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La nonviolenza e' in cammino. 1170
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1170
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 9 Jan 2006 04:19:52 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1170 del 9 gennaio 2006 Sommario di questo numero: 0. Comunicazione di servizio 1. Maurizio Passerin d'Entreves: La teoria della cittadinanza nella filosofia politica di Hannah Arendt (parte prima) 2. Giulio Vittorangeli: Una nuova politica estera 3. Marina Forti: Guantanamo afghana, fondi italiani 4. Daniele Barbieri presenta "Italiani, brava gente?" di Angelo Del Boca 5. Giobbe Santabarbara: Una cosa che sappiamo tutti 6. La "Carta" del Movimento Nonviolento 7. Per saperne di piu' 0. COMUNICAZIONE DI SERVIZIO Si sono verificati nei giorni scorsi problemi tecnici al server che gestisce la mailing list di distribuzione del nostro notiziario. Ci scusiamo con i lettori e le lettrici per tutti gli eventuali disguidi che possano esserne conseguiti. Speriamo che da oggi tutto torni a funzionare regolarmente. 1. RIFLESSIONE. MAURIZIO PASSERIN D'ENTREVES: LA TEORIA DELLA CITTADINANZA NELLA FILOSOFIA POLITICA DI HANNAH ARENDT (PARTE PRIMA) [Dal sito http://utenti.lycos.it/arendt1976/ riprendiamo il seguente testo, di cui li' si segnala che fu presentato come working paper n. 102 a Barcellona nel 1995 (non abbiamo avuto modo di verificare se sia - come e' ragionevole supporre - lo stesso testo apparso col medesimo titolo nella rivista "Teoria politica", 11 (2), 1995, alle pp. 83-107). Maurizio Passerin d'Entreves, acuto studioso di filosofia politica, insegna all'Universita' di Manchester ed e' autore di rilevanti saggi. Tra le opere di Maurizio Passerin d'Entreves: The Political Philosophy of Hannah Arendt, Routledge, London - New York 1994. Hannah Arendt e' nata ad Hannover da famiglia ebraica nel 1906, fu allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers; l'ascesa del nazismo la costringe all'esilio, dapprima e' profuga in Francia, poi esule in America; e' tra le massime pensatrici politiche del Novecento; docente, scrittrice, intervenne ripetutamente sulle questioni di attualita' da un punto di vista rigorosamente libertario e in difesa dei diritti umani; mori' a New York nel 1975. Opere di Hannah Arendt: tra i suoi lavori fondamentali (quasi tutti tradotti in italiano e spesso ristampati, per cui qui di seguito non diamo l 'anno di pubblicazione dell'edizione italiana, ma solo l'anno dell'edizione originale) ci sono Le origini del totalitarismo (prima edizione 1951), Comunita', Milano; Vita Activa (1958), Bompiani, Milano; Rahel Varnhagen (1959), Il Saggiatore, Milano; Tra passato e futuro (1961), Garzanti, Milano; La banalita' del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano; Sulla rivoluzione (1963), Comunita', Milano; postumo e incompiuto e' apparso La vita della mente (1978), Il Mulino, Bologna. Una raccolta di brevi saggi di intervento politico e' Politica e menzogna, Sugarco, Milano, 1985. Molto interessanti i carteggi con Karl Jaspers (Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, Feltrinelli, Milano 1989) e con Mary McCarthy (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy 1949-1975, Sellerio, Palermo 1999). Una recente raccolta di scritti vari e' Archivio Arendt. 1. 1930-1948, Feltrinelli, Milano 2001; Archivio Arendt 2. 1950-1954, Feltrinelli, Milano 2003; cfr. anche la raccolta Responsabilita' e giudizio, Einaudi, Torino 2004. Opere su Hannah Arendt: fondamentale e' la biografia di Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1994; tra gli studi critici: Laura Boella, Hannah Arendt, Feltrinelli, Milano 1995; Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli, Roma 1996; Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Donzelli, Roma 1995; Simona Forti, Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1996; Simona Forti (a cura di), Hannah Arendt, Milano 1999; Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Manifestolibri, Roma 1994; Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, Giuntina, Firenze 2001. Per chi legge il tedesco due piacevoli monografie divulgative-introduttive (con ricco apparato iconografico) sono: Wolfgang Heuer, Hannah Arendt, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1987, 1999; Ingeborg Gleichauf, Hannah Arendt, Dtv, Muenchen 2000] Nel corso dell'ultimo decennio si e' verificato un importante dibattito nell'ambito della filosofia politica anglo-americana tra teorici liberali, come John Rawls e Ronald Dworkin, e i loro critici comunitari, come Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Charles Taylor e Michael Walzer, che ha avuto come oggetto una serie di assunti fondamentali della teoria politica liberale. In particolare, il dibattito si e' focalizzato sulla concezione liberale della persona, sulla priorita' del giusto sul bene, sullo scopo e i limiti della giustizia distributiva, e sulla concezione della comunita'. Il nome di Hannah Arendt e' stato spesso chiamato in causa dai critici comunitari del liberalismo in virtu' del fatto che ella aveva proposto una visione della politica radicalmente opposta ai principi del liberalismo. Esistono molti aspetti del pensiero politico della Arendt che si prestano a questa lettura, in particolare, la sua critica della democrazia rappresentativa, la sua enfasi sull'impegno civico e la deliberazione politica tra i cittadini, la separazione della moralita' dalla politica, e il suo elogio della tradizione rivoluzionaria. Collocare il pensiero della Arendt nel coro crescente delle critiche comunitarie al liberalismo sarebbe, tuttavia, un errore. La Arendt fu in realta' una severa difensora del costituzionalismo e del governo della legge (rule of law), una sostenitrice dei diritti fondamentali dell'individuo (tra cui includeva non solo il diritto alla vita, alla liberta' di movimento, di fede e di espressione, ma anche il diritto all'azione e all'opinione), e una critica di tutte le forme di comunita' politica fondate sui vincoli del costume o della tradizione, o basate su identita' religiose, etniche o razziali. Il pensiero politico della Arendt non puo', in questo senso, essere identificato ne' con la tradizione liberale ne' con le tesi avanzate da certi critici comunitari, in particolare MacIntyre e Sandel. La Arendt non concepisce la politica come uno strumento per la soddisfazione di preferenze individuali, ne' come un modo per integrare gli individui attorno a una singola o esclusiva concezione del bene. La sua concezione della politica si basa piuttosto sull'idea della cittadinanza attiva, ovvero sul valore e l'importanza dell'impegno civico e della deliberazione collettiva riguardo a tutte le questioni che concernono la comunita' politica. La tradizione di pensiero politico con la quale la Arendt si identifica e' quella dell'umanesimo civico, rinvenibile negli scritti di Aristotele, Machiavelli, Montesquieu, Jefferson e Tocqueville. Secondo questa tradizione la politica trove la sua autentica espressione ogni volta che i cittadini si riuniscono in uno spazio pubblico per deliberare e decidere su questioni riguardanti l'intera collettivita'. Il valore dell'attivita' politica non risiede nel raggiungimento dell'accordo su una concezione condivisa del bene, ma nella possibilita' che offre a ciascun individuo di esercitare attivamente i suoi poteri e diritti di cittadinanza, di sviluppare le capacita' di giudizio politico, e di conseguire mediante l'azione collettiva un certo grado di efficacia e influenza politica. La concezione della politica della Arendt, con la sua enfasi sull'impegno civico e sulla libera deliberazione politica, appartiene chiaramente a questa tradizione di pensiero politico. La sua concezione dell'azione e del discorso politico ha come scopo primario la riattivazione della partecipazione politica, e identifica le condizioni per l'esercizio della cittadinanza attiva e dell'autodeterminazione democratica. * In questo saggio esaminero' la teoria della cittadinanza della Arendt e ne mostrero' i rapporti con alcuni dei principali temi della sua filosofia politica. In particolare, cerchero' di ricostruire la sua teoria della cittadinanza attorno a tre temi: 1) la sfera pubblica; 2) la "agency" politica e l'identita' collettiva; e 3) la cultura politica. Spero in questo modo di dimostrare che, malgrado certe tensioni presenti nella filosofia politica della Arendt, molti dei suoi argomenti sono degni di attenzione e possono fornire la base per una concezione democratica, partecipatoria ed egualitaria della cittadinanza. Iniziero' con l'esaminare la relazione tra cittadinanza e sfera pubblica. * 1. Cittadinanza e sfera pubblica Una delle caratteristiche principali dell'eta' moderna per la Arendt e' la perdita o il declino della sfera pubblica. La sfera pubblica designa quella sfera della presenza dove regnano la liberta' e l'eguaglianza, dove i cittadini interagiscono mediante il discorso e la persuasione, rivelano la propria identita', e decidono per mezzo della deliberazione collettiva di questioni di interesse pubblico. La perdita o l'erosione della sfera pubblica e' collegata a un fenomeno piu' vasto che la Arendt designa col termine "perdita del mondo" (loss of the world) o "alienazione dal mondo" (world alienation). Con questa espressione la Arendt allude alla perdita di un mondo comune, creato dall'uomo e composto di oggetti, artefatti e istituzioni, che ci separa dalla natura e che fornisce un contesto relativamente permanente e durevole alle nostre attivita' mondane. Con la perdita o l'erosione di questo mondo comune viene a mancare quella struttura stabile da cui deriviamo, in parte, il nostro senso della realta' e la nostra identita' personale; inoltre, viene a mancare quello sfondo di pratiche e istituzioni da cui puo' sorgere uno spazio pubblico per l'azione e la deliberazione politica. Per la Arendt, quindi, la rivitalizzazione della sfera pubblica, della sfera nella quale puo' fiorire la pratica della cittadinanza, richiede sia il recupero di un mondo comune condiviso (ovvero il superamento dell'alienazione dal mondo), sia la creazione di numerosi spazi della presenza nei quali gli individui possono rivelare la propria identita' e stabilire rapporti basati sulla reciprocita' e la solidarieta'. Ora, se consideriamo la definizione di sfera pubblica fornita dalla Arendt vediamo che essa gia' contiene queste due dimensioni, in quanto fa riferimento sia allo spazio della presenza, sia al mondo che abbiamo in comune. * Secondo il primo significato, la sfera pubblica e' quello spazio dove ogni cosa che appare "puo' essere vista e sentita da tutti e ha la piu' ampia pubblicita' possibile. Per noi, cio' che appare - che e' visto e sentito da altri come da noi stessi - costituisce la realta'. Raffrontate con la realta' che viene dall'essere visto e udito, anche le piu' grandi forze della vita intima - le passioni del cuore, i pensieri della mente, i piaceri dei sensi - caratterizzano un tipo di esistenza incerta e nebulosa fino a quando non vengano trasformate, deprivatizzate e deindividualizzate, per cosi' dire, in una configurazione che le adegui all'apparire pubblico... La presenza di altri che vedono cio' che vediamo e odono cio' che udiamo ci assicura della realta' del mondo e di noi stessi" (1). In questo spazio della presenza le esperienze possono essere condivise, le azioni giudicate, e le identita' rivelate. La Arendt sostiene infatti che "Poiche' la nostra sensibilita' nei confronti della realta' si fonda soprattutto sull'apparire e quindi sull'esistenza di un dominio pubblico in cui le cose possono emergere dall'oscurita' dell'esistenza latente, anche il barlume che illumina le nostre vite private e intime deriva in ultima analisi dalla luce molto piu' forte del dominio pubblico" (2). E come sottolineo' nella prefazione a Men in Dark Times, domandandosi se in certi periodi della storia non e' meglio dire che "La luce del pubblico oscura ogni cosa" (Das Licht der Oeffentlichkeit verdunkelt alles): "Se la funzione dello spazio pubblico e' quella di gettar luce sugli affari degli uomini grazie alla creazione uno spazio dell'apparenza nel quale essi possono mostrare negli atti e nelle parole, nel meglio e nel peggio, chi sono e quello che possono fare, allora l'oscurita' e' arrivata quando questa luce viene estinta da 'l'assenza di credibilita'' e dal 'governo invisibile', da discorsi che non rivelano cio' che e' ma lo nascondono sotto il tappeto, da esortazioni, morali o di altro tipo, che con la pretesa di difendere le vecchie verita', riducono tutta la verita' a una trivialita' senza senso" (3). In questo senso la sfera pubblica come spazio della presenza fornisce la luce e la "pubblicita'" necessarie per la conferma della nostra identita' pubblica, per il riconoscimento di una realta' comune, e per la valutazione delle azioni degli altri. Per la Arendt, lo spazio della presenza viene creato ogni volta che gli individui si riuniscono per motivi politici, cioe' "ovunque gli uomini sono insieme nelle modalita' del discorso e dell'azione", e in questo senso esso "anticipa e precede tutta la costituzione formale del dominio pubblico e delle varie forme di governo" (4). Questo spazio non e' ristretto a delle istituzioni o a dei luoghi e contesti specifici; esso viene creato tutte le volte che l'azione viene coordinata mediante il linguaggio e la persuasione ed e' orientata verso il conseguimento di scopi collettivi. Tuttavia, poiche' e' un prodotto dell'azione e della discussione collettiva, lo spazio della presenza e' assai fragile e si attualizza solo nei momenti di azione e deliberazione comune. La sua peculiarita', scrive la Arendt, e' che "diversamente dagli spazi che sono opera delle nostre mani, non sopravvive all'attualita' del movimento che lo crea, ma scompare non solo con il disperdersi degli uomini - come nel caso di grandi catastrofi, che distruggono il corpo politico di un popolo - ma con la stessa scomparsa o l'arresto delle attivita'. Esso e' potenzialmente ovunque le persone si raccolgono insieme, ma solo potenzialmente, non necessariamente e non per sempre" (5). Lo spazio della presenza deve quindi essere continuamente ricreato tramite l'azione e il discorso; la sua realta' e' assicurata ogni volta che gli attori si riuniscono con lo scopo di discutere e deliberare su questioni di interesse pubblico, e scompare nel momento in cui queste attivita' cessano. E' quindi sempre uno spazio potenziale che trova la sua realizzazione nelle azioni e nei discorsi di individui che si riuniscono per intraprendere dei progetti comuni. Puo' sorgere all'improvviso, come nel caso di eventi rivoluzionari, o si puo' formare progressivamente come risultato degli sforzi di modificare un atto legislativo o di politica sociale, per esempio, salvare una costruzione storica o un parco naturale, estendere il sostegno pubblico per la casa e la sanita', proteggere i gruppi minoritari dalla discriminazione e dall'oppressione, lottare per il disarmo nucleare, e cosi' via. Storicamente, questo spazio e' stato ricreato tutte le volte che sono stati istituiti degli ambiti pubblici di azione e deliberazione collettiva, dalle assemblee civiche ai consigli operai, dalle dimostrazioni e occupazioni alle lotte per la giustizia e la parita' dei diritti. * Il secondo significato che la Arendt attribuisce alla sfera pubblica, cio' che fornisce un sostegno allo spazio della presenza e indica all'azione i suoi scopi precipui, e' il mondo, o piu' precisamente, il mondo che abbiamo in comune. Questo e' il mondo che "e' comune a tutti e distinto dallo spazio occupato privatamente da ciascuno" (6). Esso non si identifica con la terra o con la natura; si identifica, piuttosto, "con l'artefatto umano, il prodotto delle mani dell'uomo, come con i rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo costruito dall'uomo" (7). Pertanto, "Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo e' situato tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-tra, mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo" (8). La sfera pubblica, intesa come mondo che abbiamo in comune "ci raccoglie insieme e tuttavia ci impedisce, per cosi' dire, di caderci addosso a vicenda. Cio' che rende la societa' di massa cosi' difficile da sopportare non e'... il numero delle persone implicate, ma il fatto che il mondo che sta tra di loro ha perduto il suo potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di separarle" (9). Nello stabilire uno spazio tra gli individui, un "in-tra" che li unisce e li divide allo stesso tempo, il mondo fornisce il contesto fisico all'interno del quale l'attivita' politica puo' fiorire. Inoltre, in virtu' della sua permanenza e stabilita', il mondo fornisce il contesto temporale nel quale le vite dei singoli individui possono dispiegarsi e, una volta che siano state preservate in una narrativa, acquisire una certa immortalita'. Come scrive la Arendt: "il mondo comune e' cio' in cui noi entriamo quando nasciamo e cio' che lasciamo dietro di noi alla morte. Esso trascende il nostro arco di vita tanto nel passato che nel futuro; esso esisteva prima che noi vi giungessimo e continuera' dopo il nostro breve soggiorno in esso. E' cio' che noi abbiamo in comune non solo con quelli che vivono con noi, ma anche con quelli che c'erano prima e con quelli che verranno dopo di noi. Ma un tale mondo comune puo' superare il ciclo delle generazioni solo nella misura in cui appare in pubblico" (10). E' questa capacita' degli artefatti e delle istituzioni umane, del mondo che abbiamo in comune, di durare nel tempo e di diventare l'eredita' comune di successive generazioni, che permette agli individui di sentirsi a casa nel mondo e di trascendere, seppure parzialmente, la transitorieta' della loro esistenza (11). In effetti, senza un criterio di stabilita' e permanenza offerto dal mondo, "[la] vita non potrebbe mai essere umana" (12). "Un mondo durevole e permanente e' cio' di cui l'uomo, proprio in quanto essere mortale, ha bisogno: in quanto, cioe', e' la creatura piu' effimera e vana che si conosca" (13). Per la Arendt, quindi, la transitorieta' della vita puo' essere parzialmente superata attraverso la costruzione di un mondo durevole e stabile che permetta l'esercizio del ricordo e della anticipazione, ovvero, della memoria e della fiducia nel futuro. Come ella stessa afferma: "La vita nel suo senso non-biologico, lo spazio di tempo che ha ogni uomo fra la nascita e la morte, si manifesta in azione e discorso, i quali dividono con la vita la sua essenziale futilita'. 'Compiere grandi gesta e pronunciare grandi parole' non lascera' nessuna traccia, nessun prodotto che possa durare dopo che il momento dell'azione e del discorso e' passato... [se] il mondo delle cose fatte dall'uomo, la sfera artificiale edificata dall'homo faber, [non] diventa una dimora per gli uomini mortali" (14). E' per questa ragione, la Arendt continua, che "Se l'animal laborans ha bisogno dell'aiuto dell'homo faber per alleggerirlo dal suo lavoro e sollevarlo dalla sua pena, e se i mortali ne hanno bisogno per edificare una casa sulla terra, gli uomini che parlano e agiscono hanno bisogno dell'homo faber nella sua veste piu' elevata, dell'artista, dei poeti e degli storiografi, dei costruttori di monumenti o degli scrittori, perche' senza di essi il solo prodotto della loro attivita', la vicenda che interpretano e raccontano, non potrebbe sopravvivere" (15). La caducita' umana puo' cosi' essere in parte trascesa dalla durabilita' del mondo e dal ricordo pubblico delle vicende umane. Costruendo e preservando un mondo che congiunge le varie generazioni e che rende possibile forme di memoria collettiva, siamo in grado di "assorbire e far risplendere attraverso i secoli qualsiasi cosa gli uomini abbiano voluto salvare dalla rovina naturale del tempo" (16). Il concetto di sfera pubblica si riferisce, dunque, sia a un mondo comune stabile e duraturo nel tempo, sia a qualcosa che e' molto piu' fragile e transitorio, lo spazio della presenza che sorge ogni volta che gli individui interagiscono mediante il discorso e la persuasione. La Arendt sottolinea che il mondo e le attivita' che si svolgono nella sfera pubblica sono necessarie per la costituzione di una vibrante vita politica; il mondo e le attivita' pubbliche sono a loro volta in un rapporto di reciproca dipendenza. Come ella scrive: "Se non entrasse nei discorsi degli uomini e non costituisse il loro orizzonte, il mondo non sarebbe un artificio umano ma un ammasso di cose irrelazionate... senza un mondo dell'artificio umano, le faccende umane sarebbero fluttuanti, futili e vane come il vagabondare di tribu' nomadi. La saggezza malinconica dell'Ecclesiaste - 'Vanita' delle vanita'; tutto e' vanita''... e' certamente inevitabile ovunque e ogni volta che sia cessata la fiducia nel mondo come luogo adatto alla presenza umana, all'azione e al discorso" (17). * Note 1. Arendt, H.: The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958, p. 50; trad. it.: Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 56. 2. Ibid., p. 51; trad. it., p. 57. 3. Arendt, H.: Men in Dark Times. New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1968, p. VIII. 4. Arendt, H.: The Human Condition, op. cit., p. 199; trad. it., op. cit., p. 211. 5. Ibid., p. 199; trad. it., pp. 211-212. 6. Ibid., p. 52; trad. it., p. 58. 7. Ibid., p. 52; trad. it., pp. 58-59 (traduzione leggermente modificata). 8. Ibid., p. 52; trad. it., p. 59. 9. Ibid., pp. 52-53; trad. it., p. 59. 10. Ibid., p. 55; trad. it., pp. 61-62. 11. Cfr. ibid., p. 173; trad. it., p. 183, dove la Arendt sostiene che: "Il mondo delle cose fatte dall'uomo, la sfera artificiale edificata dall'homo faber, diventa una dimora per gli uomini mortali, che si manterra' stabile e sopravvivera' all'alternarsi delle loro vite e azioni, solo in quanto trascenda sia il mero funzionalismo delle cose prodotte per il consumo che la mera utilita' degli oggetti prodotti per l'uso". 12. Ibid., p. 135; trad. it., p. 141. 13. Arendt, H.: Between Past and Future, New York, Viking Press, 1968, p. 95; trad. it.: Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970, p. 105 (traduzione leggermente modificata). 14. The Human Condition, op. cit., p. 173; trad. it., op. cit., p. 183 (traduzione leggermente modificata). 15. Ibid., p. 173; trad. it., p. 183 (traduzione leggermente modificata). 16. Ibid., p. 55; trad. it., p. 62. 17. Ibid., p. 204; trad. it., p. 217. Cfr. Men in Dark Times, op. cit., pp. 24-25, dove la Arendt sostiene che il discorso umanizza il mondo e allo stesso tempo ci rende umani: "Il mondo comune rimane 'inumano' nel senso letterale della parola se non viene costantemente parlato dagli uomini. Il mondo, infatti, non e' umano solo perche' e' fatto dagli esseri umani, e non diventa umano solo perche' la voce umana vi risuona, ma solo quando diventa l'oggetto del discorso... Tutto cio' che non diventa oggetto di discorso... puo' trovare una voce umana che lo faccia risuonare nel mondo, ma non e' veramente umano. Noi umanizziamo cio' che accade nel mondo e a noi stessi solo quando ne parliamo, e nel fare cio' impariamo a essere umani". (Parte prima - Segue) 2. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI. UN NUOVO PROGRAMMA DI POLITICA ESTERA [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] In un toccante documento scritto da reduci delle forze armate degli Stati Uniti ai militari effettivi ed ai riservisti (pubblicato dalla rivista "Marea", n. 4/2005), si legge: "Non c'e' onore nell'omicidio. Questa guerra e' un omicidio detto in altri termini. Quando in una guerra ingiusta una bomba vagante colpisce una madre con la sua bambina, non e' un 'danno collaterale', e' un omicidio. Quando in una guerra ingiusta un bambino muore per dissenteria perche' una bomba ha danneggiato l'impianto di trattamento delle acque di scolo, non si tratta di un'azione di 'distruzione delle infrastrutture nemiche', ma di omicidio. Quando in una guerra ingiusta un padre muore di infarto perche' una bomba ha distrutto le linee telefoniche impedendogli di chiamare i soccorsi, non si tratta di 'annientamento dei servizi di comando e di controllo', ma di omicidio. Quando in una guerra ingiusta piu' di mille soldati di leva provenienti dalla campagna muoiono in una trincea nel tentativo di difendere la citta' dove sono nati e cresciuti, non e' 'vittoria', ma omicidio". * Tutto questo e' drammaticamente vero, ma se guardiano alla politica estera italiana, non vediamo nessuna svolta (neanche nell'attuale opposizione di centrosinistra che si candida a sostituire il governo Berlusconi), per uscire dal sistema di guerra e ripudiare concretamente la guerra con vere politiche di disarmo. Leggendo il generico programma dell'Unione e le interviste rilasciate dai suoi leader, in sintesi abbiamo una politica di continuita' del sistema di guerra e di alleanze, con qualche misero correttivo. Per elaborare un programma di politica estera realmente alternativo a quello del governo di centrodestra, il centrosinistra non puo', per esempio, limitarsi a promettere il ritiro delle truppe dall'Iraq, tra l'altro con modalita' tali da rimandarlo all'infinito aspettando luce verde da Washington, esattamente come fa in questi giorni Berlusconi. Cosi' il centrosinistra non perde occasione per confermare la presenza di truppe italiane in Afghanistan come se quella non fosse una guerra, ma un conflitto dalla "natura diversa". E non perde occasione per rivendicare la sua guerra, quella "buona" e "umanitaria" contro l'ex Jugoslavia, senza interrogarsi sul disastro che in questi quasi sette anni ne e' seguito fino all'attuale caos e impasse. Sembra quindi evidente che intenda proseguire nell'attuale modello di difesa, che prevede la proiezione di potenza europea con le missioni oltreconfine e le "guerre di sicurezza" magari targate Onu. Perche', come dice Prodi, occorre definire quali tipi di intervento armato possano essere considerati giustificati, e il metodo piu' ovvio e' quello che fa dipendere la legittimita' dall'approvazione dell'Onu. In una parola rifiutando il vero interrogativo: se e' giusto che l'Italia resti nel solco delle guerre americane, o scelga fino in fondo la pace iscritta nella propria Costituzionale. Il problema e' tutto qui, nel fatto che nessuno s'interroga sul ritiro piu' profondo e necessario: quello dalla guerra. * Quanto al movimento contro la guerra che in questi quattro anni ha espresso in numerose occasioni politiche una chiara visione della politica estera italiana e del ruolo di guerra dell'Italia, oggi avverte una fase di inevitabile stanchezza e riflusso, "la tentazione che ha preso la maggioranza degli e delle attiviste, [e' quella] di delegare in questa fase alla 'politica' le azioni e le decisioni, sperando che finalmente, dopo tante lotte e movimentazioni, i rappresentanti della sinistra siano finalmente disponibili o meno restii a dare corso alle richieste del movimento. Ma la realta' invece ci delude. Nel dilemma se delegare ai nostri leader politici o rilanciare la nostra iniziativa e autoorganizzazione, credo che sia una urgente necessita' scegliere la seconda strada, perche' a quanto pare se oggi riflettiamo sul programma dell'Unione e su come e da chi verra' attuato, non possiamo che ritrovarci a mani vuote o con qualche briciola in mano insieme a tanta retorica e fumo negli occhi" (Nella Ginatempo). E' questa la sfida reale che spetta a tutti quelli che cercano faticosamente non solo di opporsi, ma di costruire un mondo che non sia solo saccheggio, profitto, supremazia economica e soprattutto guerra. 3. MONDO. MARINA FORTI: GUANTANAMO AFGHANA, FONDI ITALIANI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 gennaio 2006. Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera. Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004] Il governo italiano ha contribuito in modo generoso alla riforma penitenziaria in Afghanistan, e in particolare a un progetto di ristrutturazione delle carceri di Kabul per migliorarvi le condizioni di detenzione: un milione di dollari, gia' stanziato per rimodernare il vecchio carcere di Pol-e Charki, vecchia struttura di epoca sovietica. Nelle intenzioni delle Nazioni Unite, il carcere cosi' rinnovato sara' il modello a cui dovranno adeguarsi tutte le prigioni afghane, nel rispetto degli standard minimi internazionali sul trattamento dei detenuti. Belle parole, che si leggono nei documenti delle Nazioni Unite e anche del nostro ministero degli esteri. La realta' e' che con i soldi del contribuente italiano il carcere di Pol-e Charki sta per diventare un nuovo carcere di massima sicurezza dove trasferire parte dei detenuti della base navale americana di Guantanamo: un'altra delle prigioni speciali degli Stati Uniti nel quadro della "guerra al terrorismo". La notizia che gli Usa preparano una "Guantanamo 2" in Afghanistan e' stata pubblicata giovedi' dal quotidiano britannico "Financial Times" (e ripresa ieri da molti quotidiani). Il progetto e' trasferire i prigionieri di origine afghana in Afghanistan, in modo da allentare le critiche che piovono da piu' parti sull'amministrazione Usa per il fatto di mantenere centinaia di persone agli arresti senza accuse precise. * A Guantanamo sono entrate circa 750 persone dai primi mesi del 2002, per lo piu' prese prigioniere in Afghanistan durante e subito dopo i bombardamenti che portarono al crollo del regime dei Taleban nell'autunno 2001: "nemici combattenti", secondo l'amministrazione di Washington, che ha rifiutato di riconoscere loro i diritti riconosciuti dalle Convenzioni di Ginevra sui prigionieri di guerra. Solo nel 2005, dopo un ordine della Corte Suprema, sono cominciate audizioni per definire lo status e le accuse dei detenuti. Molti sono allora risultati detenuti "per errore". Ad agosto scorso 510 persone erano ancora detenute a Guantanamo; 167 erano state rilasciate (senza imputazioni ne' una parola di scuse), 67 trasferite alla custodia di altri governi. Sempre in agosto il governo Usa aveva annunciato che 110 dei restanti detenuti di Guantanamo, afghani, saranno presto trasferiti in Afghanistan. Le forze Usa hanno gia' i loro detenuti "speciali" in Afghanistan: circa 500 persone, rinchiuse senza accuse o processo nella base aerea di Bagram vicino a Kabul o in quella di Kandahar nel sud, piu' un numero imprecisato di persone in carceri segrete sparse per il paese, come sospetti terroristi. Per trasferire i prigionieri di Guantanamo dunque gli Usa hanno bisogno di un luogo apposito in Afghanistan, di massima sicurezza. E questo nuovo carcere speciale, rivela il "Financial Times", sara' appunto Pol-e Charki. Il quotidiano afferma che le Nazioni Unite e l'Unione Europea hanno resistito al piano americano di farne un carcere per sospetti di terrorismo: ma il mese scorso il Corpo genieri dell'esercito Usa ha annunciato un appalto per la costruzione di celle di massima sicurezza proprio a Pol-e Charki, segno che alla fine e' prevalsa la volonta' degli americani. * La ristrutturazione del carcere, avviata la primavera scorsa dalle Nazioni Unite, fa parte di un progetto piu' generale per la ricostruzione del sistema giudiziario in Afghanistan. La responsabilita' di guidare questo capitolo della ricostruzione e' stata affidata all'Italia, che dunque sta coordinando il lavoro: dalla riscrittura dei codici di procedura penale e civile, un codice minorile, la creazione di "corti itineranti", una legge appena approvata sui diritti dei detenuti, la formazione di giudici e avvocati - fino alla riabilitazione della Corte d'Appello e delle carceri di Kabul, e poi delle carceri provinciali. Per questo Roma ha stanziato in tutto 22 milioni di euro negli ultimi tre anni. E' uno degli aspetti migliori dell'impegno internazionale, almeno in teoria: si pensi che oltre meta' degli afghani non ha accesso alla giustizia, si legge su "Irin News" (bollettino umanitario delle Nazioni Unite), e che "nelle prigioni di Kabul ci sono persone detenute da molti anni senza sentenza, e nella prigione femminile ci sono donne 'criminali' secondo la tradizione, ma non secondo la costituzione", riconosce il ministro della giustizia afghano Ghulam Sarwar Danish. La ristrutturazione delle carceri in particolare e' stata chiesta dall'Unodc, il programma Onu per la lotta alla droga e al crimine: riguarda Pol-e Charki, il carcere maschile di Kabul, e il centro di detenzione femminile presso la sede centrale della polizia. Per il blocco 1 di Pol-e Charki sono stati stanziati due milioni di dollari, di cui uno gia fornito dal governo italiano. Il lavoro era al 90% completato l'estate scorsa, poi sara' la volta del blocco 2. Ma nel frattempo il nuovo carcere ha cambiato destinazione. 4. LIBRI. DANIELE BARBIERI PRESENTA "ITALIANI, BRAVA GENTE?" DI ANGELO DEL BOCA [Ringraziamo Daniele Barbieri (per contatti: pkdick at fastmail.it) per averci messo a disposizione come anticipazione questa sua recensione. Daniele Barbieri, nato a Roma il 3 ottobre 1948, vive a Imola; pubblicista dal 1970 e giornalista professionista dal 1991, da sempre impegnato nei movimenti per la pace, di solidarieta' e per i diritti civili, ha lavorato all'interno dei quotidiani "Il manifesto" (per il quale e' stato a lungo corrispondente dall'Emilia Romagna), "L'unione sarda" e "Mattina" (supplemento bolognese de "L'unita'"); ha collaborato a numerose riviste, fra cui "Mondo nuovo", "Musica jazz", "Azione sociale", "Muzak", "Il discobolo", "Politica ed economia" (di cui e' stato redattore), "Meta", "Cyborg", "Alfazeta", "Mosaico di pace", "Hp - Acca parlante", "Zero in condotta", "Amici dei lebbrosi", "Redattore sociale", attualmente e' redattore del settimanale "Carta"; da tempo collabora con il mensile "Piazza grande" (con cui ha organizzato anche vari corsi di giornalismo sociale) e con alcune ong (in particolare il Cospe) nella formazione o in ricerche; ha lavorato all'agenzia on line "Migranews" (sostenuta dalla linea Equal dell'Unione europea): nel giugno 2005 la Emi di Bologna ha pubblicato il volume "Migrante-mente, il popolo invisibile prende la parola" che raccoglie una selezione di venticinque autori e autrici fra quelli che hanno scritto per "Migranews". Come reporter (e come persona impegnata contro le guerre) e' stato nei Balcani, in America latina e in Africa; nell'aprile del 2002 si e' recato in Palestina con una delegazione del "Coordinamento degli enti locali per la pace". E' genitore di Jan, oggi 13 anni. Inoltre e' autore o co-autore di alcuni testi per la scuola (due sulla fantascienza e uno sullo sport), di un book-game sul '68 e inoltre di "Agenda nera: 30 anni di neofascismo in Italia", de "I signori del gioco: storia, massificazione, interpretazioni dello sport" (con lo pseudonimo di Gianni Boccardelli) e di testi inseriti in alcuni libri a piu' mani. Angelo del Boca, nato a Novara nel 1925, giornalista, storico, docente universitario; presidente dell'Istituto Storico della Resistenza di Piacenza e direttore della rivista storica "Studi piacentini". Tra le opere di Angelo Del Boca: Apartheid: affanno e dolore, Bompiani; Gli italiani in Africa Orientale, 4 voll., Laterza, poi Mondadori; Gli italiani in Libia, 2 voll., Laterza, poi Mondadori; L'Africa nella coscienza degli italiani, Laterza; Una sconfitta dell'intelligenza, Laterza; La trappola somala, Laterza; Il Negus, Laterza; I gas di Mussolini, Editori Riuniti; Gheddafi. una sfida dal deserto, Laterza; Italiani, brava gente?, Neri Pozza. Ha curato anche i volumi collettanei Le guerre coloniali del fascismo; Adua. Le ragioni di una sconfitta; ambedue presso Laterza] "La nostra venuta, dal lato dello scopo umanitario, e' stata perfettamente inutile. Ormai e' chiaro che tutta la storia della guerra e' stata gonfiata... i massacri quasi di sana pianta inventati". Ancora: "Ho sentito dire di una grande missione di civilta', renderci amiche quelle popolazioni, rispettarne la religione, la proprieta' e la famiglia, far loro apprendere i benefici della civilta' ma io vedo dappertutto l'ombra della forca". Di quale recente guerra umanitaria parlano queste accorate denunce? Far apprendere i benefici della civilta' o guerre per scopi umanitari non sono pretesti nuovi. Infatti la prima citazione e' del 2 ottobre 1900 in una lettera del tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti e si riferisce alla partecipazione italiana nella cosiddetta "guerra contro i boxer" in Cina; la seconda frase e' di Filippo Turati il quale nella seduta parlamentare del 18 dicembre 1913 si scagliava contro le infamie italiane in Libia. * Questi esempi sono ripresi dall'ultimo libro dello storico Angelo Del Boca, "Italiani, brava gente?" (Neri Pozza, 320 pagine, 16 euro) con il sottotitolo "Un mito duro a morire" che pero' l'editore ha omesso nella copertina. Un libro da leggere, da regalare non solo ai piu' giovani ma a chi vuol dimenticare e ai tanti che non hanno mai saputo. Dal punto di vista storico c'e' ben poco di nuovo: a cercare nelle biblioteche si trova tutto ma e' un patrimonio condiviso da relativamente poche persone, nonostante le molte pubblicazioni di Del Boca (con buone vendite) o di qualche altro storico e di rari giornalisti controcorrente. Il principale merito di questo nuovo libro e' nella sintesi accompagnata, come sempre, dall'efficacia del raccontare, dalla forza delle fonti, dall'onesta' intellettuale di chi non accetta di registrare solo quel che torna a puntello di tesi precostituite. "Pagine buie della nostra storia" sintetizza la quarta di copertina. Il libro apre con alcune riflessioni sulla identita' (e sulla "reputazione") degli italiani, e prima di chiudersi sull'oggi, con considerazioni tutto sommato ottimistiche, squarcia il velo che avvolge undici momenti della nostra storia. Eccoli in sintesi: il cosiddetto brigantaggio; l'isola-lager di Nocra davanti a Massaua; la tragicomica partecipazione italiana alla campagna contro i boxer in Cina; stragi, sconfitte e deportazioni nella prima "impresa" libica; le infamie di Cadorna (e non solo) durante la prima guerra mondiale; i molti misfatti africani del fascismo (in Somalia, poi nella ri-occupazione della Libia, e in due capitoli sull'aggressione all'Etiopia); il tentativo di "bonifica etnica" in Slovenia; infine la "resa dei conti", cioe' il crollo del fascismo e la lotta di Liberazione (ma fu anche guerra civile) fino all'epurazione mancata contro i criminali fascisti con una permanente amnesia. In questa lunga vicenda vi sono evidentemente sia elementi di continuita' che di rottura; in particolare fra l'Italia del fascismo e quelle subito precedente o successiva. Mussolini insisteva sulla necessita' che gli italiani si mostrassero feroci ma padre Agostino Gemelli aveva sostenuto, durante il massacro del '15-'18, che "la miglior qualita' del soldato nella guerra di massa e di lunga durata e' appunto l'assenza di ogni qualita': l'essere rozzo, ignorante, passivo. Solo cosi' e' possibile appieno quella trasformazione della sua personalita'... che fa di lui un perfetto pezzo della macchina bellica... il soldato cessa di essere padre, marito, cittadino per essere solo soldato". Quanto all'Italia repubblicana e democratica annota fra l'altro Del Boca che "la frustrazione e l'indignazione dei partigiani sarebbero stati anche maggiori se soltanto avessero saputo cio' che oggi noi sappiamo da quando sono stati desecretati i documenti dell'Office of Strategic Services": per esempio che gia' "nell'ottobre 1945 ufficiali della Decima flottiglia Mas erano utilizzati presso una base sperimentale alleata a Venezia" o che nel novembre 1945 gli alleati cercavano di "sottrarre il principe Valerio Borghese alla giustizia italiana". Il capitolo piu' sorprendente e' forse quello sul brigantaggio, sulla censura che - dopo 150 anni - ancora avvolge un fenomeno complesso quanto poco esplorato: repressioni del tutto ingiustificate, campi di concentramento per meridionali, censure che resistono dopo 150 anni. Cosi' commenta Del Boca: "Quante sono le vittime di questa insulsa guerra fratricida? Le statistiche sono scarse e sicuramente incomplete". Eppure oggi sarebbe possibile tracciare un quadro piu' veritiero anche perche' "sono finalmente disponibili gli inventari dei documenti conservati negli Archivi di Stato e sono di piu' facile accesso l'archivio segreto vaticano e alcuni archivi spagnoli". Ma quando qualcuno prova a riaprire questa pagina ancor oggi fioccano (da destra e non solo) le accuse di "lesa patria". * Questa incapacita' di fare i conti con la storia e' confermata - oggi, cioe' nell'Italia democratica - da molti episodi: la permanente censura contro un film ("Il leone del deserto") colpevole solo di raccontare i misfatti italiani in Libia; il racconto a senso unico delle "foibe"; le reticenze sugli "armadi della vergogna" (cioe' i documenti occultati sui crimini di guerra nazifascisti); la Rai che acquista dalla Bbc e traduce per non trasmetterlo "Fascist Legacy", un prezioso documentario inglese (di Ken Kirby) del 1989. Ed e' in questa amnesia collettiva che puo' confermarsi, e forse rinascere, il ritornello dell'italiano comunque "buono e bravo" del quale il ministro degli esteri, in chiusura del 2005, ci ha cantato una nuova strofa. Il 28 dicembre infatti, rivolgendosi al contingente militare italiano nei Balcani, il ministro ha detto: "Gli italiani per la loro storia non saranno mai percepiti come truppe d'occupazione ma di liberazione dalla guerra civile, dalla miseria e dalla poverta'". Senza dubbio il ministro va bocciato in storia: sia che si riferisse genericamente alle truppe italiane fuori dai confini, sia che pensasse ai soli Balcani. Puo' verificarlo acquistando appunto, con soli 16 euro, "Italiani, brava gente?". Bisogna per onesta' ammettere che il ministro resta in larga compagnia: contrariamente alla Germania, l'Italia non ha saputo fare i conti con le ombre del suo passato. Cosi' il mito dell'italiano "bravo", persino in guerra e addirittura nelle avventure coloniali, puo' resistere perche' a scuola come nei media la maggior parte degli italiani e' privata di decisive informazioni e alla voce degli storici scomodi (in testa Del Boca) vien messa la sordina. "L'Italia e' ripetente, spesso promossa in latino, sempre bocciata in storia, all'ombra del tricolor" come suggeriva un cantautore ribelle degli anni '60. * Anche per questo fare i conti con le "guerre umanitarie" di oggi (Iraq ma anche Kossovo, per citare le ultime due dove sventola il tricolore) e' difficile: i governi attuali dipingono di nuovo le imprese armate come portatrici di civilta' e pochi vanno a verificare. Mentre persino il presidente Ciampi resuscita un ambiguo concetto di patria. Per questo spiace che, quasi in chiusura dell'ultimo capitolo Del Boca, dopo tantissime affermazioni giuste (anche sull'Italia di oggi: "tutti ricchi, tutti felici, tutti anticomunisti" e' l'ironico titolo), si lasci scappare questa frase sulle missioni di peace-keeping: "Dovendo fare confronti, si puo' persino sostenere che i militari italiani si sono comportati meglio dei colleghi degli altri contingenti. E non e' poco, se si pensa al passato". Non e' poco a confronto degli orrori precedenti, d'accordo; ma appare riduttivo quanto si legge nell'ultima nota del libro, appunto a proposito del peacekeeping: "Un solo neo: durante la missione Restore Hope nel '93 in Somalia... furono denunciati alcuni casi di violenza su prigionieri somali". Non fu l'unico caso, non e' il solo "neo": dal Kossovo come dall'Iraq filtrano molte notizie vergognose anche se il coro mediatico preferisce parlare d'altro, negare, invocare assoluzioni senza processi. Davvero "un mito duro a morire" quello di noi "italiani, brava gente". 5. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: UNA COSA CHE SAPPIAMO TUTTI E' la seguente: un pacifismo senza nonviolenza ormai e' null'altro che la complicita' con la guerra, appena mascherata dal saper parlare con garbo. Puo' servire a fare qualche miserabile carriera che porti alla prebenda, o alla cattedra, o al laticlavio. Ma del sistema degli assassini e del regime della corruzione e della catastrofe resta in sempiterno complice. E l'ipocrisia costi' dispiegata non ha piu' neppure quel tratto di buone maniere e di segreto omaggio alla virtu' che La Rochefoucauld le attribuiva, ma solamente aggiunge infamia a infamia. * E' per questo che non abbiamo stima alcuna di quei sedicenti pacifisti "senza se e senza ma" (e gia' solo l'uso di una simile formula smaschera quanto di dittatoriale e alienato - e quindi intimamente fascista - in tal posizione s'incisti) che senza batter ciglio salmodiano la pace come assoluto e inneggiano ad un tempo ai caudillos, agli eserciti e alle guerriglie per cui nutron simpatie. Ne' di quei democratici di sinistra (senza maiuscole, non parliamo di un partito ma dell'intera rappresentanza delle sinistre non totalitarie nelle istituzioni) che un giorno sventolano l'arcobaleno e il giorno prima o quello dopo veston la giubba e ordinano ai bombardieri di decollare, a seconda che si trovino all'opposizione o al governo. Ne' della sinistra totalitaria e violentista che pretende di essere insieme addirittura nonviolenta e costitutivamente fin penosamente militarista e autoritaria, contro la guerra e a favore dei picchiatori, antifascista e insieme squadrista, che mentre avida s'inerpica agli assessorati e ai ministeri ad ogni compromesso rotta allucinatamente proclama che "siamo tutti sovversivi" e non s'avvede ne' della contradizion che nol consente ne' del disonestissimo delirio, ne' della turpe miseria di tutto cio', e che se ne infischia della coerenza tra mezzi e fini, della differenza tra verita' e menzogna, della distinzione tra il bene e il male. Ne' di quei pezzi della cosiddetta societa' civile che campano del saccheggio del pubblico erario e dei subappalti che il ceto politico e burocratico e i poteri finanziari loro elargiscono per far qualche alata concione, installar l'intendenza dopo la strage, e dare una mano di calce sui muri irrorati dal sangue dei fucilati. * Se mai pote' esistere in passato, ormai non esiste piu' alcun movimento per la pace senza la scelta della nonviolenza. Ormai non esiste piu' alcuna politica di pace senza la scelta della nonviolenza. Non esiste piu' alcuna politica degna di questo nome, senza il ripudio della guerra, dell'uccidere, della violenza e della sua cultura e delle strutture sue; non si da' piu' politica tout court, che non sia lotta contro la violenza che distrugge il mondo: vale a dire, ancora una volta, che ogni impegno civile, ogni virtu' repubblicana, ogni decidersi e agire in pro della verita' e della giustizia, per il pubblico bene, sono oggi condannati a restare inani e sopraffatti, se non si fa la scelta della nonviolenza. Poiche' solo la nonviolenza e' la scelta, la scelta di lotta e di responsabilita', adeguata ai compiti dell'ora. Solo la nonviolenza nel modo piu' nitido e piu' intransigente si oppone all'uccidere, salva le vite, istituisce convivenza, civilta', dignita'. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 7. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1170 del 9 gennaio 2006 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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