La nonviolenza e' in cammino. 1128



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1128 del 28 novembre 2005

Sommario di questo numero:
1. Marina Forti intervista Mahasveta Devi
2. Giulio Vittorangeli: "Il nocciolo di quanto abbiamo da dire"
3. Enrico Peyretti: Avvento
4. Emanuele Bottaro presenta "Questa non e' un'autobiografia" di Pierre
Bourdieu
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. MARINA FORTI INTERVISTA MAHASVETA DEVI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 novembre 2005.
Marina Forti, giornalista particolarmente attenta ai temi dell'ambiente, dei
diritti umani, del sud del mondo, della globalizzazione, scrive per il
quotidiano "Il manifesto" sempre acuti articoli e reportages sui temi
dell'ecologia globale e delle lotte delle persone e dei popoli del sud del
mondo per sopravvivere e far sopravvivere il mondo e l'umanita' intera.
Opere di Marina Forti: La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati
ambientali nel Sud del mondo, Feltrinelli, Milano 2004.
Su Mahasveta Devi (ma il nome e' sovente traslitterato anche in Mahasweta
Devi) dalla medesima fonte riportiamo la seguente scheda: "Nata a Dacca, nel
Bengala Orientale (l'attuale Bangladesh), nel 1926 in una famiglia di
intellettuali, Mahasveta Devi e' insegnante, scrittrice, giornalista,
autrice di venti raccolte di racconti e circa cento romanzi, quasi tutto
scritto nella sua lingua madre, il bengali. E' da sempre impegnata a favore
dei diritti civili e sociali delle popolazioni tribali dell'India; ai suoi
sforzi si deve la pubblicazione di Bortika, un giornale dedicato alle
comunita' oppresse, e la fondazione dell'Aborigenal United Association. In
gioventu' partecipo' al Gananatya, un gruppo che cercava di portare il
teatro politico e sociale nei villaggi rurali del Bengala negli anni '30 e
'40. Si e' formata alla scuola di Shantiniketan, fondata da Rabindranath
Tagore; e' militante comunista fin dagli anni dell'universita', dove ha
conseguito la laurea in letteratura inglese. Pubblica il primo romanzo nel
1956, Jhansir Rani (La Regina dello Jhansi) seguito, tra gli altri da:
Amrita Sanchay (1964) e Andhanmalik (1967), entrambi ambientati nel periodo
coloniale e Hajar Churashir Ma (Mother of 1084, del 1974), l'opera che mette
al centro il movimento naxalita portata sullo schermo dal regista Govind
Nihalani. Fino al 1984 insegna all'Universita' di Calcutta, citta' dove
risiede. Ha ricevuto il premio Magsaypay, equivalente asiatico del Nobel per
la pace. Dei suoi molti scritti sono stati tradotti in italiano: La cattura
(Theoria, 1996), India segreta (La Tartaruga, 2003), La preda e altri
racconti, (Einaudi, 2004, a cura di Anna Nadotti), e infine La trilogia del
seno, tre racconti commentati da Gayatri Chakraborti Spivak, presentato in
questi giorni dall'editore Filema (a cura di Ambra Pirri)"]

Mahasveta Devi, capelli raccolti sulla nuca e un'elegante sciarpa di lana
sul sari frusciante, tiene a precisare che in gennaio compira' 80 anni. Lo
ha ripetuto anche l'altra sera, all'Auditorium di Roma, quando ha tenuto una
fitta platea mentre parlava di cinema e di scrittura, col suo linguaggio
elegante e diretto. Mahasveta Devi, una delle piu' significative scrittrici
indiane, e' in Italia su invito della rassegna Umbria libri, che lei stessa
ha inaugurato mercoledi' scorso, e degli Incontri con il cinema asiatico, il
festival che si concludera' domenica a Roma. L'incrocio tra libri e cinema
rende giustizia di una signora che tiene incollato il pubblico (e, piu'
tardi, l'intervistatrice) con la stessa semplicita' con cui cattura lettori.
Perche' le parole di Devi evocano immagini: "Le donne dei suoi racconti
sembrano balzare fuori dalle pagine e assumere tre dimensioni", come faceva
notare Anna Nadotti, curatrice di una raccolta di suoi racconti per Einaudi.
"Mahasveta Devi ha l'abilita' di entrarti dentro e lo fa come d'istinto, non
c'e' nulla di artificioso nella sua scrittura", aggiunge Naveen Kishore, che
dirige Seagul Books, la casa editrice di Calcutta e Londra che ha raccolto
l'opera quasi complera della scrittrice.
Ottant'anni, dunque: "Ma voglio vivere altri vent'anni", dice lei, "perche'
voglio scrivere la mia autobiografia. Ho cominciato a scriverla in effetti,
ma non mi piaceva. Voglio spiegare perche' la scrittura per me e' uno
strumento di battaglia".
Gia', perche' nei suoi racconti e romanzi si agita un mondo di oppressi,
donne e uomini del'India rurale profonda, storie di ingiustizie cocenti ma
anche di rivolta. Scrivere, dice, le e' venuto naturale: "Mio padre era un
poeta e scrittore, mia madre scriveva poesie e racconti, mio zio... Sono
andata all'universita' di Shantiniketan quando era ancora vivo Rabindranath
Tagore, nel 1936, e in quei giorni di scuola tutto mi ispirava a scrivere...
Ma insiste: nella sua scrittura c'e' uno scopo. "Il mio primo libro e' stato
The Rani of Janshir. Questa rani [regina] era stata una leader della prima
guerra di indipendenza contro i britannici, nel 1857-'58. Aveva combattuto
con un esercito di donne. Io volevo capire perche' una donna che era stata
maritata a 8 anni, all'eta' di 18 decide di andare a combattere, si mette
alla testa di un'armata, cavalca, combatte, fino a essere uccisa a 22 anni.
Cosa l'ha spinta? Cosi' ho lavorato alla sua biografia. Mio figlio aveva 4
anni, l'ho lasciato a mio marito e ho viaggiato nelle zone remote dove la
rani aveva vissuto, a raccogliere la memoria di quegli eventi: per me la
tradizione orale e' una fonte importante della storia. C'e' molto da
scoprire in cio' che le persone magari analfabete raccolgono nella loro
memoria".
*
- Marina Forti: Lei infatti ha detto che il suo lavoro di scrittrice e'
"scoprire l'India".
- Mahasveta Devi: Le strade di Calcutta sono cosi' piene di vita... Si', io
in tutti questi anni ho cercato di scoprire l'India, la vita delle persone
comuni, le ingiustizie, le enormi potenzialita' di tante persone forti,
coraggiose, che soffrono e combattono. La natura dello sfruttamento va
scoperta. Anche la lingua: se scrivi delle comunita' di pescatori, o
contadini, o tribali, devi rispettare il loro linguaggio cosi' diverso da
quello di una persone istruita urbana. Siamo circondati di lingue viventi:
dobbiamo ascoltarle con rispetto e usarle [Devi scrive in bengali, e spesso
nei suoi testi entrano parole di hindi, o santal, o altre lingue usate dalle
popolazioni di cui scrive. Ci sono anche parole in inglese, di solito i
vocaboli che alludono alle autorita', lo stato, la repressione. Come la
parola encounter, "incontro", che in Devi ha preso il significato di
"scontro" tra gente in rivolta e la polizia o l'esercito - m. f.]. E' vero,
in tutti i miei scritti io do' battaglia per la giustizia sociale. E quelle
storie di ingiustizia andavano scritte. Perche' l'ingiustizia sociale e'
ovunque. La giustizia del resto non e' cosa che ti puo' essere consegnata:
va conquistata, e una persona sola non ce la fara' mai, ci vuole una
volonta' collettiva. Con i miei scritti ho cercato di fare qualcosa.
*
- Marina Forti: Molte sue protagoniste sono donne: lei ha detto che il corpo
femminile e' il piu' esposto all'ingiustizia.
- Mahasveta Devi: Mi hanno definito una "accanita femminista". Io scrivo di
una societa' in cui donne, uomini, bambini, tutti sono vulnerabili. La donna
pero' e' piu' vulnerabile, e proprio per il suo corpo: e' stato cosi'
attraverso la storia. E' cosi' nella vicenda di Draupadi, uno dei miei
racconti: al centro c'e' lei che subisce uno stupro di gruppo. E perche'?
perche' dava sostegno ai giovani ribelli della sua comunita' tribale. Suo
marito e' stato ucciso. Per "punirla" della sua ribellione sarebbe bastata
anche per lei una pallottola, ma invece decidono per lo stupro. La donna ha
un corpo attraente, capace di amare e di generare figli. Questa e'
l'immagine della donna, colei che genera e nutre gli umani, l'acqua, la
terra, gli animali. Dunque, se vuoi darle una lezione fai violenza al suo
corpo. Io parlo dell'India ma questo e' vero ovunque, donne punite perche'
si sono ribellate al sistema.
*
- Marina Forti: L'India e' cambiata negli ultimi anni, e molto in fretta.
- Mahasveta Devi: E' cambiata in superfice. Anche l'India rurale sta
cambiando molto. Ma nel fondo restano i problemi di sempre: la distribuzione
ineguale della terra e delle ricchezze. Abbiamo zone di grandi ricchezze
minerarie ma le popolazioni che vi abitano sono escluse da ogni beneficio.
L'ultimo esempio e' nello stato dell'Orissa, il distretto di Kassipore, una
zona tribale. Vi hanno scoperto bauxite, asbesto e altri minerali, e hanno
dato le concessioni ad alcune grandi aziende minerarie, indiane e non.
Queste hanno preso possesso della zona e cacciato via gli abitanti tribali.
Per questo dico: le tecnologie, la scienza, la modernita' arrivano in India
ma per il solo beneficio di una piccola elite. Se leggi bene del resto vedi
che la mia India non e' molto diversa dalla vostra Italia, e' sempre un
problema di ingiustizia redistributiva.
*
- Marina Forti: Eppure l'India appena divenuta indipendente aveva varato la
riforma agraria, per smantellare le grandi proprieta'.
- Mahasveta Devi: Quella riforma non e' stata realizzata. La terra in
eccesso non e' stata distribuita, quasi ovunque i grandi proprietari si sono
tenuti i loro latifondi. Mentre le popolazioni che vivevano della terra,
tribali e non, hanno perso la loro. In Bengala occidentale qualche riforma
e' stata fatta: ma proprio qui ora vedi grandi speculatori che comprano
grandi estensioni di terreni agricoli dai loro proprietari impoveriti. Per
sviluppi industriali, dicono, ma si tratta di speculazioni edilizia,
costruiscono belle case da rivendere ai grandi ricchi - mentre coloro che
hanno ceduto la terra per pochi soldi sono espulsi, finiranno in qualche
slum oppure a lavorare come domestici. L'espulsione delle comunita' tribali
dalle loro terre e' massiccia. Sui tribali, gli abitanti originari
dell'India, resta lo stigma sociale. Vivono nelle foreste, esclusi dalle
modernita' come l'istruzione, l'acqua potabile o le strade. Ci sono venti
milioni di tribali in India: usati, linciati, uccisi dalla polizia nella
totale impunita'. E cacciati dalle loro terre. Per me, lavorare per
ristabilire i loro diritti umani e di cittadini e' la cosa piu' importante.
Vede, ci sono ottime leggi in India. Ma chi difende i diritti di queste
persone? Spesso a casa mia vengono persone a chiedere aiuto: un figlio
arrestato senza accusa, un familiare in ospedale, l'esproprio di un piccolo
negozio - io cerco di aiutare come posso, scrivo ai giornali, preparo
petizioni. Ma sono piccole cose. Dove sono gli ospedali, i medici, le
scuole? Scriva: la non applicazione delle politiche statali ha portato
l'India al presente stato di ingiustizia. Solo un piccolo dieci per cento
della societa' beneficia dello sviluppo. Fino a quando?
*
- Marina Forti: Da un suo raccolto, Madre del 1084, e' stato tratto un bel
film di Govind Neelani. Narra dei naxaliti, il movimento di estrema sinistra
che prese il nome da una rivolta di braccianti agricoli e aveva fatto
proseliti tra contadini e operai urbani, intellettuali e studenti,
lavoratori e classe media. Molto si e' discusso della violenza e del diritto
a rivoltarsi...
- Mahasveta Devi: Tutti hanno il diritto a rivoltarsi. Per questo affermo
che un diritto umano fondamentale e' il diritto a sognare. Tutti hanno i
propri sogni. Ad esempio un mondo senza polizia e sfruttatori. O il sogno
dell'eguaglianza sociale. Grandi cose sono nate dai sogni.
*
- Marina Forti: Lei insiste che c'e' un grande gap di comunicazione nel
mondo. Cosa intende?
- Mahasveta Devi: Un gap comunicativo e' che stai seduto nella tua comoda
casa di Calcutta e non hai neppure idea della vita in un villaggio senza
acqua potabile, strada, scuola, ambulatorio. Magari vai a vedere ma non sai
come leggere cio' che vedi perche' ti e' lontano. Ci sono molti gap di
comunicazione. La valle di Narmada, ad esempio: il governo costruisce grandi
dighe e costringe centinaia di migliaia di persone ad allontanarsi dalle
loro terre. Se parli e dici che una popolazione e' rimasta senza casa, terra
e diritti, e che non vogliono quattro soldi ma terra in cambio della terra
persa, ti dicono che stai facendo political disturbance. E' un altro gap di
comunicazione.
*
- Marina Forti: Dunque per lei "gap di comunicazione" e' l'ingiustizia
sociale.
- Mahasveta Devi: Appunto. E le parole sono uno strumento di lotta. Le
parole hanno un potere enorme. Le parole scritte ma anche quelle
pronunciate, quelle antiche nascoste nei manoscritti... Quale arma e' piu'
forte della parola? Le grandi armi non durano perche' hanno il potere di
distruggere, non di creare. Le parole invece creano, e poi le parole durano.
Dicono che unisco la scrittura all'attivismo sociale? Per me la scrittura e'
attivismo sociale.

2. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: "IL NOCCIOLO DI QUANTO ABBIAMO DA DIRE"
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento.
Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo
notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre
nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'".
Primo Levi e' nato a Torino nel 1919, e qui e' tragicamente scomparso nel
1987. Chimico, partigiano, deportato nel lager di Auschwitz, sopravvissuto,
fu per il resto della sua vita uno dei piu' grandi testimoni della dignita'
umana ed un costante ammonitore a non dimenticare l'orrore dei campi di
sterminio. Le sue opere e la sua lezione costituiscono uno dei punti piu'
alti dell'impegno civile in difesa dell'umanita'. Opere di Primo Levi:
fondamentali sono Se questo e' un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La
ricerca delle radici, L'altrui mestiere, I sommersi e i salvati, tutti
presso Einaudi; presso Garzanti sono state pubblicate le poesie di Ad ora
incerta; sempre presso Einaudi nel 1997 e' apparso un volume di
Conversazioni e interviste. Altri libri: Storie naturali, Vizio di forma, La
chiave a stella, Lilit, Se non ora, quando?, tutti presso Einaudi; ed Il
fabbricante di specchi, edito da "La Stampa". Ora l'intera opera di Primo
Levi (e una vastissima selezione di pagine sparse) e' raccolta nei due
volumi delle Opere, Einaudi, Torino 1997, a cura di Marco Belpoliti. Opere
su Primo Levi: AA. VV., Primo Levi: il presente del passato, Angeli, Milano
1991; AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1994;
Marco Belpoliti, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano 1998; Massimo Dini,
Stefano Jesurum, Primo Levi: le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992;
Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica,
Einaudi, Torino 1997; Giuseppe Grassano, Primo Levi, La Nuova Italia,
Firenze 1981; Gabriella Poli, Giorgio Calcagno, Echi di una voce perduta,
Mursia, Milano 1992; Claudio Toscani, Come leggere "Se questo e' un uomo" di
Primo Levi, Mursia, Milano 1990; Fiora Vincenti, Invito alla lettura di
Primo Levi, Mursia, Milano 1976]

Nel corso dell'assemblea generale del 27 ottobre 2005 le Nazioni Unite hanno
deciso di proclamare il 27 gennaio Giornata internazionale in memoria delle
vittime della Shoah.
In particolare gli Stati membri sono tenuti a organizzare programmi
educativi per la memoria delle future generazioni, perche' simili orrori non
si perpetrino mai piu'.
Il 27 gennaio del 1945 e' la data di liberazione del campo di sterminio
nazista di Auschwitz, da parte dei soldati russi. Primo Levi, ne La tregua,
descrive cosi' il loro arrivo: "Non salutavano, non sorridevano; apparivano
oppressi, oltre che da pieta', da un confuso ritegno, che sigillava le loro
bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa
vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni
volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che
i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa
commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta
irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volonta'
buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa".
*
Le parole di Levi impongono oggi di riflettere su ogni forma di disprezzo
della dignita' umana, di razzismo, di xenofobia; dovrebbero spronarci a
realizzare un mondo nel quale la dignita' di ogni essere umano sia
rispettata.
In realta' sentiamo crescere intorno a noi un clima di fastidio verso la
memoria di un passato che non passa; l'affermarsi di una tendenza alla
rimozione, sia delle tragedie passate sia delle previsioni gravide di
pericoli, che ci rende ciechi al passato ed al futuro per farci vivere in un
presente consolatorio perche', sostanzialmente, irresponsabile.
Da qui l'affermarsi delle tesi dei cosiddetti "revisionisti", o peggio
ancora di quelle dei "negazionisti"; di chi impunemente vuole dare un colpo
di spugna su avvenimenti che hanno messo in causa l'essere umano
(trasformandolo in un lupo per i suoi simili: homo homini lupus), la storia,
la civilta' umana.
Quante volte ci siamo sentiti dire: "Auschwitz? ma e' trascorso mezzo
secolo!". Dimenticando che per l'essere umano offeso non e' trascorso un
attimo. Oppure ci siamo trovati davanti al tentativo di omologazione della
Shoah ad altri crimini contro l'umanita'; dimenticando che i lager nazisti e
la Shoah sono stati un unicum nella nostra storia.
Tutto questo con il cinico intento di disinnescare la memoria; di
banalizzare insomma, se non addirittura negare (e c'e' chi l'ha
spudoratamente fatto), la realta' di Auschwitz, facendo leva sulla nostra
barbara assuefazione alle stragi che tuttora insanguinano il pianeta.
Sarebbe ben triste se nella nostra coscienza lo sterminio nazista (la
civilta' della barbarie proclamata da Hitler) divenisse un ricordo monotono
e confuso semplicemente perche' preceduto, accompagnato e seguito da altri
stermini (che insegnano di quanta barbarie grondi la civilta') e alimentasse
in noi piu' l'assuefazione che l'indignazione.
Invece dobbiamo renderci conto di quanto di quel mondo concentrazionario e'
morto e non ritornera' piu', e quanto e' tornato e sta tornando, e "che cosa
puo' fare ciascuno di noi perche' in questo mondo gravido di minacce, almeno
questa minaccia venga vanificata" (Primo Levi, ne I sommersi e i salvati).
*
L'altro rischio in cui frequentemente si rischia di cadere e' quello della
demonizzazione astorica e astratta del nazismo; anch'esso una forma di
archiviazione. Il desiderio di spingere al massimo la condanna del nazismo
induce facilmente all'assoluto metafisico, alla demonizzazione come
alterita' assoluta. Ma in questi termini non solo va perduta la realta'
dell'evento storico, ma anche un suo dato decisivo. Se indulgiamo a
tracciare una separazione quasi di specie tra "noi" (il genere umano) e
"loro" (i mostri non umani), come se il nazismo fosse un fenomeno alieno,
non faremmo che un vano esorcismo pretesamente rassicurante, oltre che una
astratta semplificazione. Ma la maggior parte degli avvenimenti storici non
sono semplici, o non semplici della semplicita' che piacerebbe a noi.
L'orrore della Shoah non e' avvenuto fuori dalla storia, e come ha scritto
ancora una volta Primo Levi, ne La ricerca delle radici, "Gli assassini di
milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci
rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato,
consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell'ossequio e del
consenso, che e' senza ritorno".
Infine, dobbiamo sempre tenere presente il rischio, nascosto, di scivolare
nelle buone intenzioni della predicazione commemorativa; visto anche il
proliferare di "giornate della commemorazione". La retorica di queste
iniziative rischia di diventare sterile. Il problema non e' tanto quello
della memoria, del ricordare, ma dell'uso politico che della memoria si fa.
Perche' la storia della deportazione razziale e politica nei campi di
sterminio, non puo' essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste e
naziste in Europa. Ad Auschwitz si arrivo' partendo da una panchina su cui
si scrisse "proibita agli ebrei". Non dimentichiamolo. Perche' come ammoniva
Primo Levi, tutto cio' "e' avvenuto, quindi puo' accadere di nuovo: questo
e' il nocciolo di quanto abbiamo da dire".

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: AVVENTO
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno
di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha
fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il
foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel
Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian
Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro
Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo
comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione
col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento
Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora
a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del
"non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto
il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

"Perche', Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il
nostro cuore, cosi' che non ti riconosciamo? Ritorna, per amore dei tuoi
figli, della tua eredita'" (Isaia 63, 16-17)

"Che cos'e' l'utopia, se non una verita' prematura?" (Alfonso Guerra)

Avvento e' parola della stessa famiglia di Attesa, Attenzione, Avvenire,
Avventura, Avvenimento. Non e' parente - cosi' mi sembra - di Evento.
Neppure Futuro (una forma che sara' dell'essere che e' gia') mi sembra ricco
come Avvenire. Le parole composte con "ad" sono tese in avanti, rivolte ad
Altro, al non gia' noto (docta ignorantia), non sono solo la crescita di
cio' che abbiamo e sappiamo.
Oggi in gran parte delle chiese cristiane comincia l'Avvento. Generalmente,
e' inteso come l'attesa del Natale. Le luminarie commerciali nelle vie, il
traffico piu' pazzo che mai, il clima della religione bambinesca perche'
rimasta nana, conducono alla festa piu' sentita ma forse la meno cristiana
di tutte le feste religiose praticate in societa'. Chi crede in Gesu', il
Cristo, mai come a Natale e' a disagio nella religione corrente.
Credere non e' un bel ricordo, una dolce abitudine, non e' un pio esercizio
per sentirsi sicuri, non e' essere persone civili, non e' apertura mentale a
tutte le possibilita' ("Ci sono piu' cose in cielo e in terra, Orazio,
..."). E' sapere e sperimentare per persuasione certa, nata dal dono di una
intima frequentazione, ascolto, colloquio, che Gesu' e' vivo e che, in lui,
colui che chiamiamo Dio e' presente accanto a noi, nel piu' intimo della
nostra persona e al centro delle vicende della nostra esistenza: una
presenza invisibile, impalpabile, non calcolabile, non dimostrabile ne'
definibile, ma sperimentata tanto quanto la nostra propria esistenza.
Questa esperienza include anche i momenti di assenza. Quando Dio e' assente,
il suo posto vuoto indica la sua presenza attesa. "Dio mio, Dio mio, perche'
mi hai abbandonato?" e' una somma preghiera, che fa presente Dio in forma di
assente.
Ora, Gesu' non e' alle nostre spalle, ma davanti a noi. Possiamo dire, con
rispetto e liberta', che ridurre il Natale a commemorare la sua nascita, con
scenette da asilo infantile, e' deviante, fa schermo e ostacolo alla fede.
Letteralmente, e' una "eresia", una riduzione, uno strappo.
Chi crede in Cristo lo sa: egli ci precede e ci viene incontro. Ci volta le
spalle camminando come guida che apre strade e sollecita, e al tempo stesso
ci rivolge il viso chiamandoci a seguirlo, aspettando e incoraggiando il
nostro passo incerto.
Natale e' festa di Cristo che viene, assai piu' che di Cristo venuto.
Avvento, ben piu' che Evento. Anche nella vita naturale, se non e' continua
rinascita, una nascita non e' nascita. In fondo, noi che siamo nati abbiamo
da nascere sempre di nuovo, tutti, ad ogni eta', per poter dire di essere
nati e di vivere. Un bimbo appena nato, si e' detto, comincia a morire. Ma,
ben di piu', comincia a nascere continuamente, se e' nato una volta. Il tema
della nostra natalita', come e piu' della nostra mortalita', troppo facile
da vedere, e' stato colto dal pensiero piu' fine del nostro tempo,
soprattutto di donne filosofe.
Anche chi non puo' dire di avere fede, spera qualcosa, altrimenti neppure
respirerebbe. Forse persino chi sceglie la morte volontaria, spera in uno
stato meno nemico della vita che ha. E chiunque spera ha mandato davanti a
se' il proprio cuore. Il cuore non aspetta di vedere e di sapere, per
precedere piedi e mani nel cammino e nell'opera. Anche il piu' freddo
realista, spia nella realta' la sua possibile evoluzione. Prevedere e' una
componente indispensabile del vedere. Chi nulla attende nulla vede e nulla
tocca.
Se Cristo fosse venuto e basta, se non stesse sempre venendo, sarebbe uno
dei tanti ricordi grandi della nostra umanita', la quale, quando ha
coscienza del proprio presente, e' soprattutto umiliata da quei ricordi. Se
fosse solo una luce apparsa, sarebbe un tramonto. Siamo indegni dei doni del
passato. Siamo, per dono, fatti degni di attendere doni, e questa nostra
dignita' e' la nostra grandezza e il nostro salutare tormento. Per questa
dignita' non abbiamo pace, siamo costituiti di sete. Gioia e bellezza sono
per noi pura attesa, ed ogni presente gioia e valore rinvia e invoca un piu'
ampio e pieno orizzonte. Il Natale di Cristo e' solamente la vigilia della
sua Pasqua continua, che apre la Parusia.
Cristo viene nella vita personale, mentre, vivendo e costruendo, impariamo a
vivere la morte, la caduta del velo, lo scollinare verso l'altopiano, la
consegna del lavoro, la perdita di tutto cio' che siamo per trovare la
verita' di noi stessi, l'incontro qui assaggiato nell'oscurita', giorno dopo
giorno, fino al giorno pieno. Ci viene incontro nel fermento immesso dal
cielo nella tormentata storia umana, che non e' progresso garantito, ma
garantita inquietudine, privazione di riposo e di qualunque orgogliosa
sistemazione, e dunque cammino mai perduto, pur nelle cadute, e mai
arrestato nella pretenziosa precarieta' delle prepotenze e degli imperi
omicidi. Ci viene incontro in ogni volto umano, anche nel piu' deforme,
quando abbiamo il coraggio di guardarlo, di lasciarci sfidare e giudicare,
forse perdonare e salvare, dal suo appello solenne e muto. Negli occhi di
ogni prossimo, Cristo viene a noi. Non cerchiamolo dunque chissa' dove, non
perdiamolo la' dove ci viene incontro. "Dio e' nell'incontro di due
sguardi", diceva Michele Do. "Dio e' un bacio", diceva Benedetto Calati.
Dicono: "e' passato tanto tempo da quella nascita, e il nuovo non viene". Il
nuovo e' gia' qui, in mezzo a noi e dentro di noi, veniente e mai tutto
venuto, sconosciuto come ogni novita' a chi non veglia proteso nell'attesa
dello sconosciuto; e' qui se sappiamo riconoscerlo come imprevedibile,
invece di voltarci indietro, di misurarlo su vecchi modelli, e di stilare
sfuggenti bilanci. Solo accogliendo lo sguardo che ci guarda, cammineremo in
avanti e avvicineremo il Giorno della Venuta, dell'Avvento. Il quale,
comunque, sempre ci sorprendera' e ci sta, ora, sorprendendo.
Buon Avvento e buon Natale.
Buona salute, buon coraggio, buona resistenza, buona speranza.

4. LIBRI. EMANUELE BOTTARO PRESENTA "QUESTA NON E' UN'AUTOBIOGRAFIA" DI
PIERRE BOURDIEU
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 novembre 2005.
Emanuele Bottaro, laureatosi in storia all'Universita' di Venezia e in
sociologia presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi,
ha recentemente tradotto di Pierre Bourdieu, Le regole dell'arte, il
Saggiatore, Milano 2005.
Pierre Bourdieu, prestigioso intellettuale francese; directeur d'etudes
all'Ecole pratique des hautes etudes di Parigi, impegnato nel movimento
contro la globalizzazione neoliberista e per l'umanita'; e' deceduto nel
gennaio 2002. Dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche
riprendiamo la seguente presentazione: "Pierre Bourdieu e' nato a Denguin,
il 10 agosto 1930. Dopo aver studiato al liceo di Pau, e poi al liceo
Louis-le-Grand a Parigi, entra all'Ecole normale superieure nel 1951.
Agrege' di Filosofia nel 1954, insegna l'anno successivo al liceo di
Moulins. Tra il 1955 e il 1958 fa il servizio militare in Algeria, allora in
guerra. Diventa quindi assistente all'universita' di Algeri. Tornato in
Francia nel 1960, come assistente alla Sorbona, nel 1961 e' professore
incaricato all'universita' di Lille. Nel 1964 viene nominato direttore di
studi all'Ecole pratique des hautes etudes (VI sezione) e nel 1981 e'
chiamato alla cattedra di sociologia del College de France. Dirige il Centro
di sociologia europea (del College de France e dell'Ecole des hautes etudes
en sciences sociales), e le riviste "Actes de la recherche en sciences
sociales" (fondata nel 1975) e "Liber". E' dottore honoris causa della Freie
Universitat di Berlino (1989), membro dell'Accademia Europea e dell'American
Academy of Arts and Sciences, medaglia d'oro del Cnrs (1993), dottore
honoris causa dell'Universita' Johann Wolfgang Goethe di Frankfurt (1996).
Influenzato contemporaneamente dal marxismo e dallo strutturalismo, Bourdieu
si e' dedicato in particolare alla sociologia dei processi culturali,
elaborando il concetto originale di "violenza simbolica", connessa secondo
lui con i processi educativi. I suoi studi sul ceto studentesco
universitario francese ebbero vasta eco negli anni attorno al 1968, in piena
agitazione studentesca. Bourdieu ha rinnovato la tradizione francese
dell'engagement, prendendo posizione negli eventi piu' significativi del
nostro tempo, in difesa di Solidarnosc, al fianco degli studenti nelle lotte
del 1986, e con gli intellettuali algerini: interventi sostenuti tutti dalla
sua competenza di sociologo". Opere di Pierre Bourdieu: Sociologie de
l'Algerie, P. U. F., Paris 1956; The Algerians, Beacon Press, Boston 1962;
con A. Darbel, J. P. Rivet e C. Seibel, Travail et travailleurs en Algerie,
Mouton, Paris 1963; con A. Sayad, Le deracinement. La crise de l'agriculture
traditionnelle en Algerie, Minuit, Paris 1964; con J. C. Passeron, Les
heritiers, Minuit, Paris 1964; con J. C. Passeron, Les etudiants et leurs
etudes, Mouton, Paris 1964; con L. Boltanski, R. Castel e J.C. Chamboredon,
Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Minuit, Paris
1965; con J. C. Passeron e M. de Saint-Martin, Rapport pedagogique et
communication, Mouton, Paris 1965; con A. Darbel, L'Amour de l'art, Minuit,
Paris 1966; con J. C. Passeron e J. C. Chamboredon, Le Metier de sociologue,
Mouton-Bordas, Paris 1968; Zur Soziologie der symbolischen Formen, Suhrkamp,
Frankfurt 1970; con J.-C. Passeron, La reproduction. Elements pour une
theorie du systeme d'enseignement, Minuit, Paris 1970; Esquisse d'une
theorie de la pratique, Droz, Geneve 1972; La distinction. Critique sociale
du Jugement, Minuit, Paris 1979; Le Sens pratique, Minuit, Paris 1980;
Questions de sociologie, Minuit, Paris 1980; Ce que parler veut dire.
L'economie des echanges linguistiques, Fayard, Paris 1982; Homo academicus,
Minuit, Paris 1984; Choses dites, Minuit, Paris 1987; L'ontologie politique
de Martin Heidegger, Minuit, Paris 1988; La noblesse d'etat, Paris 1988;
Reponses. Pour une anthropologie reflexive, Paris 1992; Les Regles de l'art.
Genese et structure du champ litteraire, Seuil, Paris 1992; La Misere du
monde, Paris 1993; Libre-echange, Paris 1994; Raisons pratiques. Sur la
theorie de l'action, Seuil, Paris 1994. Tra i testi disponibili in
traduzione italiana: La distinzione, Il Mulino, Bologna 1984; Fuehrer della
filosofia? L'ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna
1989; La responsabilita' degli intellettuali, Laterza, Roma-Bari 1991;
Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino 1992;
Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 1995; Sulla televisione, Feltrinelli,
Milano 1997; Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998; Il dominio
maschile, Feltrinelli, Milano 1999. Tra i libri di intervento militante piu'
recenti segnaliamo particolarmente: Contre-feux, Editions Raisons d'agir,
Paris 1998; Contre-feux 2, Editions Raisons d'agir, Paris 2001. A parziale
integrazione (e scusandoci per le inevitabili ripetizioni) riportiamo anche
la seguente notizia bibliografica, apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del
25 gennaio 2002: "E' quasi impossibile citare tutti i volumi scritti o
diretti da Pierre Bourdieu, per non parlare dei suoi oltre 200 saggi e
articoli di sociologia. Tra i piu' importanti: Sociologie de l'Algerie
(1961), Le deracinement (con A. Sayad, 1964), Les heritiers (con J.-C.
Passeron, 1964), Un art moyen: essay sur les usages sociaux de la
photographie (con L. Boltanski, R. Castel e J.-L. Chamboredon, 1965);
L'amour de l'art (con A. Darbel, 1966); Le metier du sociologue, con J.-C.
Passeron e J.-C. Chamboredon, 1968); Pour une sociologie des formes
symboliques (1970): La reproduction (con J.-C. Passeron, 1971); Esquisse
d'une theorie de la pratique (1972, da poco ristampato da Seuil e di
prossima traduzione per Raffaello Cortina Editore con il titolo "La teoria
della pratica"); La distintion: critique sociale du jugement (1979, tradotto
dalla casa editrice Il Mulino con il titolo La distinzione, e ripubblicato
nel 2001); Le sens pratique (1980); Ce que parler veut dire (1982); Lecon
sur la lecon (1982); Homo academicus (1984); L'ontologie politique de Martin
Heidegger (1989); Reponses: pour une anthropologie reflexive (con L.
Wacquant, 1992); La misere du monde (a cura di, 1993); Meditations
pascaliennes (1997); La domination masculine 1998 (Il dominio maschile,
Feltrinelli); Sulla televisione (Feltrinelli 1997); Meditazioni pascaliane
(Feltrinelli 1998); Il mese scorso la Manifestolibri ha pubblicato
"Controfuochi 2. Per un nuovo movimento europeo". Oltre che gli "Actes de la
recherche en sciences sociales", Bourdieu ha diretto "Liber" e ha fatto il
caporedattore della rivista di tendenza "Inrockuptibles" 'per dar voce a chi
e' considerato irresponsabile dalla politica ufficiale'". Opere su Pierre
Bourdieu: Anna Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu,
Marsilio, Venezia 2003]

Come controllare gli effetti dei condizionamenti sociali che agiscono in
noi? E' davvero possibile farlo finche' si vive nell'illusione che il nostro
pensiero sia libero?
Come Spinoza o Marx, il sociologo francese Pierre Bourdieu ritiene che
questa illusione renda schiavi e che solo la conoscenza renda meno "fatali"
i condizionamenti. La scienza sociale ha per lui il compito di "organizzare
una sorta di ritorno del rimosso" che deve valere in primo luogo per chi
produce discorsi sul mondo sociale.
Una buona parte della sua attivita' di ricerca (dai lavori sul mondo rurale
da cui proveniva a quelli sul sistema accademico) puo' essere letta,
infatti, come una sorta di "autoanalisi".
Negli ultimi anni di attivita' Bourdieu ha reso questa autoanalisi piu'
sistematica, producendo un testo ora disponibile anche in italiano (Questa
non e' un'autobiografia. Elementi di autoanalisi, Feltrinelli, Milano 2005,
pp. 121, euro 13). Questa ricerca, che era per lui programmaticamente un
work in progress, fornisce elementi sufficienti per rispondere a due
domande. Come capire un autore e la sua opera? E, piu' precisamente, quali
sono le "condizioni di possibilita'" del pensiero di Pierre Bourdieu? La
formulazione della seconda domanda risponde in parte alla prima: solo
cogliendo un'opera e una vita "nel movimento necessario alla loro
realizzazione" possiamo sperare di comprendere il "punto di vista
dell'autore" (questo concetto viene sviluppato soprattutto nelle Regole
dell'arte, opera del 1992 dedicata all'analisi del campo letterario
francese, recentemente tradotta dal Saggiatore).
L'autoanalisi di Bourdieu non ricostruisce la sua "vita", secondo lo schema
convenzionale della (auto)biografia da lui percepito come mistificante, ma
la sua traiettoria. L'ordine delle priorita' e' provocatoriamente invertito.
Inizialmente sono presentati i mondi sociali nei quali Bourdieu adulto ha
dovuto definirsi in quanto intellettuale (e che ha analizzato
approfonditamente in alcuni suoi lavori precedenti): l'ambiente dell'Ecole
Normale Superieure in cui ha studiato da filosofo negli anni '50; l'Algeria
durante la guerra per l'indipendenza in cui ha vissuto la sua "conversione"
all'etnologia, prima, e alla sociologia, poi; l'ambiente delle scienze
sociali parigino in cui ha proseguito la sua carriera d'intellettuale. Solo
in un secondo momento Bourdieu affronta la genesi delle sue "disposizioni
iniziali", l'insieme di gusti, inclinazioni e capacita' interiorizzati nel
corso della sua giovinezza. Per rendere conto di come le sue prese di
posizione scientifiche si siano progressivamente costituite, Bourdieu
richiama le principali posizioni esistenti nel momento in cui e' entrato nel
campo intellettuale francese e, soprattutto, ci fornisce un quadro di quella
che poteva esserne la sua percezione, o meglio, delinea lo "spazio dei
possibili" cosi' come si presentava ai suoi occhi. Mettendo in relazione la
storia di questi microcosmi sociali e la sua storia personale possiamo
capire le forze di attrazione e di repulsione che esercitavano su di lui le
varie prese di posizione filosofiche o sociologiche e le individualita' o i
gruppi che ne erano espressione (Sartre, Canguilhem, Levi-Strauss, Aron,
Lazarsfeld, Althusser, Foucault ecc.), con e contro le quali si e' costruito
il suo pensiero.
*
Facendo un passo indietro e guardando all'insieme della sua traiettoria,
possiamo cogliere la "formula generativa" di Pierre Bourdieu: il suo
"habitus scisso" e perennemente in tensione.
Bourdieu nasce nel profondo sud-ovest pirenaico della Francia, ai confini
con la Spagna e i paesi baschi. I genitori provengono da famiglie contadine.
Il padre si fa assumere nelle Poste dove riesce a fare una piccola carriera
impiegatizia. Politicamente schierato molto a sinistra e sempre al servizio
dei compaesani che si affidano a lui per le loro questioni burocratiche,
cerca di far condividere al figlio un ideale repubblicano e di emancipazione
attraverso la scuola. Tutto cio' si traduce, per il piccolo Pierre, in una
"barriera invisibile" che lo allontana dai suoi compagni di classe delle
elementari e che viene rinforzata dai suoi risultati scolastici. Questa
"esperienza infantile di transfuga figlio di transfuga", cambia segno nel
momento in cui Bourdieu entra in collegio. Come "interno" vive le
difficolta' di un ambiente che non esita a definire, invocando Goffman,
un'istituzione totale, e percepisce la distanza sociale con gli "esterni",
cittadini, borghesi e dai modi raffinati. Il suo atteggiamento ribelle e
solitario (il suo "furore testardo") si placa nel mondo "incantato" della
classe. La riuscita scolastica lo porta come un "miracolato" nell'ambiente
ovattato della Normale parigina al vertice delle gerarchie intellettuali
francesi dell'epoca. Al termine degli studi in filosofia e' inviato come
soldato semplice in Algeria, dove matura la sua "conversione": raccontare
nel modo piu' rigoroso possibile il presente tragico del popolo algerino
(nel quale in parte si riconosce) ha quasi il sapore di una "reintegrazione
nel mondo natio". Spinto da un senso di colpa mai risolto verso le origini
tradite e da un grave lutto personale, abbandona le alture della
speculazione filosofica, gli "irrealismi adolescenziali", e si rivolge alla
concretezza delle discipline "paria", le scienze sociali, per "farne
qualcosa di utile".
*
Bourdieu si percepisce quindi come una delle declinazioni possibili di un
particolare tipo di traiettoria in bilico tra due mondi e che riunisce,
senza mai conciliare veramente, "un'alta consacrazione scolastica e una
bassa estrazione sociale". Questa duplicita' implica un rapporto ambivalente
con se stessi, quasi un odio di se' ("in me odio l'intellettuale"), senza
appiattirsi mai veramente su una delle due polarita' in conflitto. Bourdieu
non e' un anti-intellettuale (anzi, ha sempre premuto perche' gli
intellettuali esercitino un ruolo critico nella societa' e si organizzino
collettivamente), ma nel contempo ha sempre rifiutato il punto di vista
"scolastico" e la reverenza nei confronti dei conformismi del mondo
intellettuale.
La combinazione improbabile di proprieta' sociali comunemente considerate
incompatibili spiega il suo atteggiamento allo stesso tempo eclettico e
selettivo. Nell'elaborazione dei suoi strumenti di ricerca e di analisi
empirica si sottrae alle alternative: cerca di far coesistere autori
apparentemente inconciliabili usando i punti di forza dell'uno per
compensare le debolezze dell'altro ("usare Marx contro Weber, Weber contro
Durkheim, Durkheim contro Marx" ecc.), e cerca di scongiurare le aporie di
posizioni parziali superando dicotomie ingannevoli (individuo e societa',
interpretazione interna ed esterna dei prodotti culturali, struttura e
sovrastruttura, soggettivo e oggettivo, ecc.).
Quasi "costretto da una forza superiore", Bourdieu ha preso posizioni, sia
teoriche che pratiche (come l'importanza attribuita alla dimensione
collettiva della ricerca), che costituiscono altrettante sfide agli schemi
in vigore. Se, da un lato, cio' ha fatto di lui uno dei maggiori innovatori
della sociologia del XX secolo, dall'altro, puo' in parte spiegare le
incomprensioni di chi, riconducendo l'ignoto al noto o limitandosi a una
visione parziale e decontestualizzata della sua opera, non ne ha colto la
portata, e le polemiche di chi si e' sentito intimamente minacciato dalle
sue analisi (i media, gli intellettuali, ecc.).
Nella sua posizione inclassificabile sta, forse, anche la ragione del
rifiuto o della diffidenza che ha incontrato in Italia. Solo il suo impegno
politico piu' esplicito negli anni '90 ha risvegliato una certa curiosita'
editoriale e ha permesso a molti nuovi lettori di scoprire la sua opera. La
sua autoanalisi conquistera' forse un pubblico che apprezza le personalita'
combattive e controcorrente. E avra' raggiunto il suo obiettivo se avra'
insegnato loro ad appropriarsi attivamente degli strumenti di emancipazione
che la sua sociologia puo' offrire.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1128 del 28 novembre 2005

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