La nonviolenza e' in cammino. 1171



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1171 del 10 gennaio 2006

Sommario di questo numero:
1. Maurizio Passerin d'Entreves: La teoria della cittadinanza nella
filosofia politica di Hannah Arendt (parte seconda)
2. Maria G. Di Rienzo: Di torte, di draghi e di noi
3. Giuliana Sgrena: La fortezza del male
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. MAURIZIO PASSERIN D'ENTREVES: LA TEORIA DELLA CITTADINANZA
NELLA FILOSOFIA POLITICA DI HANNAH ARENDT (PARTE SECONDA)
[Dal sito http://utenti.lycos.it/arendt1976/ riprendiamo il seguente testo,
di cui li' si segnala che fu presentato come working paper n. 102 a
Barcellona nel 1995 (non abbiamo avuto modo di verificare se sia - come e'
ragionevole supporre - lo stesso testo apparso col medesimo titolo nella
rivista "Teoria politica", 11 (2), 1995, alle pp. 83-107).
Maurizio Passerin d'Entreves, acuto studioso di filosofia politica, insegna
all'Universita' di Manchester ed e' autore di rilevanti saggi. Tra le opere
di Maurizio Passerin d'Entreves: The Political Philosophy of Hannah Arendt,
Routledge, London - New York 1994.
Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva
di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe
all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le
massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne
ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista
rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel
1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti
tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l
'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione
originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951),
Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen
(1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti,
Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli,
Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e'
apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di
brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano,
1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969.
Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra
amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975,
Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio
Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2.
1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita'
e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la
biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri,
Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt,
Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah
Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah
Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della
polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt,
Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su
Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah
Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli
monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono:
Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999;
Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000]

2. La sfera pubblica: tre aspetti
Vorrei ora esaminare tre aspetti della sfera pubblica che sono strettamente
collegati alla concezione della cittadinanza della Arendt. Faro' affidamento
per questo a un interessante saggio della Margaret Canovan intitolato
"Politics as Culture: Hannah Arendt and the Public Realm", nel quale
l'autrice sostiene che la concezione della sfera pubblica della Arendt si
fonda su una implicita analogia tra la politica e la cultura (18).
Esistono tre aspetti della sfera pubblica che meritano la nostra attenzione,
in quanto servono a illustrare la concezione della cittadinanza della
Arendt: primo, la natura artificiale della politica e della attivita'
pubblica in genere; secondo, la sua qualita' spaziale; terzo, la distinzione
tra interessi pubblici e interessi privati.
*
2.1. L'artificialita' della vita pubblica
Per quanto concerne il primo aspetto, la Arendt ha sempre messo in rilievo
la natura artificiale della politica e della vita pubblica in genere, ossia
il fatto che essa e' il prodotto dell'attivita' umana e non qualcosa di
naturale o dato. La Arendt giudicava questa artificialita' come qualcosa da
celebrare, e non certo da condannare. La politica per lei non era il
risultato di una predisposizione naturale dell'uomo, o la realizzazione di
caratteristiche inerenti alla natura umana (19). Essa era, al contrario, una
conquista o acquisizione culturale di prim'ordine, in quanto permette agli
individui di trascendere le necessita' naturali e di costruire un mondo in
cui il discorso e l'interazione politica possano fiorire liberamente. Il
rifiuto della Arendt di fondare la politica sul concetto di natura e' il
motivo principale per cui, a mio avviso, la sua filosofia politica non puo'
essere identificata con la tradizione del neo-aristotelismo contemporaneo,
nonostante la comune enfasi sull'importanza della phronesis e della vita
activa. In realta', se volessimo usare la classica distinzione avanzata da
Michael Oakeshott tra la tradizione del pensiero politico antico fondata sul
concetto di Ragione e Natura e quella del pensiero politico moderno basata
sul concetto di Volonta' e Artificio, sembra chiaro che la Arendt puo'
essere situata piu' facilmente in quest'ultima, dal momento che per lei la
politica non e' il risultato di una qualche predisposizione innata o
naturale condivisa da tutti gli esseri umani, ma una creazione artificiale
dell'uomo, il prodotto dell'azione e del discorso tra cittadini liberi e
uguali (20).
*
L'accento sulla artificialita' della politica comporta una serie di
conseguenze importanti. Ad esempio, la Arendt mette in rilievo che il
principio di uguaglianza politica tra cittadini non e' il risultato di una
condizione naturale che precede la formazione della sfera politica.
L'uguaglianza politica per la Arendt non e' un attributo naturale degli
uomini, ne' puo' basarsi su una teoria dei diritti naturali; piuttosto, essa
e' un attributo artificiale che gli individui acquisiscono quando accedono
alla sfera pubblica e che viene garantito da istituzioni politiche
democratiche (21). Come ella noto' ne Le origini del totalitarismo, coloro
che furono privati dal regime nazista dei diritti civili e politici non
furono in grado di difendersi facendo appello ai loro diritti naturali; al
contrario, scoprirono che, essendo stati esclusi dal corpo politico, non
avevano alcun diritto (22). L'uguaglianza politica e il riconoscimento dei
propri diritti (cio' che la Arendt chiama "il diritto ad avere diritti")
possono essere assicurati solo dall'appartenenza ad una comunita' politica
democratica (23).
Un'altra conseguenza importante dell'enfasi sulla artificialita' della
politica puo' essere rintracciata nel rifiuto che la Arendt manifesto' nei
confronti di tutti i richiami neo-romantici al popolo e all'identita' etnica
quale base per la formazione di una comunita' politica. La Arendt era
dell'avviso che l'identita' etnica, religiosa o razziale era irrilevante ai
fini dell'identita' politica di una persona, della sua identita' di
cittadino, e che non doveva mai diventare il criterio di appartenenza ad una
comunita' politica. Ella lodo' la Costituzione americana per avere escluso
in linea di principio qualsiasi collegamento tra l'identita' etnica o
religiosa di una persona e il suo status politico di cittadino (24). In
maniera analoga, al tempo della fondazione dello stato di Israele, difese
una concezione della cittadinanza fondata non sulla razza o la religione, ma
sui diritti politici formali di liberta' e uguaglianza che avrebbero dovuto
estendersi in eguale misura sia agli arabi che agli ebrei (25).
Infine, e' importante segnalare che questa insistenza sulle qualita' formali
della cittadinanza rende la posizione della Arendt assai distante da quei
fautori della partecipazione politica degli anni sessanta che la
interpretavano in termini di riattivazione del senso di intimita', di
comunita', di calore e di autenticita' (26).
*
Per la Arendt la partecipazione politica era importante perche' permetteva
lo stabilirsi di relazioni civili e solidali tra i cittadini. Nel suo saggio
"On Humanity in Dark Times" la Arendt dichiaro' che la ricerca
dell'intimita' e' una caratteristica di quei gruppi esclusi dalla sfera
pubblica, come lo furono gli ebrei sotto il regime nazista, ma che tale
intimita' e' ottenuta al prezzo di una estraniazione dal mondo, il che "e'
sempre una forma di barbarismo" (27). Poiche' rappresentano dei "sostituti
psicologici... per la perdita di un mondo visibile e comune" (28), i legami
di intimita' e calore non possono mai diventare politici; i soli veri legami
politici sono quelli dell'amicizia civica e della solidarieta', in quanto
"fanno riferimento a delle istanze politiche e mantengono un riferimento col
mondo" (29). Detto altrimenti, per la Arendt il pericolo di ogni tentativo
di rinsaldare il senso di intimita' e calore, di autenticita' e
appartenenza, risiede nel fatto che esso fa perdere di vista i valori
pubblici dell'imparzialita', dell'amicizia civica e della solidarieta'.
Come scrive giustamente la Canovan: "La concezione della sfera pubblica
[della Arendt] si oppone sia alla societa' sia alla comunita': sia alla
Gemeinschaft sia alla Gesellschaft. Nonostante il suo grande apprezzamento
del calore, dell'intimita' e della naturalezza nella vita privata, ella
insistette sull'importanza di un ambito pubblico artificiale e formale nel
quale cio' che contava erano le azioni degli individui piuttosto che i loro
sentimenti; nel quale i legami naturali di parentela e di intimita' venivano
messi da parte a favore di una solidarieta' imparziale e intenzionale con
gli altri cittadini; nel quale esisteva uno spazio sufficiente tra le
persone che permetteva loro di distanziarsi e di giudicarsi l'un l'altro con
equanimita' e oggettivita'" (30).
*
2.2. La qualita' spaziale della vita pubblica
La seconda caratteristica messa in rilievo dalla Arendt concerne la qualita'
spaziale della vita pubblica, ovvero il fatto che l'attivita' politica e'
situata in uno spazio pubblico dove i cittadini possono incontrarsi,
scambiare le loro opinioni e confrontare i loro differenti punti di vista, e
ricercare una soluzione consensuale ai loro problemi collettivi. La
politica, da questo punto di vista, e' l'esperienza di condivisione da parte
di piu' soggetti di un mondo comune e di uno spazio della presenza comune
nel quale questioni di interesse pubblico possono emergere ed essere
articolate e analizzate da differenti prospettive. Perche' la politica possa
realizzarsi non e' sufficiente avere un gruppo di individui che votano
separatamente e anonimamente in base alle loro opinioni private (31).
Piuttosto, questi individui devono essere in grado di vedersi e di parlarsi
in pubblico, di incontrarsi in uno spazio comune dove le loro differenze
cosi' come i loro punti in comune possono emergere e diventare l'oggetto di
un dibattito democratico (32).
Questa idea di uno spazio pubblico comune ci aiuta a capire come sia
possibile la formazione di opinioni politiche non riducibili ne' a
preferenze personali e idiosincratiche, ne' a una opinione collettiva e
unanime. La Arendt era assai scettica verso l'idea di "opinione pubblica",
in quanto la considerava una espressione del conformismo imperante nella
societa' di massa (33). Secondo lei opinioni valide o "rappresentative"
potevano emergere solo quando i cittadini avevano la possibilita' di
confrontarsi in uno spazio pubblico, ed essere cosi' in grado di esaminare
un problema da differenti prospettive, di modificare le proprie opinioni, e
di ampliare i propri punti di vista fino ad incorporare quelli degli altri
(34). Le opinioni politiche non si possono forgiare in privato; esse si
formano, si convalidano e si ampliano solo all'interno di un contesto
pubblico di dibattito e di discussione razionale. "Le opinioni sorgono la'
dove gli uomini comunicano liberamente fra loro e hanno il diritto di
manifestare in pubblico le loro idee; ma queste idee nella loro infinita
varieta' sembra abbiano anche bisogno di essere depurate e rappresentate"
(35). Solo grazie allíesistenza di uno spazio pubblico (l'esempio scelto
dalla Arendt e' il senato americano, ma possiamo estendere questo esempio a
tutti quegli spazi di dibattito relativamente formale e strutturato situati
all'interno della societa' civile) e' possibile depurare queste opinioni e
trasformarle in un sofisticato discorso politico, invece di farle restare
l'espressione di preferenze arbitrarie o di lasciare che siano plasmate in
una "opinione pubblica" unanime e spuria.
*
Un'altra implicazione dell'enfasi posta dalla Arendt sulla qualita' spaziale
della politica riguarda la questione di come un gruppo di individui,
ciascuno dotato di una propria individualita', puo' unirsi per formare una
comunita' politica. Per la Arendt l'unita' che caratterizza una comunita'
politica non e' il risultato di una affinita' etnica o religiosa, o
l'espressione di un sistema di valori comuni. Piuttosto, l'unita' in
questione puo' essere conseguita condividendo uno spazio pubblico e una
serie di istituzioni politiche, e impegnandosi nelle attivita' che
distinguono quello spazio pubblico e quelle istituzioni politiche. Come
Christopher Lasch ha giustamente osservato in un saggio ispirato alla
filosofia della Arendt, l'idea che "valori condivisi, non istituzioni
politiche o un linguaggio politico comune, forniscano la sola fonte di
coesione sociale... rappresenta una rottura radicale rispetto a molti dei
principi repubblicani su cui venne fondata la nostra nazione" (36). Cio' che
unisce le persone in una comunita' politica non e', dunque, un complesso di
valori condivisi, ma il mondo che essi erigono in comune, gli spazi che
abitano insieme, le pratiche e le istituzioni che condividono come
cittadini. Come osserva la Canovan, gli individui possono essere uniti "dal
mondo che esiste tra loro. Cio' che e' indispensabile e' che essi
condividano un mondo politico comune a cui accedono come cittadini, e che
possono trasmettere ai loro successori. E' lo spazio esistente tra di loro
che li unisce, piuttosto che qualche caratteristica intrinseca a ciascuno di
loro", o qualche insieme di valori e credenze comuni (37).
Una ulteriore implicazione della idea arendtiana della natura spaziale della
politica e' che poiche' la politica e' un'attivita' pubblica, non e'
possibile impegnarsi in essa senza essere in qualche modo presenti in uno
spazio pubblico. Impegnarsi nella politica significa partecipare attivamente
nelle varie sfere pubbliche dove vengono prese le decisioni che concernono
la collettivita'. L'insistenza posta dalla Arendt sull'importanza della
partecipazione diretta nella politica e' stata a volte interpretata come
l'affermazione che gli individui hanno un bisogno esistenziale di
partecipazione che puo' essere soddisfatto solo mediante l'impegno
nell'attivita' pubblica. Questa e' in verita' una lettura fuorviante
dell'enfasi posta dalla Arendt sulla politica partecipativa, poiche' si basa
su cio' che la Canovan definisce una concezione della politica soggettiva o
incentrata sulla persona, piuttosto che pubblica o incentrata sul mondo. Per
la Arendt, sebbene le persone possono impegnarsi nell'attivita' politica per
soddisfare le proprie esigenze di coinvolgimento e partecipazione, non sono
queste esigenze personali quanto le questioni riguardanti il mondo comune
che costituiscono la sostanza e il valore dell'attivita' politica. Come
osserva la Canovan, "mentre la Arendt era certamente dell'idea che la
partecipazione politica fosse personalmente gratificante, il suo argomento
principale a favore della partecipazione non solo aveva un carattere meno
soggettivo ma era anche piu' semplice... ella sosteneva che, poiche' la
politica e' un'attivita' che richiede un luogo mondano e che puo' svolgersi
solo in uno spazio pubblico, allora, molto semplicemente, se non si e'
presenti in questo spazio non si e' coinvolti nella politica" (38).
*
2.3. Interessi pubblici e interessi privati
Questa concezione della politica pubblica o incentrata sul mondo e' anche
alla base della distinzione operata dalla Arendt tra interessi pubblici e
interessi privati. Secondo la Arendt, l'attivita' politica non e' un mezzo
per raggiungere uno scopo, ma uno scopo in se stesso; non ci si impegna
nell'attivita' politica semplicemente per promuovere il proprio benessere,
ma per realizzare i principi intrinseci alla vita politica, quali la
liberta', l'uguaglianza, la giustizia, la solidarieta'. La politica e' una
sfera con i propri valori e fini che trovano realizzazione nell'azione e
nella deliberazione pubblica; la politica, nelle parole della Arendt,
"riguarda il mondo come tale e non coloro che la vivono" (39).
In uno dei suoi ultimi saggi, intitolato "Diritti pubblici e interessi
privati", la Arendt esamina la differenza tra la vita di una persona come
individuo e la vita di una persona come cittadino, tra la vita passata da
soli e la vita passata in comune con gli altri. Come ella scrive: "Nell'arco
della vita l'uomo si muove costantemente in due differenti ordini di
esistenza: egli si muove all'interno di cio' che e' suo e si muove anche in
una sfera che e' comune a lui e ai suoi concittadini. Il 'bene pubblico',
gli interessi del cittadino, e' davvero il bene comune perche' e' situato
nel mondo che abbiamo in comune senza possederlo. Molto spesso, esso sara'
in opposizione a tutto cio' che reputiamo un bene per noi stessi nella
nostra vita privata" (40).
Cio' che la Arendt rivendica e' che i nostri interessi pubblici come
cittadini sono assai differenti dai nostri interessi privati come individui.
L'interesse pubblico non puo' essere automaticamente desunto dai nostri
interessi privati: in realta', esso non e' la somma dei nostri interessi
privati, ne' il loro piu' alto denominatore comune, ne' la sommatoria degli
interessi privati "illuminati" (41). In effetti, esso ha poco a che fare con
i nostri interessi privati, poiche' riguarda il mondo che e' situato al di
la' del se', che esisteva prima della nostra nascita e che esistera' dopo la
nostra morte, e che trova la propria incarnazione in attivita' e istituzioni
con i loro scopi intrinseci che possono essere spesso in antitesi con i
nostri interessi privati e di breve termine (42). Come dice la Arendt, "l'io
in quanto io non puo' pensare in termini di interesse di lungo periodo, vale
a dire l'interesse di un mondo che sopravvive ai suoi abitanti" (43).
Gli interessi del mondo non sono gli interessi degli individui: sono gli
interessi della sfera pubblica che noi condividiamo come cittadini e che
possiamo perseguire e godere solo se oltrepassiamo i nostri interessi
privati. Come cittadini noi condividiamo quella sfera pubblica e perseguiamo
i suoi interessi: ma gli interessi appartengono alla sfera pubblica, alla
sfera che abbiamo in comune "senza possederla", a quella sfera che trascende
il nostro limitato periodo di vita e i nostri limitati scopi privati.
*
La Arendt fornisce un esempio di tali interessi pubblici tramite l'esame
dell'attivita' di una giuria. Come giurati, gli interessi che ci viene
chiesto di sostenere sono gli interessi pubblici della giustizia e
dell'equita'. Questi non sono gli interessi del nostro io privato, ne'
coincidono con il nostro interesse illuminato. Sono gli interessi di una
comunita' politica che regola i propri affari tramite leggi e procedure
costituzionali. Sono gli interessi pubblici che trascendono e oltrepassano
in durata gli interessi privati che possiamo avere come individui. In
effetti, l'equita' e l'imparzialita' richiesta ai cittadini, osserva la
Arendt, "viene ostacolata a ogni passo dall'urgenza dei nostri interessi
privati, che sono sempre piu' impellenti del bene comune" (44). L'interesse
pubblico nella giustizia imparziale che condividiamo come giurati puo'
interferire con i nostri interessi privati: spesso implica un disagio e puo'
a volte implicare rischi maggiori, come quando viene chiesto a un individuo
di testimoniare contro un gruppo di criminali che hanno minacciato gravi
ritorsioni. Secondo la Arendt la sola ricompensa per i rischi e i sacrifici
richiesti dall'interesse pubblico risiede in cio' che lei chiama "la
felicita' pubblica" che deriva dall'agire insieme come cittadini nella sfera
pubblica. Invero, e' solo operando nella sfera pubblica e godendo della
felicita' e della liberta' insite nella deliberazione collettiva che siamo
in grado di scoprire i nostri interessi pubblici e di trascendere, quando e'
necessario, i nostri piu' ristretti interessi privati (45).
*
Un ulteriore esempio della distinzione operata dalla Arendt tra interessi
pubblici e interessi privati viene fornito dalla sua discussione sulla
pratica della disobbedienza civile.
Al tempo del movimento di protesta contro la guerra nel Vietnam e la lotta
per i diritti civili per la gente di colore negli anni Sessanta, la
legittimita' della disobbedienza civile venne spesso discussa in termini che
poggiavano su casi esemplari di coscienza, in particolare, il rifiuto di
Socrate di fuggire dalla prigione dopo essere stato condannato a morte dagli
ateniesi, e il rifiuto di Thoreau di pagare le tasse a un governo che
tollerava la schiavitu' ed era coinvolto in una guerra di espansione contro
il Messico. La Arendt sostenne che questi esempi di azione intrapresa per
salvaguardare la propria coscienza erano inadatti a caratterizzare le lotte
e le proteste degli anni Sessanta, poiche' queste ultime non erano motivate
dall'interesse per l'integrita' della propria coscienza, ma dalla
preoccupazione per le ingiustizie esistenti nel mondo. L'obiettivo di
Thoreau, delineato nel suo famoso scritto "On the Duty of Civil
Disobedience", era quello di evitare di essere coinvolto, sia pure
indirettamente, nelle azioni del governo americano, piuttosto che di
combattere attivamente per l'abolizione della schiavitu' e contro
l'aggressione militare nei confronti del Messico. "Un uomo non ha il dovere,
in realta', di dedicarsi all'eliminazione di nessun torto, neppure dei piu'
colossali; puo' darsi giustamente che abbia altre cose di cui occuparsi; ma
e' suo dovere, almeno, lavarsene le mani e, se non ci pensa piu', non darvi
praticamente il suo sostegno" (46). La preoccupazione di Thoreau, in altre
parole, era di evitare l'autorimprovero, di evitare di essere implicato in
qualcosa che riteneva ingiusto, piuttosto che lottare per eliminare
l'ingiustizia. Il commento della Arendt e' il seguente: "Qui, come altrove,
la coscienza e' apolitica. Non si interessa primariamente al mondo nel quale
il torto e' commesso o alle conseguenze che il torto avra' sul futuro
destino del mondo. Non dice, con Jefferson: 'Tremo per il mio paese quando
penso che Dio e' giusto; che la Sua giustizia non puo' dormire per sempre',
perche' essa trema per l'individuo e per la sua integrita'" (47).
Le norme della coscienza sono apolitiche, esse concernono l'integrita' del
se' e non l'integrita' del mondo. Esse dicono: "Attento a fare qualcosa con
cui non sarai capace di vivere" (48). Come tali, possono essere efficaci
durante le emergenze o quando una particolare atrocita' viene commessa, ma
non possono servire come norme o criteri politici; sono troppo dirette
all'integrita' del se' per servire come base per l'azione collettiva mirante
all'eliminazione dell'ingiustizia nel mondo (49).
Uno dei commenti che la Arendt fece su Rosa Luxemburg era che lei "era molto
interessata al mondo e per nulla interessata a se stessa". Ella si era
impegnata nell'azione politica perche' "non poteva sopportare l'ingiustizia
nel mondo". Pertanto, per la Arendt, "la questione decisiva e' se la vostra
motivazione e' chiara - per il mondo - o per voi stessi, col quale intendo
dire per la vostra anima" (50).
Ora, e' importante sottolineare che la Arendt non esclude interamente il
ruolo della coscienza; nella sua prolusione "Thinking and Moral
Considerations" e in The Life of the Mind ella sostenne che la coscienza,
quale dialogo interiore tra me e me stesso, puo' impedire agli individui di
commettere o di partecipare ad atrocita' (51). La coscienza, pero', non
offre prescrizioni positive; ci dice solo cosa non fare, cosa evitare nelle
nostre azioni e relazioni con gli altri; il suo criterio d'azione e' "se
saro' capace di vivere in pace con me stesso quando verra' il momento di
pensare sui miei atti e sulle mie parole" (52). La coscienza non e' qualcosa
che puo' essere dato per scontato - molte persone non l'hanno o sono
incapaci di rimproverarsi. Essa non puo' essere generalizzata - cio' con cui
non posso convivere puo' non infastidire la coscienza di un'altra persona,
col risultato che la coscienza di una persona si trovera' in contrasto con
quella di un'altra. E, come abbiamo visto, essa dirige l'attenzione al se'
piuttosto che al mondo. Le regole della coscienza sono pertanto apolitiche.
Possono essere espresse solo in forma puramente individuale e soggettiva.
Come scrive la Arendt: "Quando Socrate affermava che 'e' meglio subire un
torto che fare un torto', intendeva chiaramente che era meglio per lui,
proprio come era meglio per lui 'essere in disaccordo con tanti piuttosto
che, essendo uno, essere in disaccordo con se stesso'. Politicamente, invece
quello che conta e' che un torto e' stato fatto" (53).
Per la Arendt, dunque, esisteva una chiara distinzione tra la motivazione
privata e apolitica della coscienza e la motivazione pubblica e politica di
chi si interessa attivamente agli affari della comunita' politica.
Coloro che lottarono per l'estensione dei diritti civili e la fine della
guerra nel Vietnam non cercavano di salvare la propria coscienza; al
contrario, lottarono per migliorare la politica del governo americano, per
stabilire dei criteri di giustizia internazionale e il rispetto per
l'autodeterminazione dei popoli. Essi agirono nel ruolo di cittadini
piuttosto che nel ruolo di individui preoccupati di salvaguardare la propria
integrita' personale (54).
*
Prima di concludere questa discussione, vale la pena sottolineare che la
concezione dell'interesse pubblico della Arendt sfugge alla consueta
dicotomia tra individualismo e collettivismo, e ci aiuta a trovare una via
di uscita nel dibattito tra liberali e comunitari sulla questione del bene
comune. La sua concezione dell'interesse pubblico non lo riduce infatti alla
somma delle preferenze individuali o all'idea di un bene comune
indifferenziato. Poiche' per la Arendt la pluralita' e' il principio
costitutivo della politica, il bene che una comunita' cerca di conseguire e'
sempre un bene plurale, ovvero un bene che riflette sia le differenze tra
gli individui (i loro differenti interessi e opinioni), sia la comunanza che
li caratterizza in qualita' di cittadini (la solidarieta' e reciprocita' che
esercitano in quanto esseri liberi e uguali). Quando gli individui si
riuniscono per discutere e decidere questioni di pertinenza pubblica, essi
esprimono e difendono opinioni e idee differenti che verranno trasformate e
ampliate nell'incontro, ma che non potranno mai essere eliminate o ridotte a
un consenso unanime. L'interesse comune viene scoperto solo attraverso il
dibattito e la persuasione reciproca, ma "continua a rimanere disputato
tanto quanto condiviso", come osservano la Pitkin e la Shumer (55).
L'interesse pubblico dei cittadini puo' in tal modo emergere solo nel
contesto del dibattito politico e della deliberazione collettiva, dove
esiste lo spazio per il dissenso su cio' che effettivamente sono gli
interessi della comunita'. Non esiste una visione del bene comune o una
volonta' generale a cui gli individui devono sottostare; cio' che unisce i
cittadini e' invece il loro mondo comune e la loro volonta' di creare uno
spazio politico dove le loro differenze possono essere espresse, articolate,
contestate ed eventualmente risolte in maniera democratica (56).
*
Note
18. Canovan, M.: "Politics as Culture: Hannah Arendt and the Public Realm",
History of Political Thought, vol. 6, n. 3, Winter 1985, pp. 617-642,
ristampato in Hinchman, L. P. e Hinchman, S. K. (a cura di): Hannah Arendt:
Critical Essays. Albany, N.Y., State University of New York Press, 1994, pp.
179-205. In questo saggio l'autrice sostiene che la concezione della sfera
pubblica della Arendt si basa su una implicita analogia tra i valori, scopi
e modalita' della politica e i valori, scopi e modalita' dell'alta cultura.
19. La Arendt rifiuta esplicitamente il concetto di natura umana e il
tentativo di fondare la politica sulle presunte caratteristiche dell'uomo;
si veda, a questo riguardo, The Human Condition, op. cit., pp. 10-11; trad.
it., op. cit., pp. 16-18.
20. Per la distinzione tra le due tradizioni del pensiero politico, si veda
Oakeshott, M.: "Introduction to Leviathan", incluso nel volume Hobbes on
Civil Association, Oxford, Basil Blackwell, 1975, in particolare p. 7. La
distinzione di Oakeshott non riesce, in verita', a catturare con precisione
il pensiero politico della Arendt. La sua filosofia politica puo' essere
situata all'interno della tradizione repubblicana, che annovera autori come
Machiavelli, Montesquieu, Jefferson, e Tocqueville. Per la Arendt la
politica non e' il prodotto della Ragione, ne' della Volonta', bensi' del
linguaggio e dell'azione. Essa richiede istituzioni stabili, create
dall'uomo, che permettano la formazione di numerose sfere pubbliche nelle
quali l'azione e il discorso possano svolgersi liberamente.
21. The Human Condition, op. cit., p. 215; The Origins of Totalitarianism,
New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1973, p. 234; On Revolution. New York,
Viking Press, 1965, pp. 30-31.
22. The Origins of Totalitarianism, op. cit., pp. 290-302, in particolare
pp. 295-296.
23. La Arendt identifico' questi diritti col diritto all'azione e il diritto
all'opinione. Le persone private dei diritti umani, scrive la Arendt, "sono
prive, non del diritto alla liberta', ma del diritto all'azione; non del
diritto a pensare qualunque cosa loro piaccia, ma del dirito all'opinione".
Pertanto, "la privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella
mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni
un effetto... Ci siamo accorti dell'esistenza di un diritto ad avere diritti
(e cio' significa vivere in una struttura in cui si e' giudicati per le
proprie azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di individui
che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova
organizzazione globale del mondo". The Origins of Totalitarianism, op. cit.,
pp. 296-297; trad. it.: Le origini del totalitarismo. Milano, Edizioni di
Comunita', 1989, pp. 410-411.
24. Young-Bruehl, E.: Hannah Arendt: For Love of the World, New Haven, Yale
University Press, 1982, p. XIV; Botstein, L.: "Liberating the Pariah:
Politics, the Jews, and Hannah Arendt", Salmagundi n. 60, Spring-Summer
1983, pp. 73-106, in particolare pp. 79-89; Feher, F.: "The Pariah and the
Citizen: On Arendt's Political Theory", Thesis Eleven n. 15, 1986, pp.
15-29, ristampato in Kaplan, G. T. e Kessler, C. S. (a cura di): Hannah
Arendt: Thinking, Judging, Freedom. Sydney, Allen & Unwin, 1989, pp. 18-28.
25. Arendt, H. in Feldman, R. (ed.): The Jew as Pariah, New York, Grove
Press, 1978, in particolare gli articoli "Creating a Cultural Atmosphere" e
"To Save the Jewish Homeland", pubblicati rispettivamente nel novembre 1947
e nel maggio 1948; trad. it.: Ebraismo e Modernita'. Milano, Edizioni
Unicopli, 1986. Per una stimolante discussione della posizione della Arendt
nei confronti della questione ebraica, si veda Benhabib, S.: "Hannah Arendt
and the Redemptive Power of Narrative", Social Research, vol. 57, n. 1,
Spring 1990, pp. 167-196, ristampato in Hinchman L. P. e Hinchman, S. K. (a
cura di): Hannah Arendt: Critical Essays, Albany, N.Y., State University of
New York Press, 1994, pp. 111-137.
26. Per la letteratura sulla partecipazione, si veda Bay, C.: The Structure
of Freedom, Stanford, Stanford University Press, 1958; Idem, Strategies of
Political Emancipation, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981;
Pateman, C.: Participation and Democratic Theory, Cambridge, Cambridge
University Press, 1970; Pennock, J. R. e Chapman, J.W. (a cura di):
Participation in Politics, New York, Atherton, 1975; Barber, B.: Strong
Democracy: Participatory Politics for a New Age, Berkeley, University of
California Press, 1984. Per una critica della ideologia moderna
dell'intimita', si veda Sennett, R.: The Fall of Public Man, New York,
Random House, 1978; per la critica al mito dell'autenticita', si veda
Trilling, L.: Sincerity and Authenticity, Cambridge, Harvard University
Press, 1972.
27. Men in Dark Times, op. cit., p. 13.
28. Ibid., p. 16.
29. Ibid., p. 25.
30. Canovan, M.: "Politics as Culture", op. cit., p. 632.
31. On Revolution, op. cit., p. 253.
32. Pitkin, H. e Shumer, S.: "On Participation", Democracy, vol. 2, n. 4,
Fall 1992, pp. 43-54, in particolare pp. 47-48.
33. On Revolution, op. cit., p. 228; trad. it.: Sulla rivoluzione. Milano,
Edizioni di Comunita', 1983, p. 263, dove la Arendt sostiene che "l'opinione
pubblica e' la morte di tutte le opinioni", poiche' non e' il risultato di
una deliberazione pubblica tra cittadini che impiegano la loro ragione
freddamente e liberamente, ma il prodotto di sentimenti di massa che sono
oggetto di manipolazione e strumentalizzazione da parte delle autorita' e
dei mass-media.
34. Between Past and Future, op. cit., pp. 220-221; trad. it.: Tra passato e
futuro, op. cit., p. 239, dove la Arendt sostiene che il giudizio politico
"dovra' essere libero dalle 'condizioni private soggettive', cioe' dalle
idiosincrasie che determinano naturalmente l'opinione di ciascun individuo
nella sua vita privata e sono legittime solo se restano opinioni sostenute
in privato, mentre non sono adatte alla piazza del mercato, e perdono ogni
valore nell'ambito pubblico. Ora, questa mentalita' allargata, che in quanto
e' giudizio sa come trascendere le proprie limitazioni individuali, non puo'
d'altronde agire nel pieno isolamento e nella solitudine; richiede la
presenza di altri, per pensare 'al loro posto', per prenderne in
considerazione le prospettive, e senza i quali e' del tutto incapace di
agire. Come la logica, per essere valida, richiede la presenza del se',
cosi' il giudizio, per essere valido, richiede la presenza di altri"
(traduzione leggermente modificata).
35. On Revolution, op. cit., p. 227; trad. it.: Sulla rivoluzione, op. cit.,
p. 262.
36. Lasch, C.: "The Communitarian Critique of Liberalism", Soundings, vol.
69, n. 1-2, Spring-Summer 1986, p. 64.
37. Canovan, M.: "Politics as Culture: Hannah Arendt and the Public Realm",
op. cit., p. 634.
38. Ibid., p. 635.
39. Arendt, H.: "Freedom and Politics", in Hunold, A. (a cura di): Freedom
and Selfdom: An Anthology of Western Thought, Dordrecht, D. Reidel, 1961, p.
200.
40. Arendt, H.: "Public Rights and Private Interests", in Mooney, M. e
Stuber, F. (a cura di): Small Comforts for Hard Times: Humanists on Public
Policy, New York, Columbia University Press, 1977, pp. 103-108, a p. 104.
41. Nel saggio "Sulla violenza" la Arendt fornisce una chiara illustrazione
di questa tesi evidenziando il contrasto tra l'interesse pubblico di
ciascuno al mantenimento di una buona abitazione e l'interesse privato dei
proprietari e degli inquilini. A prima vista l'interesse di parte
"illuminato" dei proprietari e degli inquilini sembrerebbe lo stesso, ovvero
l'interesse a mantenere la casa in buono stato. In realta' questo non
avviene mai: l'interesse del proprietario consiste nell'ottenere un affitto
alto, mentre l'interesse dell'inquilino e' di pagare un affitto basso. La
risposta di un arbitro "illuminato", osserva la Arendt, "che nel lungo
periodo l'interesse dell'edificio e' il vero interese sia del padrone che
dell'inquilino, lascia fuori causa il fattore tempo, che e' della massima
importanza per tutti gli interessati. L'interesse di parte interessa una
sola parte, appunto, e questa muore o trasloca o vende la casa; a causa
della sua mutevole condizione, cioe' in ultima istanza a causa della
condizione dell'umana mortalita', l'io in quanto io non puo' pensare in
termini di interesse di lungo periodo, vale a dire l'interesse di un mondo
che sopravvive ai suoi abitanti... L'interesse di parte, quando gli si
chiede di cedere al 'vero' interesse - cioe' all'interesse del mondo in
quanto distinto dall'interesse di parte - rispondera' sempre: Vicina e' la
mia camicia, ma piu' vicina e' la mia pelle". Arendt, H.: "Sulla violenza",
in Politica e menzogna, Milano, SugarCo Edizioni, 1985, pp. 219-220.
42. Markus, M.: "The 'Anti-Feminism' of Hannah Arendt", Thesis Eleven, n.
17, 1987, pp. 76-87, a p. 85, dove l'autrice sostiene che per la Arendt
"l'azione e' autenticamente politica perche' e' motivata dalla
preoccupazione per il mondo e non per i propri interessi personali... Cio'
che la Arendt afferma in questo contesto e' che la politica consiste
principalmente non 'nell'avanzare pretese' ma prima di tutto nell'imparare
cosa significa 'condividere il mondo con gli altri'". (Ristampato in Kaplan,
G. T. e Kessler, C. S. (a cura di): Hannah Arendt: Thinking, Judging,
Freedom, Sydney, Allen & Unwin, 1989, pp. 119-129.
43. Arendt, H.: "Sulla violenza", in Politica e menzogna, op. cit., pp.
219-220.
44. Arendt, H.: "Public Rights and Private Interests", op. cit., p. 105.
45. Ibid., p. 106.
46. Thoreau, H. D.: "On the Duty of Civil Disobedience", citato in Arendt,
H.: "La disobbedienza civile", in Politica e menzogna, op. cit., p. 130.
47. Ibid., p. 131.
48. Ibid., p. 133.
49. La Arendt sosteneva che la moralita' della coscienza era troppo privata
e soggettiva per poter servire da criterio valido per l'azione politica.
Inoltre, essendo spesso formulata facendo appello a dei principi assoluti,
era inevitabilmente soggetta a distorsioni o a diventare distruttiva una
volta introdotta nella sfera pubblica. Al posto della coscienza la Arendt
difendeva il principio politico della cittadinanza attiva.
50. Arendt, H.: "On Hannah Arendt", in Hill, M. A. (a cura di): Hannah
Arendt: The Recovery of the Public World, New York, St. Martin's Press,
1979, p. 311.
51. Arendt, H.: "Thinking and Moral Considerations: A Lecture", Social
Research, vol. 38, n. 3, Autumn 1971, pp. 417-446, ristampato in Social
Research, vol. 51, n. 1, Spring 1984, pp. 7-37; trad. it.: "Pensiero e
riflessioni morali", in Arendt, H.: La disobbedienza civile e altri saggi,
Milano, Giuffre' Editore, 1985, pp. 113-152. Arendt, H.: The Life of the
Mind, vol. 1. New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978, pp. 190-193; trad.
it.: La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987.
52. Arendt, H.: The Life of the Mind, vol. 1, op. cit., p. 191; trad. it.,
op. cit., p. 287. Cfr. Politica e menzogna, op. cit., p. 133: "[Le] norme
della coscienza... sono - come quelle annunciate da Thoreau nel suo saggio -
completamente negative. Non dicono cosa fare; dicono cosa non fare. Non
elencano principi certi per agire; fissano confini che nessun atto dovrebbe
superare. Dicono: non fare il male, perche' poi dovrai vivere assieme a un
malfattore".
53. Arendt, H.: Politica e menzogna, op. cit., p. 132.
54. La differenza tra queste due motivazioni viene espressa dalla Canovan
nei termini dell'opposizione tra chi "guarda alla politica da un punto di
vista personale, e si domanda cosa richieda la propria coscienza, e chi
guarda alla politica da un punto di vista pubblico, e si chiede cosa
accadra' alla propria comunita', e che azione deve intraprendere per
promuovere il bene pubblico". Ella sostiene che per la Arendt la differenza
cruciale era tra "il vivere come individuo privato dotato di coscienza, e il
vivere assieme ad altri in un mondo pubblico verso il quale siamo tutti
responsabili congiuntamente". (Canovan, M.: "Politics as Culture: Hannah
Arendt and the Public Realm", op. cit., p. 638-639).
55. Pitkin, H. e Shumer, S.: "On Participation", op. cit., p. 47.
56. Canovan, M.: "A Case of Distorted Communication: A Note on Habermas and
Arendt", Political Theory, vol. 11, n. 1, February 1983, pp. 105-116, in
particolare pp. 111-112, dove la Canovan sostiene che per la Arendt "il
mondo pubblico e le sue istituzioni sono l'unico mezzo per mantenere unita
nella liberta' la pluralita' degli individui. Individui liberi non
condividono convinzioni comuni o una volonta' comune... Quello che possono
condividere non sono convinzioni che sono identiche all'interno di ognuna
delle loro menti individuali, ma un mondo comune di istituzioni che e'
esterno a loro e che essi mantengono in virtu' delle loro azioni... Essi
possono essere uniti... in quanto all'esterno nel mondo essi occupano il
medesimo spazio pubblico, riconoscono le sue regole formali, e sono pertanto
intenzionati a raggiungere un compromesso accettabile quando sorgono delle
divergenze... Dove esiste un impegno reciproco a preservare il medesimo
mondo comune, le divergenze possono essere risolte mediante mezzi puramente
politici".
(Parte seconda - Segue)

2. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: DI TORTE, DI DRAGHI E DI NOI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di
Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti,
Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza
velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli
2005]

Voglio fare una torta. Semplicissima, ho la ricetta: farina, uova, latte,
lievito, zucchero. Vi chiedo se volete aiutarmi a farla e se poi volete
condividerla quando sara' cotta a puntino. Qualcuno di voi dice di si',
altri dicono di no. A certi di voi la ricetta non va bene, ad esempio non
consumate uova per scelta o per necessita', e dite: "Non potrei mangiarla",
oppure: "Non solo non mangio uova, ma non posso avallare il fatto che altri
le mangino". Alcuni di voi che non mangiano uova per le medesime ragioni
dicono: "Non la consumero' con te, ma mi va bene aiutarti". Tutte queste
risposte, accettazioni o dinieghi, hanno il pregio di essere razionali,
sensate. Perche' la mia richiesta originaria, lo ribadisco, era: "Sto
facendo questo, vuoi farlo con me?".
Ma se a tale richiesta voi rispondete: "Dovresti preparare un souffle' di
piselli e tonno, affinche' io possa giudicare il tuo valore di cuoca. Quando
l'avro' giudicato decidero' se cucinare con te", oppure: "Come servira' una
torta a sopire il dispetto e il rancore di coloro che non sanno cucinare?
Devi avere una relazione con costoro, non metterti ad impastare farina e
chiedere a me di aiutarti". O ancora: "Il vero problema non e' preparare una
semplice torta, questo significa limitarsi in una posizione gastronomica
obsoleta e difensiva. Il vero problema e' perche' si mangia e bla bla
bla...". Queste risposte non sono ne' razionali, ne' sensate. Rispondono,
infatti, a questioni che io non ho posto. Quando insegno nei seminari come
rispondere agli attacchi verbali, fra di essi menziono tali tipi di repliche
come "rimpiazzare l'oggetto del discorso", detto anche "prendere
volontariamente fischi per fiaschi".
*
Il dibattito attorno alla manifestazione femminista del 14 gennaio ha
assunto in alcuni circoli le caratteristiche summenzionate. L'appello
chiede: vuoi fare questo con me, con noi? Per queste motivazioni e queste
altre? Voi potete dire si' o no e motivare quel si' o quel no, ma quando
dite "non si tratta di difendere la legge" state rispondendo a qualcosa
d'altro, perche' cio' che vi e' stato chiesto e' (anche) di difendere una
legge.
Da una decina d'anni, ovvero da quando qualcuna ha deciso motu proprio che
il patriarcato era morto e sepolto e si e' messa a fare salti di gioia, ad
ogni clamorosa indegnita' reale, promossa voluta e perpetrata dal
patriarcato stesso, si e' risposto piu'  o meno: 'Sono i colpi di coda del
drago morente".
Scusate, io sono ignorante come una servetta di Tracia, per quanto non
altrettanto garbata e graziosa, e vorrei apprendere dalle sapienti quanto ci
mettera' il drago a tirare le cuoia. Nel frattempo, quello che so e' che
continua a lanciarsi nelle fauci fanciulle, donne, bambine, madri, anziane e
tritura fra le sue capienti mascelle pure ragazzi e uomini di tutte le eta'.
Quello che so e' che se non posso (e non e' umanamente possibile)
raggiungere un nuovo mondo amabile e gentile con un balzo solo, posso
tentare di rendere piu' decente questo mondo in piccole cose. Per esempio,
attaccandomi a un corpo o a un oggetto che il drago sta tentando di
ingoiare, e tirando dall'altra parte. Ci sono milioni di altre cose da fare,
e chi lo nega? Da ogni punto dello stare insieme su un'istanza si puo'
rilanciare e osare un passo piu' in la'.
Apprezzo molto il sogno grande, che da' calore e nutrimento a quelli piu'
piccoli e immediatamente praticabili. Ma la vita stessa vuole che io mi
occupi oggi dell'acqua da prendere al pozzo, senza la quale neanche i
filosofi possono continuare ad esistere e a contare le stelle, e senza la
quale neppure io posso impastare la mia torta.

3. MONDO. GIULIANA SGRENA: LA FORTEZZA DEL MALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2006, che apriva la prima
pagina con il seguente titolo principale (che reca la notizia che
l'editoriale-testimonianza di Giuliana Sgrena commenta): "Guantanamo si
trasferisce in Afghanistan, a spese dell'Italia. Gli Usa hanno deciso che la
nuova prigione afghana di Pol-e Charki, destinata ai trafficanti d'oppio, e'
perfetta per i 'terroristi' chiusi senza processo nel discusso carcere a
Cuba. Il penitenziario e' stato ricostruito dall'Onu, Roma ci ha gia' speso
un milione di dollari. Washington ringrazia".
Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e
pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane
dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande
importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe,
durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A
Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo,
sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in
cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo
liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La
schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i
califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma
2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli,
Milano 2005]

Vi ricordate la fortezza Bastiani de "Il deserto dei tartari"? Era
l'avamposto della civilta' durante la lunga attesa dell'avanzata del nemico.
Nel novembre del 2001, avvicinandomi alla prigione di Pol-e Charki in pieno
deserto, a pochi chilometri da Kabul, l'impressione era quella di trovarsi
di fronte alla leggendaria fortezza. Ma la triste realta' che appariva ai
nostri occhi, appena usciti dal letto di un fiume che aveva sostituito la
strada dopo i bombardamenti americani, spegneva ogni residua fantasia. Il
famigerato carcere costruito in mattoni e fango si distingueva a malapena
dietro la cortina di sabbia dello stesso colore.
Ai tempi dei taleban serviva soprattutto a rinchiudere chi contravveniva
alle regole religiose imposte dai fanatici studenti di teologia. Chi veniva
trovato con i capelli troppo lunghi, la barba corta, chi non andava in
moschea o ascoltava musica veniva rinchiuso in una delle celle sovraffollate
dell'enorme fortezza. Le milizie religiose si occupavano poi di torturare e
seviziare i detenuti. Anche Hussein, l'autista che mi accompagnava, era
stato rinchiuso due volte: una per la barba corta e l'altra perche' era
stato trovato con una cassetta di musica. Ma nel novembre del 2001 il
carcere era vuoto: la popolazione aveva approfittato della recente fuga dei
taleban per liberare tutti i prigionieri. Lo spettacolo era comunque
raccapricciante: nelle celle i resti di coperte, medicine, cibo - che doveva
essere fornito dai parenti -, carte, sporcizie di ogni tipo, i segni delle
punizioni corporali imbrattavano ancora i muri.
Un luogo maledetto, fin dai tempi dell'occupazione sovietica, e rimasto tale
anche dopo la partenza dei taleban. Il carcere e' stato ricostruito ma la
violazioni non sono cessate. Prima ancora del prossimo arrivo dei detenuti
da Guantanamo, Pol-e Charki ne era gia' una succursale. Era stato un inviato
dell'Onu, Sharif Bassiouni, a criticare in un suo rapporto dell'ottobre 2004
le deplorevoli condizioni di detenzione di 734 pachistani e afghani
incarcerati illegalmente per 30 mesi. Ma Bassiouni e' stato fatto fuori
perche' uomo troppo scomodo e Pol-e Charki continuera' ad essere un
avamposto di incivilta'.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1171 del 10 gennaio 2006

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