Voci e volti della nonviolenza. 8



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 8 del 7 febbraio 2006

In questo numero:
1. Ernesto Balducci
2. Ernesto Balducci: Introduzione a "La pace. Realismo di un'utopia"
3. Et coetera

1. ERNESTO BALDUCCI
Poche persone hanno saputo pensare, praticare, costruire la pace con la
profondita' e la pienezza con cui l'ha pensata, praticata, costruita Ernesto
Balducci, indimenticabile maestro e compagno lungo la via della nonviolenza.

2. ERNESTO BALDUCCI: INTRODUZIONE A "LA PACE. REALISMO DI UN'UTOPIA"
[Riproponiamo l'introduzione del libro di Ernesto Balducci e Lodovico
Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983; un ottimo
libro per le scuole che illustrava ed antologizzava la tradizione del
pensiero per la pace dal Rinascimento a oggi, da Erasmo a Gandhi a Anders.
L'introduzione riprende un indimenticabile intervento di padre Balducci al
convegno di "Testimonianze" il 14 novembre 1981, relazione che fu uno dei
punti di elaborazione piu' alti e profondi del grande movimento pacifista
che in quegli anni si batteva contro il riarmo atomico dell'est e
dell'ovest]

Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno,
dinanzi a tale prospettiva, si fa piu' serrato il confronto tra gli
utopisti, secondo i quali e' possibile, in ragione della stessa smisuratezza
del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civilta' della guerra, e i
realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, puo'
essere custodito solo dall'equilibrio delle forze in campo.
Il contrasto tra utopisti e realisti e' antico quanto la cultura, ma ha
cominciato a diventare acuto agli inizi dell'eta' moderna.  Nel chiudere il
quarto dei suoi Discorsi dello svolgimento della letteratura nazionale,
Giosue Carducci contrappone alle figure massime del nostro Rinascimento
Girolamo Savonarola, che in Piazza Signoria "rizzava roghi innocenti contro
l'arte e la natura" ... "e tra le ridde de' suoi piagnoni non vedeva, povero
frate, in qualche canto della piazza, sorridere pietosamente il pallido viso
di Niccolo' Machiavelli". Il sorriso scettico di Machiavelli e' durato fino
ad oggi: la tesi degli autori di questo libro e' che il tempo in cui siamo
rende possibile all'utopia di appropriarsi dei severi argomenti del
realismo, e al realismo, pena la negazione di se stesso, di integrare in se'
le ragioni dell'utopia. Savonarola e Machiavelli, insomma, non sono piu' gli
emblemi di due opposte e inconciliabili maniere di progettare il bene
comune. Com'e' noto, il maestro dei realisti affidava alla virtu' (che nel
suo linguaggio voleva dire abilita' conforme a ragione) il compito di far
fronte alla fortuna e cioe' al corso caotico e imprevedibile degli eventi. A
suo giudizio, fortuna e virtu' potevano governare la storia umana con una
incidenza del 50% ciascuna. Le milizie cittadine erano lo strumento primo
della virtu' di un principe. Uno strumento peraltro da usare all'interno di
una preveggenza multiforme delle eventualita' della fortuna. "Assomiglio
quella - dice Machiavelli ragionando della fortuna, nel Principe (cap.
 XXV) - a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e'
piani, ruinano gli alberi e gli edifizi, lievono da questa parte terreno,
pongono da quell'altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto
loro, senza potervi in alcuna parte obstare. E benche' sieno cosi' fatti,
non resta pero' che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessimo
fare provvedimento, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o
egli andrebbano per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe ne' si'
licenzioso ne' si' dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale
dimostra la sua potenzia dove non e' ordinata virtu' a resisterle".
Il "fiume rovinoso" di cui oggi anche Machiavelli dovrebbe ragionare e' il
fiume del fuoco atomico, contro cui nessun argine vale, nessun
"provvedimento" che non sia la sua estinzione; e la "citta'" affidata al
principe oggi e', secondo la "verita' effettuale", vorremmo dire
materialistica, non Firenze o l'Italia, ma il pianeta Terra.
Se per Machiavelli il "provvedimento" delle armi era, di fronte
all'imperativo assoluto del bene del Principato, un imperativo ipotetico,
legato cioe' a condizioni di fatto, una volta che queste condizioni mutano,
anche l'imperativo, per logica realistica, deve mutare.
*
Le condizioni di fatto sono radicalmente mutate.  L'umanita' e' entrata in
un tempo nuovo nel momento stesso in cui si e' trovata di fronte al dilemma:
o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una
mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non e' avvenuta e
noi siamo vivi! Non e' forse vero che l'abisso si e' spaventosamente
allargato dinanzi a noi? D'altronde le mutazioni non avvengono con ritmi
serrati e uniformi. In ogni caso si puo' gia' dire, con fondatezza, che si
sono andate generalizzando alcune certezze in cui e' facile scoprire il
riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della
mutazione.
La prima verita' contenuta in quel messaggio e' che il genere umano ha un
destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verita' intuitiva, di
natura etica, ma poi, crollata l'immagine eurocentrica della storia, essa si
e' dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione piu' recente
e piu' organica e' quella del Rapporto Brandt. L'unita' del genere umano e'
ormai una verita' economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il
Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non e' il Sud a
dipendere dal Nord ma e' il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il
fatto che la sua economia dello spreco e' resa possibile dalla metodica
rapina a cui il Sud e' sottoposto e poi, piu' specificamente, perche' esiste
un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi
l'aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra
memoria i 50 milioni di morti dell'ultima guerra, ma cominciano anche a
pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l'appunto, nel solo
anno 1979. E piu' comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che
la morte per fame non e' un prodotto fatale dell'avarizia della natura o
dell'ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica
internazionale che riversa un'immensa quota dei profitti nell'industria
delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioe' 10 volte
di piu' del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa.
Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi.  Gli uomini e le donne che, fosse
pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza,
non hanno piu' la coscienza tranquilla.
La seconda verita' di Hiroshima e' che ormai l'imperativo morale della pace,
ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, e'
arrivato a coincidere con l'istinto di conservazione, il medesimo istinto
che veniva indicato come radice inestirpabile dell'aggressivita'
distruttiva. Fino ad oggi e' stato un punto fermo.che la sfera della morale
e quella dell'istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante
un'ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva
la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum
necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali
che la voce dell'istinto di conservazione (di cui la paura e' un sintomo non
ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era
mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la
storia sta cambiando di qualita'.
La terza verita' di Hiroshima e' che la guerra e' uscita per sempre dalla
sfera della razionalita'. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo
in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le
culture dominanti l'hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e
cioe' come uno strumento limite della ragione.  E difatti, nelle nostre
ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso
le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini - per usare il linguaggio
di Benedetto Croce - l'"accadimento" funesto generava l'"avvenimento"
fausto. Ma ora, nell'ipotesi atomica, l'accadimento non genererebbe nessun
avvenimento. O meglio, l'avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo
materno dell'accadimento.
*
Queste tre verita' non trovano il loro giusto contesto nella cultura e nella
pratica politica ancora dominanti. Il pacifismo che esse prefigurano e'
anch'esso di tipo nuovo, non in continuita' con quello tradizionale. Per
pacifismo tradizionale non intendiamo qui le forme idealistiche o
misticheggianti su cui giustamente cadeva il sarcasmo di Marx, ma quelle
correnti ideologiche che, nell'eta' moderna, hanno posto a fondamento della
politica la ricerca di una pace definitiva. In questo senso potremmo parlare
di tre diversi pacifismi che hanno accompagnato, contestandole, le culture
via via dominanti, il cui dogma centrale e' sempre stato la inevitabilita'
della guerra.
Si ravviva oggi quel pacifismo che per solito viene detto umanistico perche'
ebbe le sue prime manifestazioni nell'eta' di Erasmo, ma che potremmo
chiamare anche, utilizzando un lessico piu' alla moda, radicale. Il suo
principio e' la tolleranza, il suo nemico e' il fanatismo, da quello
religioso a quello ideologico. La pace tra gli uomini e tra i popoli non va
posata sulla fede religiosa o su qualsiasi altra visione del mondo, ma su
cio' che negli uomini e' comune, sulla loro natura razionale, la cui voce e'
la coscienza. "Voila' l'ennemi" diceva Voltaire indicando la chiesa
cattolica. Il pacifismo radicale vede il nemico preferibilmente nelle
istituzioni, in particolar modo nell'esercito, e ripone la causa dello
spirito aggressivo nell'influenza nefasta che esse hanno sulle coscienze.
Cio' che sembra mancare in questo tipo di pacifismo, a causa del suo
impianto individualistico, e' la disponibilita' al confronto e soprattutto
la giusta considerazione del valore delle istituzioni, della loro capacita',
almeno potenziale, di garantire il cittadino dinanzi al privilegio e di
fornirgli strumenti di diritto per il perseguimento della giustizia e
dell'eguaglianza. Ecco perche' esso e' stato sempre un pacifismo elitario,
capace di svegliare le coscienze, ma incapace di mordere realmente sulle
cause che generano i conflitti interni ed esterni alla societa'. Il
principio della tolleranza e' senza dubbio necessario a dar fondamento a una
societa' pacifica, purche' pero' venga coniugato con una militanza politica
il cui obiettivo sia la subordinazione delle istituzioni ai fini del bene
comune e della pace.
E' questo, appunto, il principio del pacifismo democratico. Secondo la
formula ideologica che gli dettero, al suo nascere, i giacobini, esso
identifica la causa delle guerre con le tirannidi, e la fondazione della
pace con l'esercizio effettivo della sovranita' popolare. I popoli amano la
pace - ecco il dogma democratico - in quanto il lavoro, la prosperita', la
liberta' coincidono con i loro interessi, mentre la guerra produce sprechi,
rovine, servitu' militari. Bastarono i plebisciti di Napoleone a dimostrare
quanto fosse ingenuo il dogma giacobino. E tuttavia l'idea che un popolo,
una volta che gli siano assicurati gli strumenti formali della sovranita',
rifugga naturalmente dalle guerre, ha avuto vita lunga. Nel primo dopoguerra
essa ebbe una splendida reviviscenza con la dottrina di Wilson che tenne a
battesimo la Societa' delle Nazioni. Ma fu proprio nella piu' democratica
delle repubbliche, nata dalle rovine dell'Impero tedesco, quella di Weimar,
che prospero' e trionfo', col rispetto delle regole, il nazismo. Ed oggi noi
siamo qui a constatare che un paese di sicura democrazia formale come gli
USA si e' trasformato in una cittadella atomica, alla cui ombra prosperano
in tutto il mondo dittature militari. Il limite dell'ideologia democratica
e' che essa chiama in causa il popolo senza tener conto delle forze che nel
suo seno si contrastano e lo frantumano piegandolo alla loro logica.
La risposta piu' razionale alla questione della pace sembrava averla data il
pacifismo socialista. L'internazionalismo operaio e' senza dubbio l'utopia
pacifista piu' straordinaria che sia nata nel mondo moderno. Il suo
strumento di lotta, lo sciopero, e' stato ed e' un'arma non violenta, che ha
modificato dall'interno tutti i rapporti sociali. Ma ognuno sa che esso non
e' stato in grado di arrestare nessuna delle due guerre mondiali: anche
quando e' stato indetto, lo "sciopero per la pace" non ha mai funzionato.
Lenin ha aggiornato la dottrina marxista della guerra, dimostrando che essa
e' strutturalmente connessa alla societa' capitalistica e che percio' vivra'
e morira' con questa. La razionalita' della guerra e' nel fatto di portare
al limite l'inevitabile crisi del capitalismo e di preparar cosi' il suo
capovolgimento: la rivoluzione. E' quanto avvenne, per suo merito, in
Russia. Ma la sua tesi, smentita per due volte, era che una guerra mondiale
avrebbe dovuto generare una rivoluzione mondiale.
La crisi del pacifismo socialista si e' aggravata in questi ultimi tempi,
provocando un collasso estremo nella nostra cultura. I suoi segni sono di
due ordini. La' dove si ritiene di aver gia' realizzato il socialismo, non
solo si e' messo in piedi un apparato di resistenza militare che uguaglia
quello delle potenze capitalistiche (e, in questo, chi condivide la critica
socialista all'imperialismo del capitale potrebbe anche vedere un dato
provvidenziale), ma ha mutuato in pieno la cultura borghese della
repressione. Tra gli stessi paesi socialisti, o quanto meno liberi dalla
logica del capitale, c'e' attualmente lo stato di all'erta: segno, per
molti, che le cause della guerra non sono riducibili all'economia di
mercato.
Ma la crisi deriva anche dal fatto che la spiegazione leninista e'
contraddetta almeno da due dati oggi emergenti: i movimenti pacifisti
all'interno del mondo capitalistico e l'ingresso in scena dei paesi
ex-coloniali in lotta per la loro liberazione. Per Lenin tutte le potenze
capitalistiche si equivalevano, dalla Russia zarista all'Inghilterra
parlamentare. Per quanto duttile, il suo pensiero era ancora succube dello
schematismo economicistico. Non solo, ma quello che noi chiamiamo Terzo
Mondo era per lui soltanto un'appendice del mondo capitalista, una specie di
immensa retroguardia del proletariato occidentale. Dinanzi ad uno scenario
storico cosi' imprevisto qual e' quello odierno, l'ideologia socialista
appare ormai inadeguata a dar fondamento ad un pacifismo all'altezza delle
necessita'. Essa sconta fino in fondo il lato positivistico della sua
origine che l'ha tenuta subalterna all'ideologia borghese. Non e' forse una
tesi di Marx e di Lenin che il proletariato e' il naturale erede della
cultura della borghesia, che e' intimamente cultura di violenza? Niente di
strano che ben poco sia rimasto oggi, in occidente, del pacifismo
proletario.  Non e' forse vero, ad esempio, che, stretti nel cappio delle
necessita' del sistema, gli operai prestano la forza-lavoro anche
nell'immenso apparato che, in Italia come in tutto il mondo industriale,
produce armi da esportare nei paesi del Terzo Mondo per dar forza ai regimi
oppressivi? Marx ed Engels non si sarebbero forse scandalizzati, dato che
per loro la pace sarebbe stata il risultato di una rivoluzione mondiale che,
dandosi la necessita', avrebbe potuto anche far uso della violenza delle
armi. Ma che senso ha oggi parlare di rivoluzione armata, quando le classi
dominanti del sistema imperialistico hanno in mano le armi atomiche?
*
Eccoci, cosi', alla questione di fondo. Si avverte, sempre meno
confusamente, che se ci sara' una reazione all'altezza dell'estremo
discrimine in cui siamo, essa non potra' essere piu' la proposta dei
pacifismi tradizionali, per preziosa che sia la loro eredita', ma un
mutamento culturale (la mutazione di cui sopra si diceva) che metta fine,
una volta per sempre, all'eta' neolitica, tanto per usare un'espressione
cara a Teilhard de Chardin, o alla preistoria, come diceva Marx. Nelle nuove
manifestazioni pacifiste si va facendo strada una richiesta di cambiamento,
non solo della politica, ma dei termini fondamentali della presenza
dell'uomo alla storia e al mondo, e cioe' la richiesta del passaggio da una
civilta' che aveva assunto la competizione come molla del suo stesso
sviluppo ad una civilta' che ponga la sua radice nell'altra valenza
dell'uomo, rimasta fino ad oggi marginale, consolatoria e comunque
inefficace: quella dell'apertura dell'uomo all'uomo come condizione del
proprio essere, della collaborazione come condizione del proprio sviluppo,
della solidarieta' con l'intera specie come condizione del suo essere
persona.
Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi
c'e' anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie.
Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano piu' bellicosi di noi, a
volte non lo erano affatto. E' vero: la civilta' (ma questa parola ora la
pronunciamo con piu' pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non
manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civilta' e guerra ci
autorizza a dedurne che dunque la guerra e' una legge insuperabile della
specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie
quello che poi si e' scoperto essere niente piu' che un portato della
cultura. Ad esempio, la schiavitu'. L'opinione comune, fino a due secoli fa,
era che la schiavitu' fosse un'esigenza naturale della societa' umana,
proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per
eccellenza, Aristotele. Oggi l'idea stessa di schiavitu' ci ripugna.  E
cosi': appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale e' la
natura che vuole il primato dell'uomo sulla donna: da Aristotele a san
Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi
anche nel diritto italiano e' stata sancita la parita' dell'uomo e della
donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si attribuiva alla
natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la "istituzione guerra"? Come c'e' stata
l'eta' della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe
esserci, dopo la civilta' della guerra, la civilta' della pace?
E' vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli
autori di questa rassegna. Un'analisi obiettiva dell'attuale corso delle
cose non puo' non portare alla previsione della catastrofe. Ma cio' che e'
improbabile, non per questo e' impossibile. La paleontologia dimostra che la
nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalita' (quella fatalita' che
invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo
i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di
conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del
genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani,
puo' incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o puo'
diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della
storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell'unica
citta' che e' ormai il nostro pianeta.
Per la prima volta questa utopia e' diventata realistica, sia nel senso che
essa e' per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa e'
l'unica alternativa alla morte universale Quel che le manca e', appunto, una
cultura che sia al suo livello, cioe', come si e' detto, al livello della
voce della coscienza e dell'istinto, una cultura della pace che succeda alla
cultura della guerra di cui noi siamo figli, cosi' come alla cultura
paleolitica successe, piu' di diecimila anni fa, la cultura neolitica che
ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
E' vero, il tempo e' breve, cosi' breve che e' gia' un grave obbligo
adoperarsi perche' non sia accorciato. Ed e' questo che da ogni parte viene
chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione
antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa
chiama in causa la societa' in tutte le sue articolazioni organiche, anzi -
non dovremmo aver paura a riconoscerlo - chiama in causa primariamente le
singole coscienze. Difatti, alla base della pace c'e' una virtu' che non
puo' essere insegnata: e' la fede dell'uomo nell'uomo e, in generale, la
fede dell'uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e
mortificate            dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si
obietti che questa fede nell'uomo non e' in regola con i rigori della
ragione, perche' e' appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a
nient'altro e' intenta se non a codificare l'esistente e a proiettarne le
forme nel futuro, e' proprio questa ragione il primo bersaglio della fede
morale. D'altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede,
quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono
come seria l'ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e' piu' un semplice postulato, un'esigenza cioe' senza
riscontro nei fatti. Essa ha gia' dalla sua parte alcuni processi in corso,
il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta' della pace come
loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno
battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della
civilta' della guerra. La prima di queste premesse e' che l'uomo sia per
natura aggressivo, di quell'aggressivita' distruttiva che noi chiamiamo
violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto
ad un punto in cui non ha piu' senso dire che l'uomo e' per natura pacifico
o che l'uomo e' per natura violento. La natura dell'uomo e' nel suo farsi,
e' cioe' nella sua cultura. Come dire che l'uomo e' cosi' come si fa.
Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile,
scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa'
cresciuta all'ombra del fungo atomico.
- Per la prima volta nella sua storia la specie umana e' fisicamente come un
individuo solo, secondo la suggestiva immagine di Pascal: un individuo con
la coscienza ancora dispersa e frazionata nel suo organismo, ma con
strutture fisiche e psichiche gia' pronte perche' avvenga l'unificazione
soggettiva. Le barriere Est/Ovest e, piu' ancora, quella Nord/Sud, sono
sempre piu' intollerabili: chi le tollera e' un ominide il cui sottosviluppo
e' insieme intellettuale e morale. Se trionferanno gli ominidi, il tempo
della fine e' gia' segnato, perche' la loro egemonia e' diventata
fisicamente impossibile. Il colosso della civilta' della tecnica - il Nord -
ha i piedi di argilla. Il Sud lo sa e quando lo schiavo si accorge che il
padrone non sarebbe padrone se lui non fosse schiavo, il tempo del padrone
e' finito, ed e' finita la sua cultura. Il padrone puo' morire come Sansone
o puo' morire di tranquilla morte naturale, e cioe' il Nord puo' morire
sotto le macerie cosmiche provocate dalla sua tracotanza o puo' morire
risolvendosi in una comunita' mondiale senza piu' discriminazioni.
- Il rapporto tra l'uomo e il suo ambiente fisico non puo' piu' essere
quello che e' stato, non lo puo' piu' per ragioni fisiche. L'ideologia dello
sfruttamento illimitato della natura si capovolge ormai contro i suoi
fautori. Gia' si sta riscoprendo e propugnando un nuovo rapporto con la
natura che non e' quello alienante del romanticismo, e' un rapporto su cui
batte la luce dell'utopia marxiana dell'uomo naturalizzato e della natura
umanizzata. La passione ecologica e' un capitolo importante della cultura
della pace.
- Si diffonde la presa di coscienza che uno dei luoghi di riproduzione (e'
proprio il caso di dirlo) della violenza e' il modo storico in cui si e'
determinato il rapporto uomo-donna, tanto nell'esercizio della sessualita'
quanto nel dispiegamento sociale e culturale della sua bipolarita'.
L'emancipazione femminile, con il connesso mutamento del senso della
sessualita', segna potenzialmente un salto qualitativo nella stessa
soggettivita' umana. L'"altra meta' del cielo", anzi l'altra meta' della
terra, a partire dall'eta' neolitica, e' stata mantenuta con violenza al di
fuori degli spazi in cui si crea la storia: l'uomo del neolitico e' un uomo
dimidiato e proprio per questo violento.  L'emancipazione femminile e'
potenzialmente un altro capitolo della cultura della pace.
- Ma il fenomeno forse piu' rilevante, che da' conforto alla fede nell'uomo,
e' la nuova dialettica che si e' aperta all'interno delle grandi religioni.
Possiamo limitarci, e non solo per brevita', al cristianesimo. La soglia
atomica, come si e' detto, in quanto crinale tra morte e vita del genere
umano, e' di sua natura il "luogo" di una mutazione. Se l'alternativa della
vita trionfera', essa non potra' andare che nel senso di una composizione
unitaria del genere umano. Il che significa che tutto cio' che e' nato e
cresciuto con i segni del "particolare" potra' sopravvivere solo se sapra'
accettare le nuove misure di universalita' concreta. Alla pari delle altre
religioni, il cristianesimo non potra' non apparire (e gia' appare) come il
patrimonio di una porzione del genere umano. La sua storia, nel bene e nel
male, si confonde con quella dell'occidente. L'attuale congiuntura agisce
come un pungolo sulla forma storica del cristianesimo, un pungolo che
sgretola quel che e' connesso alla relativita' storico-geografica e, nello
stesso tempo, fa emergere il suo nucleo profetico. La profezia cristiana ha
questo di proprio e forse di esclusivo: che e' una profezia messianica,
investe cioe' la totalita' delle speranze degne dell'uomo, prima fra tutte
la speranza della pace. In questo senso il cristianesimo trabocca dai
confini religiosi e si commisura, senza sforzi, sulla qualita' laica della
storia.
- Non solo il cristianesimo cattolico ma anche quello delle altre
confessioni che fanno capo al Consiglio Ecumenico delle Chiese sta spostando
l'asse della propria vita interna o della propria missione storica dagli
spazi religiosi a quelli antropologici, dove hanno rilievo decisivo la
giustizia e la pace. Su queste frontiere l'ecumenismo e' gia' in atto.
Morendo alle sue terribili stagioni di complicita' con le guerre, il
cristianesimo di ogni confessione mette in evidenza la sua indole di fondo,
che e' la passione per l'uomo del futuro. Le chiese intuiscono che la
transizione alla civilta' della pace e' come un appuntamento storico che Dio
ha loro fissato e su cui le giudichera'. Una chiesa veramente evangelica e'
come un'obiezione di coscienza piantata da Dio nella carne viva del mondo.
Ebbene, in questi ultimi tempi le chiese, perfino nei loro vertici
istituzionali, che sono piu' tardi a muoversi e che d'altronde hanno ancora
un pesante conto da pagare alla civilta' della pace, si sentono sospinte
sulle trincee dove si prepara la guerra per pronunciarvi il loro no. Secondo
alcuni, e' gia' matura la stagione per un Concilio ecumenico in cui le
chiese si ritrovino non per lanciare un nuovo messaggio al mondo ma per
assumersi, nei modi loro propri e con tutte le conseguenze, la
responsabilita' della sopravvivenza del mondo e, in positivo, dell'avvento
della civilta' della pace.
- Sono passati dieci anni da quando il rapporto Faure, condensando
un'indagine commissionata dall'UNESCO, riconosceva che la crisi della scuola
era un dato evidente in ogni parte del mondo e osava affermare che, alla
radice di questa crisi, c'era una "mutazione antropologica". Gli autori di
questa rassegna hanno la pretesa di sapere di che mutazione si tratti. La
scuola, nelle forme e nei modi che le sono stati assegnati dalla rivoluzione
borghese e che nei paesi dell'Est europeo appaiono aggravati, e' sempre
stata l'apparato ideologico destinato a procurare consensi al potere
costituito o quanto meno alle classi dominanti. Le classi dominanti, per
definizione, guardano al mondo con l'occhio del dominio e cioe' l'occhio
che, viziato da daltonismo ideologico, scambia il proprio particolare per
l'universale, il proprio calcolo per la Ragione, la propria espansione
colonialistica per la diffusione della civilta'. Ma l'occhio fiero del
padrone ha bisogno dell'occhio umile dello schiavo: oggi, finalmente,
l'occhio umile non c'e' piu'. Le barriere, almeno dal punto di vista
conoscitivo, sono cadute e nessuna cultura puo' ormai provocare un'eco
veramente umana nelle coscienze se non e' cultura planetaria, e cioe' se il
suo punto di vista non e' il punto di vista del pianeta divenuto
l'indivisibile citta' dell'uomo. Per diventare planetaria la cultura deve
essere cultura di pace.
La mutazione antropologica che, secondo il rapporto Faure, sta alla base
della crisi della scuola e' proprio questa. Se ne accorga o meno, la scuola
e' ancora un organo di diffusione della cultura padronale che e', per forza
di cose, cultura di guerra, in contrasto strutturale con i processi di
crescita che abbiamo appena indicato. E le riforme della scuola saranno
semplici palliativi finche' non scenderanno a questa profondita', per
mettere in questione il presupposto antropologico che ha fatto da dogma
latente della cultura occidentale. Tocca alla scuola provvedere alla riforma
di se stessa facendo spazio, naturalmente nei modi suoi propri, ai processi
di cambiamento che preparano e prefigurano la cultura della pace.
*
Uno dei modi con cui la scuola puo' inserirsi, con efficacia decisiva, in
quei processi e' la costruzione, nelle nuove generazioni, di una memoria
storica diversa da quella codificata nel sapere dominante. Ed e' un compito
che comporta la rilettura critica del patrimonio letterario e filosofico che
abbiamo ricevuto in eredita'. Tutto cio' che, in questo patrimonio, era
riconducibile alla sfera dell'utopia veniva, mediante opportuni trattamenti
critici, puntualmente sigillato nella dimenticanza o relegato ai margini
come ingenuo o poeticamente evasivo. E' razionale solo cio' che e' reale:
ecco il dogma implicito o esplicito che ha presieduto alla codificazione del
sapere. La parola pace, nei libri di scuola, serve normalmente per indicare
i trattati conclusivi di guerre, i quali appaiono poco piu' che
interpunzioni nel "continuo" del divenire bellicoso della civilta'. La
"verita' effettuale" e' diversa. E' diversa non solo nell'animo e nel
costume dei popoli, che negli annali ufficiali sembrano piuttosto oggetti
che soggetti di storia, ma anche nello svolgimento del pensiero a cui e'
solito rifarsi, come propria sorgente, il mondo moderno.
E' appunto di questo secondo aspetto della verita' effettuale che la
presente rassegna intende offrire una larga documentazione critica. Il
panorama che essa offre e' di necessita' limitato, nel tempo e nello spazio.
Nel tempo: la rassegna si apre col periodo in cui prende origine la politica
degli Stati e congiuntamente si trasforma, anche dal punto di vista tecnico,
l'"istituzione guerra". Nello spazio: la rassegna resta, salvo qualche
sortita, nei confini del pensiero occidentale anche perche' e' in quest'area
che la civilta' della guerra ha prodotto le sue grandezze e oggi il suo
dilemma mortale.
Secolo dopo secolo, autore dopo autore, l'utopia della pace appare in queste
pagine sempre in un rapporto dialettico con la realta' della guerra e appare
sempre, alla prova dei fatti, perdente. Solo oggi, nell'era di Hiroshima, le
due logiche, quella dell'ideale morale e quella della necessita' realistica,
arrivano a coincidere dischiudendo una ricca gamma di prospettive morali e
politiche.
Gli autori della rassegna non nascondono affatto quale sia, in rapporto a
questo singolare evento della coincidenza tra utopia e realismo, la loro
posizione, anzi hanno voluto apertamente dichiararla fin da questa lunga
premessa. E tuttavia essi sono convinti di non aver fatto forza al senso
oggettivo delle cose, di non aver contraffatto l'immagine della realta' su
cui le coscienze possono elaborare, in modo autonomo, le proprie scelte. Lo
strumento che essi hanno preparato intende provocare e soccorrere,
all'interno della scuola, un dibattito che e sicuramente il piu' alto, il
piu' universale e, sia permesso di dire, il piu' religioso tra quelli che
fanno ancora della scuola l'occasione piu' importante per la formazione
dell'uomo nuovo. I lettori, giovani o meno, giudichino da loro. E ci aiutino
a colmare lacune e a rettificare giudizi per rendere il nostro lavoro sempre
piu' adatto ad illuminare e ad alimentare, dentro e fuori della scuola, la
cultura della pace da cui dipende il destino della Terra.

3. ET COETERA
Ernesto Balducci e' nato a Santa Fiora (in provincia di Grosseto) nel 1922,
ed e' deceduto a seguito di un incidente stradale nel 1992. Sacerdote,
insegnante, scrittore, organizzatore culturale, promotore di numerose
iniziative di pace e di solidarieta'. Fondatore della rivista
"Testimonianze" nel 1958 e delle Edizioni Cultura della Pace (Ecp) nel 1986.
Oltre che infaticabile attivista per la pace e i diritti, e' stato un
pensatore di grande vigore ed originalita', le cui riflessioni ed analisi
sono decisive per un'etica della mondialita' all'altezza dei drammatici
problemi dell'ora presente. Opere di Ernesto Balducci: segnaliamo
particolarmente alcuni libri dell'ultimo periodo: Il terzo millennio
(Bompiani); La pace. Realismo di un'utopia (Principato), in collaborazione
con Lodovico Grassi; Pensieri di pace (Cittadella); L'uomo planetario
(Camunia, poi Ecp); La terra del tramonto (Ecp); Montezuma scopre l'Europa
(Ecp). Si vedano anche l'intervista autobiografica Il cerchio che si chiude
(Marietti); la raccolta postuma di scritti autobiografici Il sogno di una
cosa (Ecp); la raccolta postuma di scritti su temi educativi Educazione come
liberazione (Libreria Chiari); il manuale di storia della filosofia, Storia
del pensiero umano (Cremonese); ed il corso di educazione civica Cittadini
del mondo (Principato), in collaborazione con Pierluigi Onorato. Opere su
Ernesto Balducci: cfr. i due fondamentali volumi monografici di
"Testimonianze" a lui dedicati: Ernesto Balducci, "Testimonianze" nn.
347-349, 1992; ed Ernesto Balducci e la lunga marcia dei diritti umani,
"Testimonianze" nn. 373-374, 1995; un'ottima rassegna bibliografica
preceduta da una precisa introduzione biografica e' il libro di Andrea
Cecconi, Ernesto Balducci: cinquant'anni di attivita', Libreria Chiari,
Firenze 1996; recente e' il libro di Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto
Balducci. La Chiesa e la modernita', Laterza, Roma-Bari 2002; cfr. anche
almeno Enzo Mazzi, Ernesto Balducci e il dissenso creativo, Manifestolibri,
Roma 2002; e AA. VV., Verso l'"uomo inedito", Fondazione Ernesto Balducci,
San Domenico di Fiesole (Fi) 2004. Per contattare la Fondazione Ernesto
Balducci: tel. 055599147, e-mail: feb at fol.it, sito:
www.fondazionebalducci.it

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 8 del 7 febbraio 2006

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