La nonviolenza e' in cammino. 1224



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1224 del 4 marzo 2006

Sommario di questo numero:
1. Renato Solmi: Le prossime elezioni politiche e il referendum sulla
riforma della Costituzione
2. Anna Bravo: La resistenza e la cura
3. Roberto Finelli ricorda Giulio Salierno
4. Giulio Vittorangeli: "Un giorno intero di sole e non strumenti di guerra"
5. Luigi Manconi: Che cos'e' il testamento biologico
6. Riletture: Elena Loewenthal, L'Ebraismo spiegato ai miei figli
7. Riletture: Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei
8. Riletture: Elena Loewenthal, Eva e le altre. Letture bibliche al
femminile
9. Gontardo Scardanelli: Una dichiarazione di voto
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. RENATO SOLMI: LE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE E IL REFERENDUM
SULLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE
[Ringraziamo di cuore Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) per averci
messo a  disposizione come anticipazione questo intervento scritto per la
rivista torinese di Pro Natura "Obiettivo ambiente". Renato Solmi e' stato
tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere
fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico
contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di
persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che attraverso i
suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria
strumentazione intellettuale; e' impegnato nel Movimento Nonviolento del
Piemonte e della Valle d'Aosta]

E' bene che i cittadini italiani prendano coscienza, cio' che purtroppo non
e' avvenuto, se non in misura molto limitata, in questi ultimi mesi, del
fatto che le prossime elezioni politiche presenteranno un carattere
completamente diverso da quello che hanno avuto, a prescindere da ogni altro
cambiamento, quelle che si sono svolte dal 1948 fino ad oggi. Esse non
avranno, infatti, per oggetto solo la scelta dei rappresentanti nelle due
Camere, e della coalizione di partiti che dovra' governare il paese nei
prossimi cinque anni, ma saranno anche, implicitamente, una sconfessione o
una conferma della legge di riforma della Costituzione (che e', in realta',
il varo di una Costituzione affatto nuova) e di tutte le altre leggi piu' o
meno eversive che sono state approvate a tamburo battente, e praticamente
senza discussione, nell'ultimo scorcio di questa legislatura.
E' vero che la legge di riforma costituzionale (la cui possibilita', come ha
fatto notare Luigi Ferraioli, non era nemmeno prevista dalla Costituzione
stessa) dovra' essere confermata da un referendum popolare obbligatorio, ma
e' difficilmente pensabile che, se le elezioni politiche conservassero in
carica la coalizione attuale di governo, l'esito del referendum possa essere
in contrasto con esse (o possa avere, comunque, per effetto un arresto
dell'eversione costituzionale in atto). E, purtroppo, l'esistenza di questo
nesso e' tutt'altro che chiara e presente agli occhi dell'opinione pubblica
nel suo complesso, comprese quelle parti di essa che sono rimaste deluse dal
regime berlusconiano, ma non fino al punto di avvertire la gravita' della
situazione che si verrebbe a determinare se esso non risultasse, in questa
occasione, pienamente sconfitto.
Tanto piu' imperativo risulta oggi il dovere, per tutti quelli che si
riconoscono negli ideali e nei principi dell'opposizione, o anche solo di
questa o quella parte di essa, di non cedere alla tentazione di un
astensionismo motivato dal disgusto per la politica in generale o da un
estremismo velleitario e controproducente (o da mille altre varianti
individuali di questa sindrome, che non e' il caso di analizzare qui), e di
rendersi conto della necessita' di essere presenti a un appuntamento o a una
chiamata di questo genere, che presenta un carattere pregiudiziale e
perentorio rispetto ad ogni altro possibile sviluppo ulteriore o conseguenza
secondaria.
Alla gravita' della situazione economica e politica interna corrisponde, del
resto, sul piano dei rapporti internazionali, un deterioramento progressivo
del clima politico generale, in cui comincia a venir meno ogni garanzia e
sicurezza, come quella che poteva essere determinata, paradossalmente,
nell'epoca della guerra fredda, dall'"equilibrio del terrore" fra le due
parti (che ne erano peraltro, a quei tempi, entrambe discretamente
consapevoli). E qui si aggiunge, come discriminante ulteriore, e come
alternativa irriducibile fra le due coalizioni contrapposte, la scelta di
ritirare le proprie truppe dall'Iraq da parte dell'Unione nel suo complesso,
che non puo' fare a meno di incontrare l'approvazione della grande
maggioranza del popolo italiano, anche se, purtroppo, dietro di essa, sembra
venire meno, da qualche tempo, l'appoggio e il sostegno morale della Chiesa,
o, quanto meno, dei vertici della sua gerarchia, che non era mancato,
invece, tre anni fa, per merito di Giovanni Paolo II, alle grandi
manifestazioni pacifiste in cui si e' manifestata, per la prima volta, in
forma imponente, la potenzialita' di un nuovo soggetto storico e politico
capace di mobilitare dietro di se', sotto nuove insegne, ma senza spezzare
la continuita' di una lunga tradizione, la maggior parte dell'umanita' e dei
popoli della terra.
E' a questa duplice sollecitazione, la difesa della Costituzione democratica
e progressista del 1948 e il rifiuto di ogni concezione egemonica e
imperialistica del futuro del genere umano, che devono rispondere, senza
alcuna esitazione, e a prescindere da ogni possibile divergenza su altri
temi per quanto importanti e significativi, ma su cui sara' sempre possibile
cercare e trovare, nel corso del tempo, le necessarie mediazioni, in
occasione delle prossime elezioni, come a un segnale di allarme
potentissimo, a cui non si puo' fare a meno di prestare il debito ascolto,
tutte le cittadine e i cittadini del nostro paese.

2. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: LA RESISTENZA E LA CURA
[Dalla bella rivista "Una citta'", n. 103, aprile 2002 (disponibile anche
nel sito: www.unacitta.it), riprendiamo il seguente intervento di Anna
Bravo, li' puibblicato col titolo "La resistenza e la cura. Uno sguardo su
donne e uomini nelle guerre contro i civili. Esperienze storiche". Anna
Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it), storica e docente universitaria,
vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di
storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e
resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi
temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto
parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di
vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte;
fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici
dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione
Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna Bravo:
(con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini
nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una
misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,
Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie
di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia),
Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta
Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza,
Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta
Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza,
Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003]

Ho pensato molto a quale contributo poteva dare la storia a un percorso
formativo complicato e delicato come quello da offrire a persone che vanno
in situazioni difficili, di guerre civili e di guerre contro i civili; mi e'
sembrato possibile presentare alcune riflessioni sulle forme di reazione
sociale all'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale e' la prima che si puo' definire guerra contro i
civili, per i bombardamenti a tappeto sulle citta', per le violenze e le
rappresaglie di massa, e prima ancora per le deportazioni e per i
giganteschi spostamenti di popolazioni. Nel Terzo Reich ci sono la
deportazione degli ebrei e degli zingari, le deportazioni per motivi
politici, e i grandi spostamenti di popolazioni destinate al lavoro coatto
nell'economia di guerra. In Urss prima e durante la guerra, gruppi nazionali
non russi come ceceni, tatari, ingusci, turchi, giudicati di "dubbia
lealta'" o accusati in massa di aver collaborato con i nazisti, sono
deportati quasi per intero, sia per "russificare" le loro terre sia per
avere a disposizione forza-lavoro semicoatta per l'industria di guerra.
*
C'e' un altro elemento che mi incoraggia a parlare della seconda guerra
mondiale e riguarda il Kosovo, dove la resistenza nonviolenta condotta dalla
Lega democratica di Rugova e' durata parecchi anni, senza che mai trovasse
spazio sui media e considerazione adeguata sul piano internazionale. Ci si
e' accorti del Kosovo solo quando e' iniziata la lotta armata, e a quel
punto Rugova e' stato emarginato.
Se si fossero conosciute le tante forme di resistenza civile o non armata
(le due parole grosso modo si equivalgono) che ci sono state nell'Europa
sotto dominio nazista, forse si sarebbe prestata piu' attenzione
all'esperienza kosovara, unica, fra l'altro, nella situazione balcanica.
Invece non c'era conoscenza, non c'era un orizzonte simbolico che facesse
capire come fosse importante. Qui anche la storiografia ha i suoi torti. Se
si fosse creata una memoria condivisa capace di valorizzare quella
resistenza, forse anche in Kosovo si sarebbe potuto fare qualcosa prima che
la situazione degenerasse. Tanto piu' che ci sono delle parentele fra alcune
pratiche adottate nei paesi occupati dal Terzo Reich e altre messe in atto
dalla societa' civile per esempio in Kosovo, in Afghanistan e anche in Sud
Tirolo nel periodo fascista.
Intendo la societa' come luogo dell'associarsi delle persone in tante forme,
che esprimono e producono liberta', ma contemplano anche ambivalenze e
conflitti. Le identita' collettive, comprese quelle etniche, che
dall'esterno sembrano un tutt'uno, sono segnate da conflitti interni che,
per fortuna, portano a cambiamenti di idee, di mentalita'. Societa' quindi
come insieme di attori collettivi, di complesse strutture di coesione.
Schematicamente, se ne possono indicare due tipi, uno formalizzato, l'altro
informale. Il primo sono le associazioni di persone che si danno un nome,
uno statuto e si riuniscono intorno a una ragione sociale che puo' essere la
piu' varia, dalla cultura all'assistenza, allo sport e quant'altro. Per
esempio la Germania pre-nazista era un pullulare di organizzazioni di base
di questo tipo, dalle corali alle filarmoniche, alle bocciofile, alle
societa' di storia locale, alle associazioni di mestiere. La seconda forma,
molto piu' fluida, e' quella dei reticoli familiari, amicali, parentali, di
quartiere, di vicinato.
Tutte e due queste strutture della coesione sociale hanno in comune un
radicamento locale forte e la presenza di un solo obiettivo, o di obiettivi
circoscritti, a differenza dei partiti che chiedono un'adesione a una linea
complessiva. Tutte e due hanno una funzione particolarmente importante
durante le emergenze e le guerre, in generale quando lo stato vive una
crisi; e in queste circostanze si puo' cogliere con piu' chiarezza quel loro
carattere ambivalente, progressivo sotto certi aspetti, regressivo per
altri.
In ogni caso sono forme vitali, che hanno contato e contano nel farsi della
storia. Non e' vero che la storia va avanti secondo processi economici o
decisioni a livello di alta politica. Reti familiari e di tipo etnico hanno
avuto un grande peso nel determinare i tempi del mutamento sociale: in Usa
nella prima fase del taylorismo, per esempio, spesso le fabbriche assumevano
non secondo i criteri attitudinali, ma tenendo conto dei legami "etnici"
degli operai immigrati.
*
Quanto fossero importanti le strutture della coesione sociale lo dice
innanzitutto il modo in cui sono state trattate dai totalitarismi. La prima
cosa che fanno i nazisti quando salgono al potere e' distruggere
completamente queste realta', sciogliendole di forza, o nazificandole, ossia
assimilandole nelle organizzazioni di massa per il tempo libero del partito
nazista. Anche per quanto riguarda la seconda tipologia - le reti di
relazione - c'e' il tentativo di penetrazione spionistica, che magari non
riesce totalmente, ma basta a seminare quella sfiducia reciproca che non
permette piu' di parlare tranquillamente con gli amici e persino nella
famiglia. In Urss c'e' un processo simile: lo stato, il partito-stato azzera
tutte le realta' associative e comunitarie tradizionali, e gia' all'indomani
dell'ottobre azzera anche, svuotandoli o sciogliendoli brutalmente, i tanti
comitati e associazioni - di inquilini, di massaie, di caseggiato, di
mestieri - nate tra febbraio e ottobre nel fervore del mutamento.
In Italia, la situazione e' un po' diversa perche' il fascismo deve
patteggiare molto con i centri di potere preesistenti, innanzitutto con la
chiesa cattolica. Il partito fascista neanche lontanamente avrebbe potuto
pensare di azzerare le organizzazioni dell'Azione cattolica.
I totalitarismi temono le strutture della coesione sociale perche' sono i
luoghi delle relazioni fra persone, quelle relazioni che possono produrre
l'imprevisto nella storia. Sono luoghi in cui ci si parla, ci si confronta,
si possono avere delle idee diverse da quelle dominanti.
Pero' sono anche luoghi del conformismo di gruppo, qualsiasi gruppo ne ha in
se' i germi, sono luoghi dove si e' esercitata e si esercita anche la
violenza.
Sta di fatto che nell'Europa occupata queste realta' hanno avuto un ruolo
primario in quella che un importante studioso francese, Jacques Semelin,
chiama "resistenza civile"; la chiama cosi' perche' nasce dalla societa',
dai cittadini, ed e' una resistenza non violenta, ma non sempre: ci sono
azioni non armate, soprattutto di donne, in cui si usa la massa d'urto dei
corpi, come quando si assaltano i magazzini di viveri.
Queste innervature di base della societa', sia di tipo associazionistico,
sia di tipo familiare, parentale, di mestiere, anche di bar se volete, sono
decisive per impedire al nazismo di esercitare pienamente la sua volonta' di
dominio sulla societa' civile, di sfruttamento di tutte le sue risorse,
comprese quelle umane; sono decisive per far si' che ci siano degli
ostacoli, che le cose non possano funzionare come loro vorrebbero; con
differenze fra situazione e situazione, fra paese e paese, anche in
relazione alla diversita' dei piani riservati da Hitler alla loro
popolazione.
*
Vi faccio l'esempio della Polonia, primo stato ad essere invaso, uno stato
che Hitler, nei suoi piani del Reich millenario aveva destinato al lavoro
servile, a essere una sorta di colonia che facesse il lavoro grezzo, bruto.
La pratica applicata nei confronti del popolo polacco era sfruttarlo sul
piano economico, depotenziarlo anche demograficamente, ma soprattutto
decapitarlo culturalmente, assassinando intellettuali e membri della classe
dirigente, e poi impedendo la formazione della futura classe dirigente. Ecco
perche' i nazisti distruggono le scuole, ecco perche' una delle azioni piu'
ammirevoli della resistenza polacca e' l'organizzazione di scuole
clandestine che vanno dalle elementari fino all'universita' in modo che, a
guerra finita, la Polonia possa avere una sua classe dirigente.
Qui, e non e' una forzatura, viene immediatamente da pensare alle scuole del
Kosovo, che la Lega democratica aveva organizzato a tutti i livelli ovunque
fosse possibile, magari nelle case, in modo che ci fossero scuole dove si
parlava la lingua della maggioranza della popolazione, sia per continuare a
formare i quadri dirigenti, sia per garantire l'istruzione di base a tutti.
Mi viene in mente l'Afghanistan, dove c'erano gruppi di donne che
organizzavano scuole clandestine per le bambine, non solo nei campi profughi
in Pakistan, ma anche nel paese. Mi dicono che in questa zona, in Sud
Tirolo, quando il fascismo, con il suo nazionalismo razzista e aggressivo,
voleva estirpare la lingua tedesca, c'erano le Katacomben Schulen, in cui si
dava l'istruzione che non si sarebbe ricevuta nella scuola statale
fascistizzata.
Tutto questo fa capire come tra le potenze occupanti e la popolazione si
creasse spesso un contenzioso diretto; come la societa' non fosse soltanto
il contorno della lotta armata; come il territorio della resistenza non
fosse soltanto quello dove si combatteva con le armi. Fra queste forme di
resistenza civile, ce n'e' una particolarmente "alta", bella, commovente, ed
e' la cura di chi e' in pericolo, di chi ha bisogno. Dico cura per indicare
un accudimento, una sollecitudine verso le persone in difficolta', che non
sempre e' legata a solidarieta' preesistenti o a convinzioni politiche,
ideologiche o religiose. Una cura che nasce piuttosto dall'incontro tra una
persona e la vulnerabilita' dell'altra, proprio dall'incontro faccia a
faccia, occhi negli occhi. E' un altro imprevisto che fa paura ai
totalitarismi, che non a caso puntano a isolare i perseguitati in modo da
impedire contatti da cui possa scattare il desiderio di fare qualcosa per
l'altro. La cura e' un concetto associato molto al femminile, pero' bisogna
dire che nei gruppi che si occupano di nascondere, di far scappare le
persone ricercate c'e' anche una forte presenza maschile.
*
Anche queste pratiche di aiuto sono diverse da fase a fase, da paese a
paese. Nella protezione degli ebrei, banco di prova della resistenza civile,
si vedono bene le differenze fra i tre paesi abitualmente considerati
"amichevoli", la Danimarca, la Bulgaria, che pero' su questo punto ha una
storia troppo particolare per parlarne qui, e l'Italia che, a mio avviso,
negli ultimi tempi sta un poco esagerando nel rivendicare i propri meriti.
La Danimarca era un paese di tradizione democratica, con sentimenti civici
forti e un alto livello di identificazione nelle istituzioni, e visse una
situazione sul filo del rasoio per tutta la guerra: il governo non si oppose
militarmente all'ingresso dei nazisti, ma siglo' un protocollo in cui si
impegnava a fornire alla Germania delle risorse soprattutto economiche, in
cambio dell'assicurazione formale che gli occupanti non avrebbero mai
toccato le leggi e la costituzione danese, vale a dire i valori democratici
di quel paese.
Inizia cosi' un lungo braccio di ferro tra governo danese e nazisti: i
danesi tergiversano quando si tratta di consegnare merci o viveri, ma,
soprattutto, si oppongono fermissimamente all'emanazione di qualsiasi misura
razzista contro gli ebrei in nome del fatto che, sancendo la costituzione
danese l'uguaglianza dei cittadini, qualsiasi norma discriminatoria
l'avrebbe violata. Si arriva a un punto di frizione tale che la solidarieta'
popolare e la fermezza del governo hanno un effetto demoralizzante sui capi
nazisti e Hitler e' costretto a sostituirli. Hannah Arendt ne La banalita'
del male parla quasi di un contagio del bene: i nazisti non riuscivano ad
essere abbastanza efferati in una societa' che stigmatizzava il razzismo.
Sta di fatto che a un certo punto i tedeschi prendono in mano la situazione
e cominciano i primi arresti e le prime deportazioni degli ebrei. E qui si
apre un altro scenario imprevisto, una cosa mai successa, il fatto che la
grande maggioranza di un popolo con le sue istituzioni, con le sue
associazioni e i suoi singoli cittadini, si organizza per portare in salvo
in Svezia i "suoi" seimila ebrei. Portarli in salvo con delle navi - piu'
facilmente con delle barche - voleva dire avvertirli segretamente, riunirli
segretamente, trovare soldi per le navi o per le barche, traghettarli,
trovar loro una sistemazione dall'altra parte. Questa operazione riesce. E'
il piu' grande episodio di salvataggio di tutta la storia della persecuzione
antiebraica.
L'Italia e' un paese molto diverso, che l'8 settembre esce da vent'anni di
un regime che ha frantumato l'opposizione e fascistizzato le strutture della
coesione sociale. I partiti di opposizione sono debolissimi, quelli che non
hanno scelto l'esilio, come il partito comunista, sono stati falcidiati
dalla repressione. L'Italia poi e' un paese dove non c'erano forti
sentimenti civici e dove se c'era qualche barlume di identificazione con le
istituzioni era stato spazzato via dalla fuga del re. Il nostro non e' il re
di Danimarca, che e' presente, attivo e ha posizioni molto rigide, in
particolare sul razzismo.
Anche in Italia una parte della popolazione si sforza di dare aiuto, sebbene
forse non sia ampia come si dice oggi. Ma le "strutture" di salvataggio sono
spesso costituite di un individuo solo, con una piccola rete di aiutanti;
sono i religiosi che accolgono nelle sacrestie, nei conventi; sono alcuni
comandanti militari delle zone occupate dall'Italia - in Francia, in
particolare questi alti ufficiali, pur essendo legati al governo fascista,
fanno scelte diverse, e per una serie di motivi complessi ai quali pero' non
e' estraneo l'umanitarismo, cercano di non emanare o di non applicare le le
misure contro gli ebrei. Poi ci sono delle persone "comuni"; basta fare il
nome di Perlasca, che comune non e' per la sua azione, ma comune e' per la
sua origine sociale, la sua caratterizzazione culturale; e' un uomo come
tanti. Su scala molto piu' piccola poi ci sono uomini e donne che nascondono
le persone, per esempio medici che le ricoverano negli ospedali facendole
passare per malati, donne che fanno passare un bambino ebreo per proprio
figlio.
Un grande ruolo, in Italia, ce l'hanno proprio le reti familiari, parentali,
di quartiere e di vicinato, dove la fiducia reciproca consentiva di creare
percorsi molto fluidi, in cui alcuni ricercati passano da un luogo all'altro
seguendo i fili di queste reti. A volte ad agire sono intere comunita': in
una valle piemontese, in un paesino che si chiama Ror?, per due anni vivono
in segreto delle famiglie ebree e tutti lo sanno. Il paese viene
rastrellato, ma nessuno le tradisce. Va reso onore a questi gruppi e persone
che, a rischio di vita, a rischio di deportazione, proteggono e salvano.
*
Va detto che pero' a guerra finita, queste realta', comprese quelle
familiari e comunitarie, possono rivelare il loro aspetto violento, feroce,
patrocinando vendette private e spacciandole per azioni politiche, oppure
esasperando la propria vendetta politica contro alcuni, o legittimando le
rese dei conti. Altre volte riescono invece a disinnescare la violenza; per
esempio, qualcuno del paese garantisce per quel tale fascista che ha aderito
a Salo', ma non si e' macchiato di crimini, e riesce cosi' a salvarlo,
perche' magari il capo della formazione partigiana locale e' un parente, un
amico, uno che si conosce; in questi casi spesso il ruolo delle donne e'
decisivo. Insomma, da queste strutture puo' dipendere il salvataggio di
alcuni e la morte di altri, e la fisionomia del dopoguerra.
L'ambivalenza si manifesta ovunque, non solo in Italia. In Danimarca le
strutture della coesione sociale svolgono un'azione di straordinaria
civilta', ma a guerra finita fanno cio' che a me sembra molto poco civile:
mettono in un unico fascio le collaborazioniste donne, che c'erano, le
ragazze che si erano innamorate di un soldato tedesco e le donne che si
erano prostituite per ragioni di sopravvivenza, considerandole tutte
traditrici della nazione e sottoponendole tutte, indiscriminatamente, a
umiliazioni e violenza. Le strutture sono le stesse o dello stesso tipo, e
su un aspetto si mostrano altamente civili, su un altro appaiono portatrici
dell'ideologia vecchia e mortifera per cui l'onore nazionale si identifica
con l'onore sessuale, misurato su quello che fanno o non fanno le donne.
Insisto, oltre che sull'ambivalenza, sulle donne, perche' in molti posti
dove andrete ci sono tensioni e guerre di tipo "etnico", e uno degli aspetti
principali delle "identita' etniche" e' lo statuto assegnato alle donne sul
piano simbolico, sociale, familiare, politico; e' uno dei massimi terreni di
scontro fra "etnie", ma lo e' anche al loro interno. Per questo il discorso
sul rispetto delle culture locali e' un punto di principio necessario, ma
che non mi sembra basti a orientare i comportamenti: assistere in silenzio a
gesti aggressivi contro una donna, per esempio, non vuol dire
automaticamente rispettare una cultura, puo' voler dire che se ne sta
legittimando una parte, la peggiore, e sacrificandone un'altra.

3. LUTTI. ROBERTO FINELLI RICORDA GIULIO SALIERNO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo marzo 2006.
Roberto Finelli e' docente di Storia della filosofia moderna all'Universita'
di Bari; e' condirettore insieme con Francesco Fistetti della collana
"Humanities" dell'Editrice Pensa Multimedia di Lecce; autore di molte
pubblicazioni, i suoi principali interessi di ricerca sono "l'idealismo
tedesco, e specificamente la filosofia di Hegel; la psicoanalisi, con
particolare riferimento ad una teoria rappresentativo-a/linguistica del
pensiero inconscio nell'opera di Freud; il marxismo, con riferimento
privilegiato all'opera di Marx; la critica del marxismo italiano, visto
complessivamente come un 'marxismo senza Capitale', e l'analisi del
post-moderno attraverso la messa in opera di un paradigma che, coerentemente
con la teoria dell'astrazione reale, indaga i processi di svuotamento del
concreto da parte dell'astratto e di superficializzazione-estetizzazione del
mondo che ne derivano".
Giulio Salierno, nato a Roma nel 1935, arrestato nel 1954 e condannato per
gravi reati, in carcere e' riuscito a formarsi sui testi classici del
marxismo, e' stato liberato nel 1968; sociologo, impegnato come studioso,
come testimone e come militante contro la violenza delle istituzioni totali,
per i diritti e per la liberazione degli oppressi, per il riconoscimento
della dignita' di tutti gli esseri umani, ha lavorato per il Consiglio
nazionale delle ricerche ed e' stato docente di sociologia generale
all'Universita' di Teramo; e' deceduto nel 2006. Opere di Giulio Salierno:
La spirale della violenza, De Donato, Bari 1969; (con Aldo Ricci), Il
carcere in Italia, Einaudi, Torino 1971; Il sottoproletariato in Italia,
Samona' e Savelli, Roma 1972; La repressione sessuale nelle carceri
italiane, Tattilo, 1973; Autobiografia di un picchiatore fascista, Einaudi,
Torino 1976; La violenza in Italia, Mondadori, Milano 1980; (in
collaborazione), La carcassa del tempo, Pellicani, Roma 1988; Fuori margine,
Einaudi, Torino 2001; La gabbia, Sapere 2000, Roma 2004]

Giulio Salierno se ne e' andato lunedi' a 71 anni, in modo
inequivocabilmente suo. D'improvviso, dopo averci salutati tutti sabato
sera, festeggiando il suo compleanno tra l'andirivieni di tutti gli amici, i
canti popolari con Massimo Michelangeli, la sua famiglia e Davide, il nipote
da poco nato. Una festa, allietata dalla sua bella faccia rotonda ed accesa,
nella sua casa di Roma, da sempre aperta, anche grazie alla generosita'
della moglie Luisa e della figlia Simona, agli incontri, alle cene, alle
discussioni, e collocata nell'unico luogo della Roma storica, le strade
dietro piazza Vittorio che guardano la ferrovia, fittamente popolato da
un'immigrazione multietnica, di origine asiatica. In un altro luogo, che non
fosse popolare, lontano dai palazzi del potere e intrecciato con
l'emarginazione sociale, Salierno del resto non avrebbe potuto vivere.
*
Perche' Giulio Salierno, infine professore di sociologia presso
l'Universita' di Teramo, autore di famosi libri sul sistema carcerario, come
il celeberrimo Il carcere in Italia (in collaborazione con Aldo Ricci,
Einaudi), il recente Fuori margine (Einaudi, 2001), ma anche di altri testi
come La spirale della violenza (De Donato, 1969), La repressione sessuale
nelle carceri italiane (Tattilo, 1973), Il sottoproletariato in Italia
(Samona' e Savelli, 1977), e' stato - a partire da un punto di svolta
decisivo della sua vita, intensa, complessa e drammatica - un vero
"intellettuale organico". Non solo, o non tanto, nel senso classicamente
gramsciano del termine secondo cui un intellettuale si volge alla sua classe
di appartenenza o di predilezione etico-politica e ne traduce in termini
concettuali e sistematici i bisogni e le passioni, dando loro coerenza e
forza di organizzazione. Ma nel senso, io direi, ben piu' autentico e
attuale, di un intellettuale il cui pensiero e' organico alla carnalita' e
all'esperienza corporea ed affettiva, diretta e immediata, della propria
stessa vita. L'intellettualita' di Salierno non e' stata mai un riflettere,
dall'esterno, sulla vita di altri, ma e' sempre stata una sorta di
autochiarificazione, che attingeva temi, problemi, progetti, dal travaglio
delle sue passioni, dei suoi incontri, delle socialita' in cui di volta in
volta la sua vita incappava.
E' stato un uomo di forza, Salierno, di forza fisica e passionale, a partire
da tutto cio' che ha compiuto e attraversato nella prima fase della sua
vita, descritta in un libro altrettanto celebre qual e' stato Autobiografia
di un picchiatore fascista (Einaudi, 1976). Il pugilato, le squadracce
fasciste della capitale del dopoguerra, il coinvolgimento in un omicidio, la
fuga nella Legione straniera, il carcere prima in Francia e poi in Italia.
Ma uomo di forza, che, attraverso la durissima esperienza carceraria, e'
stato capace di elaborare e piegare il suo eccesso emotivo nel verso di una
forza che si fa a un certo punto intelletto e parola: discorso che riesca a
dire, su un piano di comunicazione quanto piu' vasto possibile, la propria
vita e, insieme, quella di tutti gli altri esseri umani incontrati in un
esperire comune, di sofferenze e talora anche di gioie.
Cosi' la seconda vita di Giulio Salierno, che ne fa un protagonista del '68
e di quanto di meglio accade nell'Italia degli anni '70 e '80 sul piano
dell'antiautoritarismo e della critica delle istituzioni repressive, e'
dedicata alla sociologia dell'universo carcerario. Le cui strutture e la cui
funzione di fondo sono state cosi' sintetizzate negli studi, nelle
inchieste, nei libri, nelle pieces teatrali che hanno animato la sua
sociologia "in presa diretta". Il carcere e' un luogo di scissione e
segregazione dalla vita sociale, il quale, per tale carattere astratto e
separato, non puo' che essere esso, a sua volta, principio di violenza e di
produzione di un'umanita' patologica. La violenza, sotto forma di legge, e'
per Salierno il fondamento intrinseco dell'istituzione carceraria,
riprodotta come tale tra le gerarchie, la diversita' di ruolo e di comando
tra gli stessi detenuti. Le proposte di riforma e di miglioramento della
vita carceraria non possono intaccarne tale principio costitutivo, fondato
sulla separatezza, e si fanno cosi' partecipi della mistificazione del ceto
politico in generale e delle diverse burocrazie che hanno a che fare con
l'istituzione carceraria, che si coprono dietro la retorica del recupero,
della redenzione e della risocializzazione. Anche il migliore e piu'
avanzato dei carceri, per quanto costruito secondo parametri progressivi,
dopo un po' diventa necessariamente un inferno.
E' invece sull'"altrove", per Salierno, sulla societa' civile che bisogna
intervenire, modificando la durata eterna dei processi e della carcerazione
ad essi connessa, abolendo le leggi restrittive sulle sostanze psicotrope,
visto che le carceri sono piene di tossicodipendenti, regolamentare,
diversamente dalla Turco-Napolitano e dalla Bossi-Fini, la legge
sull'immigrazione, dato che il 30% dei reclusi oggi sono stranieri. E
soprattutto incidere sulla disoccupazione e ristrutturare intere periferie
urbane.
In una sorta di singolare analogia con Michel Foucault, da cui lo hanno
diviso origine di classe e formazione culturale, Salierno - da noi forse in
maggiore confidenza con l'opera di Franco Basaglia - ha inoltre ben
percepito e definito la funzione simbolica che l'istituzione chiusa del
carcere svolge a favore della vita cosiddetta civile e normale: una funzione
di capro espiatorio, di espulsione-proiezione, attraverso la quale la
societa' normale espelle da se' tutte le sue contraddizioni, il negativo, il
male, facendone unici attori e testimoni i membri dell'universo
segregazionario.
*
Di tutto cio', come si diceva, Giulio Salierno ha parlato e concettualizzato
"a viva voce": da proletario a intellettuale. E proprio per questo tutti gli
amici e i compagni che lo hanno conosciuto non potranno che ricordarlo,
fissandone l'immagine nello sforzo sofferto, ma prezioso e generoso, casomai
tra un bicchiere di vino e un piatto di bucatini all'amatriciana, di
tradurre la vita ignota e invisibile di molti in rappresentazione e umanita'
visibile e accessibile ai piu'.

4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: "UN GIORNO INTERO DI SOLE E NON
STRUMENTI DI GUERRA"
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Dicono che adesso i palestinesi vivono in due mondi separati: da un lato
c'e' quello festante di Hamas diventata forza di governo e dall'altro c'e'
quello triste e in pieno caos dell'Anp e di Al-Fatah.
"Lo chiameranno terremoto politico. Per noi e' molto di piu'. E' il crollo
del mondo palestinese che abbiamo conosciuto, laico, democratico e di
sinistra che dalla fine degli anni Settanta ha tentato di essere non solo un
movimento nazionale per la conquista di una terra e di una indipendenza, ma
il sale della democrazia in Medio Oriente, trovando spesso su questo la dura
opposizione anche dei regimi arabi. E' il crollo dei partiti dell'Olp a
partire dal movimento di Al-Fatah. La timida sinistra e la societa' civile
escono sconfitte e ridimensionate. E' come se Arafat fosse morto una seconda
volta" (Tommaso di Francesco, "Il manifesto", 27 gennaio 2006).
Gia', per noi e' molto di piu'; e non puo' essere diversamente. Ci afferra
alla gola una domanda opprimente: che cosa noi non abbiamo fatto? Noi, non i
leader della destra israeliana; noi, non i cosiddetti neocons degli Stati
Uniti; noi, non i signori della Realpolitik (ci sono anche, e non pochi, nel
centrosinistra, e forse piu' ancora nei mass-media italiani) con i loro
patetici tentativi di far apparire Sharon come un tardivo "pacifista"; per
noi e' restato l'uomo di Sabra e Chatila e l'uomo del muro dell'odio. Il
rispetto che si deve alla sua agonia, non ci deve far dimenticare che non e'
stato ne' un De Gaulle, ne' un De Klerk, ne' un Rabin. E' rimasto sempre un
militare, spesso feroce, senza diventare mai un politico.
*
Intanto si racconta la favola della democrazia esportata in medioriente
grazie alla guerra in Iraq.
Ma quale democrazia? Questa parola magica di cui ci si riempie la bocca e
che sarebbe destinata a cambiare la sorte dei popoli. Se solo guardiamo al
Centroamerica, constatiamo amaramente come la democrazia negata dai Somoza
in Nicaragua, dalle giunte militari in Guatemala ed in Salvador, che avevano
preso il fascismo e il nazismo come esempio da seguire, e' diventata (dopo
che i movimenti rivoluzionari hanno firmato e accettato la pace negli anni
'90) una cosa unica con l'ordine neoliberale.
"Il conservatorismo non ha avuto nemmeno bisogno di presentarsi con nuovi
volti o nuovi simboli. E' questo uno degli elementi che piu' impressionano
l'osservatore esterno, come se il processo storico vissuto non avesse, nella
realta', cambiato i canoni originali. In Nicaragua, il Partido Liberal del
presidente Arnoldo Aleman e' lo stesso che per decenni aveva sostenuto la
famiglia Somoza; in Guatemala il Frente Republicano Guatemalteco e'
creazione di Efrain Rios Montt, il generale del genocidio delle popolazioni
indigene; nel Salvador, la Alianza Republicana aveva avuto nel 1984 come
candidato quel Roberto d'Aubuisson riconosciuto poi come il mandante
dell'omicidio di monsignor Romero" (Maurizio Campisi, Centroamerica
Reportages, Fratelli Frilli Editori, Genova, 2002).
*
Tornando alla Palestina: ci resta addosso questa impotenza, questa
incapacita' di cambiare le cose; senza che l'indignazione, che ancora ci
sostiene, ci spinga a crescere. Come giudicare, in questo senso, la
manifestazione di sabato 18 febbraio a Roma per lo Stato palestinese,
degenerata prima nelle assurde polemiche tra Pdci e Prc, tutte interne alla
politica elettorale italiana; poi nella truculenza di certi slogan, conditi
da bandiere bruciate. Cosa c'entri tutto questo con la solidarieta' concreta
con il popolo palestinese, resta un mistero.
*
Risuonano consolatorie le voci struggenti del Canto per la Palestina, che in
tutti questi anni di generosa speranza ci hanno accompagno e rassicurato:
"Kufia":
"Sogno dei gigli bianchi
strade di canto e una casa di luce.
Voglio un cuore buono
e non voglio il fucile.
Voglio un giorno intero di sole
e non un attimo
di una folle vittoria razzista.
Voglio un giorno intero di sole
e non strumenti di guerra.
Le mie non sono lacrime di paura
sono lacrime per la mia terra.
Sono nato per il sole che sorge
non per quello che tramonta".
*
Ali Rashid, primo segretario della Delegazione palestinese in Italia, ha
scritto: "Nessuno ci venga a dire ora che il processo di pace e' bloccato
perche' ha vinto Hamas. Questo processo e' morto alla fine del 1995 insieme
a Rabin, ucciso da un colono israeliano e rinnegato sistematicamente dalla
destra israeliana. Fatto morire perche' non ci sono interlocutori
palestinesi, dopo aver fatto morire Arafat prigioniero nel suo quartiere
generale diroccato a colpi di cannone, dopo aver ignorato la disponibilita'
di Abu Mazen, e dopo anni di unilaterali iniziative di repressione,
colonizzazione, decolonizzazione, uccisioni mirate. Costruzione del muro,
punizioni collettive e violazioni d'ogni diritto... Non esistono scorciatoie
per uscire dal conflitto. Israele deve riconoscere le proprie
responsabilita' per la tragedia dei palestinesi, le sue forze progressiste
devono capire la drammaticita' del momento e delle conseguenze della
politica israeliana e americana. Hamas deve scegliere la politica.
Altrimenti verremo tutti risucchiati dal buco nero che si e' aperto nel
Medio Oriente".

5. RIFLESSIONE. LUIGI MANCONI: CHE COS'E' IL TESTAMENTO BIOLOGICO
[Dalla bella rivista diretta da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 66-67 del
dicembre 2005 - gennaio 2006 (www.lostraniero.net) riprendiamo il seguente
testo. Luigi Manconi, sociologo, docente universitario, giornalista
professionista, saggista, gia' senatore nella XII e XIII legislatura, gia'
portavoce nazionale dei Verdi, presidente di "A buon diritto. Associazione
per le liberta'", "Garante per i diritti dei detenuti" per il Comune di
Roma, responsabile nazionale Diritti civili dei Ds, collaboratore di varie
riviste e quotidiani. Tra le opere di Luigi Manconi: con Laura Balbo, I
razzismi possibili, Feltrinelli, Milano 1990; con Laura Balbo, I razzismi
reali, Feltrinelli, Milano 1992; con Laura Balbo, Razzismi. Un vocabolario,
Feltrinelli, Milano 1993]

Innanzitutto, cos'e' il Testamento biologico (o Testamento di vita o "living
will")? e' una "dichiarazione anticipata di volonta'" che consente a
ciascuno, finche' si trova nel possesso delle sue facolta' mentali, di dare
disposizioni riguardo ai futuri trattamenti sanitari per quando tali
facolta' fossero gravemente ridotte o annullate; disposizioni vincolanti per
gli operatori sanitari e che, tuttavia, non siano in contrasto con la
deontologia professionale del medico e con le realistiche previsioni di
cura. Un atto che puo' essere revocato dal firmatario in qualsiasi momento e
che puo' prevedere l'indicazione di una persona di fiducia, alla quale
affidare scelte che l'interessato non e' piu' in grado di assumere.
Sia chiaro: il Testamento biologico e' una semplice opportunita', della
quale ci si potra' avvalere o meno, nella prospettiva, ambiziosissima, di
restituire all'individuo la "sovranita' su di se' e sul proprio corpo"
(secondo l'insuperabile affermazione di John Stuart Mill): e al fine di dare
sostanza e forza di diritto a quel principio di autodeterminazione, gia'
presente nella nostra Costituzione e solennemente affermato dalla
Convenzione di Oviedo del 1997. Inoltre, una "dichiarazione anticipata di
volonta'" potrebbe consentire per tempo quell'attivita' di informazione, di
riflessione e di condivisione con altri delle ragioni di una scelta
terapeutica da accettare o da rifiutare; attivita' che appare ineludibile
per ridurre - almeno ridurre - l'asimmetria di conoscenze tra medico e
paziente.
In un'epoca che vede crescere la potenza delle biotecnologie, capaci di
intervenire sulla "materia vivente" e, dunque, sui tempi e sulle forme della
nascita e della malattia, della sofferenza e della morte; in un'epoca in cui
e' sempre piu' arduo rispondere a domande che, fino a ieri, sembravano
elementari (cos'e' la morte? e' opportuno fissare un limite al "protrarsi
della vita"? qual e' il ruolo della volonta' individuale, del titolare del
corpo malato, nell'indicare quel limite?): ecco, in un'epoca simile, di
fronte agli straordinari progressi della scienza medica e delle
biotecnologie, si evidenzia l'arretratezza dell'apparato culturale di cui
disponiamo: e l'inadeguatezza della capacita' di scelta di ognuno. Si pensi
solo al fatto che, per millenni, abbiamo creduto che la morte corrispondesse
all'interruzione del battito del cuore: ma oggi sappiamo che il cuore puo'
continuare a battere anche quando e' sopravvenuta la morte cerebrale; e
sappiamo che si puo' sopravvivere per dieci o vent'anni in "stato vegetativo
permanente" (perdita irreversibile della coscienza). Sappiamo, in sostanza,
che - grazie a macchine sofisticate - la persistenza della vita non
corrisponde sempre all'esistenza di una persona, dotata di intelligenza e di
volonta' e capace di rapporto e di comunicazione.
Ne consegue che il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico e'
sottilissimo e puo' essere tracciato solo con difficolta', e che lo sviluppo
della scienza medica consente di "tenere in vita" i corpi malati ben oltre i
termini e i tempi finora conosciuti (si pensi ai "miracoli" della
rianimazione). Di fronte a dilemmi di tale natura, il Testamento biologico
e' un piccolo passo avanti: un istituto di civilta', per limitare quel
"dolore non necessario" di cui si continua a fare scialo.
Dunque, il Testamento biologico e' uno strumento pensato per tutelare il
cittadino da quelle forme di accanimento terapeutico, che potrebbero
essergli praticate prescindendo dalla sua volonta' o da quella dei suoi
familiari. Ma, evidentemente, le cose possono essere assai piu' complicate.
Prendiamo il caso di Eluana Englaro: e' una giovane donna che, dal 1992, si
trova in quello che - come si e' anticipato - viene definito "stato
vegetativo permanente". Da allora, la Englaro sopravvive, senza possibilita'
alcuna di tornare a uno stato di coscienza e di capacita' di relazione con
il mondo; e continua a essere alimentata e idratata artificialmente
attraverso una sonda gastrica. Sulla sua vicenda si e' aperta una
controversia difficile, che interpella il diritto e reclama indicazioni su
una questione - il confine tra vita e morte, appunto - ancora piu' delicata,
in questo caso. Il padre di Eluana ha piu' volte chiesto che sua figlia
fosse "lasciata morire" e che fossero interrotte alimentazione e
idratazione, cosi' che si ponesse fine a una condizione che appare senza
sollievo e senza scampo. La risposta della magistratura e' stata negativa.
Ma il "caso Englaro" presenta altri risvolti amari: perche' la giovane
donna, prima dell'incidente che la ridusse nello stato attuale, si era
espressa affinche', in una eventualita' drammatica quale quella poi
determinatasi, la sua vita non fosse fatta proseguire oltre le soglie della
dignita' e dell'umanamente sopportabile; e aveva chiaramente detto -
riferiscono i familiari - che non avrebbe mai voluto finire "attaccata per
sempre a una macchina" o in una condizione analoga. Cosa sarebbe accaduto,
pertanto, se la Englaro avesse potuto mettere le sue volonta' per iscritto,
se vi fosse stata una legge a riconoscere la legittimita' di quelle sue
"dichiarazioni anticipate", se quelle stesse dichiarazioni avessero avuto
valore vincolante rispetto all'operato dei medici?
Ma i quesiti non finiscono qui. Secondo alcuni, cio' che tiene in vita
Eluana Englaro (la nutrizione-idratazione artificiale) e' una misura ordinar
ia di assistenza e non un trattamento medico. Se, invece, si trattasse di un
intervento assimilabile a quest'ultima categoria, si avrebbe - nel caso di
un suo inutile protrarsi - "accanimento": e, dunque, facolta' di
interromperlo. Eppure - alla luce dell'affermazione ormai universale della
dottrina del consenso informato - quella distinzione, oggi, non sembra piu'
rilevante. Infatti, quale che sia la sua "natura" (trattamento medico o
misura ordinaria di assistenza), la nutrizione-idratazione artificiale e'
qualcosa che il medico fa al paziente e che, di conseguenza, il paziente
puo', direttamente o tramite un suo rappresentante, accettare o rifiutare.
Si comprende, da cio', quale sia lo spessore e la complessita' dei problemi,
alla cui soluzione il Testamento biologico puo' dare un contributo
importante. D'altra parte, le "dichiarazioni anticipate di volonta'" non
riguardano l'eutanasia: non prevedono un intervento soppressivo, bensi' la
possibilita' di rifiutare, in piena coscienza e liberta' (quando si e' in
piena coscienza e liberta'), quelle cure che si ritengono lesive della
propria dignita' e nei confronti delle quali si esprime una riserva di
carattere personale o etico, medico o psicologico; ancor piu', e
soprattutto, quelle cure che potrebbero dimostrarsi "accanimento": e, per
cio', incapaci di restituire salute e coscienza e destinate solo a protrarre
dolore e malattia o a perpetuare artificialmente un'esistenza che abbia
perso significato (ovvero capacita' di esperienza e di relazione, di
conoscenza e di sensibilita').
Tutto cio' chiama in causa (anche) la politica. Sia chiaro: non le si chiede
di risolvere dilemmi etici per via normativa, ne' di trovare soluzioni certe
e definitive; piuttosto, di operare con pragmatismo e buon senso, con
umilta' e intelligenza per ridurre il "dolore non necessario": affinche' la
sofferenza da malattia sia contenuta quanto piu' possibile e torni a essere
un'esperienza esistenziale, certamente ineludibile, talvolta insostenibile,
ma mai espropriata alla coscienza e alla volonta' di chi deve affrontarla.

6. RILETTURE. ELENA LOEWENTHAL: L'EBRAISMO SPIEGATO AI MIEI FIGLI
Elena Loewenthal, L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002,
pp. 96, euro 6,20. Un libro scritto con una limpidezza e delicatezza
commoventi da una illustre saggista che sa parlare ai bambini e agli adulti.

7. RILETTURE. ELENA LOEWENTHAL: LETTERA AGLI AMICI NON EBREI
Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003, pp.
96, euro 6,20. Un libro la cui lettura ancora una volta vivamente
raccomandiamo.

8. RILETTURE. ELENA LOEWENTHAL: EVA E .LE ALTRE. LETTURE BIBLICHE AL
FEMMINILE
Elena Loewenthal, Eva e le altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani,
Milano 2005, pp. 336, euro 17. Un libro bello e sapiente, per piu' versi
prezioso, una lettura che rende meno opachi i giorni, piu' profondo il
respiro.

9. CONTROEDITORIALE. GONTARDO SCARDANELLI: UNA DICHIARAZIONE DI VOTO
[Ringraziamo il nostro buon amico Gontardo Scardanelli per questo
intervento]

Alle prossime elezioni politiche andro' a votare contro l'ordine mafioso,
contro l'ordine ariano, contro l'ordine imperiale, contro l'ordine
patriarcale.
Per un altro ordine, quello che seppero pensare Olympe de Gouges e Giacomo
Leopardi, gli operai torinesi e con loro quel giovane che continua a vivere
nei quaderni che Piero Sraffa salvo'.
Per antichi e nuovi, piu' profondi e piu' alti doveri, quei doveri che ogni
persona facilmente puo' apprendere leggendo i tragici greci, o le Tre ghinee
di Virginia Woolf, o l'autobiografia di Nelson Mandela.
Per la Costituzione della Repubblica Italiana come la scrissero le e i
superstiti della seconda guerra mondiale, come la scrissero le donne e gli
uomini che si erano opposte e opposti all'orrore e avevano sconfitto il
nazifascismo.
Per un'umanita' di persone libere e responsabili, eguali in diritti,
fraterne e sororali.
Alle prossime elezioni politiche andro' a votare per l'ideale di Guglielmo
Jervis.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1224 del 4 marzo 2006

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