analisi delle mafie mette in gioco concetti-chiave come politica, mercato,
societa', democrazia, capitalismo, anche se va evitata la generalizzazione e
si sottolinea la necessita' di individuare un limes.
Sanfilippo, sociologo di ispirazione nonviolenta, ha ipotizzato l'esistenza
di un modello sistemico a centralita' mafiosa diffuso nella societa'
meridionale e proposto l'uso del metodo nonviolento, fondato sulla ricerca
del conflitto, per individuare gli aspetti che presentano una maggiore
potenzialita' trasformativa (V. Sanfilippo 2005). Il sottosistema culturale
sarebbe il luogo principe della riproduzione sociale e su questo terreno
bisognerebbe sviluppare una strategia alternativa.
Queste analisi, senza dubbio tra le piu' interessanti proposte negli ultimi
anni, richiedono delle puntualizzazioni su problemi di fondo, come il
rapporto mafie-societa' meridionale e piu' in generale mafie-capitalismo.
Quel che e' certo e' che non si puo' operare una criminalizzazione
generalizzata; quindi piu' che parlare di un Mezzogiorno italiano definibile
come "sistema sociale mafioso" parlerei di "societa' mafiogena", cioe' di
una societa' che presenta alcune caratteristiche (accettazione
dell'illegalita' e della violenza, esiguita' dell'economia legale,
estraneita' e complicita' delle istituzioni, fragilita' del tessuto sociale,
cultura della sfiducia ecc.) che facilitano il perpetuarsi del fenomeno
mafioso (U. Santino 2002a).
Quanto al rapporto mafie-capitalismo, si puo' dire, schematicamente, che
nella fase di transizione dal feudalesimo al capitalismo sono nate
organizzazioni di tipo mafioso nelle aree dove non e' riuscito a imporsi il
monopolio statale della forza (mafia siciliana, triadi cinesi, yakuza
giapponese); nei paesi a capitalismo maturo tali fenomeni si sono sviluppati
in presenza di determinate condizioni (immigrazione e difficolta' di
integrazione, presenza di mercati neri per la legislazione proibizionista).
Nella fase attuale, che va sotto il nome di mondializzazione e di
globalizzazione, le contraddizioni sistemiche aumentano gli squilibri
territoriali e i divari sociali, e in molte aree del pianeta l'unica
possibilita' di accumulazione e' quella illegale; riducono l'economia
produttiva a vantaggio dell'economia finanziaria, con un alto tasso di
opacita', rendendo sempre piu' facile la simbiosi tra flussi di capitale
legale e illegale. Anche qui bisogna resistere alla tentazione della
generalizzazione. La globalizzazione, a dire di alcuni studiosi (S. Amin
1998; B. Amoroso 1999) sarebbe di per se' criminale, fondandosi
sull'economia illegale e sulla clandestinita' dei poteri decisionali.
Parlerei piuttosto di globalizzazione criminogena per gli aspetti gia'
richiamati precedentemente, cioe' il ricorso all'accumulazione illegale per
gli esclusi dal banchetto neoliberista e la funzione simbiotica della
finanziarizzazione (U. Santino 2002b).
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5. Raccontare l'antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile
Per anni abbiamo assistito a una liturgia che coniugava smemoratezza del
passato e enfatizzazione del presente. Lo stereotipo imperante voleva che
l'antimafia fosse una novita' degli ultimi anni, databile dalle stragi di
Capaci e di via D'Amelio (1992) o, per chi guardava un po' piu' lontano,
dall'assassinio di Dalla Chiesa (1982).
In questo contesto ho pensato di scrivere una Storia del movimento antimafia
che comincia con le lotte contadine della fine del XIX secolo e arriva fino
ai nostri giorni. Il libro e' apparso nel 2000 ed e' fino ad oggi l'unico
tentativo di raccontare una storia quasi completamente dimenticata (c'erano
ricostruzioni delle lotte contadine ma queste non venivano ricondotte
nell'alveo della mobilitazione contro la mafia).
Per tutte le fasi delle lotte contadine (prima fase, dal 1891 al 1894, con i
Fasci siciliani; seconda fase, nel primo ventennio del XX secolo; terza
fase, negli anni '40 e '50), lo scontro con la mafia, legata ai proprietari
terrieri nella difesa di un assetto di dominio secolare, e' stato lo
specifico siciliano della lotta di classe e del conflitto sociale.
I problemi da affrontare studiando le lotte contadine sono molteplici.
Riguardano la composizione di classe, le prassi politiche e sindacali
locali, nazionali e internazionali, le forme di lotta, gli obiettivi, i
risultati. La vulgata vuole che il movimento contadino abbia vinto la sua
lunga guerra; in realta' la riforma agraria siciliana del 1950 fu una beffa,
assegno' per sorteggio individuale (mentre prima le terre incolte venivano
assegnate alle cooperative) poca terra, e ben presto i contadini presero la
strada dell'emigrazione (circa un milione e mezzo su una popolazione di
quattro milioni e mezzo). Il potere fu saldamente nelle mani dei partiti
conservatori, con in testa la Democrazia cristiana, nonostante la vittoria
delle sinistre raccolte nel Blocco del popolo alle prime elezioni regionali
del 20 aprile 1947. Dieci giorni dopo ci fu la strage di Portella della
Ginestra e nel mese di maggio si formarono i governi centristi a Roma, dove
dal 1944 governava una coalizione antifascista, e a Palermo (U. Santino
1997).
Negli anni '60 e '70 la lotta contro la mafia si sposta sul terreno
istituzionale, con l'istituzione della Commissione parlamentare antimafia, e
sul piano sociale vede l'impegno significativo ma minoritario di gruppi e
singoli personaggi, come Danilo Dolci e Giuseppe Impastato (U. Santino
2000a). Successivamente , con la lievitazione della violenza interna ed
esterna, si avra' la risposta delle istituzioni in termini emergenziali, con
la legge antimafia del 1982, gli arresti, i processi e le condanne, mentre
la mobilitazione sociale ha come protagonisti i soggetti della societa'
civile (centri, associazioni, comitati), piu' o meno legati ai partiti
politici e ai sindacati. Anche questa mobilitazione risente del clima
dell'emergenza: grandi manifestazioni dopo i delitti e le stragi, ma solo
alcune migliaia di militanti impegnati continuativamente. I terreni sono
molteplici: la scuola, con le attivita' di educazione alla legalita',
l'antiracket, l'uso sociale dei beni confiscati.
La riflessione su questa nuova fase e' appena cominciata (A. Jamieson 2000;
J. e P. Schneider 2003, A. La Spina 2005) e, al di la' della ricostruzione
dei fatti, pone problemi teorici come la definizione e il ruolo della
societa' civile. Il termine va esteso a tutto cio' che si muove all'esterno
dello Stato o, come ritengo, va limitato alle espressioni dell'agire sociale
al di fuori delle istituzioni come pure dei partiti politici? La forma
partito e' in crisi ma e' ancora operante, anche se sotto forma di gruppi
leaderistici, e spesso associazioni e strutture formalmente indipendenti in
realta' sono condizionati, se non colonizzati, dai partiti.
Lo studio dei movimenti sociali e dell'azione collettiva rappresenta ormai
un capitolo significativo delle elaborazioni delle scienze sociali. A
partire dagli anni '60 le mobilitazioni di quegli anni hanno stimolato la
riflessione degli studiosi che hanno sottolineato i mutamenti delle forme di
lotta rispetto a quelle partitiche e sindacali. Si sono confrontate le
visioni delle varie scuole (funzionalismo, interazionismo simbolico,
resource mobilization approach, political model negli Stati Uniti; analisi
dei nuovi movimenti sociali in Europa) e alla luce dei modelli proposti ho
studiato il movimento antimafia degli ultimi anni sotto un duplice profilo.
Dal punto di vista descrittivo esso e' un insieme eterogeneo di soggetti e
di pratiche; da un punto di vista analitico ho tenuto conto di vari aspetti:
struttura e composizione sociale, compiti e funzioni, modalita' d'azione,
autonomia o eterodirezione, autopercezione e coscienza di se'.
L'attuale movimento antimafia e' in larga parte informale o strutturato in
forme di tipo associazionistico ed e' interclassista o aclassista, ma la
componente maggiore e' formata dal ceto medio: studenti, insegnanti,
impiegati, commercianti, con scarso coinvolgimento degli strati popolari. Le
funzioni sono molteplici (mobilitazione, educazione, analisi-ricerca,
denuncia, testimonianza) e le modalita' d'azione le piu' varie
(manifestazioni lineari e circolari, fiaccolate, sit-in,
spettacolarizzazioni), spesso precarie ma alcune continuative (lavoro nelle
scuole, associazioni antiracket, uso sociale dei beni confiscati).
L'autonomia formale spesso deve fare i conti con i legami partitici, sia per
quanto riguarda le attivita' che l'accesso ai fondi pubblici, e
l'autopercezione risente dell'eterogeneneita' delle componenti e delle
culture. Per alcuni fare antimafia significa soprattutto o unicamente
sostenere i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, praticare
un'educazione alla legalita' astratta e formalistica, coltivare idee di
mafia stereotipe (emergenza, antistato), delegare a leaders piu' o meno
carismatici, predicare l'unanimismo ("la lotta contro la mafia debbono farla
tutti, non ha colore"); per altri vuol dire impegnarsi in un'analisi
controcorrente e in iniziative di denuncia e di proposta che richiedono
necessariamente rotture e prese di distanza, con il rischio dell'isolamento.
In conclusione possiamo dire che il movimento antimafia e' un movimento
peculiare, che nei confronti del sistema ha un atteggiamento ambivalente:
alla richiesta di riforma, con l'eliminazione delle complicita' di settori
istituzionali con i gruppi criminali, che spesso rimane allo stadio di
aspirazione, si affiancano teorizzazioni e pratiche tendenzialmente
alternative (U. Santino 2000c).
*
6. Scienze sociali e societa' contemporanea
Le definizioni della societa' contemporanea degli ultimi anni ("societa' del
rischio": U. Beck 2000; "societa' dell'incertezza" o "sotto assedio": Z.
Bauman 1999, 2002) hanno un denominatore comune: la scena mondiale e'
segnata da processi che hanno cancellato vecchi equilibri e introdotto
pericoli e tensioni che non si riesce fronteggiare con i paradigmi e gli
strumenti cognitivi del passato. Si richiede una nuova "immaginazione
sociologica" ma soprattutto ci sarebbe bisogno di teorizzazioni non
astrattamente globali e non penalizzate da una parsimonia che equivale a una
resa di fronte alla complessita'.
Il crimine nella sua forma organizzata fa parte a pieno titolo del contesto,
si inserisce nei processi di accumulazione e nelle dinamiche sociali, si
coniuga con il globale e con il locale. La tentazione di farne una metafora
universale e' forte ma cederle significa sposare una criminalizzazione
generalizzata che non mi sembra di poter condividere.
Nel quadro della globalizzazione assistiamo al proliferare di forme
criminali e di processi criminogeni e questo e' ben piu' di una paura e di
un rischio. Non ci sono mai stati criminali cosi' potenti e forme di
criminalita' cosi' articolate e diffuse. E in una prospettiva anche soltanto
di contenimento si rivelano insufficienti gli armamentari della repressione
che spesso inducono reazioni di adattamento dei gruppi criminali, come pure
sono spiazzate rispetto alla realta' terapie preventive, come i programmi di
educazione alla legalita' generici e formalistici, che non tengono conto che
e' in crisi la legalita' stessa, a tutti i livelli, da quello internazionale
a quelli nazionali e locali.
L'egemonia di un singolo Paese ha archiviato quel tanto di diritto
internazionale che si era riusciti ad elaborare, con grande fatica, nel
contesto dell'equilibrio bipolare. Oggi si confrontano due facce
dell'illegalita': quella dello strapotere imperiale degli Stati Uniti, che
si ritengono al di sopra delle leggi, e quella degli assedianti, sotto forma
di terrorismi alimentati da fanatismi religiosi elevati a modelli identitari
o di gestione criminale dei bisogni di masse crescenti di periferie sempre
piu' ampie (si pensi al ruolo delle criminalita' nella gestione dei flussi
di immigrazione clandestina). Lo scontro di civilta' e le guerre di
religione, vanamente esorcizzate, ci sono gia' e l'uso della violenza e'
diventato pratica quotidiana.
Nel nostro Paese si sono affermate pratiche di governo che si possono
adeguatamente catalogare come forme di "legalizzazione dell'illegalita'" (U.
Santino 2002a): l'illegalita' diventa risorsa, funzionale al modello
istituzionale e di sviluppo, e l'impunita' consacrazione sociale e politica.
La delega alla magistratura del rapporto mafia-politica, con esiti
prevedibilmente deludenti, e la rinuncia alla lotta politica da parte
dell'opposizione hanno comportato la percezione di tale rapporto come
naturale e inevitabile, una componente del paesaggio italiano.
La questione criminale e' sempre stata questione socio-politica ma oggi piu'
di ieri e' questione complessa, insieme geopolitica e culturale. La
prospettiva del pluralismo metodologico, della transdisciplinarieta', e'
certamente l'unica credibile, ma le resistenze frapposte dalla
parcellizzazione accademica sono sempre molto forti, per cui essa rimane
piu' un'aspirazione che una pratica.
*
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3. ET COETERA
Umberto Santino (per contatti: Centro Impastato, via Villa Sperlinga 15,
90144 Palermo, tel. 0916259789, fax: 091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito:
www.centroimpastato.it) ha fondato e dirige il Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei
militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E'
uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i
poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e
criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia
difficile, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e
guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano
1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia
agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto
Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio
a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda
edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di
sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano
di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto
politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo
1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro
siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia
interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la
democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe
Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella
della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria
Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in
terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato",
Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di
Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli
1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e
il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2000. Su Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata
"Contro la mafia. Una breve rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino"
apparsa nei nn. 931-934 de "La nonviolenza e' in cammino".

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 22 del 16 maggio 2006

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