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La nonviolenza e' in cammino. 1172
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1172
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 11 Jan 2006 00:09:00 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1172 dell'11 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 1. Il 14 gennaio a Milano e a Roma 2. Adriano Moratto: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'... 3. La rivista del Movimento Nonviolento 4. Maurizio Passerin d'Entreves: La teoria della cittadinanza nella filosofia politica di Hannah Arendt (parte terza) 5. Cindy Sheehan in Italia 6. Nando dalla Chiesa: L'ultima della destra: la mafia non controlla voti 7. Enzo Collotti: Le pensioni di Salo' 8. Letture: Wislawa Szymborska, Discorso all'Ufficio oggetti smarriti 9. Riletture: Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia 10. Riletture: Cristina Campo, La Tigre Assenza 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. IL 14 GENNAIO A MILANO E A ROMA Il 14 gennaio a Milano e a Roma si terranno due manifestazioni di impegno civile tra esse intimamente ed esplicitamente solidali: l'una ("Usciamo dal silenzio", a Milano) per la liberta' femminile e in difesa della legge 22 maggio 1978, n. 194, che reca "norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza"; e l'altra ("Tutti in pacs", a Roma) a sostegno dei "Pacs", ovvero per l'adeguato riconoscimento giuridico delle unioni tra tutte le persone che si amano e quel riconoscimento desiderano avere. Ed entrambe altresi' per il diritto a vivere in un paese il cui ordinamento giuridico sia rispettoso dei diritti delle persone, di tutte le persone. Ci sembra sia cosa buona. E necessaria. 2. STRUMENTI DI LAVORO. ADRIANO MORATTO: MI ABBONO AD "AZIONE NONVIOLENTA" PERCHE'... [Ringraziamo Adriano Moratto (per contatti: mir.brescia at libero.it) per questo intervento. Adriano Moratto e' impegnato nel Centro per la nonviolenza di Brescia, nella Rete di Lilliput, in molte iniziative di pace e di solidarieta', ed e' una delle figure piu' note e autorevoli dell'impegno nonviolento in Italia] Sono anni che mi abbono ad "Azione Nonviolenta". Mi sono sempre abbonato ad "Azione nonviolenta", perche' tutti ne parlano un gran bene. Qualche amico mi ha fatto vedere anche degli interessanti articoli. Ho visto anche l'ultima intervista, in esclusiva, ad Alberto Perino sulla Tav in Val di Susa. Bella! Ma io non sono mai riuscito a leggere "Azione Nonviolenta" nel tepore della mia cameretta: non mi arriva. Lettere, cartoline, avvisi vari e multe: tutto viene consegnato con assoluta puntualita'. Ma "Azione nonviolenta", no! Non capisco: non c'e' pubblicita', non ci sono messaggi subliminali, gli articoli e le rubriche cosi' interessanti sono all'interno. Sono i disegni? I disegni in copertina! Troppo carini! Non so se dietro c'e' una strategia di vendite del duo "Mao-Marchiano" veronese. Beh, io quest'anno abbono anche il portalettere! Morale: paghi due, leggi uno. 3. STRUMENTI DI LAVORO. LA RIVISTA DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO "Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte le persone amiche della nonviolenza. La sede della redazione e' in via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org L'abbonamento annuo e' di 29 euro da versare sul conto corrente postale n. 10250363, oppure tramite bonifico bancario o assegno al conto corrente bancario n. 18745455 presso BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB 11700, intestato ad "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, specificando nella causale: abbonamento ad "Azione nonviolenta". 4. RIFLESSIONE. MAURIZIO PASSERIN D'ENTREVES: LA TEORIA DELLA CITTADINANZA NELLA FILOSOFIA POLITICA DI HANNAH ARENDT (PARTE TERZA) [Dal sito http://utenti.lycos.it/arendt1976/ riprendiamo il seguente testo, di cui li' si segnala che fu presentato come working paper n. 102 a Barcellona nel 1995 (non abbiamo avuto modo di verificare se sia - come e' ragionevole supporre - lo stesso testo apparso col medesimo titolo nella rivista "Teoria politica", 11 (2), 1995, alle pp. 83-107). Maurizio Passerin d'Entreves, acuto studioso di filosofia politica, insegna all'Universita' di Manchester ed e' autore di rilevanti saggi. Tra le opere di Maurizio Passerin d'Entreves: The Political Philosophy of Hannah Arendt, Routledge, London - New York 1994. Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] 3. Cittadinanza, "agency" politica e identita' collettiva Alla luce della precedente discussione, vorrei ora esaminare il rapporto tra la concezione della cittadinanza della Arendt e le questioni inerenti alla "agency" politica e all'identita' collettiva. Lo scopo della mia discussione e' di mostrare che la concezione partecipatoria della cittadinanza della Arendt e la sua teoria dell'azione forniscono il miglior schema per affrontare sia la questione della formazione dell'identita' collettiva sia quella riguardante le condizioni per l'esercizio di una "agency" politica efficace. * 3.1. Cittadinanza e identita' collettiva Esaminiamo in primo luogo la questione dell'identita' collettiva. Nel suo libro Wittgenstein and Justice Hanna Pitkin sostiene che uno dei problemi cruciali del discorso politico e' la creazione di una identita' collettiva, ovvero di un "noi" a cui poter fare appello quando ci troviamo a dover affrontare il problema di decidere tra corsi d'azione alternativi. Nel rispondere alla domanda "che cosa dobbiamo fare?" il "noi" non e' un dato gia' acquisito, bensi' e' oggetto di continue discussioni. Invero, dal momento che nel dibattito politico esiste sempre un disaccordo rispetto ai possibili corsi d'azione, l'identita' del "noi" che verra' a crearsi a seguito di una decisione riguardo al tipo o forma di azione collettiva da intraprendere diventa il problema centrale. Come scrive la Pitkin: "Nell'affrontare il problema centrale di ogni discorso politico - 'cosa dobbiamo fare?' - il 'noi' e' sempre oggetto di contesa. Una parte della questione diventa, se perseguiamo questo o quel possibile corso d'azione, chi potrebbe affermarlo, chi potrebbe vederlo come qualcosa fatto a suo nome? Chi sarebbe ancora con 'noi' se 'noi' intraprendiamo questo corso d'azione? (57). In questo senso, osserva la Pitkin, "Parte del sapere esplicitato nel discorso politico risiede nell'ampiezza e validita' della pretesa avanzata nel dire 'noi': id est, chi alla fine si rivela disponibile ad affermare e convalidare quella pretesa (58). Pertanto, ogni qualvolta ci impegniamo nell'azione e nel discorso politico siamo coinvolti al contempo nella costruzione della nostra identita' collettiva, nella creazione di un "noi" con cui siamo in grado di identificare noi stessi e le nostre azioni. Questo processo di costruzione dell'identita' non e' mai acquisito una volta per tutte, e rimane sempre problematico. Esso e' infatti un processo di continua rinegoziazione e lotta, un processo nel quale i soggetti formulano e difendono differenti concezioni dell'identita' collettiva e differenti concezioni della legittimita' politica. Come ha osservato Habermas, "se in societa' complesse si formasse una identita' collettiva, essa avrebbe la forma di una identita', non pregiudicata nei contenuti e indipendente da organizzazioni determinate, propria della comunita' di coloro che formano discorsivamente e sperimentalmente il loro sapere collegato all'identita' attraverso proiezioni di identita' fra di loro concorrenti, cioe' nella memoria critica della tradizione, oppure stimolati dalla scienza, dalla filosofia e dall'arte" (59). Da un punto di vista politico, cio' significa che una identita' collettiva nelle societa' moderne puo' emergere da un processo di discussione e argomentazione pubblica in cui ideali concorrenti di identita' e legittimita' politica vengono articolati, contestati e riformulati (60). In questo contesto, la concezione partecipatoria della cittadinanza della Arendt assume una particolare rilevanza, poiche' formula le condizioni per la formazione democratica di identita' collettive. Se la cittadinanza viene concepita come il processo di deliberazione attiva riguardo proiezioni di identita' fra di loro concorrenti, il suo valore risiederebbe nella possibilita' di stabilire forme di identita' collettiva che possono essere riconosciute, convalidate e trasformate mediante un dialogo democratico e razionale. * Tale concezione della cittadinanza sarebbe anche in grado di articolare quello che Nancy Fraser ha definito "il punto di vista dell'altro collettivo e concreto". Con questo termine Fraser si riferisce al punto di vista da cui specifiche identita' collettive sono costruite sulla base delle particolari risorse narrative e vocabolari di determinati gruppi, come le donne, i neri, o i membri di classi oppresse. Il punto di vista dell'altro collettivo e concreto, scrive la Fraser, esprime "la specificita' dei vocabolari a disposizione di individui e gruppi per l'interpretazione dei loro bisogni e la definizione delle situazioni nelle quali vengono a incontrarsi". Esso esprime anche "la specificita' delle risorse narrative a disposizione di individui e gruppi per la costruzione di biografie personali e di identita' e solidarieta' collettive" (61). Da questo punto di vista "collettivo e concreto" le persone si incontrano "non tanto come singoli individui quanto come membri di gruppi o collettivita' dotate di identita', solidarieta' e forme di vita culturalmente specifiche... qui uno astrae tanto dalla singola individualita' quanto dalla universale umanita' per focalizzare la zona intermedia dell'identita' collettiva" (62). Le norme che governerebbero l'interazione tra questi gruppi o collettivita' "non sarebbero norme di intimita' come l'amore e la cura, e nemmeno quelle di istituzioni formali come i diritti e le garanzie. Esse sarebbero piuttosto norme di solidarieta' collettiva che sono espresse in pratiche sociali condivise ma non universali" (63). L'importanza dell'autonomia potrebbe quindi essere formulata in termini che non la oppongono alla solidarieta'; piuttosto, essere autonomi significherebbe "essere un membro di un gruppo o gruppi che hanno raggiunto un grado di controllo collettivo sui mezzi di interpretazione e comunicazione sufficiente a permettere a ciascuno di partecipare alla pari coi membri di altri gruppi nella deliberazione morale e politica" (64). La realizzazione dell'autonomia potrebbe quindi essere considerata come una delle condizioni necessarie allo stabilirsi di rapporti basati sull'eguaglianza, la mutualita' e la solidarieta'. Questa formulazione delle norme e dei valori della cittadinanza dal punto di vista dell'altro "collettivo e concreto" puo' essere interpretata a mio avviso come una feconda estensione di alcune tematiche che caratterizzano la concezione partecipatoria della cittadinanza della Arendt. L'accento posto sulla solidarieta' piuttosto che sulla cura o la compassione, sul rispetto piuttosto che sull'amore o la simpatia, e sull'autonomia come una precondizione della solidarieta', sembra esprimere le stesse preoccupazioni che animavano la concezione della cittadinanza della Arendt. Come nota la Fraser, un'etica della solidarieta' elaborata dal punto di vista dell'altro collettivo e concreto "e' superiore a un'etica della cura come etica politica. E' il tipo di etica che si accorda con le attivita' contestatorie di movimenti sociali che lottano per forgiare risorse narrative e vocabolari adatti ad esprimere i loro bisogni. Si accorda anche con le lotte collettive per decostruire le forme narrative e i vocabolari di gruppi e collettivita' dominanti, cosi' da mostrare che essi sono parzialmente e non universalmente condivisi e sono incapaci di dare voce ai bisogni e alle speranze dei gruppi subordinati. In breve, un'etica della solidarieta' elaborata dal punto di vista dell'altro collettivo e concreto e' piu' appropriata di un'etica della cura per un'etica femminista, se concepiamo un'etica femminista come l'etica di un movimento sociale e politico" (65). Pertanto, conclude la Fraser, un'etica della solidariete' "e' adatta in eguale misura come etica politica per i movimenti lesbici, gay, neri, ispanici, di altre persone di colore e di classi subordinate" (66). Un'etica della solidarieta' non e' pertanto la prerogativa di un gruppo specifico; e' infatti un'etica che puo' emergere dalle lotte di tutti quei gruppi che sono stati oppressi o marginalizzati nel passato, e che ora cercano di articolare nuove concezioni della propria identita' culturale e politica (67). * 3.2. Cittadinanza e "agency" politica La precedente discussione ha posto l'accento sull'importanza che l'azione e il discorso politico hanno per la costituzione dell'identita' collettiva. In questa sezione mi concentrero' su una tematica affine, ovvero la connessione tra l'azione politica, intesa come impegno attivo dei cittadini nella sfera pubblica, e l'esercizio di una effettiva ed efficace "agency" politica. Questa connessione rappresenta a mio parere uno dei contributi centrali della teoria dell'azione della Arendt, e sta alla base di cio' che ho chiamato la sua concezione partecipatoria della cittadinanza. Secondo la Arendt, l'impegno attivo dei cittadini nella determinazione degli obiettivi della comunita' non offre loro solo l'esperienza della liberta' politica e le gioie della felicita' pubblica, ma anche il senso di una effettiva ed efficace "agency" politica, il senso, nelle parole di Jefferson, di essere dei "partecipanti al governo". L'importanza della partecipazione per una effettiva ed efficace "agency" politica viene delineata in maniera molto chiara nel seguente passo del libro Sulla rivoluzione. Commentando la proposta di Jefferson di istituire un sistema di consigli locali nei quali i cittadini sarebbero stati in grado di avere una parte effettiva del potere politico, la Arendt osserva che "Jefferson chiamava degenerato ogni governo in cui tutti i poteri fossero concentrati 'nelle mani di un solo uomo, dei pochi, dei nobili o dei molti'. Percio' il sistema delle circoscrizioni non era destinato a rafforzare il potere dei molti ma il potere di 'ognuno', nei limiti della sua competenza; e solo suddividendo 'i molti' in tante singole assemblee, dove ognuno potesse contare e si potesse contare su ognuno, 'noi saremo repubblicani quanto puo' esserlo una vasta societa''. Dal punto di vista della sicurezza dei cittadini della repubblica, il problema era di far sentire a ognuno 'che e' partecipe del governo degli affari pubblici, non solo una volta all'anno nel giorno delle elezioni, ma ogni giorno dell'anno'" (68). Secondo la Arendt solo la condivisione del potere che deriva dall'impegno civico e dalla deliberazione collettiva puo' dare a ogni cittadino il senso di una effettiva "agency" politica. Le critiche della Arendt nei confronti della rappresentanza politica devono essere comprese in questa luce. Ella vedeva la rappresentanza come un sostituto al coinvolgimento diretto dei cittadini, come un mezzo tramite il quale la distinzione tra governanti e governati poteva riasserirsi. Quando la rappresentanza diviene il sostituto della democrazia diretta, i cittadini possono esercitare il loro potere di "agency" politica solo il giorno delle elezioni, e le loro capacita' di deliberazione e giudizio politico sono di conseguenza indebolite. Inoltre, incoraggiando la formazione di una elite politica, la rappresentanza significa che "si riafferma ancora la vecchia distinzione fra governante e governati... ancora una volta i cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari di governo sono divenuti privilegio di pochi, che soli possono 'esercitare le loro virtuose disposizioni'... Il risultato e' che i cittadini devono o sprofondare in 'letargo, prodromo di morte della liberta' pubblica', oppure 'conservare lo spirito di resistenza' a qualunque governo abbiano eletto, poiche' l'unico potere che conservano e' 'il potere estremo della rivoluzione'" (69). * Come alternativa a un sistema di rappresentanza basato su partiti e strutture statali burocratizzate, la Arendt propose un sistema federale di consigli dove i cittadini potevano essere attivamente impegnati a vari livelli nella determinazione degli affari della comunita' politica. L'importanza della proposta della Arendt a favore della democrazia diretta risiede nel legame che stabilisce tra la cittadinanza attiva e una efficace ed effettiva "agency" politica. La cittadinanza puo' riaffermarsi e la "agency" politica diventare realmente efficace solo tramite la partecipazione politica diretta, ovvero tramite l'impegno nell'azione collettiva e nella deliberazione pubblica. Come scrivono la Pitkin e la Shumer, "perfino le persone piu' oppresse riscoprono talvolta in se stesse la capacita' di agire. Le persone di fede democratica devono oggi identificare e promuovere ogni opportunita' per la gente di esercitare la loro 'agency' effettiva... la dipendenza e l'apatia devono essere combattute in ogni ambito di esperienza rilevante per la gente. Tuttavia tale lotta rimane parziale se non riesce a collegare i problemi personali a questioni pubbliche, a estendere l'iniziativa individuale nella direzione dell'azione politica comune" (70). Con toni assai simili, Sara Evans e Harry Boyte hanno sottolineato come "i diseredati e i senza potere hanno, da un lato, ripetutamente cercato di riattivare e ricordare al contempo antiche nozioni di partecipazione democratica, e dall'altro, son riusciti a darle nuovi e piu' profondi significati e applicazioni. La democrazia, in questa ottica, si identifica con qualcosa di piu' che cambiare le strutture in modo da rendere la democrazia possibile. Significa anche educare i cittadini alla cittadinanza - ovvero ai valori e allo sviluppo delle varie competenze che sono essenziali per sostenere la partecipazione effettiva" (71). Esaminata in questa ottica, la concezione di democrazia partecipatoria della Arendt rappresenta uno dei piu' interessanti tentativi di riattivare l'esperienza della cittadinanza e di articolare le condizioni per l'esercizio di una effettiva ed efficace "agency" politica. Val la pena di sottolineare, inoltre, che tale concezione non implica omogeneita' di valori o un consenso unanime su essi, ne' richiede una dedifferenziazione delle varie sfere sociali. Nella misura in cui la concezione partecipatoria della Arendt e' basata sul principio della pluralita', essa non mira a recuperare o ripristinare uno schema coerente di valori, ne' a reintegrare le differenti sfere sociali. Come nota la Benhabib, nella concezione partecipatoria della democrazia della Arendt "il sentimento pubblico che viene incoraggiato non e' la riconciliazione o l'armonia, ma piuttosto la 'agency' politica e il senso di efficacia, vale a dire, il senso che uno ha un ruolo effettivo nella determinazione degli obiettivi economici, politici e civici che definiscono la nostra vita associata nella comunita' politica, e che cio' che uno fa crea una differenza. Tutto cio' puo' essere ottenuto senza omogeneita' di valori tra gli individui, e senza eliminare la distinzione tra le varie sfere" (72). La concezione della democrazia partecipatoria della Arendt non mira, dunque, alla reintegrazione dei valori o alla dedifferenziazione delle sfere sociali; essa mira piuttosto a ripristinare le condizioni per la cittadinanza attiva e l'autodeterminazione democratica. Come ella stessa scrive in un passo del suo libro Sulla Rivoluzione: "Se lo scopo ultimo della rivoluzione era la liberta' e la costituzione di uno spazio pubblico dove la liberta' potesse presentarsi, la constitutio libertatis, allora le repubbliche elementari delle circoscrizioni, l'unica sede tangibile in cui ciascuno poteva essere libero, erano in realta' il fine della grande repubblica... Il principio basilare del sistema delle circoscrizioni, che Jefferson lo sapesse o meno, era che nessuno si poteva dire felice senza possedere la sua parte di felicita' pubblica, che nessuno si poteva dire libero senza avere la sua esperienza di liberta' pubblica, e che nessuno poteva essere considerato ne' felice ne' libero senza partecipare, avendone una parte, al pubblico potere (73). * Note 57. Pitkin, H.: Wittgenstein and Justice. Berkeley, University of California Press, 1972, p. 208. 58. Ibid., p. 208. 59. Habermas, J.: "Possono le societa' complesse formarsi un'identita' razionale?" in Per la ricostruzione del materialismo storico, Milano, Etas Libri, 1979, pp. 98-99. 60. Mouffe, C.: "Rawls: Political Philosophy without Politics", Philosophy and Social Criticism, vol. 13, n. 2, Summer 1988, pp. 116-117. 61. Fraser, N.: "Toward a Discourse Ethic of Solidarity", Praxis International, vol. 5, n. 4, January 1986, p. 428. 62. Ibid., p. 428. 63. Ibid., p. 428. 64. Ibid., p. 428. 65. Ibid., pp. 428-429. Per una serie di recenti tentativi di formulare una teoria femminista della cittadinanza, si veda Dietz, Mary G.: "Citizenship with a Feminist Face: The Problem with Maternal Thinking", Political Theory, vol. 13, n. 1, February 1985, pp. 19-37; idem, "Context is All: Feminism and Theories of Citizenship", Daedalus, vol. 116, n. 4, Fall 1987, pp. 1-24, ristampato in Mouffe, C. (a cura di): Dimensions of Radical Democracy. London, Verso, 1992, pp. 63-85; Pateman, Carole: The Disorder of Women, Cambridge, Polity Press, 1989; Young, Iris M.: Justice and the Politics of Difference. Princeton, Princeton University Press, 1990; Phillips, Anne: Engendering Democracy. Cambridge, Polity Press, 1991. 66. Fraser, N.: "Toward a Discourse Ethic of Solidarity", op. cit., p. 429. 67. Per una discussione dell'atteggiamento della Arendt nei confronti delle questioni sollevate dal movimento femminista, si veda Markus, Maria: "The 'Anti-Feminism' of Hannah Arendt", op. cit. In questo saggio l'autrice sostiene che sia la Luxemburg che la Arendt condividevano la convinzione che "le questioni delle donne non potevano e non dovevano essere separate da una serie di obiettivi politici piu' ampi, e dalla piu' ampia battaglia politica. Nessuna delle due, e certamente non la Arendt, si aspettava che questi problemi molto reali potessero essere risolti automaticamente come risultato di altre trasformazioni socio-politiche. Entrambe, tuttavia, insistevano sul fatto che queste questioni dovevano diventare parte di una attivita' esplicitamente politica collegata e coordinata con gli obiettivi di altri gruppi politici". (p. 82). Per una ancor piu' recente e assai stimolante discussione della posizione della Arendt rispetto alle tematiche femministe, si veda Dietz, Mary G.: "Hannah Arendt and Feminist Politics", in Shanley, M. L. e Pateman, C.: (a cura di): Feminist Interpretations and Political Theory, Cambridge, Polity Press, 1991, pp. 232-252. 68. Arendt, H.: On Revolution, op. cit., p. 254; trad. it.: Sulla rivoluzione, op. cit., p. 293. 69. Ibid., pp. 237-238; trad. it., pp. 274-275. Nel saggio "La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt", Comunita', n. 183, Novembre 1981, pp. 56-73, a p. 62, Juergen Habermas sostiene che fu la paura dell'apatia di massa nelle moderne democrazie rappresentative che spinse la Arendt a difendere la democrazia diretta dei consigli: "Mentre i teorici di una democrazia elitaria (sulle orme di Schumpeter) raccomandano il governo rappresentativo e il sistema partitico come canali per la partecipazione politica di una massa depoliticizzata, la Arendt vede il pericolo proprio in questa situazione. L'integrazione della popolazione attraverso amministrazioni, partiti e organizzazioni altamente burocratizzate non fa che estendere e rafforzare quelle forme di vita tendenti all'isolamento nel privato, che forniscono la base psicologica per mobilitare l'impolitico, cioe' per istituire un governo totalitario". 70. Pitkin, H. e Shumer, S.: "On Participation", op. cit., p. 52. 71. Evans, S. e Boyte, H.: Free Spaces: The Sources of Democratic Change in America. New York, Harper & Row, 1986, p. 17. 72. Benhabib, S.: "Autonomy, Modernity and Community: Communitarianism and Critical Social Theory in Dialogue", in Situating the Self. Cambridge, Polity Press, 1992, p. 81. 73. Arendt, H.: On Revolution, op. cit., p. 255; trad. it.: Sulla rivoluzione, op. cit., p. 294 (traduzione leggermente modificata). (Parte terza - Segue) 5. INCONTRI. CINDY SHEEHAN IN ITALIA [Dalla Tavola della pace (per contatti: tel. 3479117177 o anche 3389849315, e-mail: segreteria at perlapace.it o anche stampa at perlapace.it, sito: www.tavoladellapace.it) riceviamo e volentieri diffondiamo. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel sito www.koabooks.com] Cindy Sheehan arrivera' ad Assisi per partecipare al seminario nazionale della Tavola della pace "Non c'e' pace senza una politica di pace" che si terra' il 13 e 14 gennaio ad Assisi, presso il Sacro Convento di San Francesco (lo stesso luogo dove la Tavola della pace ha avuto inizio il 13 gennaio 1996). E' stata definita dalla stampa americana "la mamma della pace". Suo figlio Casey, soldato delle truppe americane impegnato nella missione "Iraqi freedom", e' morto in Iraq il 4 aprile 2004. Da allora Cindy Sheehan non ha mai smesso di denunciare l'illegalita' e l'immoralita' della guerra in Iraq, e nell'estate del 2005 le immagini del suo accampamento davanti alla tenuta estiva di Bush, in Texas, hanno fatto il giro del mondo. Ha aspettato e ancora attende un incontro con il presidente degli Stati Uniti. A settembre, mentre in Italia oltre 200.000 persone marciavano da Perugia ad Assisi per la pace e la giustizia, Cindy Sheehan partecipava alla grande manifestazione pacifista di Washington, la piu' grande dalla guerra in Vietnam. Nel gennaio 2005 ha fondato "Gold Star Families for Peace", un'organizzazione composta dalle famiglie che hanno perso persone care in guerra il cui obiettivo principale e' il ritiro delle truppe per evitare che altre famiglie debbano soffrire come loro. "La partecipazione di Cindy al seminario di Assisi - hanno dichiarato Flavio Lotti e Grazia Bellini, coordinatori nazionali della Tavola della pace - segna un ulteriore passo nello sviluppo della collaborazione della Tavola della pace con il movimento per la pace degli Stati Uniti. Italia e Stati Uniti condividono grandi responsabilita' in Iraq, ma anche nei confronti del resto del mondo. Per questo ci sentiamo costantemente impegnati a moltiplicare le occasioni di incontro, di confronto e di collaborazione con tutte quelle organizzazioni che negli Stati Uniti lavorano per dare all'occidente un volto e una politica nuova improntata alla pace e alla cooperazione tra i popoli". 6. RIFLESSIONE. NANDO DALLA CHIESA: L'ULTIMA DELLA DESTRA: LA MAFIA NON CONTROLLA VOTI [Dagli amici di "Italia Democratica" (per contatti: italiademocratica at tiscali.it) riceviamo e diffondiamo il seguente articolo di Nando dalla Chiesa apparso sul quotidiano "L'Unita'" dell'8 gennaio 2006. Nando dalla Chiesa e' nato a Firenze nel 1949, sociologo, docente universitario, parlamentare; e' stato uno dei promotori e punti di riferimento del movimento antimafia negli anni ottanta; e' persona di straordinaria limpidezza morale. Tra le opere di Nando dalla Chiesa segnaliamo particolarmente: Il potere mafioso, Mazzotta; Delitto imperfetto, Mondadori; La palude e la citta' (con Pino Arlacchi), Mondadori; Storie, Einaudi; Il giudice ragazzino, Einaudi; Milano-Palermo: la nuova resistenza (a cura di Pietro Calderoni), Baldini & Castoldi; I trasformisti, Baldini & Castoldi; La politica della doppiezza, Einaudi; Storie eretiche di cittadini perbene, Einaudi; La legge sono io, Filema; La guerra e la pace spiegate da mio figlio, Filema. Ha inoltre curato (organizzandoli in forma di autobiografia e raccordandoli con note di grande interesse) una raccolta di scritti del padre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, In nome del popolo italiano, Rizzoli. Opere su Nando dalla Chiesa: suoi ritratti sono in alcuni libri di carattere giornalistico di Pansa, Stajano, Bocca; si veda anche l'intervista contenuta in Edgarda Ferri, Il perdono e la memoria, Rizzoli] Uno spasso. Un autentico spasso. Ma si', credeteci. La relazione di maggioranza della Commissione antimafia non e' solo una vergogna, come avevamo detto un po' precipitosamente dopo averne consultato l'impianto e afferrato il senso generale. Non e' solo il certificato di innocenza politica di Andreotti, non e' solo una coltellata alle spalle della procura di Palermo o la beatificazione di Toto' Cuffaro, questo vispo erede di Maria Teresa d'Austria e Leopoldo di Toscana. Ma e' anche una spumeggiante, comica sintesi di tic professionali, di amene teorie "scientifiche", di argomentazioni che vorrebbero essere euclidee e sono al tatto friabili come meringhe. Basta avere la pazienza di navigare tra le cinquecento pagine dedicate ai rapporti tra mafia e politica (ossia, in definitiva, al processo Andreotti) per imbattersi in perle strepitose. Perle che illuminano - partendo dai dettagli - cultura e intenti, psiche e manie dell'estensore. Il quale puo' essere uno o bino o trino. Ma una cosa e' con scandalosa certezza: un signore estraneo alla commissione antimafia. Che, investito da un altro estraneo del compito supremo di scrivere sui rapporti tra mafia e politica, ha dato libero sfogo a tutto cio' che gli passava per la testa, come quei maestri un po' frustrati a cui per una botta di fortuna sia messa in mano, senza controlli, la terza pagina di un quotidiano di provincia. Volete sapere qual e' la perla piu' grossa, la "sparata" da capodanno del nostro misterioso estensore (magistrato o forse avvocato, non si scappa)? Che la mafia non ha mai avuto alcuna rilevanza nell'orientare il voto, e nemmeno le elezioni. Avete letto bene. Testuale: "ne deriva finalmente una lettura dei fatti storici che affranca uno dei miti piu' a lungo e pervicacemente sostenuti sul preponderante potere mafioso nel decidere gli esiti elettorali siciliani". E ancora: "La sostanziale incapacita' di Cosa Nostra ad incidere significativamente sul voto e' un dato assai importante". Lasciamo perdere la sintassi (ahime', una volta contava anche quella...) e andiamo al sodo. Qui, nella Relazione ufficiale della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia, si sostiene - nascondendosi dietro quel "preponderante" - che la mafia non e' in grado di orientare la politica. Che la mafia non condiziona il voto. E quindi, in definitiva, che la mafia non ha rapporti significativi con la politica. E d'altronde come potrebbe averli se non e' in grado di conferire alla politica le sue (presunte, millantate) specifiche risorse, ossia voti e finanziamenti per le campagne elettorali? E perche' mai i politici, per quel che li riguarda, dovrebbero promettere favori alla mafia se essa non da' prima loro qualcosa in cambio? No, il condizionamento elettorale non esiste. Insomma ragazzi, chiudiamo la Commissione. Che sciocchi Franchetti e Sonnino, parlamentari agli albori del Regno. Che sciocchi Napoleone Colajanni o Bernardino Verro, repubblicano e socialista dei decenni successivi. Che sciocchi Li Causi e La Torre. Che sciocchi Carlo Alberto dalla Chiesa ("la famiglia politica piu' inquinata del luogo", riferendosi a quella andreottiana) o Giovanni Falcone, che aveva stimato in 180.000 i voti controllati da Cosa Nostra nella provincia di Palermo. Custodi insensati e testoni di "uno dei miti piu' a lungo e pervicacemente sostenuti"; tanto che se fossero ancora vivi meriterebbero qualche lezione privata, magari con bacchettate e scapaccioni, dal geniale estensore della Relazione. E non e' finita. Perche' la mafia, sempre secondo quest'ultimo, cercherebbe e avrebbe cercato rapporti con la politica solo per avere appalti in sede locale ma non ha mai avuto "la volonta' di incidere ad alto livello nello scenario politico generale". Siamo alla gag dialettica. Come si spiega infatti che la mafia non sia stata mai sbaragliata in un secolo e mezzo, che abbia avuto appoggi, sostegni, coperture ovunque, dal delitto Notarbartolo a Sindona, dal delitto Mattarella alle impunita' processuali e alle latitanze dorate, con in mezzo Portella delle Ginestre e quaranta sindacalisti uccisi senza una condanna? Che al momento giusto ci sia sempre il vento utile a rimetterla in sella? Tutto grazie agli appalti spartiti localmente con qualche assessore birbone? * A questo punto vorrete conoscere le motivazioni che sorreggono questa teoria copernicana. E avete ragione. Eccovi dunque quella cruciale. Che in un caso (era l'87) Cosa Nostra, pur avendo indicato di votare Psi, non ha svuotato la Dc! Tranne a Caltanissetta. Fantastico. Ma perche', c'e' mai stato qualcuno che ha pensato che tutti i siciliani votassero come voleva la mafia? Forse qualche leghista lo pensa. Ma chi ha una minima consapevolezza storica sa che la forza elettorale della mafia e' fatta di investimenti selettivi sui candidati giusti, su una singola corrente, sulla conquista dei differenziali elettorali decisivi (nelle preferenze o nei singoli collegi). Suggestivamente il collaboratore Antonino Giuffre' dichiara che Riina era si' il numero uno sul piano militare ma che politicamente era un dilettante. Per tanti aspetti e' vero. Ma questo conferma che l'idea di spostare i voti sul Psi per punire una Dc resa prudente dalla catena dei delitti eccellenti, non poteva funzionare proprio perche' da troppo tempo la Dc, o meglio alcuni suoi leader, erano il punto di riferimento di interessi mafiosi o paramafiosi consolidati. L'insuccesso (parziale) dell'indicazione elettorale estemporanea di un capo temuto ma poco rispettato politicamente fu cioe' il segno del radicamento storico dei voti mafiosi, non della loro volatilita'. Tanto che, riferendosi alle elezioni europee di due anni dopo, Angelo Siino racconta (sempre e inutilmente a verbale) "Ci fu un plebiscito per Lima... tutta la parte della vecchia mafia che aveva votato sempre per Lima continuo' a votare per Lima". Anche questo, ovviamente, e' a disposizione della mente del geniale estensore. Che pero' non capisce, e sembra proprio non in grado di capire ("si applica ma non rende", si sarebbe detto una volta). Per compenso egli bacchetta furiosamente a destra e a manca come quel maestro di provincia diventato improvvisamente elzevirista. Dall'alto della sua prosa caricaturale: "Tale meccanismo di abreazione delle fonti dirette di prova (...) nell'impianto inferenziale della Corte d'Assise di Appello di Perugia, poi inevitabilmente caducato in Cassazione"; o "gli aspetti leggermente piu' risalenti della delibazione del predetto evento criminoso". Dall'alto del suo pensiero pacato e sereno: "Questo rinvia agli effetti mediatico-politici del processo sui giudici di secondo grado di Palermo, a non voler pensare ad una parziale volonta' di recupero delle tesi accusatorie onde evitare la loro disfatta completa" (insomma, quei giudici, invece di applicare le leggi, hanno solo pensato a tirare una ciambella di salvataggio ai pm). Dall'alto della sua sapienza. Che e' davvero notevole, perche' l'estensore ha anche qualche velleita' accademica. E infatti, cosa un po' anomala in un rapporto parlamentare, invece di citare - che so - gli atti del processo Dell'Utri o di qualche inchiesta sulla mafia in Lombardia, cita Goethe, cita Hegel, cita Junger, e offre perfino note bibliografiche. Una delle quali merita di essere ricordata, per lo spasso del lettore. Egli vi consiglia di documentarsi meglio sulla "critica dell'esistenza nella storia di leggi ineluttabili, che vanno nel verso del miglioramento della condizione umana". E di leggersi in proposito due saggi, uno di Karl Popper e uno di Massimo Fini. Ora, sono amico ed estimatore di Massimo Fini. Ma come si fa ad abbinare i due nella stessa nota, sacripante d'un genio? E' come dire Max Weber e Nando dalla Chiesa. Come dire Aristofane e Travaglio. Roba da pazzi. Roba da ridere. Che spiega tutto. A Milano questi casi umani li liquidano con una battuta: ofelee fa' el to meste'. Panettiere, fai il tuo mestiere. La storia, la filosofia, l'analisi politica (e anche la bella prosa) falla fare a qualcun altro. O rischi di trovartela "caducata"... 7. RIFLESSIONE. ENZO COLLOTTI: LE PENSIONI DI SALO' [Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 gennaio 2006. Enzo Collotti e' un illustre storico e docente universitario. Opere di Enzo Collotti: segnaliamo particolarmente La Germania nazista, Einaudi, Torino 1962; Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1989. Tra vari altri suoi importanti lavori cfr. anche La soluzione finale, Newton Compton, Roma 1995] Alla vigilia della cessazione dell'attivita' parlamentare della legislazione prossima a spirare i nostri postfascisti non vogliono perdere l'occasione per lanciare un ultimo velenoso messaggio destinato a infliggere una nuova lesione all'identita' resistenziale della nostra repubblica. La riproposizione al senato del progetto di un provvedimento legislativo tendente al riconoscimento della qualifica di militari belligeranti per coloro che nel periodo 1943-'45 prestarono servizio sotto le bandiere della Repubblica sociale non deve passare sotto silenzio. Non si tratta di un banale provvedimento di ordinaria amministrazione ma di una ennesima insidiosa manovra equiparabile ad un vero e proprio atto eversivo. Obiettivo dell'iniziativa e' infatti arrivare a fare sancire dal parlamento della repubblica l'equiparazione tra i combattenti della Rsi e i combattenti per la liberta' della Resistenza: un risultato che equivarrebbe ad una sorta di suicidio ideologico del parlamento repubblicano, indotto da una maggioranza priva di senso storico e di responsabilita' civica a smentire le proprie origini. Soltanto l'insensibilita' istituzionale e l'indifferenza ai valori su cui e' stata costruita questa repubblica potrebbero consentire un esito positivo all'iniziativa in questione. Ci si potrebbe anche domandare se in un paese piu' attento alla memoria delle proprie origini e meno incline a ipocrisie perdoniste il presidente del senato non avrebbe dovuto dichiarare irricevibile una proposta di legge che mira a rinnegare i valori su cui e' stata fondata la rinascita democratica dell'Italia dopo il fascismo. Si tratta fra l'altro di una iniziativa che nasce anche da premesse false e menzognere, come se la repubblica democratica non avesse dato mai prova di indulgenza nei confronti dei combattenti della Rsi. Sul numero 65 (maggio-giugno del 2005) della rivista "Passato e Presente" un attento studioso dei nostri ordinamenti militari, Agostino Bistarelli, ricorda le sanatorie e i benefici che non sono stati lesinati nei fatti ai militari della Rsi negli scorsi decenni, al punto che molti di essi furono riassunti in servizio nelle forze armate della repubblica: di quanti partigiani si potrebbe dire altrettanto? E' evidente che con il provvedimento ora in agenda non si intendono tutelare posizioni individuali ma proporre un provvedimento generale destinato a capovolgere un paradigma interpretativo di fondamentale importanza per l'identita' della repubblica antifascista. Il significato infatti del disegno di legge non e' di risarcire nessuno: il centro del problema e' quella di riabilitare i combattenti della Rsi e attraverso di essi l'intera esperienza della Repubblica sociale di Mussolini. E contemporaneamente, cosi' facendo, si realizza la delegittimazione della Resistenza e della Repubblica che ne e' stata l'esito. A questo punto giungerebbe a conclusione anche il processo di lento svuotamento dei contenuti antifascisti della Repubblica tenacemente perseguito dai cosiddetti postfascisti al governo con l'indifferenza ideologica e il consenso di una maggioranza insensibile ai valori e interessata soltanto alla conquista di posizioni di potere senza alcuna pregiudiziale etica ne' politica. * La posta in gioco non e' di poco conto. Non si tratta di salvaguardare prerogative amministrative e piccoli benefici per pochi ma di una questione di principio, che non investe come surretiziamente vorrebbe dare a intendere l'intitolazione del progetto di legge soltanto l'esercito della Rsi, che gia' di per se' sarebbe grave, ma il complesso delle forze armate della Repubblica sociale, come risulta dalla relazione che accompagna il disegno di legge dalla quale traspare esplicita l'intenzione di ricevere un certificato di buona condotta per i comportamenti di quanti dopo l'8 settembre del 1943 si sono schierati dalla parte di Mussolini e del Terzo Reich. Non si tratta soltanto di ristabilire le coordinate storiche degli eventi di allora ma anche di capire quale memoria si vuole trasmettere con l'autorita' di una sanzione parlamentare. Ancora una volta tornano a galla i problemi sollevati dall'ambiguita' di chi ha continuato a perseguire ad ogni costo una memoria condivisa di fronte all'arroganza dei nostri postfascisti (ma poi, perche' post?), che oltre a volersi presentare come vittime della repubblica democratica, che ha lasciato loro fin troppo spazio consentendo a fior di manigoldi della Rsi di sedere precocemente negli organismi rappresentativi della nostra repubblica, vogliono oggi prendersi la rivincita sulle forze che hanno restituito la liberta' a questo paese. Per costoro nessun atto conciliatorio della repubblica sarebbe stato mai sufficiente a mettere a tacere le rivendicazioni di orgoglio patriottico di quanti dopo l'8 settembre hanno scelto di continuare la lotta dalla parte dei nazisti. Dall'amnistia Togliatti ai molti atti di clemenza scaturiti dalle sentenze di una magistratura anche troppo incline a minimizzare la drammaticita' di comportamenti criminali a carico di seviziatori di partigiani, di delatori di ebrei e antifascisti, di responsabili di deportazioni risoltesi nella piu' parte dei casi in viaggi senza ritorno ai campi di sterminio: e' su questo che bisognerebbe riflettere prima di considerare normale che gli eredi di questo torbido passato si possano arrogare il diritto di fare il processo alla Resistenza e di portare a conclusione la loro resa dei conti con l'antifascismo e con le origini resistenziali del nostro stato. * Bisogna smetterla di indulgere ad atteggiamenti che volendo essere equanimi finiscono per essere equidistanti o peggio, come se si trattasse di giustapporre combattenti al di qua e al di la' della linea di demarcazione rappresentata dal fronte alleato e dal fronte nazifascista. Non e' un caso che gli studi che negli ultimi anni si vanno moltiplicando sulla Rsi (da Ganapini a Gagliani, da Germinario ai piu' recenti e piu' giovani) analizzano con particolare evidenza la specificita' della violenza esercitata dai corpi armati (non solo esercito, ma Gnr, bande e polizia, SS) della repubblica di Salo', ben al di la' di una rinnovata insorgenza neosquadristica. Non di violenza cieca o folle si deve parlare ma di premeditata violenza politica e ideologica, come e' stato opportunamente sottolineato. Era questa la lezione appresa dal nazismo, con la guerra di sterminio all'est e lo sterminio degli ebrei, che le forze armate e il fascismo di Salo' si studiarono di imporre anche in Italia dopo l'8 settembre: e' di questo che si deve parlare quando si discute dell'equiparazione di combattenti di Salo' e di partigiani e non della retorica di fedelta' all'alleanza con la Germania nazista o di cuore e orgoglio patriottico. E' anche per questo che la sfida lanciata ai parlamentari del centro-sinistra e almeno in parte della stessa maggioranza dagli irriducibili del neofascismo puo' essere battuta soltanto con una convinta battaglia di civilta' e di cultura ispirata alla consapevolezza dei valori che allora si contrapposero e che oggi ancora rappresentano i connotati distintivi di una cultura politica democratica. 8. LETTURE. WISLAWA SZYMBORSKA: DISCORSO ALL'UFFICIO OGGETTI SMARRITI Wislawa Szymborska, Discorso all'Ufficio oggetti smarriti. Poesie 1945-2004, Adelphi, Milano 2004, pp. 192, euro 15. A cura di Pietro Marchesani, una bella raccolta dei versi della poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996. 9. RILETTURE. INGEBORG BACHMANN: LETTERATURA COME UTOPIA Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993, pp. 136, lire 20.000. Le cinque stupende conferenze (Domande e pseudodomande; Sulle poesie; L'Io che scrive; Il rapporto con i nomi; Letteratura come utopia) tenute a Francoforte nel 1959-'60 dalla grande poetessa e intellettuale. 10. RILETTURE. CRISTINA CAMPO: LA TIGRE ASSENZA Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, Milano 1991, 2001, pp. 320, euro 18,08. L'intera l'opera poetica di una delle voci piu' profonde e segrete, preziose e schiudenti, della letteratura e della spiritualita' del Novecento. 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1172 dell'11 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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