La nonviolenza e' in cammino. 1143



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1143 del 13 dicembre 2005

Sommario di questo numero:
1. Roberto Mancini: Comunicazione e creaturalita'
2. Marcello Cini presenta "Insegnare a chi non vuole imparare" di Rosalba
Conserva e Giuseppe Bagni
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. ROBERTO MANCINI: COMUNICAZIONE E CREATURALITA'
[Dall'utilissimo sito del "Gruppo Solidarieta'" (www.grusol.it) riprendiamo
il seguente articolo pubblicato sulla rivista "Appunti sulle politiche
sociali", n. 2, 2004. Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, docente di
filosofia teoretica e di ermeneutica filosofica presso la facolta' di
lettere e filosofia dell'Universita' di Macerata, ha dato rilevanti
contributi alla riflessione nonviolenta. Tra le opere di Roberto Mancini:
L'uomo quotidiano. Il problema della quotidianita' nella filosofia marxista
contemporanea, Marietti, Casale Monferrato 1985; Linguaggio e etica. La
semiotica trascendentale di Karl Otto Apel, Marietti, Casale Monferrato
1988; Comunicazione come ecumene. Il significato antropologico e teologico
dell'etica comunicativa, Queriniana, Brescia 1991; L'ascolto come radice.
Teoria dialogica della verita', Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995;
Esistenza e gratuita'. Antropologia della condivisione, Cittadella Editrice,
Assisi 1996; Etiche della mondialita'. La nascita di una coscienza
planetaria, Cittadella Editrice, Assisi1997 (in collaborazione con altri);
Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella Editrice, Assisi
1999; Il silenzio, via verso la vita. (Il codice nascosto. Silenzio e
verita'), Edizioni Qiqajon, Magnago 2002; Senso e futuro della politica.
Dalla globalizzazione a un mondo comune, Cittadella Editrice, Assisi 2002;
L'uomo e la comunita', Qiqajon, Magnago 2004; Il senso del tempo e il suo
mistero, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; L'amore politico,
Cittadella, Assisi 2005]

Sia gli sviluppi delle scienze umane, della filosofia e della teologia
contemporanee, sia un'attenzione anche minima al nostro divenire ci
avvertono del fatto che, in verita', l'essere umano e' in se stesso un
essere relazionale e in ogni fase del nostro sviluppo noi non solo abbiamo
relazioni, ma siamo relazione.
*
La costituzione comunicativa delle identita' umane
Oggi per tutti noi l'esperienza del bene e del senso della vita rischia di
rimanere sfocata, frammentaria e dispersa, intimidita dalla plateali
manifestazioni del male, cioe' dalla violenza, dalla distruzione, dalla
guerra come istituzione suprema e permanente della societa' globale,
dall'accecamento legato all'idolatria della potenza. Una situazione simile
e' un appello a riprendere il cammino comunitario e personale con pienezza
di responsabilita', dilatando e approfondendo sia la coscienza di noi stessi
e della realta', sia la nostra capacita' di bene. Per uscire dal
disorientamento e anche dalle mistificazioni e' necessaria una ricerca
corale e onesta che testimoni in verita' la cognizione dell'umano e della
sua dignita'. Penso a un'antropologia dialogica vivente intessuta nel
confronto solidale tra culture, religioni, tradizioni, etiche differenti e
talora in conflitto, eppure accomunate dalla corresponsabilita' per la
storia e per il futuro del mondo.
Il mio discorso ha lo scopo di presentare e sottoporre alla discussione
alcuni elementi essenziali di un'antropologia del dialogo e della relazione
in una prospettiva che riguarda ogni essere umano. Infatti non credo che una
riflessione del genere attenga a una disciplina particolare, a un settore
delle scienze umane o a un aspetto circoscritto dell'esistenza individuale o
collettiva. Si tratta invece di comprendere il nostro essere, di specchiarci
in cio' che siamo essenzialmente, per ritrovare il senso del cammino e della
destinazione comune della vita umana.
Un approccio sintetico per delineare le coordinate di una coscienza
antropologica adeguata a cio' che sappiamo di noi stessi e che abbiamo
maturato storicamente consiste nel chiarire le implicazioni del campo
semantico costituito dalle categorie di comunicazione, dialogo, ascolto,
relazione, comunita'. Tra esse forse la piu' ampia e paradigmatica e'
individuata, a buon diritto, nella categoria di relazione. Percio' la
formula piu' appropriata per dare l'idea del tipo di coscienza antropologica
cui mi riferisco e' appunto quella di antropologia della relazione. Ma
proprio per questo non vorrei assumerla tanto come premessa e sfondo
preliminare delle altre categorie, quanto come tratto culminante e specifico
di orientamento dell'intero campo semantico di tale antropologia.
Il primo passo, intanto, mi sembra quello di una rilettura della nozione di
comunicazione, oggi cosi' ricorrente in quell'accezione che la intende come
trasmissione e ricezione di messaggi, spostando di conseguenza l'attenzione
sugli strumenti tecnologici che consentono di fare questo e sulla loro
crescente potenza. L'enfasi su questa funzione del comunicare deriva, a mio
avviso, piu' che dalla meraviglia per le prestazioni della tecnologia
mediatica e informatica, dal fatto che la comunicazione sembra una
rivoluzione e una novita' agli occhi di una cultura abituata a pensare gli
esseri umani come atomi affidati a se stessi e in tendenziale lotta tra
loro. I figli dell'antropologia borghese moderna, avendo ereditato una
Weltanschauung che racchiudeva gli individui in una insularita' essenziale,
scoprono che c'e' un altro modo di rapportarsi gli uni agli altri oltre il
conflitto. Questo modo e' la comunicazione, in quanto pero' essa si fonda
non sulla loro natura di esseri umani, ma sull'apparato tecnologico. Cosi'
la tecnologia conferisce una protesi comunicativa, una dotazione di
capacita' relazionale, a individui in se' estranei, nella loro natura, alla
relazione.
Ma sia gli sviluppi delle scienze umane, della filosofia e della teologia
contemporanee, sia un'attenzione anche minima al nostro divenire ci
avvertono del fatto che, in verita', l'essere umano e' in se stesso un
essere relazionale, che anzitutto viene concepito e prende forma grazie
all'incontro di una donna e di un uomo e grazie alla relazione con la madre.
E in ogni fase del nostro sviluppo noi non solo abbiamo relazioni, ma siamo
relazione. Per un essere di questo genere la comunicazione non vale solo
come trasmissione-ricezione di messaggi; piu' radicalmente essa e'
condivisione di cio' che siamo, dunque anche di cio' che sentiamo, sappiamo,
abbiamo.
Le relazioni interumane possono anche prendere la forma del conflitto e del
dominio, ma essenzialmente e per lo piu' devono potersi sviluppare come
condivisione. L'immagine piu' appropriata per cogliere la natura del
condividere umanizzante e' quella di una tessitura in cui gli individui
intrecciano, in una dialettica di passivita' e attivita', movimenti e
posture fisiche, emozioni, sentimenti, idee, parole, silenzi, progetti,
azioni, riti, tradizioni. Tale tessitura non rimane semplicemente esterna a
ciascuno, non e' come un manufatto, e' il formarsi e riformarsi
dell'identita' delle persone e della loro vita comune.
Infatti i tratti costitutivi del divenire della persona hanno appunto una
natura comunicativa. L'incontro tra l'uomo e la donna, la gestazione, la
relazione primaria con la madre, le emozioni e i sentimenti, l'esperienza
del corpo, l'apprendimento del linguaggio e l'intera socializzazione, il
pensiero, la scoperta e la costituzione della propria identita', la scoperta
e il riconoscimento dell'altro avvengono entro una rete relazionale che e'
fatta di condivisione, di corrispondenza, di tendenziale reciprocita'. La
reciprocita' stessa, pero', viene spesso confusa e ricondotta alla
simmetria, alla complementarita', alla simultaneita' e persino allo scambio
mercantile del do ut des. In verita', la reciprocita' vissuta dalle persone
in quanto esseri comunicativi consiste invece nel coinvolgimento di due o
piu' soggetti in una dinamica vitale in cui ciascuno mette in comune con gli
altri qualcosa di se'. Percio' la corrisponde reciproca comporta il
coinvolgimento dell'identita' personale profonda - si potrebbe dire
dell'anima di ognuno - e non si ferma al livello delle prestazioni e delle
identita' di ruolo. Perche' si dia questa reciprocita' sono necessarie
alcune condizioni. Ne indico intanto tre essenziali: che per me l'altro sia
presenza reale, dotata di valore originale, e che io sia altrettanto per
lui; che ognuno sia libero; che sia liberamente tenuta aperta la corrente
comunionale del ricevere, del dare, dell'avere perche' si e' ricevuto,
dell'avere per dare, dunque dell'essere se stessi nell'essere insieme.
Esiste ancora un tratto essenziale della reciprocita': la capacita' di
giungere a espressione nel dialogo.
*
La dinamica maieutica del dialogo
Parlando di "dialogo" non intendo riferirmi a espressioni come "scambio
verbale", "colloquio", "conversazione", "confronto", "negoziato", termini
che certo dalla realta' del dialogo non sono esclusi, ma ricompresi e
superati in profondita' ontologica e antropologica. A mio avviso occorre
mettere tra parentesi la nozione piu' ovvia di dialogo, quell'idea
procedurale per cui esso consiste in un confronto verbale tra identita'
diverse, tra opinioni, tra tradizioni, tra parti politiche, tra religioni,
cui si accederebbe solo dopo aver maturato appunto tutte queste cose
(identita', opinioni, tradizioni, posizioni politiche, fede religiosa) e
solo se abbiamo la volonta' di farlo. E' necessario muovere, piuttosto, da
un'idea ontologico-rivelativa del dialogo, concepito come la
comunicazione-condivisione del senso, ossia di quella verita' di cui ci
nutriamo, per cui esistiamo e grazie alla quale continuamente nasciamo. In
una ulteriore definizione generale del dialogo direi che esso e'
l'interazione tra soggetti in quanto interazione mediata simbolicamente,
radicata nella reciprocita' interpersonale, generatrice di identita' e di
nuova correlazione tra gli esseri. Le parole del dialogo - che non sono solo
parole in senso stretto, ma tutte le forme di espressione del significato -
sono "parole da mangiare" (1), significati che nutrono, forze creative (come
la Parola divina in molte tradizioni religiose) o comunque forze per la
creazione, per la nascita. Ecco perche' il contrario della parola e della
comunicazione non e' il silenzio, ma la violenza, l'azione distruttiva.
Il termine "dialogo" ha quindi un valore ontologico-maieutico ampio che
raccoglie e invera il suo significato ordinario. Questo non vuol dire che
tutto sia dialogo, quasi esso fosse un meccanismo cosmico impersonale e, di
fatto, indifferenziato. Gia' Martin Buber avvertiva che sussiste un altro
livello di realta', un'altra dimensione diffusa dell'essere: il mondo
dell'"esso", dell'impersonale, degli atteggiamenti e dei comportamenti
oggettivanti (2).
In ogni caso, il cammino della vita umana non riguarda la mera
sopravvivenza: e' dialogico proprio perche' l'essere umano, per esistere, ha
bisogno di senso, vuole inverarsi, deve poter riconoscere la verita'.
Benche' la tradizione occidentale abbia spesso oscillato tra assolutismo
cognitivo e relativismo, la verita' non e' ne' oggettiva, ne'
soggettivo-proiettiva. E' semmai "soggetto" vivente, trascendente e
presente, partecipabile e interpellante (3). Ecco perche' non si tratta
semplicemente di dialogare sulla verita', ma con la verita'. Inoltrarsi
nell'esperienza del dialogo in quanto ricerca della verita' significa anzi
sperimentare che e' anzitutto la verita' a dialogare con noi, a istituire lo
spazio stesso e le condizioni della reciprocita' dialogica. In questo senso,
dal punto di vista della prospettiva soggettiva della persona o di una
cultura, esso rappresenta l'esperienza dell'essere superati dalla verita' e,
insieme, del poterla testimoniare proprio perche' non e' ne' totalmente
separata da noi, ne' da noi prodotta. Questa verita' convoca gli esseri
umani. Questo vale in tre significati essenziali per cogliere la profondita'
antropologica del dialogo.
In primo luogo, la verita' ci convoca nel senso che, coinvolgendoci
interamente nel nostro essere, ci chiama a divenire noi stessi. Infatti la
relazione con la verita' impegna tutta la persona; non solo la ragione, ma
anche i sentimenti, il corpo, il desiderio, le emozioni, le diverse facolta'
individuali, le stesse relazioni di cui la persona e' parte. Accettare
liberamente questo coinvolgimento significa avviarsi a divenire armoniosi,
superando scissioni e contraddizioni (4). Significa inverarsi e lasciarsi
inverare, divenire veri, essere corrispondenti e interlocutori, con la vita,
della verita' vivente. Percio' bisogna continuare a nascere, cioe' risalire,
orientandosi, lungo l'utero della condizione biologica, psicologica, sociale
e culturale che ci e' data per giungere a questa pienezza. Il dialogo con
se' e' uno dei movimenti essenziali di questo risalire. In secondo luogo, e'
per verita', e non solo per bisogno o per "simpatia", che cerchiamo l'altro.
La verita' vivente ci convoca spingendoci a confermare la relazione. La
ricerca della verita' e' sempre dialogo, cioe' incontro con gli altri e con
le molteplici forme di alterita' (intrapersonali, interpersonali, sociali,
naturali, divine) presenti nella realta'. Percio' questa ricerca non e' mai
neutra o neutrale, ma eticamente costituita nel senso indicato in modo cosi'
indimenticabile da Emmanuel Levinas (5). Nell'incontro con l'altro, con il
suo volto, che e' dignita' e trascendenza incarnate, c'e' la fonte di ogni
senso possibile, la via della verita'. Il dialogo con il prossimo e
l'apertura dialogica alle forme dell'alterita' nel mondo sono un altro
movimento essenziale di quel risalire al futuro che e' il divenire maieutico
dell'esistenza. In terzo luogo la verita' convoca a se', alla partecipazione
intima con la propria realta', per cui ogni vero sapere e' sempre
testimoniale, racconta e attesta questa relazione. Ecco l'ulteriore
movimento essenziale del nostro risalire al futuro.
Se questo risalire al futuro e' sospinto, provocato, fondato dalla verita'
vivente, allora possiamo arrivare a pensare che, a differenza di quanto
accadeva nella maieutica socratica, dove i dialoganti generano la verita',
siamo noi a essere concepiti dalla verita' stessa. Questo e' un punto
essenziale per chiarire la portata metafisica dell'esistenza umana e della
natura relazionale della nostra identita'. Con la nascita biologica noi
siamo generati e, nel contempo, siamo creati. All'inizio di un'esistenza non
c'e' solo il concepimento, che ha luogo grazie alla relazione tra i
genitori, c'e' anche la relazione con l'Origine della vita universale,
quella di cui le fedi e gli ateismi, le culture e le filosofie cercano il
nome proprio. Un nome trasversale o interculturalmente accettabile, in tal
senso, mi sembra quello del radicalmente Altro: l'origine e' un Altro che e'
per noi radice, fondamento, fonte d'essere e di liberta'.
Ora, proprio la coscienza della piena portata della costituzione
comunicativa della persona e del valore rivelativo delle dinamiche del
dialogo ci fa pensare che questo radicalmente Altro sia la Verita' vivente
che ci chiama a nascere continuamente. Ma allora, in tale prospettiva, i
tratti essenziali dell'umano - anzitutto l'essere persona, la liberta', il
dialogo, la capacita' di ricevere e dare amore - possono essere interpretati
non gia' come monopolio della nostra soggettivita', cosicche' vederli nel
radicalmente Altro sarebbe frutto d'ingenuo antropomorfismo, ma come
"metafora viva" (6) dell'Altro stesso. Possiamo pensare, quindi, alla
liberta' della verita', al suo essere "persona", cioe' libera soggettivita'
capace di comprendere, di volere, di amare. E se la relazione non e' solo un
luogo, ma una storia, se l'essere umano non e' una statua, ma un viaggio, il
radicalmente Altro non puo' essere immaginato come realta' statica e chiusa
in se', bensi' come principio vivo, in divenire, capace di relazione e di
storia senza che venga meno la sua identita' assoluta. La coscienza della
forza maieutica del dialogo suggerisce che la nascita biologica e' solo la
prima di una serie di possibili nascite della persona: quella psicologica,
quella sociale, quella spirituale. Qui vorrei almeno accennare a quella
rinascita che e' rappresentata da ogni autentica conversione. L'idea di
metanoia spesso evoca un cambiamento di mentalita'. Ma la conversione e'
qualcosa di piu' radicale e totale: e' la rigenerazione dell'intero essere
della persona. Anche le relazioni interumane conoscono eventi di
rigenerazione: il perdono, ad esempio, e' tale in forma eminente, perche'
puo' conferire nuova vita a una relazione ormai morta.
Chi prende atto del fatto che la vita si rinnova e che siamo soggetti - nel
senso passivo e attivo del termine -di trasformazioni che sono vere e
proprie nascite puo' accettare di riferirsi alla nascita come alla metafora
della condizione umana. Ma io sto avanzando un'ipotesi ulteriore: quella
secondo cui proprio un'antropologia della relazione e della comunicazione ci
autorizza a credere che siamo noi a essere una metafora vivente della
realta' del radicalmente Altro. Sottolineo tale indicazione non per
elaborare in questa sede uno specifico discorso metafisico, ma per
evidenziare il senso del nostro interesse verso la comunicazione stessa. Non
si tratta semplicemente di essere piu' estroversi, meno aggressivi, piu'
aperti alla novita' e all'alterita', ne' di razionalizzare e organizzare le
modalita' del dialogo dentro una data comunita' o tra comunita' diverse. Si
tratta anzitutto di cogliere come imparando a partecipare con liberta' e con
la piena adesione del nostro essere alla corrente comunicativa e dialogica
dell'esistenza umana, noi assumiamo la responsabilita' creaturale della
relazione con il radicalmente Altro e con quei doni viventi che possiamo
infine riconoscere negli altri. Infatti, anche nella prospettiva del
cristianesimo comunicare non riguarda tanto i modi di fare o di parlare,
quanto il divenire realmente figlie e figli di Dio, coeredi, sorelle e
fratelli di Cristo. Si tratta, in altre parole, di aprire l'umano alla sua
radice, alla sua qualita' ricapitolativa e alla sua destinazione divina.
Sulla base di questa consapevolezza anche le forme, le tradizioni, le
anticipazioni, i canali del concreto comunicare interumano potranno essere
liberati e autenticamente dispiegati.
Risulta di primaria importanza, in quest'ottica, il valore dell'ascolto. La
disponibilita' ad ascoltare rappresenta infatti la soglia attraverso cui
possiamo rinnovare la nostra partecipazione effettiva alle dinamiche del
dialogo. L'ascolto e', insieme, apertura all'appello della verita' e
all'interpellazione che ci viene dagli altri, nonche' scoperta di cio' che
abita in noi come sentimento, desiderio, espressione dell'anima. Esso puo'
essere tutto questo non solo come ascolto delle parole, ma anche come
ascolto del silenzio. Il silenzio non va identificato semplicemente con la
condizione preliminare per ascoltare realmente. E' prima di ogni altra cosa
l'evento di un senso piu' radicale di tutto cio' che abbiamo detto e gia'
sappiamo, l'evento di un oltresenso che puo' rinnovare la vita della
coscienza. Cosi' esso offre uno spazio di nuova liberta' a chi accetta di
sostarvi. E se si accetta questa paradossale ospitalita' dell'invisibile,
forse si giunge a scoprire che il silenzio e' prossimo e vivo, e' presenza
del radicalmente Altro in un'intimita' che ora non puo' piu' essere
scambiata per vuoto o mera assenza di voci, suoni e rumori. Se la parola
data e ricevuta, l'ascolto e il silenzio sono vissuti con l'attenzione
dell'anima, la stessa che ha luogo nell'autentica preghiera, allora
impariamo che queste dimensioni non riguardano soltanto la coscienza e i
sensi, ma l'intero essere della persona. Si ascolta, oltre che con
l'orecchio, con la vita. E dall'evento del silenzio possiamo uscire
interamente rinnovati.
Certo, siamo nell'ordine dell'eventuale, non si da' qui alcun automatismo.
Anzi, proprio la consapevolezza della portata radicale della comunicazione
ci aiuta a comprendere meglio che le patologie o i pericoli che minacciano
il divenire dialogico-maieutico della persona e delle comunita' umane hanno
una forma correlativa e tipica, quella di una alterazione della dialogia
come tensione vitale propria della nostra condizione. Sono blocchi,
inibizioni, chiusure monologiche, misconoscimenti e contraddizioni che
pongono in scacco la comunicazione e congelano la natura comunicativa del
nostro essere. Queste patologie possono derivare da un'iniziale
insufficiente provocazione alla vita relazionale, da ferite e
misconoscimenti ricevuti, dall'impossibilita' di elaborare nella comunione
con qualcuno le frustrazioni subite e il dolore sperimentato, dal sentirsi
minacciati e cosi' via. Il fattore ricorrente in tutti questi casi e' il
prevalere dell'angoscia sulla fiducia essenziale all'essere in relazione. Di
quell'angoscia che e' appunto una sfiducia radicale nella relazione,
nell'altro - percepito come presenza minacciosa ed ostile, oppure come
oggetto di possesso e di dominio - e persino nel fatto che l'altro stesso
esista realmente. Il sentimento tipico di questa condizione d'angoscia e'
quello dell'abbandono, dell'essere affidati soltanto a se', dell'isolamento
e della precarieta'. Quando le patologie prevalgono, la persona e le
comunita' si costruiscono un'identita' esclusiva, in cui si considerano il
proprio essere e tutto cio' che e' amato come un possesso da negare agli
altri. E' allora che l'identita' si definisce sempre solo per
contrapposizione, escludendo ogni comunanza o comunione con chiunque. Le
identita' esclusive divenute permanenti e cristallizzate, che nel cammino
del diventare se stess icorrisponderebbero invece ad una fase evolutiva da
vivere e da superare, sono evidentemente fragili perche' non reggono la
relazione, non sanno assumere la convivenza come oggetto di scelta
responsabile e di cura. Esse scindono la comunicazione dalla verita' e
devono convogliare verso l'autodifesa aggressiva tutte le energie
disponibili (7). Fallisce cosi' il delicato e cruciale processo della
maturazione dell'identita' comunicativa, che invece prende forma imparando a
confermarsi nelle relazioni ed a condividere cio' che si e' in modo che
l'originalita' della persona o di una comunita' possa fiorire ed esprimersi
creativamente. In un simile cammino di apprendimento esistono peraltro anche
forme sane di "negazione", quelle in cui superiamo o arriviamo a recidere
tutto cio' che impedisce di crescere, di continuare a nascere, di incontrare
e di condividere. Anche per questo nella maieutica dell'esistenza c'e' il
dolore: il dolore del parto, lo sforzo di superare il confine - mentre i
confini sono per noi il fondamento della sicurezza - e di affidarsi - che di
volta in volta e' ritrovare la fiducia nella relazione e in definitiva e'
accettare di nascere, di continuare a rinnovarsi -.
Fin qui ho parlato delle identita' umane stabilendo una sorta di
correlazione analogica tra persona e comunita'. Adesso vorrei precisare che
i due poli sono legati, giacche' la comunita', l'esistenza comunitaria, e'
condizione concreta della nascita personale.
*
La comunita' come vocazione umana
Buona parte della tradizione filosofica occidentale ha pensato la verita' e
il mondo obliando la relazione, dunque a partire dall'angoscia
dell'irrelazione, dalla condizione di chi ignora l'alterita' e il
con-essere. E' quella che chiamo "metafisica dell'abbandono". La metafisica
dell'abbandono non perde solo il senso della relazione, il senso come
relazione, perde anche la memoria dell'Origine e legge il tempo come un
vortice in cui tutto diventa rapidamente passato, dove poi il passato e'
considerato come un puro nulla. E' quanto accade anche quando pensiamo alla
creazione come a un evento immemorabile e in se' compiuto, finito, da cui
siamo semplicemente distaccati. Ecco perche' ci e' cosi' familiare la
condizione dell'esilio, ecco perche' tentiamo di esorcizzarla accanendoci a
combatterla nella figura dello straniero.
Se l'esistenza umana e' un viaggio, e se il mondo stesso e' un viaggio,
d'altronde non e' solo il viaggio di chi e' in esilio e tenta il ritorno. Se
cosi' fosse, la vita personale dovrebbe inseguire l'utopia regressiva del
ritorno all'utero materno. Ma il nostro e' anche un viaggio di scoperta, di
accesso a una vita ulteriore, di incontro, proprio come e' stata la nascita
per ciascuno di noi. In realta' la creazione ci percorre, e' il processo
ancora aperto (8) che diviene dentro, intorno e oltre a noi. Se prestiamo
ascolto alla parola "creatura", ci accorgiamo che noi non siamo solo creati,
siamo chiamati a nascere, siamo intessuti di futuro: siamo veramente quello
che saremo. Ecco perche' il divenire ontologico del dialogo e' la tessitura
della persona. I tre movimenti coimplicati del risalire al futuro - dialogo
con se', con gli altri e le diverse presenze d'alterita', con la verita'
vivente - hanno il profilo tipico di una conversione, cioe' di una "nuova
nascita" (9). Per questa sua costituzione comunicativa la persona nasce e si
sviluppa in realta' comunitarie, che non rappresentano solo strumenti
funzionali all'individuo, ma schiudono una vera vocazione all'esistenza
comunitaria. Se gli esseri umani continuano, almeno potenzialmente, a
completare la loro nascita, il loro divenire sino in fondo se stessi, per
tutta la vita, le diverse forme di comunita' sono a loro volta chiamate a
preparare e favorire questo cammino di inveramento in cui non e' in gioco
una generica relazionalita', ma la relazione di ciascuno e di tutti con il
Bene.
Le comunita', da quella familiare a quelle di accoglienza e di aiuto, dalla
comunita' religiosa a tutte le forme ulteriori di esistenza comunitaria, si
configurano in sintonia con la dignita' e le esigenze fondamentali dello
sviluppo umano quando sono orientate dal principio della doppia eccedenza:
non prevale il singolo sulla comunita', ne' questa su quella, in quanto,
invece, entrambi sono riconosciuti nel loro irriducibile valore. Cosi' la
persona resta un fine in se', ma a sua volta non puo' subordinare a se' o
monopolizzare la vita di una comunita'. In luogo della gerarchia di valore
che sacrificherebbe una di queste due realta', si pone la loro correlazione
armonica.
Quando una comunita' si mantiene all'altezza di questo principio, svolge per
i singoli una duplice funzione nel percorso della loro umanizzazione. Da una
parte permette a ciascuno il radicamento, ossia la possibilita' di avere una
fonte vitale, un luogo di riconoscimento, una memoria, una pluralita' di
volti amici e un orizzonte condiviso di senso per l'esistenza. In cio' la
comunita' appare come un grembo che predispone la persona ad affrontare il
suo cammino nella vita. In altre parole, la comunita' prepara a nascere.
Aiuta le persone a giungere al riconoscimento ed eventualmente alla libera
assunzione della loro vocazione. D'altra parte e proprio per questa sua
funzione la comunita' e' chiamata ad aprirsi all'alterita',
all'ulteriorita', e spinge i suoi membri alla piena assunzione della
liberta'. Cosi' alimenta la trascendenza in quanto dinamica vitale di ognuno
e della comunita' stessa, che allora si delinea come condivisione di
trascendenze. In breve: la comunita' e' insieme casa e strada, radice e
cammino. La riprova, in negativo, della rilevanza di tale duplice funzione
sta nel fatto che chi e' sradicato, chi si trova forzatamente e precocemente
a vivere senza questa possibilita' di legame e di riconoscimento viene
colpito nel suo percorso di identificazione e di espressione. L'individuo
atomizzato e perennemente in competizione con gli altri e' una caricatura
dolorosa della fisiologia della condizione umana.
Del resto, ogni esperienza comunitaria vive di una sua vocazione specifica,
quella per cui e' chiamata ad anticipare la realta' di una comunione
creaturale universale. Non c'e' comunita' concretamente visibile e
determinata che racchiuda in se' l'orizzonte ultimo e la destinazione della
condizione umana. Per questo ogni comunita' ha sempre i suoi
"extracomunitari", coloro che per distanza, per dissenso e, talora, per
essere stati esclusi non rientrano nella corrispondente forma di vita
comune. Quando la ragione di tale estraneita' e' l'emarginazione, si tratta
senza dubbio del segno e dell'effetto di una perversione violenta
dell'esistenza comunitaria. Quella perversione che ha reso cosi' spesso
soffocante, per molti, il termine stesso di "comunita'". In tal caso e'
chiaro che il passaggio obbligato e' la conversione della comunita' in modo
che la qualita' della convivenza sia liberata da meccanismi e logiche di
dominio. Quando invece la comunita' resta particolare per il dissenso o
comunque per la libera diversita' di altri che non vi si riconoscono, non
siamo di fronte a un limite inaccettabile, bensi' al segno che la comunita'
in se' e' solo un'anticipazione di una comunita' realmente universale che
deve ancora trovare la sua realizzazione. In cio' una comunita' concreta e'
simbolo escatologico della comune destinazione umana, quella di approdare
alla piena comunione di tutti con tutti e con l'Origine della vita.
Se le cose stanno cosi', alimentare, estendere e approfondire la
comunicazione tra comunita' diverse e' un compito essenziale per scongiurare
l'introversione e l'autoapologia che cosi' spesso le fanno ammalare,
rendendole inadatte a far fronte alle loro funzioni umane.
*
Comunicazione e creaturalita'
Al termine della mia riflessione, dopo aver delineato il significato
umanizzante, maieutico e veritativo della comunicazione e del dialogo, posso
esplicitare in una luce piu' appropriata il termine paradigmatico del tipo
di antropologia di cui sto indicando le coordinate di fondo, quello di
relazione. Veramente costitutiva per noi non e' una generica relazionalita',
ma, in modo eminente e letteralmente fondativo, la relazione con il Bene.
Sinora abbiamo sempre ritrovato, quale fonte e forza fondamentale permanente
del divenire comunicativo delle identita' umane singole e comunitarie,
un'ulteriorita', una trascendenza che di volta in volta si manifesta ed e'
pensabile come Origine, Verita', radicalmente Altro, Oltresenso. Tuttavia,
per specificare la qualita' essenziale di questa trascendenza costitutiva e
dotata di molti nomi e' indispensabile recuperare il riferimento alla
realta' del Bene. Con questa parola non intendo anzitutto un concetto della
morale, ne' tanto meno una nozione giuridica o economica. Intendo invece
l'unica realta' dell'Origine, della Verita', del radicalmente Altro,
dell'Oltresenso in quanto essa si rivela come realta' buona, che vuole la
relazione sino a suscitare l'altro da se', che dona liberta' senza mai
revocarla, che ama la creazione e non ammette in se' o per l'altro alcuna
distruzione.
Nello scenario metafisico del pensiero greco il Bene era si' il principio
supremo del reale, ma esso veniva immaginato in primo luogo sulla scorta
dell'idea dell'assolutezza in quanto autosufficienza e, in via secondaria,
come realta' diffusivo-generativa grazie alla quale esiste il mondo cosi'
come lo conosciamo. Insomma, il Bene era tale perche' privo di qualsiasi
effettiva relazione con l'altro da se'. L'orizzonte metafisico-esistenziale
dell'antropologia della relazione induce invece a pensare al Bene come
Comunione che fonda e alimenta sempre di nuovo il suo rapporto con noi e con
il mondo coinvolgendovisi senza bisogno di una separazione assoluta e
invalicabile.
La riprova di questa rinnovata intuizione si ha nel considerare che gli
esseri umani sono costituiti e tenuti in vita dagli atti di corrispondenza
concreta al Bene stesso. Infatti ognuno di noi, lungi dall'essere un "self
made man", deve tutto agli altri, in particolare agli atti di desiderio,
accoglienza, responsabilita', cura, dedizione, educazione, condivisione del
valore che ci hanno permesso di crescere e di assumere la nostra
originalita' di persone. Per quanto possiamo atteggiarci a individui cinici,
disincantati, "realisti", nessuno di noi si e' intessuto il proprio essere
personale grazie agli atti di violenza, di negazione, di tradimento, di
misconoscimento e di incuria subiti. Certo, dalla sofferenza si puo'
imparare, ma questo diventa realmente possibile solo se ci sorregge il bene
compassionevole e misericordioso di altri e, in definitiva, il bene del
Bene.
In tale prospettiva si capisce come in tutti i processi comunicativi sia
implicata, in un modo o nell'altro, la relazione con questo Bene vivente e
originante lungo la tensione essenziale legata all'alternativa tra creazione
e distruzione. Scopriamo allora non tanto la nostra finitezza, quanto la
nostra creaturalita'. Essa, oltre che nell'essere derivati da un'invisibile
Origine, sta nell'essere chiamati a esistere secondo creazione, imparando
progressivamente a rinunciare a logiche o a pratiche distruttive nella vita
interiore, interpersonale, sociale e spirituale. Non posso non accennare al
fatto che qui balena il valore antropologicamente rivelativo e universale
del riferimento umano alla Resurrezione narrata dai Vangeli. Infatti la
relazione con il Bene, che e' il cuore e il fondamento permanente della
comunionalita' umana, si manifesta e si dispiega soprattutto dall'interno di
situazioni di crisi radicale, nelle molteplici esperienze di morte che ci
insidiano durante la vita. Poiche' infatti l'essenza del male e' la
distruzione, tutte le volte in cui subiamo e operiamo il male facciamo
un'esperienza di morte pur essendo biologicamente vivi. Chi invece si apre
interamente alla relazione con il Bene - e questo si puo' fare
riconoscendolo, confermandolo, traducendolo e ricomunicandolo nelle
situazioni in cui ci troviamo - attraversa queste morti e assume una
qualita' di vita in cui il divino trabocca nell'umano.
Come trarre almeno qualche indicazione sintetica del percorso svolto sin
qui? Dalla coscienza di quanto e' in gioco, per noi e per la storia di
tutti, nella realta' della comunicazione, del dialogo e della relazione
derivano, a mio parere, due compiti cruciali. Il primo e' quello di
suscitare o rinnovare le forme dell'esistenza comunitaria, che sono le sole
a consentire la fioritura delle identita' umane, salvando le persone
dall'individualismo e dalla massificazione, nonche' dalla schiavitu' dinanzi
ai sogni imperiali di qualsiasi potenza dominativa. Il secondo compito e'
quello che impegna le comunita' esistenti a essere fonti di disinquinamento
e di disapprendimento della distruttivita', scuole in cui si impara a
rispondere al male con il bene, luoghi di anticipazione, per la societa'
intera, di quella comunione creaturale universale che e' la vocazione ultima
di ognuno e di tutti.
*
Note
1. Cfr. R. Alves, Parole da mangiare, Magnano, Edizioni Qiqajon, 1998.
2. Cfr. M. Buber, Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, Edizioni San
Paolo, 1993, pp. 59-61. Del resto Dietrich Bonhoeffer, in una lettera del 21
febbraio 1944, osservava da parte sua: "Dio non ci incontra solo nel 'tu',
ma si 'maschera' anche nell''esso', ed il mio problema in sostanza e' come
in questo 'esso' ('destino') possiamo trovare il 'tu' o, in altre parole,
come dal 'destino' nasca effettivamente la 'guida'" (D. Bonhoeffer,
Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 289).
3. Per una giustificazione di queste tesi rimando al mio libro L'ascolto
come radice. Teoria dialogica della verita', Esi 1995.
4. Cfr. M. Buber, Il cammino dell'uomo, Magnano, Edizioni Qiqajon, 1990.
5. Per una presentazione complessiva dell'opera levinasiana rimando a G.
Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterita' e trascendenza, Torino,
Rosenberg & Sellier, 1996. Per l'evidenziazione della dinamica del dono come
filo conduttore di questa prospettiva rinvio a S. Labate, La sapienza
dell'amore. In dialogo con Emmanuel Levinas, Assisi, Cittadella editrice,
2000.
6. P. Ricoeur, Metafora viva, Milano, Jaca Book, 1987.
7. Una delle figure tragicamente esemplari di questo tipo di identita' e'
rappresentata oggi dal volto ufficiale degli Stati Uniti d'America e dal
loro progetto di impero mondiale.
8. E' a questo divenire aperto e non ancora deciso che Ernst Bloch alludeva,
pur escludendo l'idea di creazione, quando parlava del mondo come
esperimento: cfr. E. Bloch, Experimentum mundi, Brescia, Queriniana, 1980.
Sul senso dell'ontologia blochiana rimando al mio saggio Ermeneutica del
desiderio. Un viaggio attraverso "Il principio speranza" di Ernst Bloch, in
"Annuario Filosofico", n. 16, 2000, pp. 289-314.
9. K. Barth, Kirchliche Dogmatik, Zurich, EVZ, vol. I/1 (1932), pp. 158 ss.,
vol. IV, tomi 1, 2 e 3 (1953, 1955, 1959).

2. LIBRI. MARCELLO CINI PRESENTA "INSEGNARE A CHI NON VUOLE IMPARARE" DI
ROSALBA CONSERVA E GIUSEPPE BAGNI
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 dicembre 2005 riprendiamo questa
recensione di Marcello Cini del libro di Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva,
Insegnare a chi non vuole imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su
Bateson, Ega, Torino 2005, pp. 272, euro 14.
Marcello Cini, nato a Firenze nel 1923, e' docente universitario di fisica,
e autorevole ricercatore; ha partecipato attivamente alle discussioni degli
ultimi decenni sulla storia della scienza, i temi epistemologici, la critica
della scienza e della sua pretesa neutralita'; collabora al quotidiano "Il
manifesto". Opere di Marcello Cini: L'ape e l'architetto. Paradigmi
scientifici e materialismo storico, Feltrinelli, Milano 1976 (con G.
Ciccotti, M. de Maria, G. Jona-Lasinio); Il gioco delle regole, Feltrinelli,
Milano 1982 (con D. Mazzonis); Un paradiso perduto. Dall'universo delle
leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994.
Rosalba Conserva insegna nelle scuole superiori e collabora con il Cidi di
Roma; ha dedicato molti anni allo studio del pensiero di Gregory Bateson per
alimentare la riflessione sul suo lavoro di insegnante; ha fondato, con
altri, il "Centro Bateson" di Roma con l'intenzione di farne un laboratorio
di idee  e progetti; da tempo e' in relazione con Mary Catherine Bateson,
figlia del pensatore, con la quale ha un comune impegno di ricerca. Opere di
Rosalba Conserva: La stupidita' non e' necessaria. Gregory Bateson, la
natura e l'educazione, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, 1997; Casa
Barnaba, Manni, Lecce 2004; con Giuseppe Bagni, Insegnare a chi non vuole
imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su Bateson, Ega, Torino 2005.
Giuseppe Bagni ha una lunga esperienza di insegnamento nelle scuole
superiori e collabora attivamente con il Centro di iniziativa democratica
degli insegnanti (Cidi). Opere di Giuseppe Bagni: con Rosalba Conserva,
Insegnare a chi non vuole imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su
Bateson, Ega, Torino 2005.
Gregory Bateson e' nato nel 1904 in Inghilterra, figlio di un eminente
scienziato; compie studi naturalistici ed antropologici, di logica,
cibernetica e psichiatria; un matrimonio con la grande antropologa Margaret
Mead; Bateson ha dato contributi fondamentali in vari campi del sapere ed e'
uno dei pensatori piu' influenti del Novecento; e' scomparso nel 1980. Opere
di Gregory Bateson: Naven, Einaudi, Torino; Verso un'ecologia della mente;
Mente e natura; Una sacra unita'; Dove gli angeli esitano (in collaborazione
con la figlia Mary Catherine Bateson), tutti editi da Adelphi, Milano. Si
vedano anche i materiali del seminario animato da Bateson, "Questo e' un
gioco", Raffaello Cortina Editore, Milano. Opere su Gregory Bateson: per un
avvio cfr. AA. VV. (a cura di Marco Deriu), Gregory Bateson, Bruno
Mondadori, Milano; Sergio Manghi (a cura di), Attraverso Bateson, Raffaello
Cortina Editore, Milano. Cfr. anche Rosalba Conserva, La stupidita' non e'
necessaria, La Nuova Italia, Scandicci (Fi), particolarmente sulle
implicazioni educative e la valorizzazione in ambito pedagogico della
riflessione e dell'opera di Bateson. Una bibliografia fondamentale e' alle
pp. 465-521 di Una sacra unita', citato sopra. Indicazioni utili (tra cui
alcuni siti web, ed una essenziale bibliografia critica in italiano) sono
anche nel servizio con vari materiali alle pp. 5-15 della rivista pedagogica
"Ecole", n. 57, febbraio 1998. Tra i frutti e gli sviluppi del lavoro di
Bateson c'e' anche la "scuola di Palo Alto" di psicoterapia relazionale: di
cui cfr. il classico libro di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D.
Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma; e
su cui cfr. Edmond Marc, Dominique Picard, La scuola di Palo Alto, Red
Edizioni, Como]

Due insegnanti, Rosalba e Giuseppe, si interrogano sul loro mestiere nel
corso di uno scambio di corrispondenza durato un intero anno scolastico.
Entrambi insegnano alle scuole superiori, lei in un istituto tecnico, lui in
un professionale. Colti, appassionati, animati da un profondo senso di
responsabilita' per le conseguenze del loro agire sulla vita dei ragazzi e
da un intenso investimento emotivo nei loro confronti, si trovano ogni
giorno a dover tradurre tutto questo patrimonio intellettuale e morale in
azioni, comportamenti e giudizi, mettendo insieme le finalita' istituzionali
del loro ruolo e i dettami della loro coscienza. Nelle loro lettere si
intrecciano dunque problemi didattici e scrupoli deontologici, si alternano
resoconti di sofferti interventi d'autorita' e sincere prese d'atto di
errori, vengono registrati episodi gratificanti e confessati momenti di
sconforto. Alcune domande di fondo ricorrono, come fili di una trama, nel
corso di tutta la corrispondenza, e ad esse accennero' brevemente piu'
avanti. Ma prima vorrei cominciare presentando al lettore alcuni tratti
della personalita' dei due protagonisti, anche attraverso le loro stesse
parole.
*
Dire le cose in modo appropriato
Rosalba Conserva e' una insegnante di lettere estremamente attenta ad
assumere la precisione, le regole e il rigore come punti di riferimento
essenziali del proprio insegnamento. Di qui, per esempio, viene la sua
insistenza sull'importanza dell'insegnare ai ragazzi a dire le cose "nel
modo universalmente riconosciuto come appropriato: un dire piano, fluente,
grammaticalmente a posto, insomma, 'classico'".
Giuseppe Bagni e', a sua volta, un insegnante di scienze che insiste
continuamente a non voler trascurare nell'insegnamento di queste discipline
il ricorso all'immaginazione, alla narrazione e all'imprevisto. "Cosa
dovrebbe fare l'insegnante di scienze?" si domanda. In primo luogo -
risponde - riconoscere "i contatti che le scienze hanno con la struttura
della narrazione: con la contingenza come contesto che favorisce un evento
rispetto agli altri - e, ad un altro livello, la scelta di una teoria
rispetto ad altre possibili".
Questo implica che "le pagine dimenticate di vita della scienza - gli anni
di pausa della cosiddetta scienza 'normale', il tempo delle teorie in
conflitto e i fattori che hanno spinto in favore dell'una o dell'altra, la
scelta di una direzione e di un paradigma che automaticamente hanno reso le
altre 'vicoli ciechi', il loro recupero spesso avvenuto in momenti
successivi - sono preziose per insegnare il modo della costruzione delle
conoscenze".
L'apparente contraddizione di queste due figure di insegnanti rispetto allo
stereotipo corrente dei rispettivi ruoli disciplinari non deve stupire: essa
e' alla base, invece, della loro ricchezza umana e professionale. E' infatti
conseguenza della profonda assimilazione delle idee di Gregory Bateson, che
entrambi hanno assunto come riferimento costante. "L'intuizione di Bateson -
scrive il secondo - che qualunque forma di apprendimento si muove su una
linea a zig-zag che unisce i due poli della dicotomia rigore/immaginazione,
per me fu una folgorazione fin dalla prima lettura". E gli fa eco la prima:
"Anche per me quel capitolo di Mente e natura (sul procedere zigzagando di
forma e processo) e' stato illuminante".
E ancora, qua e la', ritroviamo continui riferimenti al pensiero
batesoniano: "Tra le abitudini di pensiero - scrive Rosalba - che io e te
abbiamo preso da Bateson ce n'e' una fondamentale: ammettere e coltivare
visioni molteplici del mondo".
Delineate cosi' le figure dei due protagonisti veniamo al tema di fondo che
costituisce l'ossatura portante di tutto il libro, attorno al quale ruotano
le loro riflessioni critiche, sorgono i loro dubbi sulle priorita' da
scegliere e dal quale nascono i problemi dell'agire quotidiano. Esso e' gia'
esplicitato nel titolo scelto: Come insegnare a chi non vuole imparare.
"Quale deve essere - si chiede Giuseppe - la nostra risposta al problema dei
ragazzi che di scuola 'non ne vogliono'?". Una domanda che ne ha per
corollario un'altra: "La nostra acqua disseta davvero? Quello che
insegniamo, e in generale la scuola che abbiamo oggi, e' quella buona, 'che
forma i soggetti'?".
Provo a individuare alcune delle risposte, ovviamente parziali e
problematiche, che a piu' riprese affiorano nel dipanarsi del loro dialogo.
Alcune riguardano piu' direttamente loro stessi, altre piu' i ragazzi e
l'istituzione scolastica com'e' e come dovrebbe essere. I loro punti di
vista non sono identici.
*
Non uno di meno?
Se il fine comune a entrambi (l'imperativo della maestrina cinese del film
Non uno di meno e' piu' volte citato da tutti e due) e' quello di
individuare come fare una scuola di tutti e con tutti, appare tuttavia
evidente che ognuno dei due lo sente in modo diverso. "La scuola pubblica
non e' qualunque scuola 'aperta al pubblico' - scrive Giuseppe - ma e'
quella che da' valore, per se' e per la societa', al costruire luoghi di
apprendimento eterogenei dove le biografie di alunni e alunne possano
aprirsi e mescolarsi. Intrecciare storie e generazioni, favorire le
contaminazioni senza che si trasformino in domini: questo e' l'obiettivo".
Non si puo' dunque, come si tenta di fare anche a sinistra, "trovare un
percorso su misura per quei trenta su cento che escono senza titoli dalla
scuola". Insomma: "Per chi non ne vuole, di scuola, ci deve essere
un'attenzione particolare: ma non meno scuola... La maggior parte di quelli
che 'non ne vogliono' sono il prodotto di questa scuola e si recuperano
dimenticandoci dei trenta e pensando ai cento".
Rosalba dal canto suo tende a cercare di affrontare il problema dei "ragazzi
non-bravi" - non solo di quei trenta che si perdono, ma anche della
maggioranza che subisce la scuola come un noioso dovere - domandandosi:
"Dove nasce l'indifferenza dei ragazzi per la scuola?". E risponde: "La
societa', certo, con i suoi nuovi valori e disvalori ci mette del suo".
Ma, secondo lei, "l'indifferenza viene soprattutto dalle poche attese che
hanno, dai pochi successi e dai pochi riconoscimenti dei successi. Vogliamo
che imparino, conoscano nomi e formule, ma non curiamo abbastanza che
ri-conoscano il valore di quello che fanno". Non serve dunque motivare
l'apprendimento scolastico attraverso la sua funzione di favorire in futuro
promozione e inserimento sociale, ma occorre dare ai ragazzi "una ragione
per venire a scuola e una per restarci", lavorando "al livello delle
relazioni di classe".
La differenza dei rispettivi punti di vista si ritrova su altre questioni.
Una e' la pratica studentesca dell'autogestione che ogni anno si rinnova,
piu' o meno ritualmente, con risultati che Rosalba giudica assai
severamente, mentre Giuseppe - pur concordando nel deplorare gli episodi di
vandalismo ai quali talvolta le occupazioni danno luogo e nel constatare la
velleitarieta' e la vacuita' di molte di queste azioni - ne coglie anche
alcuni aspetti positivi.
Mi accorgo a questo punto che tutto quello che ho detto lascia fuori dalla
porta i protagonisti veri di questo libro: le ragazze e i ragazzi che
riempiono le sue pagine con le loro vite di adolescenti, le loro difficolta'
scolastiche ed esistenziali, ma anche i loro successi e le loro scoperte.
C'e', per esempio, Andrea Demarco, che fa impazzire Rosalba: "Certe volte mi
cascano le braccia. Con Demarco le ho provate tutte, fino a quando mi sono
arresa... Forse - gli ho detto - sbaglio io, sbagliamo tutti noi a tirarti
da una certa parte, nell'unica direzione che abbiamo scelto per te
nonostante la tua volonta'". Ma per lui non e' finita bene: alla fine
dell'anno e' stato bocciato, nonostante gli scrupoli di Rosalba che tenta,
senza riuscirci, di ripescarlo all'ultimo momento. Non se l'aspettava: il
giorno dell'uscita dei quadri "ha girato come un pazzo per la scuola
inseguito dai bidelli che lo consolavano".
E allora Rosalba si domanda: "Che hanno di diverso Demarco e Cardelli
(l'altra bocciata con lui) rispetto ad altri, che come loro non hanno aperto
un libro e come loro hanno fatto casino per tutto l'anno?". La risposta e'
amara: "Demarco e Cardelli, persone innocenti, non sanno ricorrere alle
giuste furbizie: quelle che noi insegnanti ci aspettiamo perche' l'essere
ingannati si accompagna al riconoscimento della nostra autorita'. Demarco e
Cardelli sono insomma ingenuamente e costantemente 'fuori contesto' - a
scuola s'intende, altrove se la cavano benissimo - e, per ragioni diverse,
lasciati soli a sbrigarsela con gli affari di scuola".
*
Occupazione produttiva
E poi c'e' Sonia Nocera, l'alunna di Giuseppe che alla fine di una settimana
di occupazione si dichiara felicissima di aver conosciuto piu' ragazzi in
quella settimana che nei tre anni precedenti e tra questi alcuni molto in
gamba dai quali ha "imparato tantissimo". "Nessuno mi toglie dalla testa -
commenta Giuseppe - che Sonia dentro l'autogestione (dentro la scuola
quindi) abbia trovato un motivo per imparare, scoprendo un modello positivo
di adolescente istruito. Un modello comprensibile per una studentessa come
lei, tipica di una scuola di massa, e alla sua portata". Giuseppe ha visto
giusto. Nell'ultima lettera, raccontando degli scrutini finali, "Sonia e'
stata bravissima" - scrive. "La qualifica sopra il settanta, dopo due anni
di bocciature e tribolazioni".
E infine c'e' la storia di Orkan, l'unico ragazzo rom che, finita la scuola
media, ha chiesto di continuare a studiare. Ma non ve la racconto, perche'
non voglio togliere ai lettori il gusto di scoprire come va a finire. Vi
auguro buona lettura.

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1143 del 13 dicembre 2005

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