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La nonviolenza e' in cammino. 1143
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1143
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 13 Dec 2005 00:27:45 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1143 del 13 dicembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Roberto Mancini: Comunicazione e creaturalita' 2. Marcello Cini presenta "Insegnare a chi non vuole imparare" di Rosalba Conserva e Giuseppe Bagni 3. La "Carta" del Movimento Nonviolento 4. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. ROBERTO MANCINI: COMUNICAZIONE E CREATURALITA' [Dall'utilissimo sito del "Gruppo Solidarieta'" (www.grusol.it) riprendiamo il seguente articolo pubblicato sulla rivista "Appunti sulle politiche sociali", n. 2, 2004. Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, docente di filosofia teoretica e di ermeneutica filosofica presso la facolta' di lettere e filosofia dell'Universita' di Macerata, ha dato rilevanti contributi alla riflessione nonviolenta. Tra le opere di Roberto Mancini: L'uomo quotidiano. Il problema della quotidianita' nella filosofia marxista contemporanea, Marietti, Casale Monferrato 1985; Linguaggio e etica. La semiotica trascendentale di Karl Otto Apel, Marietti, Casale Monferrato 1988; Comunicazione come ecumene. Il significato antropologico e teologico dell'etica comunicativa, Queriniana, Brescia 1991; L'ascolto come radice. Teoria dialogica della verita', Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995; Esistenza e gratuita'. Antropologia della condivisione, Cittadella Editrice, Assisi 1996; Etiche della mondialita'. La nascita di una coscienza planetaria, Cittadella Editrice, Assisi1997 (in collaborazione con altri); Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella Editrice, Assisi 1999; Il silenzio, via verso la vita. (Il codice nascosto. Silenzio e verita'), Edizioni Qiqajon, Magnago 2002; Senso e futuro della politica. Dalla globalizzazione a un mondo comune, Cittadella Editrice, Assisi 2002; L'uomo e la comunita', Qiqajon, Magnago 2004; Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; L'amore politico, Cittadella, Assisi 2005] Sia gli sviluppi delle scienze umane, della filosofia e della teologia contemporanee, sia un'attenzione anche minima al nostro divenire ci avvertono del fatto che, in verita', l'essere umano e' in se stesso un essere relazionale e in ogni fase del nostro sviluppo noi non solo abbiamo relazioni, ma siamo relazione. * La costituzione comunicativa delle identita' umane Oggi per tutti noi l'esperienza del bene e del senso della vita rischia di rimanere sfocata, frammentaria e dispersa, intimidita dalla plateali manifestazioni del male, cioe' dalla violenza, dalla distruzione, dalla guerra come istituzione suprema e permanente della societa' globale, dall'accecamento legato all'idolatria della potenza. Una situazione simile e' un appello a riprendere il cammino comunitario e personale con pienezza di responsabilita', dilatando e approfondendo sia la coscienza di noi stessi e della realta', sia la nostra capacita' di bene. Per uscire dal disorientamento e anche dalle mistificazioni e' necessaria una ricerca corale e onesta che testimoni in verita' la cognizione dell'umano e della sua dignita'. Penso a un'antropologia dialogica vivente intessuta nel confronto solidale tra culture, religioni, tradizioni, etiche differenti e talora in conflitto, eppure accomunate dalla corresponsabilita' per la storia e per il futuro del mondo. Il mio discorso ha lo scopo di presentare e sottoporre alla discussione alcuni elementi essenziali di un'antropologia del dialogo e della relazione in una prospettiva che riguarda ogni essere umano. Infatti non credo che una riflessione del genere attenga a una disciplina particolare, a un settore delle scienze umane o a un aspetto circoscritto dell'esistenza individuale o collettiva. Si tratta invece di comprendere il nostro essere, di specchiarci in cio' che siamo essenzialmente, per ritrovare il senso del cammino e della destinazione comune della vita umana. Un approccio sintetico per delineare le coordinate di una coscienza antropologica adeguata a cio' che sappiamo di noi stessi e che abbiamo maturato storicamente consiste nel chiarire le implicazioni del campo semantico costituito dalle categorie di comunicazione, dialogo, ascolto, relazione, comunita'. Tra esse forse la piu' ampia e paradigmatica e' individuata, a buon diritto, nella categoria di relazione. Percio' la formula piu' appropriata per dare l'idea del tipo di coscienza antropologica cui mi riferisco e' appunto quella di antropologia della relazione. Ma proprio per questo non vorrei assumerla tanto come premessa e sfondo preliminare delle altre categorie, quanto come tratto culminante e specifico di orientamento dell'intero campo semantico di tale antropologia. Il primo passo, intanto, mi sembra quello di una rilettura della nozione di comunicazione, oggi cosi' ricorrente in quell'accezione che la intende come trasmissione e ricezione di messaggi, spostando di conseguenza l'attenzione sugli strumenti tecnologici che consentono di fare questo e sulla loro crescente potenza. L'enfasi su questa funzione del comunicare deriva, a mio avviso, piu' che dalla meraviglia per le prestazioni della tecnologia mediatica e informatica, dal fatto che la comunicazione sembra una rivoluzione e una novita' agli occhi di una cultura abituata a pensare gli esseri umani come atomi affidati a se stessi e in tendenziale lotta tra loro. I figli dell'antropologia borghese moderna, avendo ereditato una Weltanschauung che racchiudeva gli individui in una insularita' essenziale, scoprono che c'e' un altro modo di rapportarsi gli uni agli altri oltre il conflitto. Questo modo e' la comunicazione, in quanto pero' essa si fonda non sulla loro natura di esseri umani, ma sull'apparato tecnologico. Cosi' la tecnologia conferisce una protesi comunicativa, una dotazione di capacita' relazionale, a individui in se' estranei, nella loro natura, alla relazione. Ma sia gli sviluppi delle scienze umane, della filosofia e della teologia contemporanee, sia un'attenzione anche minima al nostro divenire ci avvertono del fatto che, in verita', l'essere umano e' in se stesso un essere relazionale, che anzitutto viene concepito e prende forma grazie all'incontro di una donna e di un uomo e grazie alla relazione con la madre. E in ogni fase del nostro sviluppo noi non solo abbiamo relazioni, ma siamo relazione. Per un essere di questo genere la comunicazione non vale solo come trasmissione-ricezione di messaggi; piu' radicalmente essa e' condivisione di cio' che siamo, dunque anche di cio' che sentiamo, sappiamo, abbiamo. Le relazioni interumane possono anche prendere la forma del conflitto e del dominio, ma essenzialmente e per lo piu' devono potersi sviluppare come condivisione. L'immagine piu' appropriata per cogliere la natura del condividere umanizzante e' quella di una tessitura in cui gli individui intrecciano, in una dialettica di passivita' e attivita', movimenti e posture fisiche, emozioni, sentimenti, idee, parole, silenzi, progetti, azioni, riti, tradizioni. Tale tessitura non rimane semplicemente esterna a ciascuno, non e' come un manufatto, e' il formarsi e riformarsi dell'identita' delle persone e della loro vita comune. Infatti i tratti costitutivi del divenire della persona hanno appunto una natura comunicativa. L'incontro tra l'uomo e la donna, la gestazione, la relazione primaria con la madre, le emozioni e i sentimenti, l'esperienza del corpo, l'apprendimento del linguaggio e l'intera socializzazione, il pensiero, la scoperta e la costituzione della propria identita', la scoperta e il riconoscimento dell'altro avvengono entro una rete relazionale che e' fatta di condivisione, di corrispondenza, di tendenziale reciprocita'. La reciprocita' stessa, pero', viene spesso confusa e ricondotta alla simmetria, alla complementarita', alla simultaneita' e persino allo scambio mercantile del do ut des. In verita', la reciprocita' vissuta dalle persone in quanto esseri comunicativi consiste invece nel coinvolgimento di due o piu' soggetti in una dinamica vitale in cui ciascuno mette in comune con gli altri qualcosa di se'. Percio' la corrisponde reciproca comporta il coinvolgimento dell'identita' personale profonda - si potrebbe dire dell'anima di ognuno - e non si ferma al livello delle prestazioni e delle identita' di ruolo. Perche' si dia questa reciprocita' sono necessarie alcune condizioni. Ne indico intanto tre essenziali: che per me l'altro sia presenza reale, dotata di valore originale, e che io sia altrettanto per lui; che ognuno sia libero; che sia liberamente tenuta aperta la corrente comunionale del ricevere, del dare, dell'avere perche' si e' ricevuto, dell'avere per dare, dunque dell'essere se stessi nell'essere insieme. Esiste ancora un tratto essenziale della reciprocita': la capacita' di giungere a espressione nel dialogo. * La dinamica maieutica del dialogo Parlando di "dialogo" non intendo riferirmi a espressioni come "scambio verbale", "colloquio", "conversazione", "confronto", "negoziato", termini che certo dalla realta' del dialogo non sono esclusi, ma ricompresi e superati in profondita' ontologica e antropologica. A mio avviso occorre mettere tra parentesi la nozione piu' ovvia di dialogo, quell'idea procedurale per cui esso consiste in un confronto verbale tra identita' diverse, tra opinioni, tra tradizioni, tra parti politiche, tra religioni, cui si accederebbe solo dopo aver maturato appunto tutte queste cose (identita', opinioni, tradizioni, posizioni politiche, fede religiosa) e solo se abbiamo la volonta' di farlo. E' necessario muovere, piuttosto, da un'idea ontologico-rivelativa del dialogo, concepito come la comunicazione-condivisione del senso, ossia di quella verita' di cui ci nutriamo, per cui esistiamo e grazie alla quale continuamente nasciamo. In una ulteriore definizione generale del dialogo direi che esso e' l'interazione tra soggetti in quanto interazione mediata simbolicamente, radicata nella reciprocita' interpersonale, generatrice di identita' e di nuova correlazione tra gli esseri. Le parole del dialogo - che non sono solo parole in senso stretto, ma tutte le forme di espressione del significato - sono "parole da mangiare" (1), significati che nutrono, forze creative (come la Parola divina in molte tradizioni religiose) o comunque forze per la creazione, per la nascita. Ecco perche' il contrario della parola e della comunicazione non e' il silenzio, ma la violenza, l'azione distruttiva. Il termine "dialogo" ha quindi un valore ontologico-maieutico ampio che raccoglie e invera il suo significato ordinario. Questo non vuol dire che tutto sia dialogo, quasi esso fosse un meccanismo cosmico impersonale e, di fatto, indifferenziato. Gia' Martin Buber avvertiva che sussiste un altro livello di realta', un'altra dimensione diffusa dell'essere: il mondo dell'"esso", dell'impersonale, degli atteggiamenti e dei comportamenti oggettivanti (2). In ogni caso, il cammino della vita umana non riguarda la mera sopravvivenza: e' dialogico proprio perche' l'essere umano, per esistere, ha bisogno di senso, vuole inverarsi, deve poter riconoscere la verita'. Benche' la tradizione occidentale abbia spesso oscillato tra assolutismo cognitivo e relativismo, la verita' non e' ne' oggettiva, ne' soggettivo-proiettiva. E' semmai "soggetto" vivente, trascendente e presente, partecipabile e interpellante (3). Ecco perche' non si tratta semplicemente di dialogare sulla verita', ma con la verita'. Inoltrarsi nell'esperienza del dialogo in quanto ricerca della verita' significa anzi sperimentare che e' anzitutto la verita' a dialogare con noi, a istituire lo spazio stesso e le condizioni della reciprocita' dialogica. In questo senso, dal punto di vista della prospettiva soggettiva della persona o di una cultura, esso rappresenta l'esperienza dell'essere superati dalla verita' e, insieme, del poterla testimoniare proprio perche' non e' ne' totalmente separata da noi, ne' da noi prodotta. Questa verita' convoca gli esseri umani. Questo vale in tre significati essenziali per cogliere la profondita' antropologica del dialogo. In primo luogo, la verita' ci convoca nel senso che, coinvolgendoci interamente nel nostro essere, ci chiama a divenire noi stessi. Infatti la relazione con la verita' impegna tutta la persona; non solo la ragione, ma anche i sentimenti, il corpo, il desiderio, le emozioni, le diverse facolta' individuali, le stesse relazioni di cui la persona e' parte. Accettare liberamente questo coinvolgimento significa avviarsi a divenire armoniosi, superando scissioni e contraddizioni (4). Significa inverarsi e lasciarsi inverare, divenire veri, essere corrispondenti e interlocutori, con la vita, della verita' vivente. Percio' bisogna continuare a nascere, cioe' risalire, orientandosi, lungo l'utero della condizione biologica, psicologica, sociale e culturale che ci e' data per giungere a questa pienezza. Il dialogo con se' e' uno dei movimenti essenziali di questo risalire. In secondo luogo, e' per verita', e non solo per bisogno o per "simpatia", che cerchiamo l'altro. La verita' vivente ci convoca spingendoci a confermare la relazione. La ricerca della verita' e' sempre dialogo, cioe' incontro con gli altri e con le molteplici forme di alterita' (intrapersonali, interpersonali, sociali, naturali, divine) presenti nella realta'. Percio' questa ricerca non e' mai neutra o neutrale, ma eticamente costituita nel senso indicato in modo cosi' indimenticabile da Emmanuel Levinas (5). Nell'incontro con l'altro, con il suo volto, che e' dignita' e trascendenza incarnate, c'e' la fonte di ogni senso possibile, la via della verita'. Il dialogo con il prossimo e l'apertura dialogica alle forme dell'alterita' nel mondo sono un altro movimento essenziale di quel risalire al futuro che e' il divenire maieutico dell'esistenza. In terzo luogo la verita' convoca a se', alla partecipazione intima con la propria realta', per cui ogni vero sapere e' sempre testimoniale, racconta e attesta questa relazione. Ecco l'ulteriore movimento essenziale del nostro risalire al futuro. Se questo risalire al futuro e' sospinto, provocato, fondato dalla verita' vivente, allora possiamo arrivare a pensare che, a differenza di quanto accadeva nella maieutica socratica, dove i dialoganti generano la verita', siamo noi a essere concepiti dalla verita' stessa. Questo e' un punto essenziale per chiarire la portata metafisica dell'esistenza umana e della natura relazionale della nostra identita'. Con la nascita biologica noi siamo generati e, nel contempo, siamo creati. All'inizio di un'esistenza non c'e' solo il concepimento, che ha luogo grazie alla relazione tra i genitori, c'e' anche la relazione con l'Origine della vita universale, quella di cui le fedi e gli ateismi, le culture e le filosofie cercano il nome proprio. Un nome trasversale o interculturalmente accettabile, in tal senso, mi sembra quello del radicalmente Altro: l'origine e' un Altro che e' per noi radice, fondamento, fonte d'essere e di liberta'. Ora, proprio la coscienza della piena portata della costituzione comunicativa della persona e del valore rivelativo delle dinamiche del dialogo ci fa pensare che questo radicalmente Altro sia la Verita' vivente che ci chiama a nascere continuamente. Ma allora, in tale prospettiva, i tratti essenziali dell'umano - anzitutto l'essere persona, la liberta', il dialogo, la capacita' di ricevere e dare amore - possono essere interpretati non gia' come monopolio della nostra soggettivita', cosicche' vederli nel radicalmente Altro sarebbe frutto d'ingenuo antropomorfismo, ma come "metafora viva" (6) dell'Altro stesso. Possiamo pensare, quindi, alla liberta' della verita', al suo essere "persona", cioe' libera soggettivita' capace di comprendere, di volere, di amare. E se la relazione non e' solo un luogo, ma una storia, se l'essere umano non e' una statua, ma un viaggio, il radicalmente Altro non puo' essere immaginato come realta' statica e chiusa in se', bensi' come principio vivo, in divenire, capace di relazione e di storia senza che venga meno la sua identita' assoluta. La coscienza della forza maieutica del dialogo suggerisce che la nascita biologica e' solo la prima di una serie di possibili nascite della persona: quella psicologica, quella sociale, quella spirituale. Qui vorrei almeno accennare a quella rinascita che e' rappresentata da ogni autentica conversione. L'idea di metanoia spesso evoca un cambiamento di mentalita'. Ma la conversione e' qualcosa di piu' radicale e totale: e' la rigenerazione dell'intero essere della persona. Anche le relazioni interumane conoscono eventi di rigenerazione: il perdono, ad esempio, e' tale in forma eminente, perche' puo' conferire nuova vita a una relazione ormai morta. Chi prende atto del fatto che la vita si rinnova e che siamo soggetti - nel senso passivo e attivo del termine -di trasformazioni che sono vere e proprie nascite puo' accettare di riferirsi alla nascita come alla metafora della condizione umana. Ma io sto avanzando un'ipotesi ulteriore: quella secondo cui proprio un'antropologia della relazione e della comunicazione ci autorizza a credere che siamo noi a essere una metafora vivente della realta' del radicalmente Altro. Sottolineo tale indicazione non per elaborare in questa sede uno specifico discorso metafisico, ma per evidenziare il senso del nostro interesse verso la comunicazione stessa. Non si tratta semplicemente di essere piu' estroversi, meno aggressivi, piu' aperti alla novita' e all'alterita', ne' di razionalizzare e organizzare le modalita' del dialogo dentro una data comunita' o tra comunita' diverse. Si tratta anzitutto di cogliere come imparando a partecipare con liberta' e con la piena adesione del nostro essere alla corrente comunicativa e dialogica dell'esistenza umana, noi assumiamo la responsabilita' creaturale della relazione con il radicalmente Altro e con quei doni viventi che possiamo infine riconoscere negli altri. Infatti, anche nella prospettiva del cristianesimo comunicare non riguarda tanto i modi di fare o di parlare, quanto il divenire realmente figlie e figli di Dio, coeredi, sorelle e fratelli di Cristo. Si tratta, in altre parole, di aprire l'umano alla sua radice, alla sua qualita' ricapitolativa e alla sua destinazione divina. Sulla base di questa consapevolezza anche le forme, le tradizioni, le anticipazioni, i canali del concreto comunicare interumano potranno essere liberati e autenticamente dispiegati. Risulta di primaria importanza, in quest'ottica, il valore dell'ascolto. La disponibilita' ad ascoltare rappresenta infatti la soglia attraverso cui possiamo rinnovare la nostra partecipazione effettiva alle dinamiche del dialogo. L'ascolto e', insieme, apertura all'appello della verita' e all'interpellazione che ci viene dagli altri, nonche' scoperta di cio' che abita in noi come sentimento, desiderio, espressione dell'anima. Esso puo' essere tutto questo non solo come ascolto delle parole, ma anche come ascolto del silenzio. Il silenzio non va identificato semplicemente con la condizione preliminare per ascoltare realmente. E' prima di ogni altra cosa l'evento di un senso piu' radicale di tutto cio' che abbiamo detto e gia' sappiamo, l'evento di un oltresenso che puo' rinnovare la vita della coscienza. Cosi' esso offre uno spazio di nuova liberta' a chi accetta di sostarvi. E se si accetta questa paradossale ospitalita' dell'invisibile, forse si giunge a scoprire che il silenzio e' prossimo e vivo, e' presenza del radicalmente Altro in un'intimita' che ora non puo' piu' essere scambiata per vuoto o mera assenza di voci, suoni e rumori. Se la parola data e ricevuta, l'ascolto e il silenzio sono vissuti con l'attenzione dell'anima, la stessa che ha luogo nell'autentica preghiera, allora impariamo che queste dimensioni non riguardano soltanto la coscienza e i sensi, ma l'intero essere della persona. Si ascolta, oltre che con l'orecchio, con la vita. E dall'evento del silenzio possiamo uscire interamente rinnovati. Certo, siamo nell'ordine dell'eventuale, non si da' qui alcun automatismo. Anzi, proprio la consapevolezza della portata radicale della comunicazione ci aiuta a comprendere meglio che le patologie o i pericoli che minacciano il divenire dialogico-maieutico della persona e delle comunita' umane hanno una forma correlativa e tipica, quella di una alterazione della dialogia come tensione vitale propria della nostra condizione. Sono blocchi, inibizioni, chiusure monologiche, misconoscimenti e contraddizioni che pongono in scacco la comunicazione e congelano la natura comunicativa del nostro essere. Queste patologie possono derivare da un'iniziale insufficiente provocazione alla vita relazionale, da ferite e misconoscimenti ricevuti, dall'impossibilita' di elaborare nella comunione con qualcuno le frustrazioni subite e il dolore sperimentato, dal sentirsi minacciati e cosi' via. Il fattore ricorrente in tutti questi casi e' il prevalere dell'angoscia sulla fiducia essenziale all'essere in relazione. Di quell'angoscia che e' appunto una sfiducia radicale nella relazione, nell'altro - percepito come presenza minacciosa ed ostile, oppure come oggetto di possesso e di dominio - e persino nel fatto che l'altro stesso esista realmente. Il sentimento tipico di questa condizione d'angoscia e' quello dell'abbandono, dell'essere affidati soltanto a se', dell'isolamento e della precarieta'. Quando le patologie prevalgono, la persona e le comunita' si costruiscono un'identita' esclusiva, in cui si considerano il proprio essere e tutto cio' che e' amato come un possesso da negare agli altri. E' allora che l'identita' si definisce sempre solo per contrapposizione, escludendo ogni comunanza o comunione con chiunque. Le identita' esclusive divenute permanenti e cristallizzate, che nel cammino del diventare se stess icorrisponderebbero invece ad una fase evolutiva da vivere e da superare, sono evidentemente fragili perche' non reggono la relazione, non sanno assumere la convivenza come oggetto di scelta responsabile e di cura. Esse scindono la comunicazione dalla verita' e devono convogliare verso l'autodifesa aggressiva tutte le energie disponibili (7). Fallisce cosi' il delicato e cruciale processo della maturazione dell'identita' comunicativa, che invece prende forma imparando a confermarsi nelle relazioni ed a condividere cio' che si e' in modo che l'originalita' della persona o di una comunita' possa fiorire ed esprimersi creativamente. In un simile cammino di apprendimento esistono peraltro anche forme sane di "negazione", quelle in cui superiamo o arriviamo a recidere tutto cio' che impedisce di crescere, di continuare a nascere, di incontrare e di condividere. Anche per questo nella maieutica dell'esistenza c'e' il dolore: il dolore del parto, lo sforzo di superare il confine - mentre i confini sono per noi il fondamento della sicurezza - e di affidarsi - che di volta in volta e' ritrovare la fiducia nella relazione e in definitiva e' accettare di nascere, di continuare a rinnovarsi -. Fin qui ho parlato delle identita' umane stabilendo una sorta di correlazione analogica tra persona e comunita'. Adesso vorrei precisare che i due poli sono legati, giacche' la comunita', l'esistenza comunitaria, e' condizione concreta della nascita personale. * La comunita' come vocazione umana Buona parte della tradizione filosofica occidentale ha pensato la verita' e il mondo obliando la relazione, dunque a partire dall'angoscia dell'irrelazione, dalla condizione di chi ignora l'alterita' e il con-essere. E' quella che chiamo "metafisica dell'abbandono". La metafisica dell'abbandono non perde solo il senso della relazione, il senso come relazione, perde anche la memoria dell'Origine e legge il tempo come un vortice in cui tutto diventa rapidamente passato, dove poi il passato e' considerato come un puro nulla. E' quanto accade anche quando pensiamo alla creazione come a un evento immemorabile e in se' compiuto, finito, da cui siamo semplicemente distaccati. Ecco perche' ci e' cosi' familiare la condizione dell'esilio, ecco perche' tentiamo di esorcizzarla accanendoci a combatterla nella figura dello straniero. Se l'esistenza umana e' un viaggio, e se il mondo stesso e' un viaggio, d'altronde non e' solo il viaggio di chi e' in esilio e tenta il ritorno. Se cosi' fosse, la vita personale dovrebbe inseguire l'utopia regressiva del ritorno all'utero materno. Ma il nostro e' anche un viaggio di scoperta, di accesso a una vita ulteriore, di incontro, proprio come e' stata la nascita per ciascuno di noi. In realta' la creazione ci percorre, e' il processo ancora aperto (8) che diviene dentro, intorno e oltre a noi. Se prestiamo ascolto alla parola "creatura", ci accorgiamo che noi non siamo solo creati, siamo chiamati a nascere, siamo intessuti di futuro: siamo veramente quello che saremo. Ecco perche' il divenire ontologico del dialogo e' la tessitura della persona. I tre movimenti coimplicati del risalire al futuro - dialogo con se', con gli altri e le diverse presenze d'alterita', con la verita' vivente - hanno il profilo tipico di una conversione, cioe' di una "nuova nascita" (9). Per questa sua costituzione comunicativa la persona nasce e si sviluppa in realta' comunitarie, che non rappresentano solo strumenti funzionali all'individuo, ma schiudono una vera vocazione all'esistenza comunitaria. Se gli esseri umani continuano, almeno potenzialmente, a completare la loro nascita, il loro divenire sino in fondo se stessi, per tutta la vita, le diverse forme di comunita' sono a loro volta chiamate a preparare e favorire questo cammino di inveramento in cui non e' in gioco una generica relazionalita', ma la relazione di ciascuno e di tutti con il Bene. Le comunita', da quella familiare a quelle di accoglienza e di aiuto, dalla comunita' religiosa a tutte le forme ulteriori di esistenza comunitaria, si configurano in sintonia con la dignita' e le esigenze fondamentali dello sviluppo umano quando sono orientate dal principio della doppia eccedenza: non prevale il singolo sulla comunita', ne' questa su quella, in quanto, invece, entrambi sono riconosciuti nel loro irriducibile valore. Cosi' la persona resta un fine in se', ma a sua volta non puo' subordinare a se' o monopolizzare la vita di una comunita'. In luogo della gerarchia di valore che sacrificherebbe una di queste due realta', si pone la loro correlazione armonica. Quando una comunita' si mantiene all'altezza di questo principio, svolge per i singoli una duplice funzione nel percorso della loro umanizzazione. Da una parte permette a ciascuno il radicamento, ossia la possibilita' di avere una fonte vitale, un luogo di riconoscimento, una memoria, una pluralita' di volti amici e un orizzonte condiviso di senso per l'esistenza. In cio' la comunita' appare come un grembo che predispone la persona ad affrontare il suo cammino nella vita. In altre parole, la comunita' prepara a nascere. Aiuta le persone a giungere al riconoscimento ed eventualmente alla libera assunzione della loro vocazione. D'altra parte e proprio per questa sua funzione la comunita' e' chiamata ad aprirsi all'alterita', all'ulteriorita', e spinge i suoi membri alla piena assunzione della liberta'. Cosi' alimenta la trascendenza in quanto dinamica vitale di ognuno e della comunita' stessa, che allora si delinea come condivisione di trascendenze. In breve: la comunita' e' insieme casa e strada, radice e cammino. La riprova, in negativo, della rilevanza di tale duplice funzione sta nel fatto che chi e' sradicato, chi si trova forzatamente e precocemente a vivere senza questa possibilita' di legame e di riconoscimento viene colpito nel suo percorso di identificazione e di espressione. L'individuo atomizzato e perennemente in competizione con gli altri e' una caricatura dolorosa della fisiologia della condizione umana. Del resto, ogni esperienza comunitaria vive di una sua vocazione specifica, quella per cui e' chiamata ad anticipare la realta' di una comunione creaturale universale. Non c'e' comunita' concretamente visibile e determinata che racchiuda in se' l'orizzonte ultimo e la destinazione della condizione umana. Per questo ogni comunita' ha sempre i suoi "extracomunitari", coloro che per distanza, per dissenso e, talora, per essere stati esclusi non rientrano nella corrispondente forma di vita comune. Quando la ragione di tale estraneita' e' l'emarginazione, si tratta senza dubbio del segno e dell'effetto di una perversione violenta dell'esistenza comunitaria. Quella perversione che ha reso cosi' spesso soffocante, per molti, il termine stesso di "comunita'". In tal caso e' chiaro che il passaggio obbligato e' la conversione della comunita' in modo che la qualita' della convivenza sia liberata da meccanismi e logiche di dominio. Quando invece la comunita' resta particolare per il dissenso o comunque per la libera diversita' di altri che non vi si riconoscono, non siamo di fronte a un limite inaccettabile, bensi' al segno che la comunita' in se' e' solo un'anticipazione di una comunita' realmente universale che deve ancora trovare la sua realizzazione. In cio' una comunita' concreta e' simbolo escatologico della comune destinazione umana, quella di approdare alla piena comunione di tutti con tutti e con l'Origine della vita. Se le cose stanno cosi', alimentare, estendere e approfondire la comunicazione tra comunita' diverse e' un compito essenziale per scongiurare l'introversione e l'autoapologia che cosi' spesso le fanno ammalare, rendendole inadatte a far fronte alle loro funzioni umane. * Comunicazione e creaturalita' Al termine della mia riflessione, dopo aver delineato il significato umanizzante, maieutico e veritativo della comunicazione e del dialogo, posso esplicitare in una luce piu' appropriata il termine paradigmatico del tipo di antropologia di cui sto indicando le coordinate di fondo, quello di relazione. Veramente costitutiva per noi non e' una generica relazionalita', ma, in modo eminente e letteralmente fondativo, la relazione con il Bene. Sinora abbiamo sempre ritrovato, quale fonte e forza fondamentale permanente del divenire comunicativo delle identita' umane singole e comunitarie, un'ulteriorita', una trascendenza che di volta in volta si manifesta ed e' pensabile come Origine, Verita', radicalmente Altro, Oltresenso. Tuttavia, per specificare la qualita' essenziale di questa trascendenza costitutiva e dotata di molti nomi e' indispensabile recuperare il riferimento alla realta' del Bene. Con questa parola non intendo anzitutto un concetto della morale, ne' tanto meno una nozione giuridica o economica. Intendo invece l'unica realta' dell'Origine, della Verita', del radicalmente Altro, dell'Oltresenso in quanto essa si rivela come realta' buona, che vuole la relazione sino a suscitare l'altro da se', che dona liberta' senza mai revocarla, che ama la creazione e non ammette in se' o per l'altro alcuna distruzione. Nello scenario metafisico del pensiero greco il Bene era si' il principio supremo del reale, ma esso veniva immaginato in primo luogo sulla scorta dell'idea dell'assolutezza in quanto autosufficienza e, in via secondaria, come realta' diffusivo-generativa grazie alla quale esiste il mondo cosi' come lo conosciamo. Insomma, il Bene era tale perche' privo di qualsiasi effettiva relazione con l'altro da se'. L'orizzonte metafisico-esistenziale dell'antropologia della relazione induce invece a pensare al Bene come Comunione che fonda e alimenta sempre di nuovo il suo rapporto con noi e con il mondo coinvolgendovisi senza bisogno di una separazione assoluta e invalicabile. La riprova di questa rinnovata intuizione si ha nel considerare che gli esseri umani sono costituiti e tenuti in vita dagli atti di corrispondenza concreta al Bene stesso. Infatti ognuno di noi, lungi dall'essere un "self made man", deve tutto agli altri, in particolare agli atti di desiderio, accoglienza, responsabilita', cura, dedizione, educazione, condivisione del valore che ci hanno permesso di crescere e di assumere la nostra originalita' di persone. Per quanto possiamo atteggiarci a individui cinici, disincantati, "realisti", nessuno di noi si e' intessuto il proprio essere personale grazie agli atti di violenza, di negazione, di tradimento, di misconoscimento e di incuria subiti. Certo, dalla sofferenza si puo' imparare, ma questo diventa realmente possibile solo se ci sorregge il bene compassionevole e misericordioso di altri e, in definitiva, il bene del Bene. In tale prospettiva si capisce come in tutti i processi comunicativi sia implicata, in un modo o nell'altro, la relazione con questo Bene vivente e originante lungo la tensione essenziale legata all'alternativa tra creazione e distruzione. Scopriamo allora non tanto la nostra finitezza, quanto la nostra creaturalita'. Essa, oltre che nell'essere derivati da un'invisibile Origine, sta nell'essere chiamati a esistere secondo creazione, imparando progressivamente a rinunciare a logiche o a pratiche distruttive nella vita interiore, interpersonale, sociale e spirituale. Non posso non accennare al fatto che qui balena il valore antropologicamente rivelativo e universale del riferimento umano alla Resurrezione narrata dai Vangeli. Infatti la relazione con il Bene, che e' il cuore e il fondamento permanente della comunionalita' umana, si manifesta e si dispiega soprattutto dall'interno di situazioni di crisi radicale, nelle molteplici esperienze di morte che ci insidiano durante la vita. Poiche' infatti l'essenza del male e' la distruzione, tutte le volte in cui subiamo e operiamo il male facciamo un'esperienza di morte pur essendo biologicamente vivi. Chi invece si apre interamente alla relazione con il Bene - e questo si puo' fare riconoscendolo, confermandolo, traducendolo e ricomunicandolo nelle situazioni in cui ci troviamo - attraversa queste morti e assume una qualita' di vita in cui il divino trabocca nell'umano. Come trarre almeno qualche indicazione sintetica del percorso svolto sin qui? Dalla coscienza di quanto e' in gioco, per noi e per la storia di tutti, nella realta' della comunicazione, del dialogo e della relazione derivano, a mio parere, due compiti cruciali. Il primo e' quello di suscitare o rinnovare le forme dell'esistenza comunitaria, che sono le sole a consentire la fioritura delle identita' umane, salvando le persone dall'individualismo e dalla massificazione, nonche' dalla schiavitu' dinanzi ai sogni imperiali di qualsiasi potenza dominativa. Il secondo compito e' quello che impegna le comunita' esistenti a essere fonti di disinquinamento e di disapprendimento della distruttivita', scuole in cui si impara a rispondere al male con il bene, luoghi di anticipazione, per la societa' intera, di quella comunione creaturale universale che e' la vocazione ultima di ognuno e di tutti. * Note 1. Cfr. R. Alves, Parole da mangiare, Magnano, Edizioni Qiqajon, 1998. 2. Cfr. M. Buber, Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993, pp. 59-61. Del resto Dietrich Bonhoeffer, in una lettera del 21 febbraio 1944, osservava da parte sua: "Dio non ci incontra solo nel 'tu', ma si 'maschera' anche nell''esso', ed il mio problema in sostanza e' come in questo 'esso' ('destino') possiamo trovare il 'tu' o, in altre parole, come dal 'destino' nasca effettivamente la 'guida'" (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 289). 3. Per una giustificazione di queste tesi rimando al mio libro L'ascolto come radice. Teoria dialogica della verita', Esi 1995. 4. Cfr. M. Buber, Il cammino dell'uomo, Magnano, Edizioni Qiqajon, 1990. 5. Per una presentazione complessiva dell'opera levinasiana rimando a G. Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterita' e trascendenza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996. Per l'evidenziazione della dinamica del dono come filo conduttore di questa prospettiva rinvio a S. Labate, La sapienza dell'amore. In dialogo con Emmanuel Levinas, Assisi, Cittadella editrice, 2000. 6. P. Ricoeur, Metafora viva, Milano, Jaca Book, 1987. 7. Una delle figure tragicamente esemplari di questo tipo di identita' e' rappresentata oggi dal volto ufficiale degli Stati Uniti d'America e dal loro progetto di impero mondiale. 8. E' a questo divenire aperto e non ancora deciso che Ernst Bloch alludeva, pur escludendo l'idea di creazione, quando parlava del mondo come esperimento: cfr. E. Bloch, Experimentum mundi, Brescia, Queriniana, 1980. Sul senso dell'ontologia blochiana rimando al mio saggio Ermeneutica del desiderio. Un viaggio attraverso "Il principio speranza" di Ernst Bloch, in "Annuario Filosofico", n. 16, 2000, pp. 289-314. 9. K. Barth, Kirchliche Dogmatik, Zurich, EVZ, vol. I/1 (1932), pp. 158 ss., vol. IV, tomi 1, 2 e 3 (1953, 1955, 1959). 2. LIBRI. MARCELLO CINI PRESENTA "INSEGNARE A CHI NON VUOLE IMPARARE" DI ROSALBA CONSERVA E GIUSEPPE BAGNI [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 dicembre 2005 riprendiamo questa recensione di Marcello Cini del libro di Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva, Insegnare a chi non vuole imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su Bateson, Ega, Torino 2005, pp. 272, euro 14. Marcello Cini, nato a Firenze nel 1923, e' docente universitario di fisica, e autorevole ricercatore; ha partecipato attivamente alle discussioni degli ultimi decenni sulla storia della scienza, i temi epistemologici, la critica della scienza e della sua pretesa neutralita'; collabora al quotidiano "Il manifesto". Opere di Marcello Cini: L'ape e l'architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Feltrinelli, Milano 1976 (con G. Ciccotti, M. de Maria, G. Jona-Lasinio); Il gioco delle regole, Feltrinelli, Milano 1982 (con D. Mazzonis); Un paradiso perduto. Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli, Milano 1994. Rosalba Conserva insegna nelle scuole superiori e collabora con il Cidi di Roma; ha dedicato molti anni allo studio del pensiero di Gregory Bateson per alimentare la riflessione sul suo lavoro di insegnante; ha fondato, con altri, il "Centro Bateson" di Roma con l'intenzione di farne un laboratorio di idee e progetti; da tempo e' in relazione con Mary Catherine Bateson, figlia del pensatore, con la quale ha un comune impegno di ricerca. Opere di Rosalba Conserva: La stupidita' non e' necessaria. Gregory Bateson, la natura e l'educazione, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1996, 1997; Casa Barnaba, Manni, Lecce 2004; con Giuseppe Bagni, Insegnare a chi non vuole imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su Bateson, Ega, Torino 2005. Giuseppe Bagni ha una lunga esperienza di insegnamento nelle scuole superiori e collabora attivamente con il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti (Cidi). Opere di Giuseppe Bagni: con Rosalba Conserva, Insegnare a chi non vuole imparare. Lettere dalla scuola, sulla scuola e su Bateson, Ega, Torino 2005. Gregory Bateson e' nato nel 1904 in Inghilterra, figlio di un eminente scienziato; compie studi naturalistici ed antropologici, di logica, cibernetica e psichiatria; un matrimonio con la grande antropologa Margaret Mead; Bateson ha dato contributi fondamentali in vari campi del sapere ed e' uno dei pensatori piu' influenti del Novecento; e' scomparso nel 1980. Opere di Gregory Bateson: Naven, Einaudi, Torino; Verso un'ecologia della mente; Mente e natura; Una sacra unita'; Dove gli angeli esitano (in collaborazione con la figlia Mary Catherine Bateson), tutti editi da Adelphi, Milano. Si vedano anche i materiali del seminario animato da Bateson, "Questo e' un gioco", Raffaello Cortina Editore, Milano. Opere su Gregory Bateson: per un avvio cfr. AA. VV. (a cura di Marco Deriu), Gregory Bateson, Bruno Mondadori, Milano; Sergio Manghi (a cura di), Attraverso Bateson, Raffaello Cortina Editore, Milano. Cfr. anche Rosalba Conserva, La stupidita' non e' necessaria, La Nuova Italia, Scandicci (Fi), particolarmente sulle implicazioni educative e la valorizzazione in ambito pedagogico della riflessione e dell'opera di Bateson. Una bibliografia fondamentale e' alle pp. 465-521 di Una sacra unita', citato sopra. Indicazioni utili (tra cui alcuni siti web, ed una essenziale bibliografia critica in italiano) sono anche nel servizio con vari materiali alle pp. 5-15 della rivista pedagogica "Ecole", n. 57, febbraio 1998. Tra i frutti e gli sviluppi del lavoro di Bateson c'e' anche la "scuola di Palo Alto" di psicoterapia relazionale: di cui cfr. il classico libro di Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma; e su cui cfr. Edmond Marc, Dominique Picard, La scuola di Palo Alto, Red Edizioni, Como] Due insegnanti, Rosalba e Giuseppe, si interrogano sul loro mestiere nel corso di uno scambio di corrispondenza durato un intero anno scolastico. Entrambi insegnano alle scuole superiori, lei in un istituto tecnico, lui in un professionale. Colti, appassionati, animati da un profondo senso di responsabilita' per le conseguenze del loro agire sulla vita dei ragazzi e da un intenso investimento emotivo nei loro confronti, si trovano ogni giorno a dover tradurre tutto questo patrimonio intellettuale e morale in azioni, comportamenti e giudizi, mettendo insieme le finalita' istituzionali del loro ruolo e i dettami della loro coscienza. Nelle loro lettere si intrecciano dunque problemi didattici e scrupoli deontologici, si alternano resoconti di sofferti interventi d'autorita' e sincere prese d'atto di errori, vengono registrati episodi gratificanti e confessati momenti di sconforto. Alcune domande di fondo ricorrono, come fili di una trama, nel corso di tutta la corrispondenza, e ad esse accennero' brevemente piu' avanti. Ma prima vorrei cominciare presentando al lettore alcuni tratti della personalita' dei due protagonisti, anche attraverso le loro stesse parole. * Dire le cose in modo appropriato Rosalba Conserva e' una insegnante di lettere estremamente attenta ad assumere la precisione, le regole e il rigore come punti di riferimento essenziali del proprio insegnamento. Di qui, per esempio, viene la sua insistenza sull'importanza dell'insegnare ai ragazzi a dire le cose "nel modo universalmente riconosciuto come appropriato: un dire piano, fluente, grammaticalmente a posto, insomma, 'classico'". Giuseppe Bagni e', a sua volta, un insegnante di scienze che insiste continuamente a non voler trascurare nell'insegnamento di queste discipline il ricorso all'immaginazione, alla narrazione e all'imprevisto. "Cosa dovrebbe fare l'insegnante di scienze?" si domanda. In primo luogo - risponde - riconoscere "i contatti che le scienze hanno con la struttura della narrazione: con la contingenza come contesto che favorisce un evento rispetto agli altri - e, ad un altro livello, la scelta di una teoria rispetto ad altre possibili". Questo implica che "le pagine dimenticate di vita della scienza - gli anni di pausa della cosiddetta scienza 'normale', il tempo delle teorie in conflitto e i fattori che hanno spinto in favore dell'una o dell'altra, la scelta di una direzione e di un paradigma che automaticamente hanno reso le altre 'vicoli ciechi', il loro recupero spesso avvenuto in momenti successivi - sono preziose per insegnare il modo della costruzione delle conoscenze". L'apparente contraddizione di queste due figure di insegnanti rispetto allo stereotipo corrente dei rispettivi ruoli disciplinari non deve stupire: essa e' alla base, invece, della loro ricchezza umana e professionale. E' infatti conseguenza della profonda assimilazione delle idee di Gregory Bateson, che entrambi hanno assunto come riferimento costante. "L'intuizione di Bateson - scrive il secondo - che qualunque forma di apprendimento si muove su una linea a zig-zag che unisce i due poli della dicotomia rigore/immaginazione, per me fu una folgorazione fin dalla prima lettura". E gli fa eco la prima: "Anche per me quel capitolo di Mente e natura (sul procedere zigzagando di forma e processo) e' stato illuminante". E ancora, qua e la', ritroviamo continui riferimenti al pensiero batesoniano: "Tra le abitudini di pensiero - scrive Rosalba - che io e te abbiamo preso da Bateson ce n'e' una fondamentale: ammettere e coltivare visioni molteplici del mondo". Delineate cosi' le figure dei due protagonisti veniamo al tema di fondo che costituisce l'ossatura portante di tutto il libro, attorno al quale ruotano le loro riflessioni critiche, sorgono i loro dubbi sulle priorita' da scegliere e dal quale nascono i problemi dell'agire quotidiano. Esso e' gia' esplicitato nel titolo scelto: Come insegnare a chi non vuole imparare. "Quale deve essere - si chiede Giuseppe - la nostra risposta al problema dei ragazzi che di scuola 'non ne vogliono'?". Una domanda che ne ha per corollario un'altra: "La nostra acqua disseta davvero? Quello che insegniamo, e in generale la scuola che abbiamo oggi, e' quella buona, 'che forma i soggetti'?". Provo a individuare alcune delle risposte, ovviamente parziali e problematiche, che a piu' riprese affiorano nel dipanarsi del loro dialogo. Alcune riguardano piu' direttamente loro stessi, altre piu' i ragazzi e l'istituzione scolastica com'e' e come dovrebbe essere. I loro punti di vista non sono identici. * Non uno di meno? Se il fine comune a entrambi (l'imperativo della maestrina cinese del film Non uno di meno e' piu' volte citato da tutti e due) e' quello di individuare come fare una scuola di tutti e con tutti, appare tuttavia evidente che ognuno dei due lo sente in modo diverso. "La scuola pubblica non e' qualunque scuola 'aperta al pubblico' - scrive Giuseppe - ma e' quella che da' valore, per se' e per la societa', al costruire luoghi di apprendimento eterogenei dove le biografie di alunni e alunne possano aprirsi e mescolarsi. Intrecciare storie e generazioni, favorire le contaminazioni senza che si trasformino in domini: questo e' l'obiettivo". Non si puo' dunque, come si tenta di fare anche a sinistra, "trovare un percorso su misura per quei trenta su cento che escono senza titoli dalla scuola". Insomma: "Per chi non ne vuole, di scuola, ci deve essere un'attenzione particolare: ma non meno scuola... La maggior parte di quelli che 'non ne vogliono' sono il prodotto di questa scuola e si recuperano dimenticandoci dei trenta e pensando ai cento". Rosalba dal canto suo tende a cercare di affrontare il problema dei "ragazzi non-bravi" - non solo di quei trenta che si perdono, ma anche della maggioranza che subisce la scuola come un noioso dovere - domandandosi: "Dove nasce l'indifferenza dei ragazzi per la scuola?". E risponde: "La societa', certo, con i suoi nuovi valori e disvalori ci mette del suo". Ma, secondo lei, "l'indifferenza viene soprattutto dalle poche attese che hanno, dai pochi successi e dai pochi riconoscimenti dei successi. Vogliamo che imparino, conoscano nomi e formule, ma non curiamo abbastanza che ri-conoscano il valore di quello che fanno". Non serve dunque motivare l'apprendimento scolastico attraverso la sua funzione di favorire in futuro promozione e inserimento sociale, ma occorre dare ai ragazzi "una ragione per venire a scuola e una per restarci", lavorando "al livello delle relazioni di classe". La differenza dei rispettivi punti di vista si ritrova su altre questioni. Una e' la pratica studentesca dell'autogestione che ogni anno si rinnova, piu' o meno ritualmente, con risultati che Rosalba giudica assai severamente, mentre Giuseppe - pur concordando nel deplorare gli episodi di vandalismo ai quali talvolta le occupazioni danno luogo e nel constatare la velleitarieta' e la vacuita' di molte di queste azioni - ne coglie anche alcuni aspetti positivi. Mi accorgo a questo punto che tutto quello che ho detto lascia fuori dalla porta i protagonisti veri di questo libro: le ragazze e i ragazzi che riempiono le sue pagine con le loro vite di adolescenti, le loro difficolta' scolastiche ed esistenziali, ma anche i loro successi e le loro scoperte. C'e', per esempio, Andrea Demarco, che fa impazzire Rosalba: "Certe volte mi cascano le braccia. Con Demarco le ho provate tutte, fino a quando mi sono arresa... Forse - gli ho detto - sbaglio io, sbagliamo tutti noi a tirarti da una certa parte, nell'unica direzione che abbiamo scelto per te nonostante la tua volonta'". Ma per lui non e' finita bene: alla fine dell'anno e' stato bocciato, nonostante gli scrupoli di Rosalba che tenta, senza riuscirci, di ripescarlo all'ultimo momento. Non se l'aspettava: il giorno dell'uscita dei quadri "ha girato come un pazzo per la scuola inseguito dai bidelli che lo consolavano". E allora Rosalba si domanda: "Che hanno di diverso Demarco e Cardelli (l'altra bocciata con lui) rispetto ad altri, che come loro non hanno aperto un libro e come loro hanno fatto casino per tutto l'anno?". La risposta e' amara: "Demarco e Cardelli, persone innocenti, non sanno ricorrere alle giuste furbizie: quelle che noi insegnanti ci aspettiamo perche' l'essere ingannati si accompagna al riconoscimento della nostra autorita'. Demarco e Cardelli sono insomma ingenuamente e costantemente 'fuori contesto' - a scuola s'intende, altrove se la cavano benissimo - e, per ragioni diverse, lasciati soli a sbrigarsela con gli affari di scuola". * Occupazione produttiva E poi c'e' Sonia Nocera, l'alunna di Giuseppe che alla fine di una settimana di occupazione si dichiara felicissima di aver conosciuto piu' ragazzi in quella settimana che nei tre anni precedenti e tra questi alcuni molto in gamba dai quali ha "imparato tantissimo". "Nessuno mi toglie dalla testa - commenta Giuseppe - che Sonia dentro l'autogestione (dentro la scuola quindi) abbia trovato un motivo per imparare, scoprendo un modello positivo di adolescente istruito. Un modello comprensibile per una studentessa come lei, tipica di una scuola di massa, e alla sua portata". Giuseppe ha visto giusto. Nell'ultima lettera, raccontando degli scrutini finali, "Sonia e' stata bravissima" - scrive. "La qualifica sopra il settanta, dopo due anni di bocciature e tribolazioni". E infine c'e' la storia di Orkan, l'unico ragazzo rom che, finita la scuola media, ha chiesto di continuare a studiare. Ma non ve la racconto, perche' non voglio togliere ai lettori il gusto di scoprire come va a finire. Vi auguro buona lettura. 3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 4. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1143 del 13 dicembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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