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La nonviolenza e' in cammino. 1129
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1129
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 29 Nov 2005 00:02:57 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1129 del 29 novembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Majid Rahnema: Breve discorso della poverta' 2. Benedetto Vecchi presenta "Questa non e' un'autobiografia" di Pierre Bourdieu 3. La "Carta" del Movimento Nonviolento 4. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. MAJID RAHNEMA: BREVE DISCORSO DELLA POVERTA' [Dalla bella rivista diretta da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 65, novembre 2005 (sito: www.lostraniero.net) riprendiamo il seguente testo di Majid Rahnema, nella traduzione di Ilaria Proietti Valentini. Majid Rahnema, intellettuale iraniano, gia' diplomatico e ministro, ha rappresentato il suo paese alle Nazioni Unite ed e' stato membro del Consiglio esecutivo dell'Unesco, insegna negli Stati Uniti. Tra le opere di Majid Rahnema: Quando la poverta' diventa miseria, Einaudi, Torino 2005] Se vogliamo discutere seriamente di poverta', dobbiamo per prima cosa stabilire se diamo tutti lo stesso significato a questa parola e, se cosi' non fosse, cercare di chiarire le nostre divergenze per essere almeno certi di parlare della stessa cosa. Anzitutto, dobbiamo porci le seguenti domande: esiste una sola forma di poverta' o ne esistono una moltitudine, ognuna totalmente diversa dalle altre? In quest'ultimo caso, e' giusto affermare, senza distinzioni di sorta, che la poverta' e' una vergogna, un flagello, o persino una violazione dei diritti umani che deve essere sradicata? Oppure, se la storia e l'antropologia ci insegnano che la poverta' e' stata - e rimane tuttora - uno stile di vita che ha sempre protetto i poveri dalla miseria, non dovremmo al contrario cercare di rispettarla e di rigenerarla? Secondo la percezione dominante della poverta', sostenuta dalla maggior parte degli economisti e degli "esperti" del mondo, come dai principali governi e dalle istituzioni che affrontano questo fenomeno, la risposta appare straordinariamente chiara e semplice. Per loro, la poverta' e' principalmente una questione di basso introito o reddito. La Banca Mondiale e la maggioranza dei suoi sostenitori addirittura riducono il concetto di poverta' alle persone che vivono con meno di uno o due dollari americani al giorno. Eloquente il fatto che perfino la signorina Deepa Ranayan, autrice dello scioccante "Rapporto 2001" della Banca Mondiale, sembra aver trovato conveniente l'uso della stessa formula approssimativa. Perche', nonostante le interviste della sua equipe di ricerca a circa 60.000 poveri l'avessero portata a riconoscere che la poverta' rappresenta qualcosa di molto complicato e diverso per ognuno di loro, usa quello stesso criterio per stimare che il 56% - cioe' quasi due terzi - della popolazione mondiale e' povera: 1,2 miliardi di persone vive con meno di un dollaro americano al giorno, 2,8 miliardi con meno di due dollari (1). E' la prima volta nella storia che un numero cosi' impressionante di persone, appartenenti a culture e ad ambienti profondamente diversi, viene arbitrariamente etichettato come "povero" soltanto perche' il suo reddito giornaliero non supera un dato standard universale, espresso nella valuta della piu' ricca potenza economica del mondo. Con una tale definizione si dimentica totalmente il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale fa ancora fronte (come ha sempre fatto nel passato) ai propri bisogni vitali senza ricorrere al denaro. * In passato, ogni essere umano aveva la propria personale idea di chi fossero i poveri. Di solito, quasi tutti vivevano con poche cose e beni, condividendo con gli altri tutto cio' che la loro economia di sussistenza produceva, secondo consuetudini e tradizioni stabilite da lungo tempo. C'era sempre un gruppo di ricchi e potenti che costituiva l'eccezione alla regola. Tuttavia gli altri possedevano comunque quanto bastava per provvedere a cio' che era culturalmente definito come necessario al sostentamento; e quando non c'era nemmeno quello, spesso trovavano i mezzi per sopravvivere in maggiori ristrettezze e riuscivano a condividere cio' che avevano con i meno fortunati. Analogamente a ogni creatura vivente, tutti erano dotati di cio' che Spinoza avrebbe chiamato "potentia", una forma di capacita' o di possibilita' ad agire, specifica del loro essere, che rappresentava la loro ricchezza piu' sicura, una fonte di energia vitale su cui poter sempre contare nei momenti di difficolta'. Cosi', per migliaia di anni, hanno fatto fronte al bisogno senza considerare la loro condizione una vergogna o un flagello. E' in questo senso che, come ha detto Marshall Sahlins, la poverta' era sconosciuta nell'eta' della pietra. Solo in tempi molto piu' recenti la poverta' e' stata "inventata" dalla civilta' (2). Da un'altra prospettiva, tutti gli esseri umani e le loro strutture sociali erano ricchi in qualcosa e poveri in qualcos'altro. Sembra che il sostantivo "povero" sia apparso in Israele nel X secolo a. C., quando un gruppo di ricchi possidenti costrinse i contadini a vendere i loro terreni (Albert Gelin) (3). E' poi significativo che, in Europa e in molti altri paesi, il "pauper" era opposto al "potens", non al ricco. Nel IX secolo, il povero era considerato un uomo libero la cui liberta' veniva minacciata soltanto dai "potentes". E, di regola, i poveri erano persone pienamente rispettabili e rispettate che si trovavano, o che rischiavano di trovarsi, in mezzo a una strada. Soltanto dopo l'espansione dell'economia mercantile, quando i processi di urbanizzazione causarono la disintegrazione delle economie di sussistenza e la monetizzazione della societa', i poveri iniziarono a essere percepiti anche in relazione alle loro finanze; in altre parole, erano visti come una classe inferiore di esseri umani perche', agli occhi di chi comandava, non possedevano i simboli del potere e della ricchezza, cioe' il denaro e le proprieta' necessarie a soddisfare i loro particolari bisogni. Denominatore comune delle diverse percezioni della poverta' e' da sempre la mancanza o il bisogno insoddisfatto. Questa nozione da sola riflette l'essenziale relativita' del concetto. Perche' non si trovera' mai nessun essere umano totalmente libero da una mancanza, che sia materiale, psicologica o di altra natura. E nel momento in cui si definisce povero chi e' privo di beni necessari alla vita, resta comunque l'interrogativo: cosa e' necessario per chi e per quale tipo di vita? E chi puo' stabilirlo? Nelle comunita' piu' piccole, dove le persone sono meno estranee l'una all'altra ed e' piu' facile fare paragoni, queste domande sono gia' difficili da affrontare. Dare una risposta diventa impossibile in un mondo dove i vecchi orizzonti familiari e i punti di riferimento comuni vengono spazzati via dagli standard dominanti e omogenei di mancanze e bisogni determinati dal mercato. Tutti possono sentirsi poveri quando chi stabilisce i bisogni vitali nella capanna di fango e' la tv, che lo fa nei termini dei modelli de-culturalizzati che appaiono sullo schermo. * Tutto sommato, fino alla Rivoluzione industriale, si poteva vivere dignitosamente con le poche cose disponibili grazie a un'economia di sussistenza ancora produttiva per la famiglia e per la comunita'. Questo spiega perche' la poverta' e' stata, per citare il filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon, "la naturale condizione dell'uomo nella civilta'". Un modo di vivere basato sulla convivialita', sulla condivisione e sull'aiuto reciproco, un modo di confrontarsi con gli altri e con se stessi, nel rispetto sia degli altri membri della comunita' che del piu' ampio ambiente naturale e sociale. La poverta' implicava un'etica del vivere insieme e del costruire relazioni, un'etica nel definire i bisogni di ognuno secondo quello che la comunita' poteva produrre in quel particolare momento. La vera ricchezza del povero risiedeva nella sua capacita' di rigenerarsi, ricavando il meglio dal poco che aveva, divideva o possedeva nella propria v ita. La condizione definita come miseria ("miseria" in latino e analogamente nelle altre lingue europee) e' in realta' completamente diversa, ben espressa dal significato originale delle parole arabo-persiane "faqr" o "faqir", che indicano una persona la cui colonna vertebrale e' spezzata. Finche' i poveri potevano contare sulla propria "potentia", finche' potevano appoggiarsi a quella che Ivan Illich ha chiamato la loro "collinetta culturale", era il loro "letto" di poverta' che li proteggeva dal precipitare nel fango nero sottostante, nel mondo spietato della miseria e dell'indigenza. Questo mondo temuto ha sempre rappresentato per i poveri la rovina, la corruzione e la perdita della propria potentia. Vanno comunque distinte tre categorie di poverta', poiche' dal mio punto di vista sono qualitativamente diverse dalle altre: la poverta' conviviale, quella volontaria e quella modernizzata. La poverta' conviviale, specifica delle societa' vernacolari, e' quella che ho appena descritto. La poverta' volontaria e' lo condizione di pochi uomini e donne eccezionali che volontariamente scelgono la poverta' come strumento di liberazione dai bisogni materiali, imposti dalle regole del mercato. Infine, la poverta' modernizzata e' una forma corrotta di poverta' nata dopo la Rivoluzione industriale. Puo' essere vista come una rottura rispetto a tutte le precedenti forme di poverta', in cui una sorta di "asservimento volontario" (nel significato usato da Etienne de la Boetie) (4) comincia a legare l'esistenza della sua vittima a nuovi bisogni fabbricati dalla societa'. In questo nuovo tipo di poverta', i "bisogni" percepiti dall'individuo sono sistematicamente prodotti da un'economia la cui prosperita' dipende dall'incremento costante del numero dei suoi consumatori. Allo stesso tempo, quell'economia non puo', per definizione, fornire ai nuovi arrivati gli strumenti necessari a soddisfare le loro nuove necessita' di consumo. La sorte del povero nell'era della modernizzazione e' stata giustamente paragonata al supplizio di Tantalo, il mitologico re condannato a vivere in una sorta di paradiso, circondato da tutto cio' che poteva desiderare. Ma ogni volta che cercava di afferrare gli oggetti del suo desiderio, questi si allontanavano divenendo irraggiungibili (5). I pochi fattori semantici, storici, culturali e di altra natura appena menzionati, potrebbero gia' essere sufficienti a dimostrare che l'ultima re-invenzione della poverta' nella sua nuova forma globalizzata e' una paradossale iper-semplificazione delle realta' estremamente complesse che nasconde. Questo puo' far comodo alle istituzioni al potere, ma rappresenta non solo un'aberrazione concettuale ma anche una sottile e pericolosa minaccia alla "potentia" dei poveri. Perche' li riduce a un oggetto, un reddito che devono guadagnare alle condizioni in genere imposte loro dalle stesse istituzioni che li hanno privati dei loro mezzi di sussistenza. Allo stesso tempo, questa definizione non accenna all'elaborato "mestiere di vivere" che i poveri hanno sviluppato per far fronte alle necessita'. Suggerisce solo che, avendo perso l'occasione di salire sul treno del progresso, la loro salvezza e' ora nelle mani della nuova economia di mercato, che non produce piu' per chi ha bisogno ma soltanto per soddisfare il proprio bisogno di profitto e quello dei suoi pochi consumatori privilegiati; e ai poveri e agli emarginati non rimane altra scelta che accettare le regole di questa nuova economia predatoria, nella speranza di ricevere almeno quel poco che puo' oggi fornire per la loro sopravvivenza. * Per riassumere, piu' ci si addentra nel complesso universo della poverta', meglio si intuisce il pericolo di usare questo termine in modo sommario, astratto e anti-storico. Appare cosi' evidente che la poverta' e' una nozione troppo estesa, troppo ambigua, troppo relativa, troppo generale, troppo contestuale e culturalmente connotata, perche' sia possibile definirla su un piano universale (6). I tentativi di trovare definizioni migliori non hanno portato da nessuna parte. Hanno solo mostrato la veridicita' di un altro fatto: tutti i tentativi di definire la poverta' sono arbitrari. Rivelano molte piu' cose su "chi da' il nome" che su chi lo riceve. Da qui, il buon senso di abbandonare l'idea stessa di definire la poverta' per focalizzare la propria attenzione sulla grande varieta' di "poverta'", come vengono definite storicamente dalle societa' e dagli esseri umani che le sperimentano sulla propria pelle. Un approccio di questo tipo ci indurrebbe quindi a scoprire le loro piu' profonde analogie. Ci porterebbe anche a esplorare e riscoprire i legami, spesso stretti, che vincolano la poverta' a istanze non economiche e sociali quali il potere, la giustizia, l'autonomia, la dominazione, il governo, l'ecologia, eccetera (ma anche a una ridefinizione della ricchezza). Poche di queste voci hanno trovato posto nei programmi ufficiali che mirano ad aiutare i poveri. In realta', e' cosi' che molti poveri vedono i loro problemi. Evitano istintivamente astrazioni e generalizzazioni poco chiare o difficili da afferrare. Al contrario, cercano di rivelare le questioni piu' concrete e scottanti che emergono attraverso le difficolta' concettuali e che sono per loro realmente importanti. Ho imparato personalmente a combinare questo approccio con quello introdotto da un altro povero particolarmente famoso, il coltissimo Agostino da Ippona, che elaboro' il suo modo di vedere "apofatico": "Io non so che cosa e' Dio, ma so che cosa non e'". Questo e' cio' che i suoi discepoli francesi chiamarono "teologia negativa". Seguendo questo doppio approccio possiamo affermare che, per la stragrande maggioranza dei poveri nelle societa' vernacolari, i problemi maggiori non sono quelli individuati dalla Banca Mondiale e da coloro che si proclamano loro salvatori. Se c'e' un'aspirazione comune alla maggior parte delle persone che, di fatto, vivono con uno o due dollari al giorno, e' quella di impedire la distruzione del loro ambiente conviviale e della loro economia di sussistenza e, quindi, la possibile perdita della loro "potentia", o del loro peculiare "mestiere di vivere". Questo non significa che non necessitano di un minimo di denaro per soddisfare qualche nuovo bisogno indotto. Resta spesso indispensabile, specie per chi viene strappato improvvisamente al suo ambiente vernacolare e costretto a vivere in una baraccopoli dove tutta la sua "arte di vivere" si riduce a rimediare qualche spicciolo per sopravvivere. E tuttavia questo non significa affatto, come la Banca Mondiale vuol farci credere, che i poveri siano oggi disposti a barattare la loro poverta' conviviale con un reddito giornaliero incerto, stabilito unicamente dalle oscillazioni del mercato. Non e' cosi'. Perche' i poveri sono consapevoli che, una volta che le basi del loro modo di vivere conviviale e della loro economia di sussistenza vengono meno, sono perdute anche le loro ultime vere ricchezze. I poveri diventano quindi i prodotti sub-umani di un mercato anonimo e senz'anima, che non solo li priva dei loro piu' preziosi strumenti di sopravvivenza, ma annienta sistematicamente anche la loro capacita' di resistere e costruirsi un futuro diverso. Per i miliardi di persone sradicate dalla loro "nicchia" culturale, naturale e sociale, e private di ogni strumento d'autodifesa dalla nuova economia di mercato, i problemi non sono percio' dove la Banca Mondiale e le organizzazioni affini pensano che siano, o vogliono che siano. Ma le loro convinzioni sono tali che queste istituzioni continuano a pensare che cio' che e' giusto per gli obiettivi di un'economia in crescente espansione non possa essere sbagliato per nessun'altro. Di regola, sono tutti intimamente convinti che nelle societa' moderne questioni come il cibo e il sostentamento, il tetto, la salute, l'educazione e la modernizzazione non possono piu' essere lasciate nelle mani dei poveri. In nessun caso sono pronti a riconoscere che permettere ai poveri di difendere le loro"improduttive" e "obsolete" economie di sussistenza, possa rappresentare un bene. * E questo mi porta a quello che credo sia il cuore della cosiddetta questione della poverta'. Per gli oltre quattro miliardi di poveri che vivono con meno di uno o due dollari al giorno, il problema maggiore non e' una piu' ampia distribuzione di quello che il mercato produce per le proprie necessita'. Ma il modo stesso in cui il mercato opera e stabilisce le condizioni umane, sociali e politiche che definiscono la loro vita. In altre parole, non e' duplicando o triplicando il reddito giornaliero delle persone che le attuali tendenze di impoverimento crescente possono essere arrestate. Il problema fondamentale e' che tutte queste misure provengono da un'istituzione che e' essa stessa la principale produttrice delle scarsita' alla base dell'attuale globalizzazione dell'indigenza. Per una tale istituzione, fermare la produzione di bisogni equivarrebbe a un vero e proprio suicidio, almeno finche' rifiutera' di riagganciarsi a quella societa' dalla quale si e' svincolata. Sotto questa prospettiva, i problemi dei poveri sono sostanzialmente gli stessi di tutti gli abitanti del nostro pianeta. Siamo tutti, piu' che mai, minacciati dalla natura stessa del sistema economico dominante: un Giano bifronte che in realta' produce tanta poverta' quante forme diverse di ricchezza materiale. Un discorso onesto sulla poverta' dovrebbe percio' iniziare col mettere in discussione il nuovo mito della crescita economica senza freni e ripensarlo in termini totalmente nuovi. Le mancanze imputate agli attuali poveri del mondo sono il risultato del loro modo di vivere e delle loro economie "povere", o e' vero il contrario? In altre parole, le privazioni di cui soffrono non sono la conseguenza inevitabile della stessa economia iper-produttiva e moderna che oggi pretende di salvarli dalla loro poverta'? Se la questione viene posta in questi termini, possiamo scoprire prospettive nuove e molto piu' comprensibili per ripensare la cosiddetta "sindrome della torta", secondo cui una condizione indispensabile per venire incontro ai nuovi bisogni di una popolazione in crescita e', prima di tutto, accrescere la misura della torta. Tali prospettive mostrano poi chiaramente come la gia' incredibile grandezza della super-torta, fabbricata dall'economia globale, ha finito col depredare i poveri degli unici modi e strumenti che avevano per preparare la loro torta e il loro pane. Per di piu', un crescente numero di poveri e di loro alleati e' oggi convinto che la crescita senza freni sia una grave minaccia non solo per le loro vite, ma anche per quelle di chi oggi e' privilegiato. Tutti gli attuali movimenti di protesta e di resistenza alla crescita incondizionata (tra gli altri, gli zapatisti, la Via Campesina e le centinaia di gruppi piu' piccoli e meno conosciuti) esprimono la chiara volonta' delle vittime dell'economia e degli emarginati di avere la propria idea di "torta"; cioe' di sostituirla con una moltitudine di torte piu' piccole preparate per chi che ne ha bisogno, secondo la sua idea di misura e di contenuto. Tutti respingono l'idea di un'unica supertorta, progettata e cucinata dalla santa alleanza formata dalle multinazionali del mercato mondiale e dai governi che aiutano a far eleggere. * Siccome la fame e la malnutrizione sono spesso associate alla poverta', mi piacerebbe presentare adesso la problematica specifica della produzione di cibo come esempio dell'estraneita' del mito della crescita rispetto ai bisogni reali dei popoli che soffrono la fame e la malnutrizione. Numerose statistiche dimostrano che l'economia mondiale produce abbastanza cibo per nutrire circa nove miliardi di persone, vale a dire una volta e mezzo la popolazione mondiale attuale. Al giorno d'oggi, la produzione totale di cibo basterebbe percio', teoricamente, non solo a nutrire a sufficienza ogni individuo sulla terra, ma a rimpinzarlo a tal punto da causare un'obesita' globalizzata. In realta', nonostante questo livello di produzione senza precedenti, piu' di 900 milioni di persone in tutto il mondo soffrono ancora oggi la fame e la malnutrizione. Questa situazione paradossale puo' aiutarci a capire come la risposta alle molte domande connesse alla cosiddetta "scarsita' di cibo" non risiede nel mero aumento della produzione. Mentre il mito della crescita senza freni ha colonizzato l'immaginario collettivo, le tante questioni reali e piu' opportune che dovevano essere considerate e discusse, sono state spesso ignorate. Tra queste, ci sono domande concrete come le seguenti: chi, per chi, come, in che modo e in che direzione bisogna produrre? Negli ultimi tempi, un numero impressionante di studi ha provato a rispondere a queste domande. Mi piacerebbe citare l'eccellente lavoro di Lakshman Yapa dell'Universita' della Pennsylvania. Nelle sue ricerche, Yapa non solo individua le ragioni dell'incapacita' del sistema economico moderno di eliminare la scarsita' di cibo, ma dimostra come quel sistema ci abbia in realta' portato tutti, piu' o meno direttamente, a essere partecipi dell'inadeguatezza del mercato a soddisfare i bisogni reali degli indigenti (7). Per migliaia di anni, ogni comunita' ha prodotto il cibo di cui aveva bisogno grazie all'economia di sussistenza, e un complesso insieme di fattori umani, naturali, ambientali, sociali e culturali ha contribuito a creare i giusti rapporti, le armonie e gli equilibri necessari a una produzione di cibo sostenibile per tutti i membri della comunita'. Le economie di sussistenza non erano cosi' produttive come quelle tecnologicamente avanzate, ma qualsiasi cosa producessero non solo nutriva le comunita' interessate, ma forniva alle centinaia di milioni di agricoltori e contadini in ogni parte del mondo i mezzi necessari per soddisfare i propri specifici bisogni. La Rivoluzione industriale ha piazzato una bomba a orologeria in questo delicato sistema di interazioni, e i suoi effetti piu' devastanti si sono verificati con la globalizzazione dell'economia di mercato. Una conseguenza recente delle politiche orientate alla crescita nella produzione alimentare e' stata la concessione di imponenti sovvenzioni da parte dei governi del Nord ai coltivatori, specialmente agli industriali e ai produttori agricoli. L'obiettivo delle sovvenzioni era di aiutare i coltivatori a introdurre le tecnologie agricole piu' avanzate per incrementare la loro capacita' produttiva. Questo non solo per sopperire alle esigenze dei mercati locali, ma anche per esportare i prodotti e i raccolti, spesso a un prezzo molto piu' basso rispetto alle tariffe locali. Dalla conferenza mondiale di Johannesburg del 2000, sappiamo tutti che oggi i finanziamenti si aggirano attorno ai 360 miliardi di dollari ogni anno, cioe' un miliardo di dollari americani al giorno! Non c'e' dubbio che le sovvenzioni siano state estremamente utili ad accrescere la produzione totale di cibo. Ma allo stesso tempo sono legittimamente viste come uno dei colpi piu' duri per le centinaia di milioni di contadini e di agricoltori che, fino a oggi, hanno prodotto cibo per la straripante popolazione del Sud. Per molti di loro, queste sovvenzioni non sono altro che un genocidio dissimulato. Possiamo fare un altro esempio dell'inadeguatezza delle forme di produzione e dei modi di vivere moderni alle necessita' dei poveri. Negli anni ottanta, milioni di persone nel Corno d'Africa hanno sofferto di una siccita' che e' stata molto pubblicizzata a causa del numero di vittime senza precedenti. E' stato scoperto tuttavia che, in quello stesso periodo, la Somalia e l'Egitto esportavano cibo per cani e gatti europei, perche' la "modernizzazione" della loro economia e il loro bisogno di valuta straniera (per acquistare macchinari agricoli e pesticidi) li aveva portati a focalizzare la produzione sulle esportazioni. Questo esempio mostra chiaramente che le proposte degli esperti, delle "autorita'" e delle istituzioni che affrontano la questione della poverta', sono determinate da una prospettiva interessata ed egocentrica, cioe' dal punto di vista di persone che stanno piu' o meno traendo profitto dall'economia di mercato dominante. La loro assuefazione ai nuovi "bisogni", ai nuovi prodotti e ai privilegi materiali fabbricati da questa economia, li porta a guardare il mondo da una prospettiva completamente diversa da quella della grande maggioranza costituta dagli emarginati e dalle vittime del sistema economico. La poverta' della popolazione che pretendono di salvare e' percepita soprattutto in relazione ai propri bisogni e ai propri modi di soddisfarli. Raramente si rendono conto che una tale prospettiva li rende direttamente o indirettamente partecipi nella produzione dei bisogni socialmente ed economicamente fabbricati che rafforza il moderno processo di impoverimento. * Per concludere, il "non-pensiero dei luoghi comuni" (come lo chiama Kundera) sulla poverta' e' un riflesso di quello che i "non-poveri" e la loro societa' autoreferenziale pensano di questo fenomeno. La loro percezione fondamentalmente egocentrica dell'altro non puo' in nessun modo metterli nella posizione di dare lezioni di comportamento ai poveri o di sottometterli ai loro programmi di "aiuto" e di assistenza. Il meglio che possono fare e' imparare a evitare una partecipazione ulteriore nella creazione della mancanza. Al contrario, per quelli che sono pronti a discutere di poverta' scevri da tali prospettive egocentriche, la gioia di guardare tutti i loro vicini come loro pari, rispettando la loro arte di vivere, puo' portarli su sentieri piu' proficui. L'inadeguatezza degli attuali programmi di "aiuto" puo' essere superata lavorando insieme con tutti i "poveri-di-spirito", alla ricerca di nuove forme di semplicita' e di frugalita', fedeli allo spirito della convivialita' o della poverta' volontaria. L'immagine di un mondo da ricostruire come semplici esseri umani, pronti a usare tutte le nostre potenzialita' per vivere insieme e ridefinire le ricchezze comuni, puo' sembrare un sogno utopico. Puo' sembrare contrario a tutte le pratiche dominanti in un mondo di interessi conflittuali e disumanizzanti. Tuttavia, l'eterna minaccia dell'invecchiamento e della morte che ha accompagnato tutte le forme di vita non ha mai impedito il fiorire dell'amore, della creativita' e delle grandi imprese comuni in tutte le societa' umane. Anche oggi, mentre un'ottusa violenza e forme di distruzione della vita senza precedenti affliggono le societa' umane, forme di resistenza ugualmente senza precedenti compaiono in luoghi e condizioni inimmaginabili. Contrariamente all'apparenza, e mentre i processi di assuefazione ai bisogni socialmente prodotti e lo sviluppo di tendenze individualistiche spingono un piu' grande numero di attori sociali a partecipare alle moderne forme di impoverimento, molte altre cose stanno accadendo nella direzione opposta, in parti meno visibili delle comunita' del mondo. I poveri e i loro alleati, incuranti delle societa' cui appartengono, possono davvero fare molto per cambiare la prospettiva da cui queste societa' guardano al destino dei poveri. Questo genere di cooperazione, non deve passare attraverso grandiosi progetti di "alleviazione della poverta'" che di solito mirano ad altri scopi. Una pressione costante e incessante di tutti, a vari livelli, puo' essere utile piuttosto per insinuarsi nelle falle dei vari sistemi di dominazione. * In questo senso, l'appello di Gandhi a "non pesare sulle spalle dei poveri", e' ancora valido per cambiare la percezione comune di una nuova e piu' utile politica verso i poveri. Quello che il Mahatma ha detto molto tempo fa e' la giusta intuizione di un uomo saggio sui bisogni fondamentali e le aspirazioni dei poveri. Da una parte, significa che e' necessario porre fine alle politiche e alle pratiche che spingono o costringono i poveri a sottomettersi alle nuove regole di un mercato mondiale controllato da altri. Dall'altra, esprime il bisogno di avere fiducia nei poveri e nelle loro capacita' di autodifesa e di rigenerazione. Quello che Gandhi voleva dire con la sua famosa esortazione, era che i poveri devono essere protetti dalle politiche che, nel loro nome, cercano sistematicamente di indebolire e di corrompere la loro "potentia". Quello che voleva dire e' che non devono essere privati dei loro strumenti di sostentamento e di adattamento ai cambiamenti tecnologici. Aveva abbastanza fiducia in loro da volere che costruissero un mondo migliore per se' e per gli altri, secondo le loro aspirazioni. Non ha mai voluto dire che i poveri dovessero sparire. E tantomeno che le istituzioni e le persone responsabili della diffusione della miseria e dell'indigenza dovessero essere lasciati in pace dalle vittime e dai loro alleati. * Note 1. Deepa Narayan & al., Voices of the Poor: Can Anyone Hear Us?, The World Bank, 1999. 2. Marshall Sahlins, Stone Age Economics, Chicago, Aldine Publishing Co., 1972 (trad. it., L'economia dell'eta' della pietra, Milano, Bompiani, 1980). 3. Albert Gelin, Les pauvres de Yahve', Paris, Editions du Cerf, 1953. 4. Etienne de la Boetie, Le Discours de la servitude volontaire, edizione critica, Paris, Payot, 1978. 5. Ivan Illich, Towards A History of Needs, New York, Pantheon Books, 1977 (trad. it., Per una storia dei bisogni, Milano, Mondadori, 1981). 6. Michel Mollat, The Poor In The Middle Ages. An Essay in Social History, New Haven, Yale, 1978 (trad. it., I poveri nel Medioevo, Bari, Laterza, 1983). 7. Lakshman Yapa, What Causes Poverty? A Postmodern View, in "Annals of the Association of American Geographers", vol. 84, n. 4, 1996. 2. LIBRI. BENEDETTO VECCHI PRESENTA "QUESTA NON E' UN'AUTOBIOGRAFIA" DI PIERRE BOURDIEU [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 novembre 2005. Benedetto Vecchi e' redattore delle pagine culturali del quotidiano "Il manifesto"; nel 2003 ha pubblicato per Laterza una Intervista sull'identita' a Zygmunt Bauman. Pierre Bourdieu, prestigioso intellettuale francese; directeur d'etudes all'Ecole pratique des hautes etudes di Parigi, impegnato nel movimento contro la globalizzazione neoliberista e per l'umanita'; e' deceduto nel gennaio 2002. Dall'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche riprendiamo la seguente presentazione: "Pierre Bourdieu e' nato a Denguin, il 10 agosto 1930. Dopo aver studiato al liceo di Pau, e poi al liceo Louis-le-Grand a Parigi, entra all'Ecole normale superieure nel 1951. Agrege' di Filosofia nel 1954, insegna l'anno successivo al liceo di Moulins. Tra il 1955 e il 1958 fa il servizio militare in Algeria, allora in guerra. Diventa quindi assistente all'universita' di Algeri. Tornato in Francia nel 1960, come assistente alla Sorbona, nel 1961 e' professore incaricato all'universita' di Lille. Nel 1964 viene nominato direttore di studi all'Ecole pratique des hautes etudes (VI sezione) e nel 1981 e' chiamato alla cattedra di sociologia del College de France. Dirige il Centro di sociologia europea (del College de France e dell'Ecole des hautes etudes en sciences sociales), e le riviste "Actes de la recherche en sciences sociales" (fondata nel 1975) e "Liber". E' dottore honoris causa della Freie Universitat di Berlino (1989), membro dell'Accademia Europea e dell'American Academy of Arts and Sciences, medaglia d'oro del Cnrs (1993), dottore honoris causa dell'Universita' Johann Wolfgang Goethe di Frankfurt (1996). Influenzato contemporaneamente dal marxismo e dallo strutturalismo, Bourdieu si e' dedicato in particolare alla sociologia dei processi culturali, elaborando il concetto originale di "violenza simbolica", connessa secondo lui con i processi educativi. I suoi studi sul ceto studentesco universitario francese ebbero vasta eco negli anni attorno al 1968, in piena agitazione studentesca. Bourdieu ha rinnovato la tradizione francese dell'engagement, prendendo posizione negli eventi piu' significativi del nostro tempo, in difesa di Solidarnosc, al fianco degli studenti nelle lotte del 1986, e con gli intellettuali algerini: interventi sostenuti tutti dalla sua competenza di sociologo". Opere di Pierre Bourdieu: Sociologie de l'Algerie, P. U. F., Paris 1956; The Algerians, Beacon Press, Boston 1962; con A. Darbel, J. P. Rivet e C. Seibel, Travail et travailleurs en Algerie, Mouton, Paris 1963; con A. Sayad, Le deracinement. La crise de l'agriculture traditionnelle en Algerie, Minuit, Paris 1964; con J. C. Passeron, Les heritiers, Minuit, Paris 1964; con J. C. Passeron, Les etudiants et leurs etudes, Mouton, Paris 1964; con L. Boltanski, R. Castel e J.C. Chamboredon, Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie, Minuit, Paris 1965; con J. C. Passeron e M. de Saint-Martin, Rapport pedagogique et communication, Mouton, Paris 1965; con A. Darbel, L'Amour de l'art, Minuit, Paris 1966; con J. C. Passeron e J. C. Chamboredon, Le Metier de sociologue, Mouton-Bordas, Paris 1968; Zur Soziologie der symbolischen Formen, Suhrkamp, Frankfurt 1970; con J.-C. Passeron, La reproduction. Elements pour une theorie du systeme d'enseignement, Minuit, Paris 1970; Esquisse d'une theorie de la pratique, Droz, Geneve 1972; La distinction. Critique sociale du Jugement, Minuit, Paris 1979; Le Sens pratique, Minuit, Paris 1980; Questions de sociologie, Minuit, Paris 1980; Ce que parler veut dire. L'economie des echanges linguistiques, Fayard, Paris 1982; Homo academicus, Minuit, Paris 1984; Choses dites, Minuit, Paris 1987; L'ontologie politique de Martin Heidegger, Minuit, Paris 1988; La noblesse d'etat, Paris 1988; Reponses. Pour une anthropologie reflexive, Paris 1992; Les Regles de l'art. Genese et structure du champ litteraire, Seuil, Paris 1992; La Misere du monde, Paris 1993; Libre-echange, Paris 1994; Raisons pratiques. Sur la theorie de l'action, Seuil, Paris 1994. Tra i testi disponibili in traduzione italiana: La distinzione, Il Mulino, Bologna 1984; Fuehrer della filosofia? L'ontologia politica di Martin Heidegger, Il Mulino, Bologna 1989; La responsabilita' degli intellettuali, Laterza, Roma-Bari 1991; Risposte. Per un'antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 1995; Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997; Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998; Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1999. Tra i libri di intervento militante piu' recenti segnaliamo particolarmente: Contre-feux, Editions Raisons d'agir, Paris 1998; Contre-feux 2, Editions Raisons d'agir, Paris 2001. A parziale integrazione (e scusandoci per le inevitabili ripetizioni) riportiamo anche la seguente notizia bibliografica, apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del 25 gennaio 2002: "E' quasi impossibile citare tutti i volumi scritti o diretti da Pierre Bourdieu, per non parlare dei suoi oltre 200 saggi e articoli di sociologia. Tra i piu' importanti: Sociologie de l'Algerie (1961), Le deracinement (con A. Sayad, 1964), Les heritiers (con J.-C. Passeron, 1964), Un art moyen: essay sur les usages sociaux de la photographie (con L. Boltanski, R. Castel e J.-L. Chamboredon, 1965); L'amour de l'art (con A. Darbel, 1966); Le metier du sociologue, con J.-C. Passeron e J.-C. Chamboredon, 1968); Pour une sociologie des formes symboliques (1970): La reproduction (con J.-C. Passeron, 1971); Esquisse d'une theorie de la pratique (1972, da poco ristampato da Seuil e di prossima traduzione per Raffaello Cortina Editore con il titolo "La teoria della pratica"); La distintion: critique sociale du jugement (1979, tradotto dalla casa editrice Il Mulino con il titolo La distinzione, e ripubblicato nel 2001); Le sens pratique (1980); Ce que parler veut dire (1982); Lecon sur la lecon (1982); Homo academicus (1984); L'ontologie politique de Martin Heidegger (1989); Reponses: pour une anthropologie reflexive (con L. Wacquant, 1992); La misere du monde (a cura di, 1993); Meditations pascaliennes (1997); La domination masculine 1998 (Il dominio maschile, Feltrinelli); Sulla televisione (Feltrinelli 1997); Meditazioni pascaliane (Feltrinelli 1998); Il mese scorso la Manifestolibri ha pubblicato "Controfuochi 2. Per un nuovo movimento europeo". Oltre che gli "Actes de la recherche en sciences sociales", Bourdieu ha diretto "Liber" e ha fatto il caporedattore della rivista di tendenza "Inrockuptibles" 'per dar voce a chi e' considerato irresponsabile dalla politica ufficiale'". Opere su Pierre Bourdieu: Anna Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Marsilio, Venezia 2003] Un'autobiografia che sin dalla prima riga dichiara di non essere tale, va letta con circospezione, cercando tra le pagine cio' che l'autore vuol mettere in luce al di la' della sua esperienza. Di sicuro uno dei temi sottotraccia di Questa non e' un'autobiografia di Pierre Bourdieu e' relativo ai meccanismi di formazione e selezione degli intellettuali e, di conseguenza, al loro ruolo nella formazione dell'opinione pubblica della societa' contemporanee. Va subito sgombrato il campo da un possibile equivoco: l'espressione "opinione pubblica" non e' mai piaciuta a questo sociologo atipico, visto che con essa si celano i conflitti che attraversano il capitalismo reale. L'opinione pubblica e' niente altro che una convenzione usata per indicare la produzione di consenso verso l'ordine costituito di cui il "campo intellettuale" e' stato spesso il premuroso custode. E non e' un caso, quindi, che l'accesso alla formazione universitaria sia stato e sia tuttora rigidamente controllato da gatekeepers altrettanto rigidamente selezionati. Da questo punto di vista Questa non e' un'autobiografia e' un libro prezioso per diradare le nebbie che hanno sempre avvolto la formazione scolastica e universitaria francese. Il diritto universale all'istruzione e' infatti inscritto nella storia moderna francese a partire dal famoso Elogio dell'istruzione pubblica del marchese de Condorcet (recentemente ripubblicato dalla Manifestolibri) e tuttavia lo "spirito repubblicano" era ed e' tutt'ora impregnato da una logica classista che non ha impedito di aprire i cancelli d'entata del campo intellettuale anche alla piccola borghesia rurale o agli impiegati statali, a patto pero' che mai mettessero in discussione l'autoreferenzialita' e la separatezza del sistema educativo dal resto della societa'. I ricordi di Bourdieu sulle violenze fisiche e psicologiche subite al liceo e l'autoritarismo dell'universita' si addensano infatti come macigni nelle pagine del libro e tolgono ogni dubbio sul carattere oppressivo e classista della produzione culturale in Francia. Due pero' sono i momenti storici che scuotono le fondamenta dell'Accademia: l'indipendenza dell'Algeria e il Sessantotto. Tanto nella "sporca guerra" che nel maggio francese gli intellettuali sono chiamati in causa e prendono la parola. E' noto il ruolo avuto in entrambi i casi da Jean-Paul Sartre, moderna figura di "intellettuale totale" che prende la parola su tutto cio' che di rilevante accade nella discussione pubblica. E tuttavia, secondo Bourdieu, l'autore di Essere e nulla e Critica della ragione dialettica non ha mai posto in discussione la geografia del potere all'interno dell'Accademia fino al '68, quando il nodo del potere e il ruolo svolto dall'universita' nel legittimare i rapporti sociali irromperanno sulla scena pubblica. * I mandarini rovesciati In questo caso Bourdieu opera una distinzione tra Jean-Paul Sarte (personaggio che esercita il suo indiscusso fascino, ma verso il quale il sociologo francese di formazione filosofica nutre un ambivalente sentimento di odio e amore) e un'altra figura di intellettuale che si forma sulle barricate del quartiere latino, dopo le quali "nulla sara' piu' come prima", anche per la contestazione verso i mandarini dell'Accademia espressa dagli studenti in rivolta. I nomi citati in questo volume sono altrettanto noti e verso di loro l'autore di Questa non e' un'autobiografia usa parole di ammirazione e di profondo rispetto. Si tratta di Michel Foucault e Gilles Deleuze, ma e' sicuramente il primo a rappresentare le luci e le ombre dell'"intellettuale specifico", militante si', ma che prende la parola solo a partire dalla sua disciplina. Ma anche in questo caso Bourdieu mette in evidenza aporie e contraddizioni di questa figura intellettuale: la sua ottica e' volutamente parziale, ma pretende tuttavia di avere il potere, in quanto filosofica, di illuminare la caverna dove uomini e donne sono condannati a vivere, mentre le scienze sociali svolgono tutt'al piu' una funzione ancillare. Per un sociologo di razza come e' stato Bourdieu questa funzione subalterna della stessa sociologia, ma anche dell'etnologia e dell'antropologia non poteva che essere respinta al mittente. La vivace e spesso aspra descrizione del "campo" intellettuale - cioe' delle persone che ne fanno parte, delle regole vigenti per accedervi, dei conflitti per conquistare, o mantenere, il potere o per imporre l'egemonia di questa o quella "scuola di pensiero" - restituisce un affresco di un mondo con i suoi riti di iniziazione e di carriera impermeabile a quanto accade al di fuori di esso, anche quando questo o quell'intellettuale prende parola e si schiera con un partito politico o movimento sociale. D'altronde e' stato sempre lo stesso Bourdieu che ha rivendicato piu' volte l'autonomia della sociologia, per preservarla pero' non da quanto accadeva nella realta', ma dalle pressioni che il potere costituito ha da sempre esercitato su questa disciplina. E non e' certo un mistero l'appassionata difesa di Bourdieu dei movimenti sociali degli anni Novanta. Ma cio' che rimane assente nel campo degli intellettuali analizzato in questo volume e' la sua colonizzazione da parte dell'industria culturale. Una colonizzazione che ha modificato radicalmente il campo degli intellettuali, al punto che i gatekeepers al suo ingresso annoverano manager, direttori editoriali, responsabili degli uffici stampa e solo raramente intellettuali la cui autorita' e' collettivamente stabilita dai suoi colleghi. Senza dimenticare che a questa schiera di funzionari dell'industria culturale si sono aggiunti nel tempo anche manager d'industria vista la retorica dominante del necessario incontro tra universita' e mondo delle imprese. Con realismo, si puo' tranquillamente affermare che gli intellettuali sono oramai diventati a tutti gli effetti "dipendenti" dell'industria culturale, e della loro autonomia e' rimasta solo una finzione tesa a preservarli dallo sguardo pubblico che scoprirebbe la loro internita' e complicita' all'industria culturale, che ha compiuto quella parabola che Adorno e Horkheimer avevano solo cominciato a tratteggiare nella Dialettica dell'illuminismo: la cultura e' diventata una merce come le altre. * Funzionari dell'umanita' Dirimente per comprendere il mutato ruolo di questi autoeletti "funzionari dell'umanita'" e' un'analisi serrata di come funzioni l'industria culturale, piu' che una puntuale descrizione della vita interna al "campo degli intellettuali". E a questo proposito, la produzione di eventi culturali, che accomuna tanto la vecchia Europa che i giovani Stati Uniti, e' il laboratorio che meglio rappresenta questa trasformazione gia' avvenuta. Gli intellettuali sono dunque niente altro che i garanti dell'industria culturale, anche se legittimano la loro collocazione produttiva con la retorica dei "militanti dell'universale" che "portano al popolo" la cultura. In altri termini, l'industria culturale funziona oramai come un'impresa a rete che mobilita e mette al lavoro una forza-lavoro intellettuale condannata a una perenne precarieta' mentre la gerarchia e' garantita da rapporti servili e di assoggettamento personale. Dalle fiere del libro ai festival della letteratura (o della filosofia o dell'architettura o della scienza) si sono infatti costituiti veri e propri "distretti produttivi" che producono e vendono la merce cultura e la merce evento. Ma come il Sessantotto ha scosso le fondamenta dell'Universita', sarebbe auspicabile che accadesse lo stesso per l'industria culturale. Prodromi ce ne sono stati, basti pensare alle mobilitazione degli intermittenti dello spettacolo in Francia o alla presa di parola degli scienziati nei forum sociali o alle mobilitazione dei ricercatori precari in Italia. Siamo cioe' solo agli inizi, segno che la vecchia talpa ha cominciato a scavare. * Postilla: Pierre Bourdieu tra senso pratico e regole dell'arte Per un lungo periodo, in Italia, Pierre Bourdieu e' stato uno studioso che poteva contare su un limitato gruppo di appassionati lettori e interpreti. Solo dopo le sue prese di posizione a favore dei movimenti sociali dei primi anni Novanta e la sua partecipazione appassionata allo sciopero generale del 1995 che paralizzo' per oltre un mese il trasporto pubblico di Parigi, e' maturato un interesse verso la sua opera al punto che anche l'industria editoriale italiana ha cominciato, con sistematicita', a tradurre gran parte delle sue opere. E recentemente sono usciti due volumi "antichi" di Bourdieu. Il primo e' Il senso pratico (Armando editore, pp. 431, euro 30), il secondo Le regole dell'arte (Il Saggiatore, pp. 509, euro 35). Testi entrambi di difficile catalogazione, come pero' gran parte degli scritti di Bourdieu. Il senso pratico e' al tempo stesso una "critica della ragione teorica", un testo di etnologia che indaga come le strutture della parentela orientino l'ingresso in societa' di uomini e donne e una "sociologia della vita quotidiana", dove la percezione dello spazio e dell'abitazione siano marcate da una logica di classe che riproduce continuamente se stessa. Un libro che costituisce, infine, un testo dove Pierre Bourdieu intrattiene un corpo a corpo con la sociologia moderna, spaziando da una rilettura critica di Weber al tentativo di destrutturare il funzionalismo americano, vera bestia nera di questo autore. Ad un altro genere appartiene sicuramente Le regole dell'arte. Testo che assieme a quello sulla fotografia e Il mestiere di scienziato e' un affondo nella descrizione del "campo culturale". A questo proposito la critica rivolta alla figura dell'"intellettuale totale" incarnata da Jean-Paul Sarte costituisce un tassello del puzzle della critica degli intellettuali: un puzzle che non scade mai in un triviale antintellettualismo, neanche quando Bourdieu si scaglia contro la regole di censo dominanti all'interno del "campo culturale". Due libri, dunque, che appartengono a quella lunga traiettoria che ha portato il giovane laureato in filosofia con un futuro sicuro nell'accademia, prima nelle strade polverose dell'Algeria poi all'incontro con Raymond Aron e, infine, alla scelta delle scienze sociali, considerate, a torto o a ragione, l'unica possibilita' per afferrare il reale in tutta la sua molteplicita' e negli "infiniti possibili" celati al suo interno. 3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 4. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1129 del 29 novembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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