Nonviolenza. Femminile plurale. 49



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 49 del 2 febbraio 2006

In questo numero:
1. Elisa Springer colloquia con studenti e insegnanti della scuola media
"Fiori" di Formigine
2. Maria G. Di Rienzo: L'"irragionevole" Diane Wilson e i diritti umani
delle detenute
3. Meghan Sapp: Asilo per Pamela
4. Ida Dominijanni: Se a sinistra si tornasse ad amare
5. Anna Achmatova: Sul lago s'e' fermata ora la luna

1. MEMORIA. ELISA SPRINGER COLLOQUIA CON STUDENTI E INSEGNANTI DELLA SCUOLA
MEDIA "FIORI" DI FORMIGINE
[Dal sito di Peacelink (www.peacelink.it) riprendiamo ampi stralci della
trascrizione di un colloquio di Elisa Springer con gli studenti e gli
insegnanti della scuola media "Fiori" di Formigine (il colloquio si e'
svolto nel palazzo del Comune di Formigine, purtroppo non siamo riusciti a
ricostruire con certezza la data - che comunque si colloca nel 1998 o 1999).
Elisa Springer (Vienna 1918 - Matera 2004), testimone e studiosa della
Shoah, nata da un famiglia di commercianti ebrei di origine ungherese,
catturata dai nazisti a Milano nel 1944 e deportata nei lager di Auschwitz,
Bergen-Belsen e Terezin, sopravvissuta e tornata in Italia nell'autunno del
1945, visse poi a Manduria. Opere di Elisa Springer: Il silenzio dei vivi,
Marsilio, Venezia 1997; L'eco del silenzio. La Shoah raccontata ai giovani,
Marsilio, Venezia 2003. Due interviste e altri materiali su Elisa Springer
sono disponibili in "Voci e volti della nonviolenza" n. 7]

Buongiorno a tutti...
Il mio calvario e' iniziato nel 1938. Io sono nata a Vienna e sono
austriaca, sono figlia unica e con l'annessione alla Germania e' cominciata
la mia storia. Mio padre e' stato tra i primi ad essere arrestato gia' nel
giugno del '38 e deportato a Buchenwald, da dove non e' mai piu' tornato. In
seguito anche mia madre e' stata deportata e di lei non so piu' nulla. Dopo
tante peripezie, scappando attraverso mezza Europa, nel 1940 sono giunta in
Italia e mi sono fermata a Milano, dove ho vissuto fino al '44 non proprio
nascosta, ma ho dovuto cercare di poter sopravvivere anche allora. Nel '43
non potevo avere nessun impiego e, conoscendo qualche lingua, mi sono
arrangiata facendo delle traduzioni in inglese e in tedesco dall'italiano.
Poi nel '44, dietro una spiata, sono stata arrestata anche io a Milano, e
dopo poco piu' di un mese di carcere tra Milano, Como e di nuovo Milano,
sono stata deportata ad Auschwitz.
*
La vita ad Auschwitz
Non si puo' descrivere Auschwitz, non ci sono parole che possano bastare. Ad
Auschwitz si viveva camminando in mezzo ai morti, tutti i giorni si moriva e
non sapevi mai quando sarebbe toccato a te, perche' ogni tanto veniva quel
famigerato Dottor Mengele, faceva l'appello, bisognava uscire fuori dalla
baracca completamente nude, ti guardava, ti faceva girare per vedere le
spalle e bastava un foruncolo un po' piu' infiammato per essere subito
portate alle camere a gas.
Ti svegliavi la mattina presto: cioe' sentivi il fischietto, allora dovevi
saltare giu' dalla tua cuccetta di legno.
Auschwitz era diviso in due parti: c'era Auschwitz 1, che era un ex campo
militare, formato solo da caserme che poi sono state trasformate in lager, e
Auschwitz Birkenau, il vero e proprio campo di sterminio, a cui era annesso
il campo femminile, dove sono stata io, dove c'erano soltanto baracche di
legno con letti a castello uno sopra l'altro, a tre piani con dei tavolacci.
Si dormiva su tavolacci senza niente sotto, quelle piu' fortunate avevano un
po' di paglia. In uno spazio di circa due metri per un metro e qualcosa di
larghezza si dormiva in dodici, con due coperte militari, se una si girava
si dovevano girare tutte le altre: non c'era spazio per dormire supini, si
doveva per forza dormire su un lato.
Poi alla mattina presto ti portavano, in un bicchiere di smalto, un po' di
surrogato di caffe' senza zucchero. E siccome nel periodo in cui sono stata
deportata io, nell'agosto del '44, ad Auschwitz mancava l'acqua, io invece
di bere quel surrogato mi ci lavavo e mi ci sciacquavo gli occhi e la bocca.
Poi c'era l'appello: dovevi metterti in fila per cinque fuori dalla baracca
e venivano gli ufficiali per vedere e contare quanti eravamo, se eravamo
ancora tutti quelli che erano arrivati all'inizio. Dovevi stare dritta per
delle ore, guardare sempre fisso davanti a te, non dovevi mai guardare in
faccia i tedeschi: non lo permettevano, non eravamo degne di guardarli in
faccia, dovevamo guardare oltre le loro teste, dovevamo stare con le mani
lungo il corpo senza muoverci mai. L'appello durava secondo il tempo
atmosferico: se la giornata era bella, magari tre ore potevano bastare, se
il tempo era brutto, tante volte si stava anche dieci o dodici ore. Era
chiamato appunto campo di sterminio: facevano di tutto per farci morire. E
qualcuno non resisteva.
Un giorno, soltanto per aver sorretto una mia compagna, che era nella fila
di fianco a me e che stava per svenire dopo tante ore di appello,
l'ufficiale mi ha fatto un cenno: mi ha chiamato fuori, si e' assentato un
po' ed e' tornato con un ferro rovente e, davanti a tutti, mi ha fatto una
bruciatura con quel ferro sulla coscia destra, nella parte posteriore:
ancora oggi ne porto la cicatrice. Questa era soltanto una delle punizioni,
poi si usava anche strappare le unghie dei piedi con gli stivali, anche li'
io tengo un'unghia del piede rovinata, e tante altre cose.
Poi a mezzogiorno portavano il mangiare, che consisteva in una gavetta con
un po' di minestra di rape di colore grigio ferro e dal sapore di pepe,
anche se non ce n'era forse, ma bruciava terribilmente. Dopo la liberazione
ho saputo il perche' di questo bruciore, perche' nella minestra ci erano
somministrati bromuro per farci stare calme ed altri medicamenti per far
cessare a noi donne il ciclo mestruale. Infatti durante tutta la
deportazione nel campo, nessuna di noi aveva il suo ciclo. Questi sono
esperimenti che hanno fatto su di noi senza che lo sapessimo.
Poi il pomeriggio c'era di nuovo l'appello, lo stesso della mattina,
dopodiche' si rientrava nella baracca e la sera ti portavano un pezzettino
di margarina e a volte un po' di marmellata di barbabietole e un pezzettino
di carne in scatola. Questo era il mangiare, ad Auschwitz.
Ogni tanto, come ho detto prima, c'era questa selezione, ogni quindici
giorni, tre settimane. Io ho avuto una grande fortuna ad Auschwitz: quando
quell'ufficiale mi ha fatto la bruciatura sulla coscia, in quel periodo, per
fortuna, non c'e' stata nessuna selezione, altrimenti, vedendo la mia
ferita, perche' era una ferita abbastanza profonda, io sarei stata subito
eliminata. Invece ho avuto la fortuna che, siccome questo mi e' successo
quasi all'inizio della mia deportazione, ero ancora abbastanza in forze ,
avevo ancora le mie risorse, la ferita e' guarita presto, e quando Mengele
e' venuto a fare la selezione si era gia' cicatrizzata, altrimenti sarei
andata a finire subito nella camera a gas.
La' ad Auschwitz sono rimasta fino verso la fine di ottobre. Nella mia
baracca nessuno ha mai lavorato, perche' sembra che la mia baracca fosse una
baracca di transito, cioe' noi dovevamo essere destinate ad un altro campo,
mentre nelle altre baracche si lavorava, "si andava a scavare - dicevano
loro -le cantine e rifugi antiaerei". Invece erano le famigerate fosse che
servivano per i prigionieri stessi.
Io poi verso la fine di ottobre sono stata trasferita non si sapeva per
dove, perche' nessuno sapeva mai dove si sarebbe andati a finire, il mio
convoglio doveva andare a Buchenwald, invece in Turingia il convoglio e'
stato diviso: una parte e' andata a finire a Buchenwald, e tutti coloro che
stavano in quella parte del convoglio furono immediatamente gassati, mentre
il reparto dove stavo io e' andato a finire a Bergen Belsen e la' sono stata
un'altra volta fortunata.
*
La vita a Bergen Belsen
A Bergen Belsen la vita suppergiu' era la stessa di Auschwitz, solo Belsen
era piu' piccolo di Auschwitz; perche' dovete sapere che Auschwitz era un
campo di 45 chilometri quadrati di estensione, quindi era enorme, mentre
Bergen Belsen era piu' piccolo. A noi, appena arrivati da un luogo come
Auschwitz, sembrava che fosse molto migliore, ma dopo un po' di tempo il
comandante di Auschwitz, Joseph Kramer, e' stato trasferito a Belsen e anche
la' allora cominciarono le selezioni, le gassazioni, anche se a Bergen
Belsen non c'erano camere a gas: i prigionieri venivano gassati altrove e
poi bruciati nelle fosse.
Nella terza baracca, perche' io ho cambiato a Belsen tre volte baracca, sono
stata insieme ad Anna Frank e a sua sorella Margot. Anna Frank era una
ragazzina di quindici-sedici anni, molto magrolina, gia' malridotta, era
gia' quasi uno scheletro. Una ragazzina che piangeva tutto il giorno perche'
voleva carta e penna per poter continuare a scrivere il suo diario. Io non
sapevo allora che si chiamasse Anna Frank, perche' ci chiamavamo soltanto
per numero, avevamo ognuno il nostro numero di matricola; sono risalita a
lei dopo la liberazione e ho capito che lei era Anna Frank. Non ho potuto
scriverlo nel mio libro, perche' per scrivere un libro bisogna poter
documentare tutto e io allora non avevo documenti in mano, oggi invece sono
in possesso di questi documenti e so che era veramente Anna Frank e avevo
ragione.
*
Terezin, e la liberazione
Da Bergen Belsen sono stata trasferita a Raghun, in una fabbrica di
aeroplani a 50 chilometri da Lipsia e da li', dopo un po' di tempo, sono
stata trasferita nel mio ultimo campo: a Terezin, nell'odierna Repubblica
Ceca. Di Terezin posso dire poco, perche' dopo pochissimo tempo mi sono
ammalata di tifo petecchiale e sono rimasta in coma quasi per un mese, senza
mangiare, senza bere e senza medicine. Mi sono svegliata da sola: ecco
perche' io dico sempre "Dio ha voluto che io vivessi", io sono viva solo per
la mano di Dio
Quando mi sono svegliata ho visto che stavo su un pagliericcio con una
coperta, mi sono meravigliata e ho chiesto alla mia compagna cosa stesse
succedendo, perche' dalla finestra dietro di me ho visto volare tante carte
e ho sentito un forte odore di bruciato e la mia compagna mi ha risposto:
"Si', Elisa, tu non sai niente perche' sei stata in coma per tanto tempo, ma
noi siamo gia' liberi - ed era il 9 maggio del 1945 -. Noi siamo gia' in
mano russa perche' Terezin e' stato liberato dalle truppe russe e quelle
carte che tu vedi volare sono i documenti che i tedeschi prima di scappare
hanno cercato di bruciare e siccome c'e' molto vento queste carte volano.
Qui c'e' anche un pacco per te dalla Croce Rossa, noi il nostro l'abbiamo
gia' mangiato, ma questo e' il tuo pacco di viveri". E io ho voluto che si
aprisse il pacco, l'ho chiesto a una mia compagna perche' io non avevo la
forza di farlo. Lei lo ha aperto, sopra c'era una grande tavoletta di
cioccolato: volevo assaggiarla, ma non avevo la forza ne' di aprirla, ne' di
poterla mangiare: mi mancava la forza di ingoiare.
Sono poi stata portata in quarantena in un lazzaretto dove sono stata
assistita molto bene, non mi hanno fatto piu' nemmeno il vaccino, la
dottoressa che mi ha visitato ha scosso la testa e ha detto: "Ma questa e'
una cosa incredibile! Questa ragazza ha superato da sola il tifo petecchiale
senza cure, senza mangiare, quindi non c'e' piu' nemmeno bisogno del vaccino
perche' e' gia' fuori pericolo!". E li' poi per quaranta giorni sono
rimasta, mi hanno "tirato su'", come si suol dire.
*
Il ritorno
Poi sono ritornata con un convoglio che ha attraversato l'Austria, mi sono
fermata un po' da una mia zia e poi sono rientrata in Italia nell'agosto del
'45. Mi sono di nuovo fermata a Milano e naturalmente non era facile la vita
perche' all'inizio siamo stati visitati, ci hanno passato un po' di soldi,
ci hanno dato un pacco con un pezzo di stoffa per farci un vestito e ci
hanno consegnato dei buoni per poter mangiare in certe trattorie e per un
po' di tempo e' andato tutto bene, solo che si ricominciava a vivere
automaticamente: avevi paura, vivevi sempre con la paura, io camminavo
velocemente per le strade perche' avevo sempre l'impressione di avere ancora
alle calcagna i nazifascisti e questa sensazione e' durata per molto tempo.
Nel maggio del '46, ho conosciuto mio marito che era pugliese, ecco perche'
io oggi vivo in Puglia; lui mi ha sposato e mi ha portato a Napoli. Sapete
in meridione non e' come nell'alta Italia: per me era molto difficile
inserirmi nella vita, prima di tutto dopo la mia esperienza vivevo con una
paura continua, non riuscivo a parlare e poi ho incontrato una grande
indifferenza perche' la guerra non era passata nel meridione, non era stata
vissuta come nell'alta Italia, li' non si sapeva nulla della Resistenza e,
specialmente in Puglia, ci sono stati pochi bombardamenti e quindi non
volevano saperne niente: c'era una grande indifferenza. Qualche volta ho
cercato di aprirmi, di parlare, ma nessuno mi voleva ascoltare e allora mi
sono chiusa sempre di piu' in me stessa, finche dopo molti anni avevo il
bisogno di aprirmi e di parlare e allora mi sono aperta un po' con mio
figlio, che voleva sapere, che voleva conoscere le sue radici.
*
Arrivata ad una certa eta'...
Arrivata ad una certa eta', ho capito che dovevo parlare anche per voi
giovani, perche' il futuro e' nelle vostre mani, ma non esiste un futuro
senza passato, e perche' queste cose non avvengano piu', io mi sono fatta
violenza e, per amore di mio figlio che voleva sapere e per amore anche
verso voi giovani, ho scritto questo mio libro che spero possa in qualche
modo contribuire a rendere un po' migliore il mondo perche', sapete ragazzi,
come ho gia' detto prima, siamo tutti figli di un unico Dio e siamo tutti
della stessa razza, non esistono razze diverse, ci sono solo due categorie
di uomini: quelli buoni e quelli cattivi. Quello che conta non e' il colore
della pelle, conta quello che si ha qui dentro e un giorno tutti quanti
dovremo fare lo stesso tragitto, che per me e' gia' abbastanza vicino
perche' fra un paio di mesi compio 81 anni, ma voi siete ancora giovani e
avete tutta la vita davanti a voi. Io vi auguro una lunga vita, ma un giorno
dovremo fare lo stesso tragitto e mi piacerebbe tanto se potessimo farlo
tenendoci tutti per mano. Grazie e auguri.
*
Domande
- Domanda: Perche' ha scritto il suo libro cosi' tardi, aveva paura della
reazione degli altri?
- Elisa Springer: Non avevo paura della reazione delle altre persone, ma
avevo paura dell'indifferenza. Perche' pochi anni fa c'era molta
indifferenza, non c'era l'interesse che c'e' oggi, nessuno voleva sapere. Ho
cercato di parlare qualche volta, ma mi si voltavano le spalle e mi si
diceva anche, qualcuno, "non puo' essere vero, non ti credo", e allora mi
sono chiusa in me stessa e non ho piu' parlato. Non sono stata incoraggiata
come oggi. Oggi siete voi giovani che mi incoraggiate. Io parlo da quasi
quattro anni e vedo che c'e' molto interesse e molta voglia di sapere e
allora sono riuscita fuori, sono tornata ad Auschwitz.
*
- Domanda: Quali erano le regole del lager?
- Elisa Springer: Prima di tutto obbedienza e non ribellarsi, perche'
ribellarsi significava gia' morire, essere eliminate immediatamente. Poi io
ho avuto fortuna perche', essendo austriaca, capivo la loro lingua, perche'
loro parlavano unicamente il tedesco. Davano l'ordine e tu dovevi obbedirgli
immediatamente anche per questo sono stata fortunata perche' io capivo
subito quello che dicevano e obbedivo e anche questo mi ha salvato, in
parte.
*
- Domanda: In quale dei campi ha sofferto di piu'?
- Elisa Springer: E' facilissimo dirlo: ad Auschwitz. Peggio di Auschwitz
non ci poteva essere niente.
*
- Domanda: Lei non si e' mai ribellata ai comandi?
- Elisa Springer: Se io mi fossi ribellata, oggi, figlio mio, non sarei qui;
perche' ribellarsi significava morire subito. Non potevo ribellarmi, infatti
alcuni sono stati uccisi proprio per questa ragione. La sopravvivenza era
molto questione di carattere, perche' se ti ribellavi eri spacciata. Non
potevi ribellarti.
*
- Domanda: Ha mai visto morire qualche amico o la famiglia davanti ai suoi
occhi?
- Elisa Springer: No. Veramente si', nella mia baracca ci sono stati morti,
ma eravamo tutte compagne, non eravamo tutte amiche perche' eravamo in
troppe in una baracca. Potevamo essere da trecento a seicento, secondo il
periodo, quindi non potevi essere amica di tutti. Io avevo un'amica del
cuore, con cui ho diviso tutto, fino all'ultimo giorno e siamo tornate tutte
e due. Ci siamo divise appunto anche la gavetta. La mattina ci domandavamo:
"Tu oggi hai molta fame?" se io dicevo si', lei mi dava meta' della sua
razione, se diceva si' lei, le davo meta' della mia razione, cosi'
riuscivamo a sopravvivere tutte e due. Lei oggi potrebbe essere ancora viva,
non lo so, io fra meno di due mesi faccio 81 anni, lei era di sedici anni
piu' grande di me, e io non so se e' ancora viva. Ci siamo riviste dopo la
Liberazione, a Milano, lei partiva con il marito e il figlio per l'Australia
e da allora non ho piu' sentito nulla di lei.
*
- Domanda: Ha mai visto o parlato con un ufficiale tedesco?
- Elisa Springer: No, non si poteva mica parlare con loro e poi non ho piu'
visto nessuno di loro.
*
- Domanda: Che sensazione ha provato quando sono arrivati gli Alleati?
- Elisa Springer: Ma vedi, io il momento della Liberazione non l'ho vissuto
perche' stavo ancora in coma. Io la Liberazione l'ho vissuta quando sono
rinvenuta dalla mia incoscienza. Non ho potuto vivere quel momento di gioia.
Certamente, dopo, sono stata felice...
*
- Domanda: Quali erano le condizioni igieniche?
- Elisa Springer: Non esistevano condizioni igieniche, vi ripeto, vicino
alla mia baracca, perche' io parlo sempre della mia esperienza, c'era
un'altra baracca chiamata latrina. Era una baracca di legno in mezzo alla
quale c'era un banco, un lungo banco di legno per quanto era lunga la
stanza, e ogni tanto c'era sopra un buco attorno al quale c'era un po' di
creta, queste erano le latrine e la' si andava uno vicino all'altro.
*
- Domanda: Quali erano gli argomenti di conversazione nelle baracche?
- Elisa Springer: Beh, la conversazione era sempre la stessa, cioe' io posso
parlare delle conversazioni che ho avuto con l'unica mia vera amica, con la
quale ho diviso tutto; noi parlavamo sempre del nostro passato, delle nostre
famiglie, lei di suo marito, di suo figlio; io dei miei genitori e la
speranza di rivedere mia madre, di sopravvivere, di quello si parlava,
dicevamo sempre: "Dobbiamo sopravvivere, dobbiamo cercare di sopravvivere,
dobbiamo aiutarci a sopravvivere". Delle discussioni degli altri non lo so
perche' noi due eravamo sempre insieme.

2. TESTIMONIANZE. MARIA G. DI RIENZO: L'"IRRAGIONEVOLE" DIANE WILSON E I
DIRITTI UMANI DELLE DETENUTE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo testo.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista
teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche
sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005.
Diane Wilson e' madre di cinque figli e una spina nel fianco delle compagnie
chimiche sulla costa del Golfo del Texas; attraverso scioperi della fame ed
altre azioni dirette nonviolente, ha fatto pressione sulle compagnie sino a
costringerle spesso a smettere di inquinare la baia; ambientalista e
pacifista di lunga data, e' cofondatrice del gruppo pacifista femminista
"Codepink"; e' stato recentemente pubblicato il suo nuovo libro, "An
Unreasonable Woman" (Una donna irragionevole)]

Diane Wilson, l'ambientalista autrice di "An Unreasonable Woman" (Una donna
irragionevole) e' da due mesi in prigione, condannata a 150 giorni di
reclusione.
La sentenza riguarda un'azione diretta nonviolenta che Diane opero' nel
2002, a Seadrift (Texas) dove vive: allora scalo' una torre della Dow
Chemical, di cui la Union Carbide e' una sussidiaria, e vi pianto' uno
striscione su cui stava scritto "Giustizia per Bhopal", riferendosi al noto
disastro del 1984 in cui migliaia di indiani morirono a causa di una fuga
tossica dagli impianti delle suddette compagnie chimiche.
Da lungo tempo Diane affianca le vittime del disastro di Bhopal, che ancora
chiedono giustizia per la morte dei loro cari, ed ha anche tentato di
incontrare l'allora responsabile della Union Carbide in India, Warren
Anderson, chiedendogli di tornare sul luogo e di affrontare le accuse che
gli sono state mosse dalla giustizia indiana. Condannata l'azione del 2002
dallo stato del Texas, Diane poteva evitare l'arresto restando in uno
qualsiasi degli altri stati americani, ma il 5 dicembre 2005 ha preferito
acquistare il biglietto per una riunione indetta dal partito repubblicano a
Houston (Texas) allo scopo di raccogliere fondi. In mezzo alla sala, mentre
il vicepresidente statunitense Dick Cheney faceva il suo discorso, ha
srotolato un altro striscione: "L'avidita' delle corporazioni economiche
uccide: da Bhopal a Baghdad". All'esterno, attivisti pacifisti affollavano
l'ingresso con cartelli contro la guerra in Iraq. Diane Wilson e' stata
immediatamente arrestata e trasferita alla prigione di Victoria County per
scontare la sentenza comminatale nel 2002.
*
Madre di cinque figli, ex capitana di una nave da pesca e cofondatrice di
"Code Pink: donne per la pace", Diane e' un'attivista ambientalista dal 1989
e ha compiuto azioni memorabili. Il suo lavoro per la salvaguardia della
baia del Golfo del Texas e per la salute di chi ci vive le hanno guadagnato
molti riconoscimenti negli Usa e all'estero. Dalla prigione, il 20 gennaio,
ha mandato una lunga lettera allo sceriffo della contea in cui si trova, di
cui traduco le parti essenziali:
"Caro sceriffo O'Connor,
sono una detenuta di sesso femminile della prigione di Victoria County, che
deve scontare una sentenza di 150 giorni e pagare una multa di 2.000 dollari
per aver protestato contro il rifiuto della Dow Chemical Company di
presentarsi nei tribunali dell'India a rispondere delle accuse mosse alla
sua sussidiaria (che controlla totalmente), la Union Carbide, in relazione
al disastro di Bhopal.
Sono qui relativamente da poco, essendo entrata in prigione il 10 dicembre
2005, tuttavia ho gia' un buon numero di lagnanze.
Molte vengono dalle mie compagne di prigionia e lei si chiedera' perche' non
le presentano esse stesse. E' molto semplice: non esiste alcuna strada
praticabile per presentare esposti e se c'e' le mie compagne non ne sono
state informate.
Esiste un modulo prestampato che dovrebbe servire a stabilire una
comunicazione, ma i tempi di risposta variano da una settimana a mai.
Nessuno fornisce informazioni, non c'e' un documento, un volantino, che
spieghi le procedure da seguire o i diritti delle detenute, e neppure
qualcosa di abbastanza semplice come 'dove si trova il commissario'.
Ho chiesto dei testi di diritto, poiche' le mie compagne raramente vedono un
avvocato, mi hanno detto che non ce ne sono di disponibili. Se le detenute
chiedono assistenza legale viene loro risposto: 'Vedrai l'avvocato al
processo' ovvero, solitamente, dieci minuti prima del dibattimento in
tribunale.
Le donne in questa prigione sono in maggioranza afroamericane o ispaniche e
molto povere. Le loro condanne riguardano per lo piu' fatti minori, piccoli
traffici, e niente di violento, eppure sono forzate a restare in cella senza
assistenza legale per lunghi periodi di tempo.
Non credo di stare sollevano nessuna istanza che lei non conosca gia'. Ho
parlato con un funzionario del sistema carcerario tempo fa (non faro' il suo
nome) e lui mi disse che era ben conscio della lunghezza dei tempi per
ottenere un avvocato e un processo. Ne discusse con un giudice, mi disse, e
la risposta del giudice fu piu' o meno: 'Eh gia', e' un problema'.
Percio' credo che lei possa capire quanto sono sconcertata dal fatto che non
vi sia neppure l'accesso ai testi di diritto penale. Il personale carcerario
mi ha detto che l'accesso ai testi e' possibile solo quando l'assistenza
legale non e' disponibile, ma io non ho ancora accesso ne' ai primi ne' alla
seconda.
Poiche' ho insistito per accedere alla biblioteca legale, sul modulo
prestampato di cui sopra, dopo una settimana ho avuto la risposta: Non
abbiamo una sala di 'scritura'. Certo, questo spiega tutto. Niente sala di
'scritura', niente biblioteca legale.
Allora ho chiesto quali fossero gli standard della prigione: ci saranno pure
degli standard che la prigione deve mantenere, ed io e le mie compagne
abbiamo il diritto di sapere quali sono. Circa dieci giorni piu' tardi, la
risposta diceva: Qual e' il suo problema?
Il mio problema e' che le detenute non hanno voce, non hanno accesso
all'assistenza legale o ai testi di diritto, non hanno una sala di
'scritura' e non conoscono gli standard della prigione. Questo e' il mio
problema.
Percio' le scrivo, visto che lei e' il gradino successivo nella catena di
comando, e le invio non solo la richiesta di conoscere gli standard ma anche
le altre lagnanze e preoccupazioni che ho raccolto da che sono qui.
Salute: non so se lei ha seguito il lavoro investigativo giornalistico di
Mike Ward e Bill Bishop dell'"Austin American Statesman" sul sistema
sanitario nelle prigioni texane. I due reporter hanno documentato
maltrattamenti sistematici sui detenuti malati, l'accesso alla struttura
sanitaria come forma di ricatto e di punizione, e la somministrazione
irrazionale e pericolosa di medicinali. Se non ha letto questo rapporto lo
faccia, perche' cose simili stanno accadendo nella sua prigione. I tre casi
che le presento sembrano costituire una sorta di procedura usuale per questo
carcere, un problema a lungo termine (e si', le donne in questione sono
giovani e povere, ispaniche o afroamericane).
1. Mary De Leon. La signorina De Leon ha passato 18 mesi nel carcere di
questa contea per questioni legate a sostanze psicotrope. Per tutti i
diciotto mesi, la signora De Leon ha sofferto di calcoli alla vescica. Il
responso del servizio sanitario e' stato 'latte di magnesio e stai
sdraiata'. Le condizioni della giovane peggiorarono al punto che era
perennemente scossa da tremiti e brividi, e sveniva. La risposta fu di nuovo
'magnesio e materasso'. Verso la fine dei 18 mesi, la signora De Leon ebbe
una sincope dal dolore ed una compagna di cella chiamo' le guardie.
Trasferita d'urgenza all'ospedale, Mary seppe la' che la sua vescica si era
rotta. Non ha intentato causa alla prigione, per paura di essere punita.
2. Lacy Leyva. La signorina Leyva ha scontato un mese di prigione. Lamentava
forti dolori ai reni, ma le fu dato solo un antidolorifico ogni otto ore
(Ibuprofen). I dolori divennero lancinanti, cosi' oltre all'antidolorifico
le si consiglio' di stare sdraiata. Appena rilasciata, la signora Leyva si
reco' all'ospedale dove le fu diagnosticata un'insufficienza renale. Al
termine del ricovero ricevette una chiamata dalla prigione sul suo cellulare
che diceva: 'Vai allíospedale. Sospettiamo che tu abbia un'insufficienza
renale'.
3. Shandra Williams. La signora Williams fu incarcerata anche se stava
portando avanti una gravidanza a rischio (era circa di sette mesi), cosa
nota al tribunale ed all'amministrazione carceraria. In prigione le sue
condizioni peggiorarono. Comincio' ad avere emorragie, ma l'infermiera era
riluttante a crederle e le chiedeva di mostrarle gli assorbenti. Percio' la
signora Williams dovette anche subire l'umiliazione di dover provare che
stava male e sanguinava. Come rimedio la si mise in isolamento, visto che la
solitudine era una cosa che odiava. Aspettava il suo primo figlio ed era
spaventata dal non avere assistenza medica. Perche' smettesse di lamentarsi
le fu dato un calmante (Benadryl). Quando la riportarono in cella le si
ruppero le acque. Le fu detto che aveva le allucinazioni, che non era vero.
L'infermiera le disse di non preoccuparsi, perche' avrebbe partorito il mese
dopo. Dopo di che la rimisero in isolamento, cosa che la rese folle di paura
perche' non aveva contatto con nessun altro essere umano. Era allarmata
perche' il bambino stava nascendo in anticipo sulla data prevista e perche'
l'infermeria le aveva rifiutato persino il monitoraggio volto a stabilire le
condizioni di salute del nascituro. Poiche' mostro' agitazione all'idea di
tornare in isolamento, il sergente le disse che ci sarebbe andata con le
buone o con le cattive: le 'cattive' prevedevano l'uso della pistola da
stordimento. Una delle donne di guardia ne era cosi' preoccupata che
trasporto' lei stessa le cose di Shandra nella cella d'isolamento, e la
convinse ad entrarci blandendola. Subito dopo, la signora Williams entro' in
travaglio, ed era quindi un parto prematuro. Per avere aiuto, la signora
Williams dovette strisciare sul pavimento dalla toilette al bottone
d'allarme sul muro. Dopo tre tentativi qualcuno si degno' d'arrivare. Il
neonato, che era uscito di piedi, penzolava attorno alle caviglie di sua
madre. Nel pandemonio che segui', la signora Williams fu trasferita in
ambulanza all'ospedale. Il bimbo era morto, e alla madre fu consegnato il
cadaverino in un lenzuolo. Nessuno le disse che il piccolo era morto: se ne
accorse da sola quando vide che suo figlio non si muoveva e non respirava.
Non fu fatto alcun tentativo di avvisare suo marito. Quando, molto dopo,
riusci' a saperlo e ad arrivare all'ospedale, il cadavere nel lenzuolo
passo' a lui. Alla signora Williams, riportata in prigione, non fu concesso
neppure il permesso di assistere ai funerali del bimbo. Shandra mi ha detto
che piu' tardi lei, sceriffo O'Connor, la chiamo' nel suo ufficio e le disse
che lo sfortunato incidente non era sua responsabilita', ma era dovuto agli
errori dell'amministrazione carceraria sotto il precedente sceriffo Michael
Ratcliff.
Date le conseguenze a lungo termine e le terribili sofferenze imposte a
queste donne, io spero che lei voglia dare a questa questione la
considerazione che merita.
Materiale di lettura: la biblioteca della prigione consiste in un carrello
di metallo che trasporta trenta romanzi rosa spiegazzati. Poiche' qui sono
permesse poche distrazioni, potrei dire nessuna, forse questa e' la ragione
per cui le carcerate fanno rose con la carta igienica e colorano la propria
carta da lettere con la pasta dentifricia. Confesso che sono un po'
riluttante a dirle questo, temendo che le guardie corrano a confiscarci le
rose e ad accusarci di contrabbando di carta igienica. Cio' che
l'amministrazione carceraria si propone di ottenere negando materiale di
lettura va oltre quello che io posso capire. A me sembra una punizione
crudele, e controproducente per qualsiasi forma di riabilitazione.
Accesso ai programmi scolastici: poiche' la maggioranza delle detenute sono
assai povere, giovani ed appartenenti a minoranze, sono rimasta di stucco
quando ho scoperto che il programma scolastico offerto viene usato come
forma di ricatto. Una mia compagna di cella, che sta lottando disperatamente
per migliorare se stessa e crescere il suo figlioletto di nove anni, e'
riuscita ad ottenere l'accesso al programma solo per esserne espulsa a causa
di un bigliettino passato ad una compagna di classe. A molte detenute il
programma scolastico non viene concesso. Non capisco questa riluttanza da
parte dell'amministrazione a permettere che le detenute conseguano un
diploma di scuola superiore. E' noto che grazie ad esso potrebbero trovare
lavori migliori e meglio pagati, e che una persona soddisfatta del proprio
lavoro e' meno incline a cacciarsi nei guai con la legge.
Trattamenti umilianti: capisco che alcune di queste osservazioni per lei non
significheranno nulla, e che lei potrebbe pensare che il trattamento dei
detenuti in uso nelle prigioni texane non e' nulla rispetto ai tipi di abusi
perpetrati ad Abu Ghraib in Iraq. E' vero, ma per quello che serve le
ribadisco che ho letto inchieste assai documentate e che ho sperimentato
trattamenti orribili io stessa. Mentre scontavo una sentenza a cinque giorni
nel carcere di Houston, sono stata trattenuta in una gelida 'sala di
smistamento' assieme ad altre detenute per ore ed ore, sicche' fummo
costrette a dormire su di un pavimento di cemento ricoperto da spazzatura e
dai liquami che traboccavano da una toilette intasata. Di quando in quando
una guardia faceva capolino per urlarci: 'Vacche!'. Dopo di che fummo
smistate nelle celle, dove ci fu ordinato di spogliarsi e di sfilare in
mutande. Erano tutte donne che non avevano visto ancora ne' un giudice ne'
un avvocato, e alcune erano 'dentro' per violazione delle norme sul
traffico! Nella mia cella fummo ammassate in 70: la guardia che passava di
tanto in tanto questa volta urlava: 'Stupide cagne!', perche' facevamo
troppo rumore.
Lo scorso 10 dicembre sono stata trasferita alla sua prigione, dove sono
stata messa in una cella con a mia disposizione un nudo materasso posato sul
pavimento. Per tre giorni non mi sono stati dati ne' un lenzuolo, ne' un
sapone, ne' dentifricio, ne' un pettine. Alle mie richieste di questi
oggetti veniva risposto: 'Compila il modulo'.
Mi considero relativamente fortunata, in queste esperienze, perche' essendo
un'attivista ho sostenitori all'esterno che chiamano la prigione e mandano
lettere. La maggior parte delle donne qui non ha questa fortuna. Questa
lettera, in parte, la scrivo per loro. Si dice che un paese civile si
giudica da come tratta i suoi membri piu' deboli. E' mia speranza che lei
riconoscera' quanto importanti siano il suo lavoro e le istanze contenute in
questa lettera, e che mi rispondera' nel merito.
Cordiali saluti, Diane Wilson".
*
Per gli aggiornamenti, consultate il sito:
www.chelseagreen.com/2005/items/unreasonablewoman/fromjail

3. MONDO. MEGHAN SAPP: ASILO PER PAMELA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Meghan Sapp. Meghan Sapp, giornalista freelance, e' corrispondente europea
per "WeNews"; vive a Bruxelles]

Dublino, Irlanda. Pamela Izevbekhai fuggi' dalla nativa Nigeria con le sue
due bambine piu' di un anno fa, e cerco' rifugio in Irlanda per salvare le
figlie dalla mutilazione genitale. Prima d'allora era stata alternativamente
in case per i richiedenti asilo, nascosta o in prigione. Lunedi' scorso e'
stata rilasciata dalla prigione ed ora la sua richiesta d'asilo e' davanti
all'Alta Corte del paese.
Dietro di se', in Nigeria, ha lasciato il marito. Era la famiglia di lui che
insisteva affinche' le bambine si sottoponessero alle procedure di
mutilazione, e tale famiglia ha alcuni membri residenti in Gran Bretagna.
Percio' Pamela ha cercato asilo in Irlanda, sia perche' e' un paese in cui
si parla inglese, sia perche' qui si sentiva piu' sicura.
*
Pamela era un'impiegata di banca a Lagos, e conosce gli orrori della
mutilazione sin troppo bene. La sua primogenita Elizabeth mori' per
dissanguamento a 18 mesi d'eta', nel 1994, quando la famiglia del marito (un
uomo d'affari di successo) richiese la mutilazione per la bambina.
L'operazione qualche volta prevede la rimozione della clitoride. Puo' anche
prevedere il taglio delle labbra esterne e la loro cucitura, di modo che
solo l'urina ed il flusso mestruale possano lentamente uscirne.
"Ho una figlia nella tomba, lo capite questo?", ha detto Pamela Izevbekhai
all'avvocato che rappresentava il governo irlandese durante la sua udienza.
Ora questa madre sta lottando per impedire alle sue figlie viventi di andare
incontro allo stesso destino della sorellina morta.
*
Lunedi', rilasciata dalla prigione di Mountjoy, in cui era detenuta dal 13
gennaio, a Pamela e' stato ordinato di ritornare nell'alloggio per i
richiedenti asilo di Sligo, dove lei e le bambine hanno vissuto nell'ultimo
anno. Nonostante le testimonianze e gli appelli in suo favore, persino dal
Servizio nazionale per la salute, Pamela potrebbe ancora essere deportata.
Lo scorso novembre le era stato negato l'asilo in Irlanda, e l'ordine di
deportazione l'aveva costretta a nascondersi in case amiche. Fu arrestata il
mese successivo, quando fu scoperta a colloquio con un'assistente sociale
che voleva aiutarla a rivedere le sue figlie. Naomi, di cinque anni, e
Jemima, di tre, le erano infatti state sottratte dallo stato.
Quando lunedi' il giudice ha letto l'ordine di rilascio dalla prigione,
Pamela ha trattenuto il pianto, ma una delle due donne con lei, due guardie
della prigione femminile, e' scoppiata in lacrime di gioia. Nella piccola
aula riservata alle audizioni per l'asilo nel tribunale di Dublino c'erano
avvocati e giornalisti di radio e tv. Lo sciame dei suoi sostenitori
riusciva a malapena a stare seduto.
La sentenza consente a Pamela di restare in Irlanda per tutte le successive
fasi del processo, e i suoi avvocati dicono che le udienze si protrarranno
almeno sino al prossimo giugno.
*
I documenti che Pamela ha presentato, incluso il certificato di morte della
piccola Elizabeth che ne riporta le cause, spiegano i rischi che lei e le
figlie correrebbero se venissero rimandate in Nigeria. La lista include il
rapimento e la mutilazione per le sue figlie, come la violenza che lei
stessa potrebbe subire, e cio' dovrebbe a prima vista garantirle l'asilo in
qualsiasi paese europeo.
Le mutilazioni genitali femminili, tuttavia, non vengono riconosciute come
un rischio in se stesse, sebbene siano attestate come violazione dei diritti
umani ed atto illegale sia dall'Unione europea che dall'Unione africana, il
che include la Nigeria. Il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo ha guidato
l'Unione africana per due anni sino a questa settimana, quando per i
meccanismi di rotazione il seggio e' passato al presidente della Repubblica
democratica del Congo.
*
Obasanjo era presidente anche nel 2003, all'atto della firma del Protocollo
di Maputo, che bandisce le violazioni dei diritti umani delle donne. Il
protocollo cita fra gli abusi le "pratiche tradizionali dannose", e
specificatamente le mutilazioni genitali. Eppure, secondo la lettera del
medico di Pamela, vista dalla scrivente e da "WeNews", il governo continua a
guardare da un'altra parte mentre tali pratiche continuano. Nel frattempo
anche il Togo e il Mozambico hanno firmato il protocollo.
"Quello di cui c'e' bisogno e' la sua implementazione", dice Khady Koita,
avvocata che vive a Parigi e di cui e' stato di recente pubblicato il libro
"Khady mutilata", che narra la sua personale esperienza di mutilazione
genitale. "I governi devono controllare il programma ed imparare ad usare il
protocollo. Se le persone non sanno cos'e', non possono usarlo". Il libro di
Khady Koita e' uscito lo scorso ottobre in Francia, con la notevole prima
tiratura di 70.000 copie. Traduzioni in quattordici lingue sono previste per
i prossimi mesi: in Italia e Germania il libro uscira' a febbraio. Koita
spera che il suo libro non serva solo ad aprire le menti, ma aiuti le
ragazze a parlare del problema con i propri genitori. "Sessantamila ragazze
mutilate vivono in Francia, e due milioni di ragazze vengono mutilate in
tutto il mondo ogni anno".
*
Pamela Izevbekhai e' "intatta": le sue tradizioni non prevedono che le
bambine vengano mutilate. I parenti del marito non si sono fermati di fronte
a nulla per sottoporre a mutilazioni le nipoti, inclusi tentativi di
rapimento, da cui entrambi i genitori hanno dovuto proteggerle. Nella
lettera del medico si racconta come la suocera di Pamela lo avesse
contattato nell'ospedale dove lavora, affinche' le bambine fossero
sottoposte li' alla procedura. L'ospedale respinse la richiesta, e sebbene
il personale abbia tentato di spiegare alla donna cosa avrebbe comportato la
mutilazione, essa ha continuato a sostenere che le nipoti non avrebbero mai
trovato mariti per bene, senza di essa.
*
Per maggiori informazioni:  "Let Them Stay!": www.letthemstay.org

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: SE A SINISTRA SI TORNASSE AD AMARE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 gennaio 2006. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale
all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista.
Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli,
Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo',
Manifestolibri, Roma 2005]

"Contretemps" e' una rivista indipendente on-line,sovvenzionata dal
dipartimento di filosofia dell'universita' di Sydney, che ha lo scopo di
incoraggiare un pensiero del presente, capace di leggere gli eventi sociali
e politici nel loro accadere "con, a fianco e anche contro la disciplina
filosofica" accademicamente intesa. E curiosamente, proprio mentre il papa
annuncia la sua enciclica sullo splendore dell'amore divino e umano (tema,
bisogna riconoscerlo in attesa di leggerla, centratissimo nella sua
dichiarata inattualita'), il numero attualmente consultabile
(http://www.usyd.edu.au/contretemps) apre con due titoli sul rapporto fra
amore e politica, o se preferite sull'amore politicamente inteso, o sulle
potenzialita' di una "politica dell'amore".
Il primo di questi titoli, Learning to love again, e' quello di una
intervista collettiva (di Christina Colegate, John Dalton, Timothy Rayner,
Cate Thill) a Wendy Brown, una filosofa californiana studiosa del potere e
del rapporto fra potere e liberta' (States of Injury: Power and Freedom in
Late Modernity, Princeton, 1995), che qualche mese fa e' stata ospite di un
convegno internazionale a Sydney insieme con Judith Butler. E in questa
lunga e bella intervista riprende un filo noto ai lettori di Butler e anche
di queste pagine, il filo che lega amore, lutto e malinconia nella sinistra
del dopo-'89, smarrita per la perdita della sua identita' storica e della
sua utopia rivoluzionaria novecentesca. Tema altresi' derridiano, giacche'
fu il filosofo francese a porre gia' nel '94, in Spettri di Marx, la
questione del "lutto dei comunisti" e dei suoi effetti sulla "malinconia
dell'inconscio geopolitico globale", individuando per tempo un sintomo della
crisi della politica contemporanea tutt'ora non risolto.
Wendy Brown torna sul punto, all'interno di una piu' ampia riflessione su
che cosa significa essere "radicali" oggi e come possa crescere un pensiero
"radicale" - capace cioe' di aggredire "alla radice" il problema della
trasformazione - nella generazione dei pensatori e delle pensatrici posties
(ovvero postmodern) che alle radici e ai fondamenti non credono piu', e che
ritengono impossibile coltivare l'attaccamento al "progetto rivoluzionario"
com'era inteso ancora pochi decenni fa. Una generazione che si trova da un
lato di fronte ai limiti di una strategia di radicalismo democratico,
dall'altro di fronte all'incapacita' e forse all'impossibilita' di
riattivare una strategia di abbattimento del capitalismo, sempre piu' abile
e veloce nel trasformarsi e reinventarsi; e senza poter immaginare altro dal
capitalismo, si puo' immaginare davvero la liberta' politica e
l'autogoverno? Brown teme di no ma con onesta' lascia in sospeso una domanda
per la quale non ha la risposta.
Ce l'ha invece per un'altra domanda, che riguarda appunto cio' di cui la
sinistra post-'89 deve ancora fare, e imparare a fare, il lutto: la perdita
dell'identita' nazionale, ad esempio, e di tutto quello che essa garantiva -
ways of live, forme di relazioni familiari e sociali, rapporto con le
istituzioni. Non basta, ammonisce Brown, riconvertirsi in un'ottica
transnazionale, come pure giustamente ha fatto il movimento no-global da
Seattle in poi, se non si elabora il senso di perdita e di disorientamento
che questo passaggio comporta. E non basta nemmeno affermare che "un altro
mondo e' possibile" se non si attraversa il vuoto lasciato nel pensiero e
nella psiche della sinistra radicale dalla fine del progetto rivoluzionario
novecentesco. E' come quando uno o una perde un amante, incalzano gli
intervistatori, che era parte della sua identita', la potenziava al presente
e le dava una direzione di senso per il futuro: si deve innamorare di nuovo,
ma puo' la sinistra "imparare ad amare di nuovo"? Puo', risponde Brown, se
come chi ha perso un amante impara che malgrado quella perdita ha ancora una
sua propria soggettivita' e altre possibilita' di relazione, e che tuttavia
la sua identita' non e' piu' la stessa di prima: "Dobbiamo imparare ad amare
di nuovo, ma il 'noi' che imparera' a farlo sara' diverso dal 'noi' che
siamo stati", perche' lutto e amore, nella vita personale come nella
politica, provocano e domandano una necessaria trasformazione di se', senza
la quale non c'e' trasformazione del mondo.

5. POESIA E VERITA'. ANNA ACHMATOVA: SUL LAGO S'E' FERMATA ORA LA LUNA
[Questa poesia di Anna Achmatova riprendiamo da Renato Poggioli, Il fiore
del verso russo, Einaudi, Torino 1949, Mondadori, Milano 1961, 1991, p. 401.
Anna Achmatova (pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko, nata a Odessa nel 1889
e deceduta a Domodedovo, presso Mosca, nel 1966) e' una delle grandi
poetesse del Novecento, e delle piu' alte voci contro la guerra e il
totalitarismo. Opere di Anna Achmatova: in italiano sono disponibili varie
raccolte di scritti di Anna Achmatova, tra esse segnaliamo particolarmente:
Poema senza eroe, Einaudi, Torino 1966, 1993; Io sono la vostra voce,
Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, 1995; La corsa del tempo. Liriche e
poemi, Einaudi, Torino 1992; Lo stormo bianco, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo 1995, Fabbri, Milano 1997. Tra le opere su Anna Achmatova segnaliamo
particolarmente Lidija Cukovskaja, Incontri con Anna Achmatova. 1938-1941,
Adelphi, Milano 1990]

Sul lago s'e' fermata ora la luna,
e sembra una finestra spalancata
in una casa calma e illuminata,
dove sia penetrata la sfortuna.

Forse il padrone morto han riportato,
o la padrona via se n'e' fuggita,
o la bimba piu' piccola e' sparita:
sul lago una scarpetta han ritrovato.

Nulla si vede. Un funebre destino
presentendo, noi siam rimasti muti.
Cantan le preci per i morti i gufi
e il vento caldo infuria nel giardino.

==============================
NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
==============================
Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 49 del 2 febbraio 2006

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