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La nonviolenza e' in cammino. 1114
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1114
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 14 Nov 2005 01:03:46 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1114 del 14 novembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Enrico Peyretti: Agli amici siciliani 2. Nicole Itano: Amore duro 3. Pasquale Pugliese: La trasformazione nonviolenta dei conflitti interculturali 4. Guido Caldiron intervista Denise Epstein 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: AGLI AMICI SICILIANI [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci messo a disposizione questa lettera. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario. Rita Borsellino, sorella del magistrato Paolo Borsellino assassinato dalla mafia, e' da molti anni insieme a don Luigi Ciotti la principale animatrice dell'associazione "Libera", la principale rete dei movimenti della societa' civile impegnati contro la mafia. Segnaliamo che e' attivo il sito internet www.ritapresidente.it per coordinare e diffondere le informazioni sulla campagna a sostegno della candidatura di Rita Borsellino a presidente della Regione Sicilia] Cari amici siciliani, lo so, non sono elettore siciliano, ma ho firmato anch'io per Rita Borsellino presidente. L'ho ascoltata parlare, so che sarebbe simbolo e stimolo per la Sicilia, darebbe corpo al valore della Sicilia nei luoghi della politica. Anche a Torino c'e' chi ama la Sicilia. Non occorre essere del mestiere, tanto meno essere un navigatore dei partiti, per fare una politica che orienta ai valori le competenze tecniche specifiche, perche' il mestiere politico essenziale e' il mestiere del cittadino, che e' di ogni donna e uomo che voglia vivere con gli altri e per gli altri, in onesta'. Come Rita, che sa cosa questo significa. 2. MONDO. NICOLE ITANO: AMORE DURO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questo articolo di Nicole Itano. Nicole Itano, giornalista indipendente, vive a Johannesburg in Sudafrica; e' corrispondente per "We News", collabora anche con l'Associated Press, "The Christian Science Monitor" e "Newsday"; sta scrivendo un libro sull'aids in Africa. Puo' essere interessante osservare che l'espressione "amore duro", usata dalle donne dello Zimbabwe impegnate nella lotta nonviolenta per i diritti umani di tutti gli esseri umani, e' formula equivalente a quella "forza dell'amore" che usava Martin Luther King, e che e' una delle possibili sintetiche traduzioni del termine gandhiano "satyagraha", che abitualmente in italiano si traduce come "forza della verita'" (e gia' meglio: "afferramento al vero", quel vero che per altri e' il Vero, e che per tutti designa cio' che e' permanente - ovvero sostanziale, essenziale - in quanto vero, buono e giusto - e quindi altresi' bello, e robustoso e forte: il vero che comunica e avvicina, che unisce, che fa ed e' incontro, e che dunque puoi chiamare ancora amore; scilicet, in un celebre luogo dantesco: "la divina potestate, / la somma sapienza e 'l primo amore"). La persona che cuce queste poche righe di presentazione degli interventi che appaiono su questo foglio conosce anche un'altra bella formulazione che coglie ed esplora dimensioni ulteriori - senza esaurire certo la preziosa vena, il filone inesauribile - del medesimo fondamentale concetto della scelta e della proposta nonviolenta, ed e' la seguente tacitiana sentenza dell'indimenticabile nostro maestro Franco Fortini: "ironia che resiste, e contesa che dura"] Harare, Zimbabwe. In un parco senza luci, la sera di marzo in cui si tennero le elezioni parlamentari in Zimbabwe, centinaia donne si riunirono per cantare e pregare per la pace. In questo paese africano, pero', la preghiera pubblica e' ormai giudicata una minaccia per la sicurezza. Dozzine di poliziotti armati di manganelli arrivarono subito a portare via le donne nei loro furgoni scoperti. Alla fine della serata, trecento donne (per la maggior parte madri e nonne che lottano ogni giorno per dar da mangiare alle loro famiglie) erano state messe in prigione, e nove di esse erano state picchiate cosi' duramente da dover ricorrere alle cure ospedaliere. * Fra le prime ad essere portate via c'era Jenni Williams, una delle fondatrici di "Women of Zimbabwe Arise" (Woza), ovvero di una delle poche organizzazioni che sono ostinatamente disposte a scendere in strada per protestare contro la distruzione del proprio paese. "L'impulso provenne dal fatto che le donne stavano e stanno sopportando i peggiori costi dell'instabilita' in Zimbabwe - racconta Jenni -. Poiche' eravamo quelle che stavano soffrendo di piu', pensammo che avremmo dovuto parlare di piu', e chiedere risposte". Jenni Williams e' stata ormai arrestata diciotto volte, in maggior parte in relazione alle proteste organizzate dal suo gruppo: "Noi lo chiamiamo 'amore duro', perche' amiamo abbastanza il nostro paese da accettare il sacrificio di essere arrestate e picchiate". Le donne del Woza dichiarano di ispirarsi al movimento per i diritti civili negli Usa, alle proteste contro l'apartheid del Sudafrica, ed alla resistenza nonviolenta di Gandhi. Percio' pregano, sfilano in corteo, e regalano rose a cui sono legati messaggi di pace. Dicono di prendere coraggio da uno slogan della lotta antiapartheid: "Colpire una donna e' come colpire una roccia". Quando la polizia interrompe le loro attivita', obbediscono quietamente, sentendo che il loro coraggioso silenzioso svergogna costantemente le autorita' per il maltrattamento di donne che potrebbero essere le loro madri, figlie e sorelle. Jenni divenne una figura pubblica circa cinque anni orsono, quando il governo dello Zimbabwe comincio' a requisire le fattorie possedute da bianchi per ridistribuirle a neri privi di terra. L'Unione commerciale degli agricoltori dello Zimbabwe la ingaggio' come portavoce ed esperta in pubbliche relazioni. Da allora, Jenni ha intrapreso una drammatica trasformazione: e' diventata un'attivista nonviolenta, il solo viso bianco in un gruppo di donne povere e nere. Jenni ci tiene a farmi notare, tuttavia, che la sua ascendenza e' mista: inglese e ndebele. Mi dice che suo marito e i suoi figli hanno dovuto lasciare il paese per ragioni di sicurezza, anche se lei spera che la situazione si stabilizzi abbastanza, nel prossimo futuro, per permettere il loro ritorno: "Ho chiesto alla mia famiglia una sorta di 'permesso' di tre anni dal mio essere moglie e madre. E' stato difficile, ma mi hanno sostenuta. Hanno capito che stiamo cercando di rendere lo Zimbabwe un posto di nuovo vivibile". * Dopo cinque anni di violenza politica e di oppressione, la maggior parte degli abitanti del paese ha terrore di parlare contro il governo, nonostante un'economia in deterioramento e una devastante campagna di "pulizia urbana", chiamata "Operazione Murambatsvina" (ovvero "porta via la spazzatura") che e' cominciata poco dopo le elezioni e che ha privato della casa 700.000 persone, e della scuola migliaia di bambini. Robert Mugabe, il presidente, detiene il potere sin dall'indipendenza nel 1980 e lo detiene saldamente. Jenni Williams ed altre figure di spicco della societa' civile sono dispiaciute che il partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, non voglia impegnarsi in azioni di massa. Il partito ha ormai perso tre elezioni in condizioni che l'intera comunita' internazionale ha condannato, ma ha scelto di lottare attraverso i tribunali. D'altronde, il clima politico in Zimbabwe rende ogni tipo di protesta estremamente difficile. Una serie di nuove leggi in materia di ordine pubblico, grazie alle quali le donne di Woza vengono arrestate, restringono la possibilita' di raduni pubblici e di criticare il presidente o la polizia. La stampa indipendente e' stata soffocata, e la violenta campagna organizzata dal governo contro i propri critici ha creato un clima di paura. Arnold Tsunga, portavoce degli Avvocati dello Zimbabwe per i diritti umani, e rappresentante legale delle donne arrestate, dice che tra il 2003 e il 2004 ci sono stati almeno 2.000 arresti dovuti alle nuove leggi, ma i tribunali non sono riusciti a mandare in carcere neppure una singola persona in base ad esse. Le donne arrestate la notte delle elezioni sono state rilasciate dopo essere state giudicate colpevoli di "ostruzione del traffico", anche se si trovavano in un parco in cui non c'era alcuna strada. * Thabita Khumalo e' un altro volto del movimento di protesta nel paese, il volto di una piccola donna scura che ha fatto esperienza in prima persona della brutalita' del regime. Un sabato, lo scorso luglio, Thabita Khumalo stava tenendo l'intervento di apertura di un incontro fra sindacaliste in un albergo di Harare, quando un gruppo di uomini irruppe nel locale per picchiare le partecipanti. Uno di essi prese a pugni Thabita, rompendole parecchi denti e facendole un occhio nero. Ma lei rifiuto' di andarsene, e persino di chiamare aiuto. "Volevo dimostrare loro che il coraggio non ci manca. Se fossi scappata, io che avevo organizzato l'incontro, questo avrebbe distrutto tutto il lavoro fatto con le donne sindacaliste, in questi anni, per incoraggiarle e sostenerle". Come Jenni Williams, Thabita Khumalo e' stata arrestata molte volte per la sua attivita'. E' stata picchiata, i suoi figli sono stati molestati e intimiditi. Una volta e' stata rapita da sostenitori del governo. Ha riconosciuto i suoi aggressori, ma le e' stato detto dalla polizia che quest'ultima non puo' intervenire in affari politici. La sua determinazione resta invariata: "Questo e' il solo paese che conosco, ci sono nata. Voglio che i miei figli abbiano una vita migliore, qui". A differenza di Jenni, Thabita non ha le risorse economiche per mandare i ragazzi fuori dallo Zimbabwe, anche se la loro sicurezza e' uno dei suoi desideri principali. "Noi donne siamo coraggiose - mi dice infine con intensa concentrazione -. Siamo coraggiose ma sottostimiamo il nostro potere. Il giorno in cui le donne capiranno il loro potere, questo paese cambiera'". * Per maggiori informazioni: - Women of Zimbabwe Arise - Kubatana: www.kubatana.net - Human Rights Watch - Zimbabwe: www.hrw.org/doc?t=africa&c=zimbab 3. RIFLESSIONE. PASQUALE PUGLIESE: LA TRASFORMAZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI INTERCULTURALI [Ringraziamo Pasquale Pugliese (per contatti: puglipas at interfree.it) per averci messo a disposizione questo suo articolo apparso su "Azione nonviolenta" di ottobre 2005 (per contatti con la redazione della bella rivista fondata da Aldo Capitini e diretta da Mao Valpiana: e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Per esigenze legate alla grafica particolarmente semplificata e "povera" del nostro foglio abbiamo dovuto, come d'abitudine, rinunciare a riprodurre qui tout court le tabelle, le figure e gli schemi che integravano e arricchivano l'articolo, dando di esse ed essi una mera descrizione in forma di discorso continuo, per l'adeguata riproduzione rinviamo naturalmente all'edizione originale in rivista. Pasquale Pugliese, educatore presso i Gruppi educativi territoriali del Comune di Reggio Emilia, dove risiede, laureato in filosofia con una tesi su Aldo Capitini, e' impegnato nel Movimento Nonviolento, nella Rete di Lilliput ed in numerose iniziative di pace; e' stato il principale promotore dell'iniziativa delle "biciclettate nonviolente"] Un tragico luglio Ho scritto le righe che seguono nel tragico luglio del 2005 segnato dai 56 morti degli attentati di Londra e dagli oltre 80 di Sharm El Sheikh (oltre alle centina di civili iracheni che nessuno ormai conteggia piu'), dall'evocazione (o sarebbe meglio dire l'invocazione?) sui media dello "scontro di civilta'" e dalla messa a punto, in un parlamento mai tanto bipartisan, del giro di vite repressivo ed espulsivo nei confronti degli immigrati (in specie clandestini) come misura di sicurezza. E dire che il mese si era aperto con il decennale dell"eccidio di Srebrenica, in cui la tragedia (7.000 musulmani bosniaci uccisi in cinque giorni dai serbi cristiani) si era svolta a ruoli invertiti... Le ho scritte perche' credo che sia un terribile errore lasciarsi chiudere nella spirale di paura e violenza che tanti cattivi maestri, da una parte e dall'altra, stanno irresponsabilmente alimentando, in un macabro gioco globale in cui guerra, terrorismo e repressione si alimentano a vicenda. Mi pare invece importante fermarsi a riflettere su un elemento decisivo, quanto trascurato: i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di pakistani immigrati in Inghilterra all'inizio degli anni '90, gente che ha lavorato sodo, ha fatto di tutto per integrarsi e si e' costruita una famiglia e una posizione attraverso una vita dedicata al sacrificio per affermarsi socialmente. "Gli attentatori suicidi di Londra", come ha scritto a caldo Khaled Fouad Allam, "sono l'espressione estrema di una generazione euro-musulmana che e' 'borderline', che non si riconosce ne' nella cultura dei genitori ne' in quella occidentale. Essendo priva di riferimenti, e' alla ricerca di un'identita' che rischia di essere offerta solo dai cattivi maestri del jihadismo" (1). Ossia giovani invischiati nell'escalation di un personale conflitto interculturale che l'ideologia terrorista ha infine reso armi viventi. Insieme all'impegno per il ritiro dall'Iraq delle truppe occupanti - le cui atrocita' fanno parte dei video di propaganda dell'internazionale del terrore per il reclutamento dei nuovi "martiri" -, capire che cosa accade quando persone appartenenti a culture differenti con-vivono sullo stesso territorio, quali sono i conflitti profondi (anche in senso personale e temporale) che si aprono, e fare un investimento di idee e di risorse sulla loro mediazione e trasformazione nonviolenta, penso sia oggi il piu' importante passo politico e culturale verso la sicurezza di tutti. Questi appunti vogliono essere un piccolo contributo. * Culture e conflitti Se, come sostiene J. Galtung, gli stadi evolutivi nelle relazioni interculturali sono quattro - intolleranza, tolleranza o multiculturalismo passivo (societa' multiculturale), dialogo o multiculturalismo attivo (societa' interculturale), transculturalismo (societa' transculturale) (2) - il passaggio dall'uno all'altro non e' lineare ne' indolore. La societa' italiana negli ultimi quindici-venti anni sta attraversando un'accelerazione di complessita' dovuta al crescente ingresso di popolazione immigrata, proveniente dai diversi meridioni ed orienti del mondo, e l'incontro con persone portatrici di culture altre ha visto diverse velocita' nel passaggio da uno stadio all'altro delle relazioni reciproche: in alcuni contesti e situazioni sembra di essere fermi allo stadio dell'intolleranza, in altri si aprono spazi di dialogo che anticipano la societa' inter e trans-culturale. Poiche' le dinamiche globali del sistema-mondo lasciano prevedere una crescita costante delle presenza di cittadini stranieri sul territorio italiano, dobbiamo prefigurarci - nonostante le miope legislazione nazionale e le rozze politiche pseudosecuritarie che incentivano la xenofobia - una societa' che diventera' nel futuro prossimo progressivamente trans-culturale, ossia trasformata culturalmente dagli innesti apportati dalle differenti culture che sempre piu' abiteranno i "nostri" luoghi. L'incontro tra le differenze e' naturalmente generatore di conflitti, anzi - come dice bene Giuseppe Bugio - "incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza. Conflitto e' un altro nome della differenza" (3). E poiche' la cultura, come ci ricorda ancora Galtung, rappresenta il profondo, "il subcosciente collettivo di significati condivisi: le norme che non passano per il cervello che abbiamo in testa, ma si ancorano piuttosto al cervello che abbiamo nello stomaco" (4), e' facile prevedere un inasprimento dei conflitti interculturali che, se lasciati a se stessi, non governati - ne' mediati ne' trasformati - possono innescare processi incontrollabili di escalation. Si tratta allora di non nascondere o sottovalutare o demonizzare i conflitti interculturali, ma di attrezzarsi per affrontarli e trasformarli affinche' da potenziale terreno di scontro diventino feconda occasione di incontro. A questo scopo le culture e le pratiche della nonviolenza mi sembra siano dotate di strumenti concettuali e metodologici adeguati, sia perche' ormai affinati sui molteplici fronti dei conflitti (diretti, strutturali e, appunto, culturali), sia perche' molte delle piu' significative esperienze di nonviolenza del secolo scorso si sono confrontate proprio con queste questioni. Gandhi ha elaborato il nucleo fondamentale del satyagraha in Sudafrica attraverso il confronto con il segregazionismo e poi, una volta in India, si e' misurato ed e' stato infine sopraffatto dal conflitto tra islamici ed induisti, e Martin Luther King ha fatto della lotta contro le leggi segregazioniste negli Usa lo scopo di una vita - solo per citare i casi piu' noti e paradigmatici. Da noi, Alex Langer, e' stata la voce che piu' di altre si e' levata come monito a porre attenzione alle questioni interculturali, anche in relazione all'esplosione della guerra nei Balcani: "esplosioni di razzismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori piu' dirompenti e distruttive della convivenza civile che si conoscano (piu' delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l'economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacita' di affrontare e dissolvere la conflittualita' etnica" (5). Percio' e' utile provare a mettere insieme qualche elemento che ci aiuti a tracciare dei segni nonviolenti di orientamento sul terreno dei conflitti interculturali, senza alcuna pretesa di organicita'. * Le arene dei conflitti interculturali I conflitti interculturali, proprio perche' rimandano alla dimensione piu' profonda delle relazioni umane, hanno la caratteristica di potersi sviluppare sui diversi piani della scala quantitativa e dell'intensita' qualitativa. Usando la griglia elaborata da Arielli e Scotto (6), possiamo esemplificare alcune arene dei conflitti interculturali che ci danno il senso di quanto sia ampio lo spettro delle situazioni che possono rientrare in questa definizione: [Segue una tabella che incrocia i dati lungo l'asse verticale secondo le rubriche: a) Conflitti intra-unita' e b) conflitti inter-unita'; e lungo l'asse orizzontale secondo le rubriche: 1) Persona (micro), 2) Gruppo (meso), 3) Societa'/stati (macro); dando luogo a alla seguente disposizione nel quadrante: a1: Senso di spaesamento e separatezza tra la cultura di riferimento familiare e quella di accoglienza che vivono, soprattutto, i bambini e gli adolescenti di famiglie immigrate. b1: Forme di pregiudizio e atteggiamenti di discriminazione che attraversano molte relazioni inter-individuali nei diversi ambiti della vita sociale. a2: Diffidenza all'interno di alcune comunita' rispetto ai membri del gruppo maggiormente integrati (o assimilati) alla cultura ospitante. b2: Tensioni tra comunita' culturali differenti che abitano lo stesso territorio (es.: scontri tra bande giovanili composte per nazionalita' di riferimento). a3: Rivendicazioni civili politiche e sociali da parte delle minoranze religiose, culturali e nazionali presenti sul territorio dello Stato. b3: Guerre e terrorismo internazionale interpretate come Scontro di civilta' (Samuel Huntington), ossia la "profezia che si autoavvera" (come evidenziano efficacemente Arielli e Scotto, "gli interventi statunitensi e occidentali nel Medio Oriente vengono sempre piu' percepiti nei termini dello "scontro tra civilta'", e testi come quelli di Huntington non si limitano a "chiarire" il fenomeno, ma contribuiscono in parte a produrlo, perche'' incentivano una cultura dello scontro" (7))] Apparentemente distinte, le diverse - realistiche - rappresentazioni proposte hanno un filo che le lega. Per esempio, credo che sarebbe molto interessante ricostruire la storia del processo di dis-integrazione degli attentatori suicidi nella metropolitana di Londra, cittadini britannici a tutti gli effetti. Che esito hanno avuto i diversi conflitti interculturali che hanno attraversato le loro storie di vita personali? * Comunicazione e cornici culturali "Non si puo' non comunicare" afferma il primo assioma di Watzlawick nella Pragmatica della comunicazione umana (8). Ossia anche quando la nostra bocca tace il nostro corpo parla, attraverso la postura, l'espressione del viso, la vicinanza, la gesticolazione ecc. Nel continuo flusso comunicativo coesistono, infatti, due livelli di espressione, quello esplicito del contenuto detto e quello implicito, simbolico, sulla relazione tra i comunicanti che fornisce le informazioni su come interpretare il contenuto. E' questa la meta-comunicazione, la cui interpretazione corretta e' la condizione indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi comunicazione efficace. Al di la' delle diversita' di codici linguistici e' infatti proprio la diversita' dei codici simbolici che differenzia sostanzialmente la comunicazione intra-culturale da quella inter-culturale. Come spiega Graziella Favaro, "nella prima cio' che tutti diamo per scontato in quanto membri di uno stesso contesto culturale ci aiuta a comprenderci l'un l'altro; nel secondo caso cio' che diamo per scontato puo' ostacolare o rendere piu' difficile la comunicazione reciproca" (9). Infatti, ciascuno dei comunicanti di differente cultura utilizza competenze comunicative diverse, efficaci e pertinenti nei propri contesti di riferimento, ma probabilmente inefficaci - inopportuni o disorientanti o addirittura controproducenti - in altri contesti. E cio' e' spesso causa di piccoli e grandi "incidenti interculturali" che possono dare luogo all'avvio di conflitti su tutte le arene. "A Trinidad, dopo aver inutilmente tentato di chiamare gli indigeni presso la nave mostrando degli oggetti, Cristoforo Colombo cerca di attirarli improvvisando una 'fiesta'. Cosi' scrive nel diario: - Feci salire sul castello di poppa un tamburino che suonava e alcuni ragazzi che ballavano, pensando che si sarebbero avvicinati a vedere la festa. La risposta degli indigeni non si fa attendere: - Appena ebbero sentito suonare e visto ballare, lasciarono i remi e posero mano agli archi e li incoccarono e ciascuno di essi imbraccio' il suo scudo e incominciarono a tirarci frecce" (10). Lo stesso evento e' letto e interpretato attraverso le diverse "cornici culturali" di cui ciascuno e' parte, perche' assorbite fin da bambino all'interno della propria comunita': la danza e' segno di festa all'interno di una cornice e dichiarazione di guerra nell'altra. Le cornici sono percio' le "premesse implicite" attraverso le quali diamo senso, operiamo nel mondo e ci relazioniamo con gli altri, dandole per scontate. Al loro interno vi sono diversi piani di profondita' decrescente in cui ciascuno illumina e indirizza l'altro: a) il piano ontologico dei valori; b) il piano delle rappresentazioni e delle norme; c) il piano dei comportamenti e delle pratiche culturali (11). Ma nelle relazioni interculturali fermarsi al comportamento agito c), decodificandolo reciprocamente secondo i propri piani a) e b) significa condannarsi all'incomunicabilita' e poi all'ostilita'. * Shock culturali ed empatia Come per altre tipologie di conflitti, anche in quelli interculturali - sia che ci troviamo coinvolti direttamente sia che operiamo come terze parti (perche' insegnanti, educatori, operatori sociali o operatori di pace...) - per lavorare alla loro trasformazione costruttiva, e' necessario tenere presenti i tre elementi necessari della trasformazione dei conflitti: empatia, creativita' e nonviolenza (12). Nel caso degli incidenti interculturali - eventi critici definiti anche shock culturali - particolarmente importante, e anzi indispensabile punto di partenza, e' l'empatia, non solo come elemento caratterizzante la "personalita' nonviolenta" (13), ma soprattutto come, diciamo cosi', approccio epistemologico alla relazione: ossia disposizione a mettersi dal punto di vista dell'altro, a provare a guardare le cose dalla sua angolazione culturale. Avere un approccio empatico all'altro, al differente da noi, ci consente infatti di avviare un processo di apertura e ampliamento della conoscenza che si sviluppa attraverso tre tappe: - Prima tappa: prendere coscienza dalle nostre cornici Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi fin dalla nascita (e che condizionano e influenzano i comportamenti e le pratiche) ci appaiono come naturali fino a quando non veniamo a contatto (o in conflitto) con altre coordinate e cominciamo a capire che, queste come quelle, sono un prodotto complesso di elaborazione storica. Sono una cornice che da' senso agli avvenimenti del mondo, analogamente a quanto fanno le cornici di cui sono portatori gli altri. Percio' l'incontro con il differente da noi ci consente di conoscere meglio noi stessi. - Seconda tappa: avviare il decentramento cognitivo A questo punto comincia il superamento dell'egocentrismo - che Piaget indica come fase transitoria del bambino piccolo, che e' in grado per esempio di comprendere chi e' straniero per lui ma non che anche lui e' straniero ad altri, e che invece sul piano culturale si prolunga, a volte, per tutta la vita e puo' diventare ideologia (etnocentrismo) - e si da' l'avvio al decentramento cognitivo. Ossia alla capacita' di leggere gli eventi anche a partire da codici culturali differenti dai nostri, "uscendo" in qualche modo dalla nostra cornice. Percio' l'incontro con il differente da noi aiuta ad aumentare il proprio campo visivo. - Terza tappa: operare per "doppie visioni" Infine siamo pronti, all'interno di un incidente culturale piccolo o grande che sia, ad operare non per semplice azione-reazione (aut-aut) ma per doppie visioni (et-et), cercando di dare all'evento critico diverse interpretazioni, senza giudizio di valore, per comprenderne le ragioni a partire dalle differenti cornici di riferimento. Due litiganti vengono portati davanti ad un giudice conosciuto da tutti per la grande saggezza. Il giudice, dopo aver ascoltato il primo litigante, commenta: "Hai ragione". Poi, sentito anche il secondo, anche a lui dichiara: "Hai ragione". Si alza uno dal pubblico che esclama: "Ma Eccellenza, non possono aver ragione entrambi". Il giudice ci pensa su un attimo e poi, serafico: "Hai ragione anche tu". A commento di questa storiella Marianella Sclavi scrive: "il senso comune e la logica classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si e' piu' in grado di decidere niente, si rimane bloccati. Questo e' vero quando operiamo in 'sistemi semplici' entro i quali prevalgono le stesse premesse implicite. Invece nel dialogo interculturale e piu' in generale nella gestione creativa dei conflitti l'assumere che tutti hanno ragione e' la condizione per fare dei passi avanti" (14). Percio' l'incontro con il differente da noi e' un'indispensabile tappa verso la ricerca della verita'. * Stereotipo, pregiudizio, discriminazione Un ostacolo che puo' bloccare il processo di empatia cognitiva, impedendo cosi' di operare efficacemente alla trasformazione dei conflitti interculturali con creativita' e nonviolenza, e' il processo che dalla "categorizzazione" porta allo stereotipo e poi al pregiudizio e alla discriminazione. Vediamo velocemente di che si tratta. I manuali di psicologia sociale spiegano che classificare alcune persone come "stranieri" e' parte di quel processo di categorizzazione cognitiva in base al quale gli individui ordinano e semplificano l'insieme dei dati che proviene dal mondo esterno, al fine di dare senso alla multiforme realta' e poter agire al suo interno. Parte integrante di questo processo sono i meccanismi di "semplificazione" e "distorsione percettiva": vengono enfatizzati i dati che consentono di inserire un elemento in una determinata categoria (mentre sono depotenziati quelli che porrebbero difficolta' d'inserimento) in modo da realizzare per ciascun dato della realta' il "miglior adattamento" possibile. Per l'inserimento nella categoria "straniero", per esempio, si enfatizza - tra le altre cose - la non conoscenza della lingua italiana, minimizzando le differenti competenze linguistiche di ogni singolo "straniero". Naturalmente la costruzione delle categorie non e' neutra ma avviene all'interno del processo di apprendimento sociale delle cornici culturali, per cui siamo portati a leggere il mondo attraverso le categorie proprie della nostra cultura di riferimento. Quando ad una categoria sociale si attribuiscono poi determinate caratteristiche - a partire dalla conoscenza diretta o indiretta di qualche membro di essa che e' portatore di quella caratteristica, estendendola quindi a tutti i membri della categoria e infine a ciascuno di essi - si schematizza e cristallizza una realta' in movimento, creando lo stereotipo. E' questa una forma di scorciatoia cognitiva, la generalizzazione, che ci induce a considerare ciascuno non in quanto persona singola ma solo come membro del gruppo di appartenenza. Si parla poi di pregiudizio quando allo stereotipo si aggiungono giudizi di valore accompagnati da emozioni, che rimangono inalterati anche di fronte a nuovi elementi di conoscenza. Come spiega Aluisi Tosolini: "se riteniamo, pregiudizialmente, che ad un dato gruppo di persone ben si attaglia l'etichetta di 'ladri' (per esempio i rom), ben difficilmente cambieremo opinione di fronte a persone che in tutta evidenza si comportano in modo difforme dal nostro pregiudizio. E se proprio non riusciamo a reggere la dissonanza cognitiva generata da un comportamento impensato (per esempio un ragazzo rom che ci insegue per restituirci il portafoglio perso o la borsa dimenticata) possiamo fare ricorso alla logica dell'eccezione. Che, al solito, conferma la regola" (15). Quando dallo stereotipo e dal pregiudizio si passa all'azione conseguente ecco che entriamo nel campo della discriminazione vera e propria, individuale, e/o sociale e/o politica. E gli esempi nella storia e nella cronaca non mancano (16). * Nonviolenza e mediazione culturale Nel contesto italiano attuale non siamo ancora giunti a forme di discriminazione propriamente detta, almeno diffusa in dimensioni socialmente significative, percio' l'intervento nonviolento nei conflitti interculturali puo' ancora essere considerato di carattere preventivo. Se infatti utilizziamo come strumento di analisi il triangolo dei conflitti di Galtung (17), [La figura qui inserita nel testo rappresenta un triangolo che ha come punto di vertice "B comportamento" e come punti angolari alla base "A atteggiamento" e "C contraddizione", ed e' tagliato a meta' da una linea orizzontale denominata "linea della latenza"] vediamo che i tre elementi che compongono tutti i conflitti (diversamente combinati a seconda che si tratti di conflitti semplici o complessi, con due o piu' attori ecc.), sono A) l'atteggiamento, ossia la disposizione e i presupposti anche individuali, C) la contraddizione, ossia il contenuto, il problema, e B) il comportamento (in inglese behavior), l'azione messa in pratica. Gli elementi A e C sono latenti, ossia spesso non emergono con evidenza, mentre l'elemento B e' manifesto. In questa delicata fase di trasformazione sociale e culturale del nostro paese, i conflitti interculturali sono caratterizzati da una forte presenza dei due elementi conflittuali latenti: gli atteggiamenti, per esempio sui piani della categorizzazione, dello stereotipo e del pregiudizio, e le contraddizioni, rappresentate dai molti incidenti/shock culturali. Sono dunque presenti, in maniera crescente, entrambi i presupposti di base necessari per far compiere ai conflitti il balzo - piu' spesso di quanto ancora non avvenga - dal piano della latenza a quello del comportamento, che potrebbe manifestarsi anche in forme di discriminazione e violenza. Se a queste condizioni infatti aggiungiamo il martellamento sempre piu' assordante sul pericolo islamico che svolgono parte degli intellettuali, della stampa e del mondo politico e specularmente la propaganda jihadista che si diffonde anche in alcune moschee italiane, che armano gli animi di sentimenti xenofobi e guerrafondai da un lato e violenti e fondamentalisti dall'altro, e' evidente che lo scenario della diffusione di comportamenti violenti sulle diverse scale - dalla discriminazione sui banchi di scuola, al razzismo culturale, al terrorismo suicida - puo' farsi sempre piu' concreto, anche in Italia. La partecipazione italiana alla guerra e le organizzazioni terroriste internazionali buttano intanto benzina sul fuoco... Per questo e' importante intervenire con la nonviolenza prima che cio' accada, e bisogna, come direbbe Danilo Dolci, fare presto (e bene). In questo senso un'esperienza che, a mio parere, andrebbe fortemente ri-lanciata, ri-motivata e sostenuta e' quella dei mediatori culturali. Attualmente si tratta di una incerta categoria professionale, poco numerosa, con una formazione insufficiente e spesso usata dai servizi sociali, educativi e sanitari come mera riserva di interpreti e traduttori. E invece l'investimento politico e sociale sulla mediazione per la trasformazione dei conflitti interculturali e' un terreno d'intervento cruciale, al fine di rendere meno traumatico, per quanto possibile, l'inevitabile passaggio alla societa' trans-culturale. Consentendo di operare inoltre sul serio in funzione della sicurezza di tutti, che e' data non dalle severe leggi repressive ma dalle buone pratiche relazionali. Si tratta di formare molti piu' mediatori proprio tra i giovani delle diverse comunita' culturali e nazionali presenti nelle nostre citta', e nei loro percorsi di studio bisognerebbe inserire specificamente la nonviolenza, come filosofia e metodo di lettura e trasformazione dei conflitti. Si tratterebbe di farne quei "costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera, veri e propri 'traditori della compattezza etnica' che pero' non si devono mai trasformare in transfughi", secondo il profilo "professionale" che tracciava Alex Langer (18). In questa direzione qualcosa si comincia a muovere a livello di master universitario (19), ma e' insufficiente. Cio' di cui c'e' bisogno e' una moltiplicazione delle persone e dei luoghi capaci di sostenere la mediazione interculturale nel basso; capaci di costruire ponti, tessere reti e ricostruire relazioni interrotte tra le persone e le comunita' negli interstizi sensibili dei molti territori locali segnati dai conflitti, dentro le nostre citta' e i nostri quartieri. Insomma l'"aggiunta nonviolenta" alla prevenzione e mediazione dei conflitti interculturali, nei livelli micro e meso-sociale, si prospetta come un contributo ideale e metodologico alla costituzione di un corpo civile interculturale di mediatori esperti in trasformazione nonviolenta dei conflitti. * Schema n. 1 a) Piano ontologico e dei valori: - appartenenza religiosa - concezione della vita/della morte - miti di fondazione - sfera pubblica/privata - autorita'/liberta' individuale - solidarieta' - tabu' e pudore - concezione della natura b) Piano delle rappresentazioni e delle norme - modalita' di apprendimento e di comunicazione - rapporto tra oralita' e scrittura - diritti e doveri degli individui: leggi codificate e tradizioni - concezione del tempo, spazio, corpo - rappresentazione di malattia e salute - concezione della famiglia - relazioni interpersonali: uomo e donna, anziani e giovani, genitori e figli - concezione del lavoro, dei beni e del denaro c) Piano dei comportamenti e delle pratiche culturali - messaggi verbali - messaggi non verbali - linguaggio del corpo - modalita' di occupare lo spazio - modalita' di gestire il tempo - modalita' di stabilire relazioni interpersonali; saluto, contatto, distanza... - elaborazione di progetti individuali - strategie di apprendimento - cibo, abbigliamento, segni esteriori... [Da Graziella Favaro, Manuela Fumagalli, Capirsi diversi. Idee e pratiche di mediazione interculturale, Carocci, Roma 2004] * Schema n. 2 Radiografia di un pregiudizio negativo Quando vedi uno zingaro: - penso: sporco e ignorante, mi vuole fregare (componente cognitiva) - sento: paura (componente emotiva) - attuo: cambio marciapiede, scappo (componente comportamentale) Sequenza realizzata: stereotipo, pregiudizio, discriminazione [Da Da Analisis y resolucion de conflictos interculturales, Assoc. Amani. Ed. Popular, Madrid 1995, in italiano in: Io non vinco tu non perdi, Unicef, Roma 2004] * Note 1. "Il gazzettino on line", sabato 16 luglio 2005. 2. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e cultura profonda. 3. "Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione pedagogica delle differenze", pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova 2005. 4. "Cem-Mondialita'", febbraio 2004, dossier: Pace nel pluriverso, pace e cultura profonda. 5. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si puo' leggere su "Azione nonviolenta", giugno 2005. 6. Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2004. 7. Ivi. 8. Paul Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971. 9. Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Didattica interculturale, Franco Angeli, Milano 2002. 10. Cit. in Giuseppe Mantovani, L'elefante invisibile. Alla scoperta delle differenze culturali, Giunti, Firenze2005. 11. Vedi nel dettaglio i diversi piani nello schema n.1. 12. Vedi Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Ega, Torino 1998. 13. Vedi Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Ega, Torino 1996. 14. Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano 2002. 15. www.pavonerisorse.it/intercultura/pregiudizio.htm 16. Vedi schema n. 2. 17. Johan Galtung Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 1996. 18. Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, cit. 19. Per esempio il master in "gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi" dell'Universita' di Pisa. 4. MEMORIA. GUIDO CALDIRON INTERVISTA DENISE EPSTEIN [Dal quotidiano "Liberazione" del 2 novembre 2005. Guido Caldiron e' giornalista e saggista. Opere di Guido Caldiron: Gli squadristi del 2000, Manifestolibri, Roma 1993; AA. VV., Negationnistes: les chifonniers de l'histoire, Syllepse-Golias, 1997; La destra plurale, Manifestolibri, Roma 2001; Lessico postfascista, Manifestolibri, Roma 2002. Denise Epstein, figlia di irene Nemirovsky; scampate alla Shoah, ha curato l 'edizione dell'ultimo romanzo-testimonianza della madre assassinata dai nazisti. Irene Nemirovsky, nata a Kiev nel 1903, emigrata a Parigi con la famiglia dopo la rivoluzione d'ottobre, scrittrice, nella sua opera narrativa acuta osservatrice della societa', mori' ad Auschwitz nel 1942. Tra le opere di Irene Nemirovsky: Le mosche d'autunno, Feltrinelli, Milano 1989; David Golder, Feltrinelli, Milano 1992; Un bambino prodigio, La Giuntina, Firenze 1995; Il ballo, Adelphi, Milano 2005; Suite francaise, Adelphi, Milano 2005] Un piccolo capolavoro della letteratura rimasto per tanti anni in un cassetto. Anzi, in una valigia. Ultima traccia di una vita finita a Auschwitz, confusa nell'incendio che ha cercato di distruggere perfino il ricordo degli ebrei d'Europa. La storia di Irene Nemirovsky, scrittrice russa fuggita prima davanti alla rivoluzione d'Ottobre e poi, forse anche per questa consapevolezza di conoscere ormai un esilio nell'esilio, incapace di fuggire davanti alla minaccia nazista che aveva raggiunto Parigi dove si era rifugiata insieme alla sua famiglia, ci e' stata oggi restituita. E' grazie alla figlia della scrittrice, Denise Epstein, che ha conservato per tanti anni, e ha poi deciso di trascrivere, un manoscritto riposto nella valigia che i genitori le avevano affidato prima di essere arrestati dai nazisti e deportati a Auschwitz, che questo frammento di memoria e' tornato a vivere. Suite francese, che Irene Nemirovsky aveva scritto nei mesi precedenti il suo arresto, avvenuto nel luglio del 1942, e che, pubblicato in Francia solo lo scorso anno, e' uscito recentemente nel nostro paese (Adelphi, pp. 414, euro 19), riunisce quelli che nelle intenzioni dell'autrice dovevano essere solo i primi due elementi di un romanzo in cinque parti, dedicato al periodo dell'occupazione nazista della Francia. Quella fase drammatica della storia d'Europa e la difficile ricostruzione della memoria collettiva e individuale delle vittime, gli ebrei prima di tutti, si intrecciano nelle pagine del romanzo come nella vicenda che ha portato alla sua pubblicazione, a piu' di sessant'anni dalla sua composizione. Di questo abbiamo parlato con Denise Epstein che ha presentato Suite francese In Italia nei giorni scorsi. * - Guido Caldiron: Signora Epstein, quando ha capito che cosa conteneva il quaderno che sua madre aveva lasciato in una valigia prima di essere arrestata e deportata a Auschwitz? - Denise Epstein: Ho aperto il quaderno che conteneva i fogli scritti a mano da mia madre, solo molti anni dopo la guerra. Questo perche' per molto tempo, anche dopo la liberazione, avevo continuato a sperare che mia madre sarebbe tornata prima o poi e avrebbe aperto lei stessa quel quaderno. Per anni ho pensato che i miei genitori potevano aver trovato rifugio in Russia o in Svizzera, potevano essersi messi al riparo in qualche modo. In simili circostanze credo sia normale attaccarsi in tutti i modi a qualunque possibilita' che alimenti la speranza, comprese le idee piu' stupide. Avevo gia' avuto il mio primo figlio quando un giorno per strada vidi una donna che sembrava mia madre, le corsi dietro e la fermai e solo allora mi resi conto che le assomigliava soltanto ma, ovviamente, non era lei. Per tutti questi motivi non ho aperto per anni quel quaderno. Dovevo vivere, o meglio sopravvivere a quanto avevo visto e subito: per continuare a vivere, in simili circostanze, ci sono cose e oggetti che e' meglio mettere da una parte, riporre lontano dalla vista, per riuscire ad andare avanti ogni giorno. Quel quaderno per me rappresentava qualcosa di terribilmente doloroso e preferivo lasciarlo dov'era. * - Guido Caldiron: Come e' arrivata invece alla decisione di aprire quel quaderno e anzi di leggerne e trascriverne il contenuto? - Denise Epstein: Avevo tolto il quaderno dalla valigia dei miei genitori e spesso lo prendevo in mano, quasi lo accarezzavo, lo annusavo per cercare di ritrovare il profumo di mia madre. Ma non lo avevo mai aperto fino a quando non decisi, assolutamente per caso, di separarmene. Il mio appartamento si era allagato per meta' e capii che non potevo rischiare che il quaderno andasse distrutto, cosi' decisi di portarlo all'istituto di Parigi dove vengono conservati i manoscritti storici. Solo che non potevo separarmene senza sapere cosa contenesse, senza averlo nemmeno mai aperto. Cosi' ho cominciato a sfogliarne qualche pagina e poi, via via, ho iniziato a leggerlo e ho capito che dovevo trascriverlo, dovevo conservarlo per sempre in modo di poterlo rileggere quando avessi voluto. Non si trattava di un lavoro facile perche' mia madre lo aveva scritto durante la guerra, quando mancavano sia la carta che l'inchiostro e percio', per risparmiare spazio, aveva utilizzato una calligrafia talmente minuta che ho dovuto ricorrere a una lente d'ingrandimento per poterlo leggere. Cosi', pian piano, ho trascritto a mano l'intero contenuto del quaderno e poi l'ho battuto al computer. Mi ci sono voluti quasi due anni per farlo perche' ogni tanto ero costretta a fermarmi per l'emozione. Conoscevo tutti i protagonisti di quelle pagine, e molti di loro non c'erano piu', cosi' spesso mi bloccavo e non riuscivo ad andare avanti: prendevo il quaderno e lo riponevo dentro un armadio per qualche giorno. Non riuscivo ancora a comprendere che si trattava di un romanzo, a me sembrava un testamento, le ultime parole lasciate da mia madre, l'eredita' piu' preziosa della mia famiglia che mai avrei pensato potesse interessare ad altri. Mi facevo molti scrupoli alla sola idea di farlo pubblicare e, anzi, all'inizio non ci pensavo affatto. Per questo il testo e' rimasto sul mio tavolo fino all'anno scorso. * - Guido Caldiron: Lei aspettava il ritorno dei suoi genitori da Auschwitz e invece si e' trovata fra le mani questo manoscritto che le parlava cosi' intimamente di loro. Il suo rapporto con la loro memoria e con i suoi stessi ricordi di bambina, e' cambiato dopo aver aperto quel quaderno e deciso di leggerne il contenuto? - Denise Epstein: Certo, in qualche modo e' cambiato il mio modo di pensare ai miei genitori, ma credo di essere cambiata anch'io, come persona. Da un lato credo di essere riuscita a sentirmi meno colpevole del fatto di essere sopravvissuta a loro, di esserci ancora alla fine della guerra mentre loro non sono tornati piu'. Il fatto stesso di aver deciso prima di leggere e poi di pubblicare Suite francese mi ha fatto pensare che forse io ero sopravvissuta e addirittura diventata vecchia proprio per questo: per far conoscere le parole di mia madre, perche' tutti leggessero quanto lei aveva scritto in quel momento terribile. Non ho ritrovato mia madre, ma credo di poter dire che ho ritrovato la sua epoca, tutte le persone che le stavano intorno. Forse il suo romanzo non mi dice nulla di lei che non avessi gia' conosciuto da bambina, ma certo mi racconta della sua voglia di vivere ad ogni costo, malgrado il momento terribile in cui lei stava scrivendo quelle pagine. * - Guido Caldiron: Con questo libro lei non ha potuto naturalmente ritrovare sua madre, ma forse in queste stesse pagine ha potuto scoprire qualcosa di lei a cui prima non aveva mai pensato, e' cosi'? - Denise Epstein: Diciamo che ho ritrovato molte situazioni che avevo vissuto insieme a lei, malgrado ci siamo separate l'ultima volta quando io avevo soltanto tredici anni. Cio' che di nuovo ho scoperto, e' stato il coraggio e la determinazione di mia madre, la sua incredibile passione per la scrittura, al punto di non preoccuparsi di quanto le stava per accadere, e di cui era pero' pienamente cosciente, per portare a termine il suo romanzo. Al punto che ho provato collera per questo suo atteggiamento, per il fatto che non ha cercato di mettersi in salvo, mentre invece ha fatto di tutto per completare il suo scritto. * - Guido Caldiron: Dalle pagine del romanzo di sua madre, come nell'esperienza vissuta da lei e da sua sorella, ancora bambine, durante la guerra, emerge il ruolo svolto dai francesi nella deportazione e nello sterminio degli ebrei. Anche in Francia spesso si e' attribuita agli occupanti nazisti ogni responsabilita', dimenticando quanto zelante sia stata invece la "collaborazione" di tanti cittadini della Republique. - Denise Epstein: Si, e' vero, e credo sia invece una delle cose che non ci si deve stancare mai di ricordare. Dopo l'uscita di Suite francese ho ricevuto decine e decine di lettere che mi chiedevano perdono per quello che molti francesi hanno fatto agli ebrei prima e durante la seconda guerra mondiale. Come se la lettura di questo romanzo avesse accompagnato una sorta di risveglio delle coscienze. Io e mia sorella fummo arrestate dai gendarmi francesi quando avevamo io tredici e lei cinque anni; furono questi agenti a consegnarci ai tedeschi e del resto era stata la polizia francese a emanare l'ordine che stabiliva l'arresto anche dei bambini ebrei, il tutto ammantato di "carita' cristiana", con il pretesto di non voler separare le famiglie. Gli stessi nazisti non avevano dato ancora nessun ordine in tal senso, per questo io e mia sorella fummo liberate: arrestate dai gendarmi francesi e liberate da un ufficiale nazista, pensate un po'. Certo, non si puo' per questo dire che la Francia abbia partecipato in massa alla "collaborazione", come del resto non si puo' dire che abbia fatto lo stesso con la Resistenza. Diciamo cosi' che molti hanno preferito osservare cio' che stava avvenendo senza intervenire, come accade con quelle finestre dalle quali si puo' guardare in strada senza pero' essere visti. Molti vedevano quello che stava capitando agli ebrei, ma sceglievano di non spalancare le finestre e di fare qualcosa per impedirlo. Detto questo, altri, specie tra i protestanti, hanno scelto di accogliere tra loro gli ebrei in fuga: non hanno aperto solo le finestre, ma le loro stesse case a chi non aveva piu' nulla e hanno deciso di salvargli la vita. E questo e' quello che e' capitato anche a me e mia sorella, il motivo per cui io oggi posso essere qui a parlare con lei. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1114 del 14 novembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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