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Nonviolenza. Femminile plurale. 37
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 37
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 10 Nov 2005 12:59:47 +0100
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 37 del 10 novembre 2005 In questo numero: 1. Giuliana Sgrena: Falluja 2. Anna Maffei: La nostra contrarieta' alla guerra 3. Lidia Maggi: La guerra che sbrana 4. Elettra Deiana: Una interpellanza parlamentare 5. Giuliana Sgrena: Una testimonianza 6. Kathambi Kinoti: Come si radica il fondamentalismo 7. Houzan Mahmoud: Liberta' di espressione 8. Ida Dominijanni: Per chi brucia Parigi 9. Rosana Rossanda: Modello periferia 10. Nicoletta Crocella presenta "Da madre a madre" di Sindiwe Magona 11. Incontri con voci di donne curde e turche 1. EDITORIALE. GIULIANA SGRENA: FALLUJA [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2005. Giuliana Sgrena, giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e' stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004] L'uso del napalm e del fosforo bianco nella guerra in Iraq era gia' noto. Purtroppo. Dei cadaveri carbonizzati ritrovati dopo la battaglia dell'aeroporto (aprile 2003) mi avevano raccontato gli abitanti di Falluja prima ancora di diventare profughi, dei volti scarnificati dal fosforo bianco mi avrebbero detto poi e l'avrebbero confermato i soldati americani impegnati sul campo di battaglia (anche in una intervista al "Manifesto", 25 settembre 2005). Ma questo orrore l'inchiesta di Rainews24 - "Falluja. La strage nascosta" - te lo sbatte in faccia. Volti irriconoscibili e bruciati di donne e bambini inerti nei loro abiti intatti (il fosforo bianco consuma solo le cellule che contengono acqua), parte di quella uccisione di massa riconosciuta persino dagli autori materiali del massacro, i soldati, che hanno testimoniato davanti alle telecamere. Ma non dai mandanti. L'inchiesta di Rainews24 deve servire a squarciare il velo di omerta', ma soprattutto deve interrogare chi questa guerra l'ha sostenuta o ancora la sostiene con la presenza delle nostre truppe in Iraq. Bush non solo ha scatenato una guerra contro Saddam Hussein accusandolo di possedere armi di distruzioni di massa ben sapendo che non era vero, ma ha permesso che il suo esercito usasse contro gli iracheni micidiali armi bandite dall'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Proprio come aveva fatto Saddam nel 1988 contro i kurdi. Bush come Saddam, che quando ha gasato i kurdi era un fedele alleato degli americani. Le immagini dell'inchiesta di Rainews lo dimostrano e gli interessati lo confermano: il Pentagono ha ammesso l'uso del Napalm anche se sotto forma di Mk77 e il ministro della difesa inglese si e' giustificato sostenendo che ignorava che gli Usa l'avessero usato. Del resto, quando i profughi di Falluja sono tornati a casa, gli stessi americani hanno detto loro di non mangiare la verdure e gli animali locali perche' erano pericolosi e di disinfestare le case prima di entrarci. In quelle ancora abitabili, naturalmente. E cosa fa la comunita' internazionale? Tace. Ma non si puo' tacere di fronte a un simile orrore, senza diventare complici. E complici lo siamo restando in Iraq con le nostre truppe, sia che il fosforo bianco lo usiamo nei traccianti per illuminare il cielo o per bruciare i poveri abitanti di Falluja. Bruciati in modo tale da non poter essere riconosciuti e nemmeno contati: solo 700 delle migliaia di vittime di Falluja sono state seppellite con un nome. E' questa la democrazia esportata in Iraq e di cui si dimostra soddisfatto il presidente iracheno, il kurdo Jalal Talabani? Chissa' se durante la sua visita in Italia - in corso - buttera' uno sguardo sulla nostra tv satellitare sentendo parlare di Iraq? Di certo non si lascera' commuovere da immagini che ben conosce mentre ha gia' chiesto alle truppe italiane di restare. Ottenendo il consenso del nostro governo, ma anche una nuova battuta d'arresto dei Ds. Fassino ha infatti dichiarato ieri che e' necessario adeguare il calendario del ritiro delle truppe all'avanzamento del "processo democratico". Quale democrazia, quella al fosforo bianco? 2. RIFLESSIONE. ANNA MAFFEI: LA NOSTRA CONTRARIETA' ALLA GUERRA [Da varie persone amiche riceviamo e volentieri diffondiamo questo intervento di Anna Maffei. Anna Maffei (per contatti: anna maffei at ucebi.it), presidente dell'Unione Cristiana Evangelica Battista d'Italia (in sigla: Ucebi), prestigiosa teologa e saggista, appartiene alla tradizione nonviolenta espressa dal pastore battista e martire per la pace e la dignita' umana Martin Luther King] La nostra contrarieta' alla guerra si fonda sulla parola di Dio, che ci intima di non uccidere. Assieme alle coscienze piu' avvertite ribadiamo che la guerra non e' uno strumento eticamente e politicamente accettabile per la risoluzione dei conflitti. Questo dichiariamo oggi ancora una volta anche alla luce delle notizie documentate dal servizio di Rainews24 diffuso a partire dall'8 novembre 2005. Tale servizio riferisce dell'uso spregiudicato e disumano di armi chimiche (fosforo bianco e MK77, sostanza dagli stessi effetti devastanti del napalm) nella guerra in Iraq e particolarmente nel corso dell'attacco americano contro Fallujah del novembre del 2004. La smentita d'ufficio giunta dalle autorita' americane all'indomani della diffusione del servizio non convince e comunque e' legittimo attendersi spiegazioni dettagliate e credibili. Fino a quel momento denunciamo l'uso distorto che nei paesi occidentali si e' fatto dei mezzi di informazione, i quali, asserviti evidentemente alle autorita' militari, hanno a lungo taciuto di fronte agli scempi perpetrati sui corpi di civili disarmati. Affermiamo che la democrazia si fonda sulla corretta informazione e sulla libera partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. Non ci appare ne' difensore, ne' propagatore di democrazia chi giustifica le proprie guerre con la menzogna, chi nasconde la verita', chi usa armi devastanti contro la popolazione civile e nega ai prigionieri l'esercizio dei propri diritti, violando convenzioni internazionali. Per questo preghiamo che Dio sia accanto alle vittime, piu' di quanto riusciamo ad esserlo noi; preghiamo affinche' i popoli pretendano dai loro governanti il rispetto delle regole democratiche, delle leggi internazionali, dei diritti delle persone e dell'ambiente. Facendo eco alla voce degli antichi profeti, gridiamo perche' vi sia un serio ravvedimento da parte di chi ha il ruolo di guidare i governi; auspichiamo anche che il ravvedimento investa tutti, dal piu' grande al piu' piccolo, perche' davanti a noi si aprano giorni di solidarieta' e non di corsa al dominio, perche' si arrestino gli incombenti disastri ai quali non possiamo sfuggire senza un reale cambiamento di rotta. I cristiani hanno su tutto questo l'obbligo morale e spirituale di vigilare. 3. RIFLESSIONE. LIDIA MAGGI: LA GUERRA CHE SBRANA [Ringraziamo Lidia Maggi (per contatti: lidia.maggi at ucebi.it) per averci messo a disposizione questo suo editoriale che apparira' nel prossimo fascicolo della bella rivista "Riforma". Lidia Maggi e' pastora battista, teologa, saggista, responsabile per le attivita' per i diritti umani per la Federazione delle chiese evangeliche, fortemente impegnata nel dialogo interreligioso] "Il ladro non viene se non per rubare, uccidere, distruggere; ma io sono venuto affinche' abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10, 10). Torniamo a parlare di guerra. Lo facciamo perche' siamo preoccupati per il silenzio assordante calato sulla tragedia dell'Iraq. Se non fosse per le telecamere puntate sul teatrino politico italiano (ritirare o meno le truppe) o per gli striminziti bollettini di guerra passati dalle agenzie stampa, l'attualita' sembrerebbe aver completamente spento i riflettori sulla guerra. Non ci sono piu' giornalisti sul posto, ma in Iraq si continua a morire. E questo "continua" si traduce nelle nostre coscienze in abitudine e abbassamento dell'attenzione critica. I discepoli del Signore della vita si scoprono, loro malgrado, mercenari: quando arriva il lupo scappano, invece di avere cura del gregge. Noi non abbiamo vigilato su quelle popolazioni civili invase, lacerate, depredate dell'unico bene davvero fondamentale e basilare: la vita. E adesso fatichiamo a sostenere lo sguardo. Alcuni tra noi per sfinimento. Ci abbiamo provato: abbiamo protestato, manifestato, tappezzato di bandiere i nostri balconi. Tutto inutile. Altri, piu' banalmente, per pigrizia e indifferenza. Ma cosi' tradiamo la vocazione piu' essenziale ricevuta dall'evangelo: la passione per la vita. Lo facciamo anche quando pensiamo che tale passione debba essere limitata solo alla propria vita e a quella dei propri cari (i nostri soldati, i connazionali...). Il mercenario non e' metafora della completa indifferenza. E' piuttosto simbolo di un'attenzione limitata al proprio interesse, al proprio guadagno personale. Egli si cura della vita, ma solo della propria. La vocazione cristiana, invece, ci richiama ad aver cura proprio di coloro a cui la vita viene continuamente strappata. Certo, vita e' davvero un termine generico, facilmente distorto da una retorica che tende a semplificare lo sguardo. E cosi', mentre da una parte si fanno le battaglie referendarie, mettendo i puntini sulle i, dall'altra questo concetto viene privatizzato: la vita piena riguarda solo i nostri; degli altri, chi se ne frega. Non si respira piu' l'ampiezza che la parola "vita" ha nell'evangelo. E' Gesu' che ci richiama alla volonta' salvifica universale del Padre quando afferma: "ho anche altre pecore del gregge e non voglio che nessuna vada perduta". Nessuna! Chi prova a salvarne una parte mandandone a morte l'altra non e' certo in linea con l'evangelo. Qualcuno obiettera' che in realta' l'Occidente dimostra di interessarsi agli altri popoli e proprio per questo agisce con "interventi umanitari". Ma anche sulle modalita' delle azioni e' prezioso ascoltare quanto ci dice Giovanni. Da dove si entra nel dare la vita agli altri? L'evangelo contrappone la pazienza di chi cerca di entrare dalla porta giusta per favorire la vita dell'altro all'arroganza di chi entra in ogni caso, anche a costo di sfondare il muro. Torniamo a parlare di guerra perche' non possiamo assistere indifferenti al lupo che sbrana vite umane. 4. CRIMINI. ELETTRA DEIANA: UNA INTERPELLANZA PARLAMENTARE [Dall'ufficio stampa di Elettra Deiana (uffstampa_edeiana at libero.it) riceviamo e diffondiamo la seguente interpellanza urgente conseguente all'inchiesta di Rainews24 sull'uso di armi chimiche a Falluja. Elettra Deiana e' parlamentare, da sempre impegnata per la pace e i diritti] La sottoscritta interpella il Ministro della Difesa, per sapere: * premesso che: - nell'inchiesta di Rai News 24 "Fallujah. La strage nascosta" in onda l'8 novembre su Rai3 alle 7,35 vengono mostrati documenti filmati e fotografici raccolti nella citta' di Falluja durante e dopo i bombardamenti del novembre 2004, dai quali risulta che l'esercito americano, contrariamente a quanto dichiarato dal Dipartimento di Stato in una nota del 9 dicembre 2004, ha usato il fosforo bianco non secondo gli usi consentiti, per illuminare le postazioni nemiche, ma bombardando con questo agente chimico in maniera indiscriminata la citta'; - nell'inchiesta, realizzata da Sigfrido Ranucci e curata da Maurizio Torrealta, vengono trasmessi anche documenti altamente drammatici che riprendono gli effetti dei bombardamenti su civili, donne e bambini di Falluja, alcuni dei quali sorpresi nel sonno; - l'uso di armi chimiche e' vietato da una convenzione che gli Stati Uniti hanno firmato nel 1997; - il filmato mostra anche un documento in cui si prova l'uso in Iraq di una variante del Napalm, chiamata con il nome MK77, dagli effetti ancora piu' devastanti. L'uso di questa sostanza e' vietato dalle convenzioni dell'Onu del 1980; il Ministro della difesa della Gran Bretagna, rispondendo ad una interpellanza di una deputata del parlamento inglese ha ammesso che effettivamente tali sostanze erano state usate nella citta' di Falluja nel corso dei combattimenti; * - se il governo e i vertici militari italiani siano stati a conoscenza dell'utilizzo di armi chimiche vietate da parte dell'esercito Usa - vista l'ammissione del Ministro della difesa britannico e stando al fatto che il contingente italiano dipende dal comando del Regno Unito -, - se nel caso abbia espresso la propria riprovazione rispetto all'uso di tali armi e cosa abbia da riferire in proposito. 5. LIBRI. GIULIANA SGRENA: UNA TESTIMONIANZA [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2005 riprendiamo questa anticipazione dal libro di Giuliana Sgrena, Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005, da oggi in libreria] Il clima (tra i profughi di Falluja rifugiati nella moschea Mustafa dell'universita' di Baghdad) era ostile, tremendamente ostile, ma non volevo rinunciare a raccontare la storia della distruzione di Falluja attraverso i ricordi e le immagini di quella gente che l'aveva vissuta direttamente o attraverso i racconti dei loro parenti rimasti intrappolati dall'assedio. Fino a quel momento notizie e immagini, poche, erano giunte esclusivamente attraverso i giornalisti "embedded" con le truppe americane. E tuttavia la censura non era riuscita ad impedire lo scoop di Kevin Sites, il reporter della tv americana Nbc che aveva ripreso un marine mentre uccideva un combattente ferito e disarmato steso sul pavimento della moschea di Falluja. Ma nonostante quelle immagini avessero fatto il giro del mondo, Kevin Sites era stato subito "espulso" dal corpo degli embedded perche' non aveva rispettato le "regole di ingaggio" e della censura. E qualche tempo dopo il marine che aveva sparato sarebbe stato assolto per aver agito per "legittima difesa"... * Falluja era sempre stata la mia ossessione fin da quando ero arrivata a Baghdad, e non solo quest'ultima volta. L'avevo "scoperta" alla fine di aprile del 2003, dopo la prima rivolta che avrebbe fatto di questa cittadina il simbolo della resistenza contro l'occupazione. E ci tornavo a ogni mio viaggio in Iraq. Avevo incontrato persone molto disponibili con le quali era nata un'amicizia e una collaborazione. Erano convinti della necessita' di far conoscere al mondo cosa succedeva a Falluja e quindi mi aiutavano nel lavoro. Di solito l'appuntamento era a casa di Abu Mohammed, ma a ogni mio arrivo venivano "convocati" gli altri - a Falluja i telefoni allora funzionavano ancora. Cosi' tutti seduti per terra in un grande salone, seguendo la tradizione tribale, si discuteva degli ultimi avvenimenti. Mustapha, un meccanico, era sempre il piu' informato: fin dalla mia prima visita mi aveva raccontato di quando, subito dopo la battaglia dell'aeroporto, una delle piu' cruente per l'occupazione di Baghdad, erano andati a cercare i corpi dei loro parenti e avevano trovato cadaveri carbonizzati e irriconoscibili. E fin da subito si era posta la domanda: quali armi erano state usate? Napalm? Fosforo? (di fronte all'evidenza l'uso del napalm, sotto forma di Mk77, e' stato ammesso dal Pentagono nel dicembre 2004. Mentre sull'utilizzo del fosforo bianco ha testimoniato anche il marine Jimmy Massey nell'intervista pubblicata dal "Manifesto" il 25 settembre 2005 - nda). Prima di questi (quelli della moschea, ndr) ho incontrato altri profughi fallujani che si erano rifugiati da parenti e gia' mi avevano parlato dei loro tentativi di tornare a Falluja. Mohammed l'ho incontrato a Sadr city, non e' di Falluja ma vi si era trasferito ai tempi di Saddam per lavorare in una fabbrica di proprieta' del ministero della difesa che produceva autocarri. Insieme al lavoro con la guerra ha perso anche la casa, non ne ha piu' diritto non essendoci piu' la fabbrica (finita, come tutte quelle del ministero della difesa, nelle mani degli americani che l'hanno chiusa). Mohammed mi racconta che invece due sue vicine sono tornate a Falluja, ma sono state avvisate dagli americani che la casa doveva essere disinfestata e per farlo hanno dato loro dei bidoni di detersivi speciali. "Mi hanno detto che hanno trovato l'appartamento coperto da una polverina bianca e quando hanno cominciato a toglierla una di loro si e' sentita male, sanguinava da tutte le parti"... * L'attacco di novembre contro Falluja faceva parte di quella "offensiva finale" che doveva, secondo gli Stati Uniti, permettere la realizzazione delle elezioni del 30 gennaio (2005). Ma l'operazione al Fajr (l'alba) ha escluso non solo gli abitanti di Falluja ma tutti i sunniti dalle elezioni. E dopo otto mesi la citta' resta blindata, possono entrare solo i residenti passando attraverso sei varchi supercontrollati di accesso e dopo una accurata identificazione che implica attese di ore. Solo l'80% dei circa 256.000 abitanti e' tornato. L'offensiva finale americana era stata preceduta da altri pesanti attacchi, soprattutto nel mese di aprile, che avevano portato all'isolamento della citta'. L'esercito americano voleva distruggere quello che in Iraq era diventato il simbolo della resistenza. Fin dall'aprile del 2003. Durante l'avanzata delle truppe, dopo l'occupazione di Baghdad, il 9 aprile 2003, i capi tribali e religiosi di Falluja, preoccupati dagli effetti che avrebbe potuto produrre nella citta' la presenza di soldati stranieri, avevano formato una delegazione per incontrare il comando Usa. Alla fine era stato raggiunto un accordo: non ci sarebbe stata opposizione all'occupazione ma i militari non sarebbero entrati nella zona abitata, non avrebbero turbato la vita della "citta' delle moschee". Ma l'accordo non e' stato rispettato: il 23 aprile i marine avevano occupato la scuola elementare al Qaid e quando, il 28 aprile, la popolazione aveva manifestato contro una decisione che impediva agli studenti di andare a scuola, i soldati Usa avevano sparato contro i manifestanti, provocando 14 morti e 3 feriti gravi. Due giorni dopo un'altra manifestazione e altri tre morti e 16 feriti. Cominciava la resistenza degli iracheni contro l'occupazione. 6. RIFLESSIONE. KATHAMBI KINOTI: COME SI RADICA IL FONDAMENTALISMO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento. Kathambi Kinoti e' impegnata nella ong Awid, Donne africane per lo sviluppo (sito: www.awid.org)] Nell'agosto 2004 una ragazza iraniana di 16 anni fu condannata a morte perche' giudicata colpevole di adulterio. Durante il processo, la ragazza contesto' la misoginia e l'ingiustizia che vedeva nel proprio paese. E' documentato che questo rese il giudice cosi' furioso che volle metterle personalmente il cappio attorno al collo. L'Iran e alcune zone della Nigeria sono solo alcuni dei posti dove vi e' stato un ritorno dell'interpretazione conservatrice e molto stretta dei diritti delle donne e di quale dovrebbe essere il loro ruolo nella societa'. In Kenya, il fondamentalismo culturale ha reintrodotto la pratica delle mutilazioni genitali femminili in comunita' in cui essa era stata abolita circa un secolo fa. Alla fine della seconda guerra mondiale, quando si formarono le Nazioni Unite e fu approvata la Dichiarazione universale dei diritti umani, i paesi del mondo cominciarono a muoversi verso un certo consenso su alcuni concetti-chiave che sottendono l'esistenza e la coesistenza umane. Per esempio, gli inalienabili diritti umani di ogni persona vennero identificati ed articolati nei documenti internazionali. Il dibattito sul diritto alla vita fece si' che la nazioni cominciassero a prendere le distanze dalla pena di morte come punizione per i crimini. I controlli di leggi sugli orientamenti sessuali iniziarono a diminuire. La democrazia e l'equita' di genere si definirono come modelli verso cui tendere. Nel recente passato, tuttavia, sembra sia avvenuto un riassestamento in merito a questi standard. Gli esempi di "ripensamento" sulle norme internazionali riguardanti i diritti umani sono numerosi. Il sorgere di fondamentalismi religiosi e culturali costituisce una seria minaccia ai risultati gia' ottenuti sulla strada per realizzare i diritti umani delle donne. Questi fondamentalismi usualmente peggiorano le posizioni gia' svantaggiate delle donne nella societa' e spesso rendono un serio pericolo, per le donne, l'entrare nella politica. Di solito l'erosione dei diritti delle donne da parte dei fondamentalismi comincia in modo assai insidioso. * Credo ci sia bisogno di identificare dei "segnali d'allarme", di modo da capire se determinate tendenze si svilupperanno in minacce ai diritti umani delle donne. Kathleen McNeil, del Women's Human Rights Network, ha provato a fornire alcuni indicatori del possibile sorgere di forze fondamentaliste: 1. L'introduzione di restrizioni sulla presenza delle donne negli spazi pubblici, come era accaduto in Nigeria. Queste restrizioni furono immediatamente seguite dalla criminalizzazione del sesso non matrimoniale, e dallo stabilire pene quali fustigazione e lapidazione per le donne riconosciute colpevoli di tale "crimine". 2. L'imposizione di codici d'abbigliamento, che possono non essere necessariamente imposti con lo scopo del "pudore", ma incoraggiati come segno di orgoglio culturale o nazionalista. Hamas ha promosso per le donne palestinesi l'indossare la sciarpa sulla testa come gesto "nazionalista". 3. La promulgazione di leggi inerenti il diritto familiare che restringono le opzioni per le donne in materia di matrimonio, divorzio ed eredita'. 4. Il tentativo di restringere le scelte riguardanti la salute riproduttiva e l'accesso alle informazioni su di essa. Negli anni '80 e '90, negli Usa, chi provvedeva servizi di pianificazione familiare e' stato sempre di piu' soggetto a violenze di ogni tipo. Dopo cio' sono state introdotte politiche restrittive, ad esempio sono stati eliminati in molte scuole i programmi di educazione sessuale. 5. I paesi che escono da guerre e ricostruiscono i propri sistemi di governo spesso tentano di abbandonare leggi progressiste precedenti. L'Iraq possedeva il diritto di famiglia piu' progressista del mondo arabo. Dal 2003, tuttavia, un decreto limita le leggi in esso contenute. In Somaliland, la zona che si separo' dalla Somalia nel 1991 dopo la guerra civile, ci fu il tentativo di introdurre la pena di morte per "sesso non coniugale", ed in effetti alcune donne vennero lapidate a morte. La situazione si rovescio' comunque abbastanza presto ed oggi l'adulterio non e' un reato penale in Somaliland. * Ma come, in primo luogo, il fondamentalismo riesce a radicarsi in una societa'? Abbiamo esplorato a sufficienza le connessioni fra la poverta' ed il fondamentalismo? In molti paesi poveri, gente disperata pensa di trovarvi soluzione ai propri problemi. I paesi poveri sono un terreno fertile in cui piantare idee estremiste, perche' le persone vedono che le idee comuni non stanno facendo nulla per migliorare la loro situazione e sono disincantate rispetto al modo corrente in cui vanno le cose. Non sono solo quelli che cercano una scappatoia "spirituale" ai loro problemi ad entrare in contatto con le politiche fondamentaliste. In cambio di denaro, giovani africani ed asiatici vengono reclutati da organizzazioni terroristiche che sostengono idee religiose fondamentaliste. Anche il fondamentalismo culturale si sviluppa in contesti di poverta'. E dato che i piu' poveri fra i poveri sono proprio le donne, c'e' il pericolo che esse stesse divengano le alfiere delle forze fondamentaliste. 7. RIFLESSIONE. HOUZAN MAHMOUD: LIBERTA' DI ESPRESSIONE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento. Houzan Mahmoud, irachena, giornalista indipendente, fa parte dell'Owfi, Organizzazione per la liberta' delle donne in Iraq, vive in Danimarca] La religione che si traduce in ideologia e potere politico, qualunque essa sia, non lascia posto al libero pensiero, alla riflessione critica o alla cosciente liberta' di tutti gli esseri umani. Questa e' una dura verita', ma e' una di quelle che devono essere ripetute. Un quotidiano danese, il "Jyllends Posten", ha di recente pubblicato un articolo che riguardava dodici differenti ritratti del profeta Muhammad. Cio' ha suscitato una reazione dell'islamismo come ideologia e potere politico, in forma di gruppi o di stati. Il comune denominatore, al di la' della relativa estensione o del peso politico di coloro che hanno protestato, e' che tutti hanno ribadito che le persone non possono usare la loro immaginazione per dipingere il profeta. Per definizione, hanno detto, giacche' Muhammad non poso' mai per un ritratto, la sua rappresentazione pittorica e' un atto contro l'Islam, e' blasfemia. In Danimarca gli islamisti politici non sono stati lasciati soli: gli ambasciatori di Iran, Turchia, Kuwait, Arabia Saudita e Marocco li hanno sostenuti, inviando lettere al primo ministro danese in cui si chiedeva di condannare il quotidiano o di chiuderlo. Questo non dovrebbe sorprenderci. Per coloro che, come me, hanno fatto amara esperienza in prima persona di cosa siano i gruppi islamisti e gli stati islamici in Medio Oriente, questa e' una storia familiare in modo deprimente. E' lo schema con il quale mantengono sui popoli la loro feroce regola, contraria all'eguaglianza: trasformando l'Islam da religione a ideologia e potere politico, il che implica che nessuno abbia il diritto di criticarla neppure blandamente, si mette il bavaglio a qualsiasi voce del dissenso. La brutale verita' e' che negli ultimi vent'anni all'interno dell'Islam, nel Medio Oriente contemporaneo, si sono giustificati omicidi, lapidazioni, codici d'abbigliamento forzati per le donne, le quali vengono imprigionate in nome dell'islamismo come potere politico, il che io ritengo essere un crimine contro l'umanita' intera. Ma non solo le donne hanno sofferto. I progressisti ed i laici di ogni tipo sono stati perseguitati semplicemente perche' avevano messo in discussione l'intrusione dell'islamismo come potere politico nella sfera privata degli esseri umani, l'intrusione nel diritto di ciascuno di scegliere la propria fede ed i modi in cui quest'ultima interagisce con la propria vita. Ove siano al potere, gli islamisti politici istituzionalizzano l'oppressione delle donne e la soppressione di ogni tipo di diritto democratico. In Europa, dove questa tendenza politica non ha l'opportunita' di prendere il potere, viene invocata la cosiddetta "liberta' di espressione": la liberta' di imporre il velo alle bambine e di istruire i bambini in scuole religiose, la liberta' di ridurre al silenzio coloro che vogliono dire la verita' sulle societa' in cui vivono. Molte di noi, donne laiche, viviamo sotto la minaccia di morte da parte degli islamisti per il semplice fatto che siamo abituate ad usare il nostro cervello per pensare e per decidere che vita vogliamo vivere. Non accettiamo le loro regole e mettiamo in discussione il potere che pensano di avere su di noi. Essi tentano di imporci il loro volere persino nei contesti europei: se osiamo avanzare una critica siamo etichettate come islamofobe o razziste. Questa e' la tattica che si usa per cancellare la critica, non per impegnarsi in un dialogo. La nostra organizzazione, l'Owfi, ha denunciato e continua a denunciare i crimini contro le donne perpetrati in nome dell'Islam, nonostante le quotidiane minacce da parte delle squadracce del terrore. Il nostro gruppo e' nato in Iraq, il che mostra il potenziale per l'esercizio del libero pensiero e della laicita' fra la nostra gente. Il fatto che le donne stiano sfidando l'oppressione apertamente, nonostante le forze politiche che ci forzano ad indossare un velo sotto la minaccia del fucile, dovrebbe essere di ispirazione a tutti gli amici della liberta' e dell'eguaglianza nel mondo. In Europa, gli islamisti usano ogni opportunita' a loro disposizione per portare avanti la loro agenda e desensibilizzare le persone rispetto al suo contenuto disumano e reazionario. Rifiutano di accettare il fatto che i popoli europei hanno conquistato il diritto di criticare qualsiasi religione o ideologia politica. Fino ad ora l'ideologia politica islamista si e' sottratto a questo. Hanno usato l'adozione del "multiculturalismo" da parte degli stati occidentali per infliggere violenze su donne e bambine e praticare le tradizioni piu' barbare all'interno delle cosiddette "comunita' musulmane". Qualsiasi cosa facciano, ci viene spacciata per "la tradizione di quella gente che viene dalla tal parte del mondo". Questo deve finire. L'Islam, come qualsiasi altra religione, deve essere separato dalla politica. Io non vedo ragioni per cui gli ambasciatori dei paesi succitati e alcuni musulmani in Danimarca debbano sollevare un tal polverone per i ritratti sul "Jyllends Posten". Ovviamente, loro ed io non siamo obbligati ad approvare o a dissentire sul modo in cui gli artisti hanno dipinto Muhammad. Non e' questo il punto. Io credo fermamente che gli artisti siano stati e debbano essere liberi di dipingerlo, senza minacce pendenti sulla loro testa. Credo che il progresso di una societa' umana possa misurarsi su quanto essa e' libera di criticare, fare domande, e infine di separare la religione dalla politica. 8. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: PER CHI BRUCIA PARIGI [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2005. Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista] Parigi brucia e c'e' poco da fare gli scongiuri contro la facile profezia di Romano Prodi, quei roghi di periferia lampeggiano per tutti noi abitatori del centro storico dell'occidente. Noi, i nativi. Gli assimilatori. Gli universalisti. I dispensatori di promesse di emancipazione e uguaglianza e di certificati di residenza e di cittadinanza. Tre generazioni sono bastate perche' quelle promesse entrassero nel discredito. Promesse mancate, e di piu', promesse in origine falsate. Non e' questione solo dello scarto, che oggi molti sottolineano, fra il miraggio dell'uguaglianza e la realta' della discriminazione, nei redditi, nel lavoro, nelle condizioni di vita, nella qualita' dell'ambiente urbano. Jack Lang ha certamente le sue fondatissime ragioni quando punta l'indice contro la politica "antisociale" di Chirac e contro "la violenza di stato, il disprezzo, l'abbandono, l'insulto verso i deboli" che ha caratterizzato il governo antiegualitario della destra. Ma non e' solo questo il punto. Quel governo antisociale e antiegualitario e' lo stesso che con la legge sul velo aveva voluto lanciare viceversa un estremo segnale ugualitario, in linea con la tradizione integrazionista della Republique francese. Quel segnale non solo non ha convinto i suoi destinatari, ma sembra ora rimbalzare come un boomerang sui suoi mittenti. Non avevamo torto a vedere nella vicenda della legge sul velo e nella filosofia che la sosteneva il sintomo eloquente di una situazione esplosiva. Ribadire il progetto dell'integrazione non serve quando esso rivela la sua vocazione piu' assimilazionista che egualitaria, in una societa' differenziata che certo domanda piu' uguaglianza, ma non sopporta piu' assimilazione. Quelle ragazze che portano il velo, figlie di madri che per diventare brave cittadine francesi l'avevano dismesso, non sono - o non sempre - il segno di una regressione patriarcale: sono - talvolta - il segno di una diversita' rivendicata, e perfino reinventata, contro la parola d'ordine dell'integrazionea ssimilatrice. Diventare come noi non e' il loro progetto. La cittadinanza occidentale non ha solo mancato le sue promesse: ha perduto il suo fascino. Il paragone con quanto sta accadendo adesso nelle banlieu non sembri azzardato, anche se i casseurs bruciano e distruggono e le ragazze velate no. Al fondo, c'e' il nodo di emarginazioni frustrate dalla mancata promessa di uguaglianza, e di diversita' culturali rivendicate contro le pretese di assimilazione. Parigi brucia e il modello integrazionista anche. La barriera ideologica che la commissione Stasi, motivando la legge contro il velo, aveva cercato di innalzare contro il rischio che il comunitarismo multiculturale angloamericano contaminasse lo spirito della Republique e ne minasse le fondamenta universalistiche non ha retto. Ma nemmeno il comunitarismo ha retto nel frattempo, franando prima in Olanda con gli omicidi di Fortuyn e Van Gogh, poi in Gran Bretagna con gli attentatori nati e cresciuti nei sobborghi di Londra. Non era vero quello che solo pochi anni fa l'ottimismo europeista sosteneva, che il vecchio continente fosse dotato di anticorpi sicuri per far fronte all'asprezza dei conflitti delle societa' globali. Il vecchio continente mostra oggi solo la vecchiezza esausta dei modelli della politica moderna. All'universalismo possiamo ottimisticamente pensare che serva solo una energica cura ricostituente. Quello che e' certo e' che intanto gli serve un bagno di umilta', una immersione senza sconti nelle faglie che ha aperto, nelle barriere di incomprensione che ha prodotto, nelle discriminazioni che moltiplica. E' facile giudicare il rogo di una macchina una violenza distruttiva fine a se stessa. Piu' difficile e' sapervi leggere il gesto estremo che prende il posto del linguaggio quando la grammatica e la sintassi universaliste non funzionano piu'. 9. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: MODELLO PERIFERIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 novembre 2005. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti. Tra le opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste] Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che si', e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perche' da noi il luogo del tumulto e' la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato "si', ma". Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si e' formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e piu' cresce piu' si separa per censo. La citta' europea e' gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro e' dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuita' urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grandi aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi piu' verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perche' in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la citta'. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi. E' la citta' tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il postindustriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si puo' leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantita' di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano ne' scuole ne' chiese ne' moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, e' finito. Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli e' preclusa. Gli e' venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono e' l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'eta' e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non e' vero che siano infiltrati dalla criminalita' della droga, piu' che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: "Rispetto, vogliamo rispetto". E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia e' stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro e' venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui pero' nessuno e' in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella eta', mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso. Non si fa in un giorno quel che si e' reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di piu' tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non e' il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi e' sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo e' il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perche' le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere. Non succede anche da noi? 10. LIBRI. NICOLETTA CROCELLA PRESENTA "DA MADRE A MADRE" DI SINDIWE MAGONA [Ringraziamo Nicoletta Crocella (per contatti: stellecadenti at tiscali.it) per questo intervento. Nicoletta Crocella, poetessa, artista, operatrice culturale, e' impegnata nell'associazione "Stelle cadenti" e nella casa editrice omonima. Tra i suoi libri segnaliamo particolarmente Attraverso il silenzio, Stelle Cadenti, Bassano in Teverina (Vt) 2000; Icone, Stelle Cadenti, Bassano in Teverina (Vt) 2002. Sindiwe Magona e' una importante scrittrice sudafricana, "nata nel Transkei e cresciuta nei sobborghi di Citta' del Capo, ha allevato da sola i suoi tre figli, lavorando come domestica. Grazie a una forza di volonta' che non e' luogo comune definire indomabile, e' pero' riuscita a laurearsi all'universita' di Citta' del Capo e a conseguire un master in scienze dell'organizzazione sociale presso la Columbia University. A lungo attiva presso le Nazioni Unite, Sindiwe Magona ha pubblicato nel 1991 il suo primo libro, To My Children's Children, seguito da una raccolta di racconti, Living, Loving And Lying Awake At Night (1994) e appunto da Mother to Mother [Il libro di cui qui si parla - ndr]. Oggi la scrittrice, che e' tornata a vivere in Sudafrica, continua a essere molto impegnata in attivita' legate ai temi dell'ambiente e dei diritti delle donne" (Maria Teresa Carbone); un'intervista di Maria Teresa Carbone a Sindiwe Magona e' nel n. 41 de "La domenica della nonviolenza"] Ho incontrato gli editori e letto questo libro al salone dell'editoria di pace di Venezia, uno degli incontri piu' proficui di quei giorni. Per comprendere l'importanza di un libro come Da madre a madre di Sindiwe Magona, (Edizioni Goree, pp. 289, euro 16) e' necessario conoscere il contesto da cui il racconto ha origine. Nell'agosto del 1993 Amy Biehl, una ragazza americana che era in Sud Africa con una borsa di studio, e che la' si era impegnata a sostegno delle lotte dei neri contro l'aparthied, venne uccisa a Citta' del Capo nel ghetto di Guguletu da un gruppo di giovani neri. L'indignazione internazionale fu enorme, e la famiglia della ragazza venne avvolta dalla solidarieta' e dalla indignazione di tutti, specie quando si seppe che Amy era vittima di coloro cui si sentiva piu' vicina, e che voleva sostenere. In quel periodo Sindiwe si trovava impegnata con l'Onu e stava negli Usa. Racconta che allora anche lei continuava a pensare ed essere coinvolta dal dolore della madre, ma quando al rientro seppe che uno dei giovani assassini era il figlio di una sua amica, compagna di scuola dal tempo delle elementari, comincio' a pensare a lei, ed al contesto in cui l'assassinio era nato. La conoscenza della sua cultura le consente di comprendere che cosa deve fare: la madre dell'assassino deve avere il perdono dalla madre della vittima perche' la vita possa avere uno sviluppo positivo. * Presta pertanto alla donna la sua scrittura e la sua voce, creando questa storia che nel dolente rivivere dei momenti che hanno portato a quell'episodio tremendo diviene un affresco coinvolgente della vita di tre generazioni di donne ed uomini scacciati dalle loro case, espropriati dalle loro terre, e costretti in enclaves nere in cui troppi africani si trovano a convivere tra case in cemento e baracche. La continua violenza subita, e agita nei rapporti all'interno del ghetto, pur con un sottofondo di solidarieta' e di intercomunicazione che consente di sopravvivere, e' il segno della storia di questi gruppi superaffollati, sradicati, che non hanno piu' i vicini che conoscono, i maestri che conoscono. I genitori sperano per i figli un futuro migliore ed un riscatto attraverso la scuola, ma non sanno proteggerli da loro stessi, dalla fretta di crescere, dagli amori spontanei ed incomprensibili. Cosi' Mandisa si trova a 15 anni incinta: "Niente di quello che fa mio figlio mi sorprende piu'. Non dopo quel primo brutto colpo, quando si e' impiantato dentro di me, distruggendo totalmente e senza alcuna ragione quella che ero. Quella che sarei potuta diventare". Per lei ed il giovane padre del bambino tutto cambia, strappati dall'adolescenza per essere scaraventati in responsabilita' adulte, lavoro e non piu' scuola, non piu' speranze di un futuro differente, incastrati in una tradizione che fa della nuova sposa la serva del gruppo familiare in cui e' inserita. Storie condannate a finire, con la giovane madre che si allontana col suo bambino ed affitta una baracca nel cortile di una casa, in cui vive con il piccolo. E la vita del figlio e' segnata, ad appena quattro anni, dalla uccisione violenta da parte della polizia, davanti a lui, ed a causa di una sua ingenua parola, dei due giovani amici che spesso si occupavano di lui. Tutta la storia, il racconto dolente all'altra madre, e' una descrizione della esperienza di deprivazione e violenza che cresce, della scuola non frequentata per combattere, dei gruppi organizzati e violenti, delle bravate, delle uccisioni che fanno parte del panorama quotidiano di Guguletu. Il ragazzo respira quell'aria, ragiona con la testa dei capipopolo che mandano i giovani allo sbaraglio, compie persino delle azioni generose ed eroiche, ma e' dentro una spirale che punta disperatamente a quel punto. Nessuno ha analizzato quello che stava succedendo, nessuno ha prospettato altre possibilita', che i giovani leoni fossero la forza del gruppo sembrava ovvio. Ora il ragazzo che era considerato una benedizione del cielo, di cui andare orgogliosi, e' divenuto il diavolo, l'incarnazione di tutto il male, ma chi lo ha condotto a quel punto, chi ha sostenuto la violenza, la furia come unico modo di vivere, non e' forse colpevole quanto lui? * Il racconto ci accompagna dentro e fuori della vita del giovane, e della madre, a vedere come si vive in un ghetto, come diventa normale l'esperienza della violenza, persino per le situazioni piu' elementari: Ad esempio Mandisa si chiede dov'era il governo che ora si occupa del figlio, tenendolo in prigione, dove viene nutrito e sta certo meglio di quando era fuori, se pur recluso, dov'era quando lui, ragazzino, aveva rubato una gallina dai vicini e l'aveva cucinata cosi' con penne e tutto, per sfamare se stesso ed i fratellini, mentre la madre era nella casa dei bianchi ad occuparsi dei loro bambini? Un episodio che vale le mille storie di ordinaria segregazione e violenza. Mandisa nella sua storia non difende il figlio, non ne dichiara l'innocenza, egli e' responsabile del delitto, ma come e piu' di lui sono responsabili e colpevoli quelli che lo circondano, dal governo alla polizia, ai maestri incontrati per strada, e persino gli spaesati genitori, incapaci ed impossibilitati a fermare il disastro che avanza. Ora che tutto e' compiuto, spetta alla madre farsi carico del dolore e della colpa, e cercare l'incontro con l'altra madre. Per fermare la discesa verso gli inferi ed aprire una possibilita' di speranza. Quel ragazzo divenuto "la freccia cieca, ma appuntita dell'odio della sua razza" e quella ragazza "il sacrificio della sua. Scelta alla cieca" sono indissolubilmente legati dal momento del loro incontro, dalla tragedia che li ha travolti. Il racconto si ferma qui, ma noi sappiamo che la madre della ragazza, i suoi genitori, hanno accettato il manoscritto chiedendo soltanto che il libro uscisse nell'anniversario della morte di Amy, e poi hanno creato una fondazione che si occupa dei ragazzi neri cresciuti nella violenza dell'aparthied per dare loro un'altra possibilita'. Nelle iniziative della fondazione il libro viene usato per entrare in comunicazione, e costruire nuovi panorami. * Un libro importante, da leggere, mentre si riflette su altre periferie che esplodono, e si teme che altre ancora... Forse bisognerebbe cercare di modificare il contesto, ed i rapporti, prima che sia troppo tardi, che altre tragedie si innestino su vite vissute nella fatica e nella emarginazione, dove l'unica comunicazione avviene attraverso la violenza. Sindiwe Magona conosce bene l'ambiente che descrive, perche' la' e' vissuta, ha cresciuto tre figli da single, lavorando come cameriera e studiando per corrispondenza. E' riuscita a laurearsi nell'universita' del Sud Africa, e poi ha conseguito un master presso la Columbia University. Impegnata politicamente, nel 1976 e' stata chiamata a Bruxelles per far parte del Tribunale internazional per i crimini contro le donne. Al culmine del suo impegno politico, ha deciso che scrivere vale piu' di tutto. Cerca con i suoi scritti di sostenere ed aiutare la crescita del suo paese. Attualmente ha lasciato il suo incarico all'Onu ed e' tornata a vivere a Citta' del Capo dove continua il suo impegno come scrittrice spingendo i giovani neri, soprattutto le donne, a svolgere un ruolo attivo nella crescita del nuovo Sud Africa. 11. INIZIATIVE. INCONTRI CON VOCI DI DONNE CURDE E TURCHE [Ringraziamo Nadia Cervoni (per contatti: giraffan at tiscali.it) per averci trasmesso il seguente comunicato. Nadia Cervoni e' impegnata nelle Donne in nero ed in numerose iniziative di pace, solidarieta', nonviolenza; dal 2002 e' impegnata particolarmente sulla questione kurda/turca. Opere di Nadia Cervoni: con Liana Bonelli, Teresa Quattrociocchi, Micaela Serino (a cura di), Con la forza della nonviolenza. Voci di donne curde e turche, Promograph, Roma 2002] In Italia dal 10 al 20 novembre 2005 saranno ospiti delle Donne in nero, due donne in cammino in arrivo da Istanbul della Rete delle associazioni curde e turche che lavorano per il rispetto dei diritti umani, civili e politici in Turchia e per il riconoscimento delle minoranze e della questione curda. Sono Sefika Gurbuz, presidente di Goc-Der, associazione per lo sviluppo sociale e culturale della popolazione curda profuga in Turchia, e Lerzan Tascier, dell'associazione turca per i diritti umani Ihd, autorevole riferimento per la denuncia di violazioni dei diritti umani in Turchia. Numerosi gli incontri in programma organizzati durante la loro visita in varie citta. Tra le iniziative gia' programmate: - Sabato 12 novembre a Ravenna: ore 17, Sala D'Attorre di Casa Melandri, via Ponte Marino 2, incontro pubblico "Donne in cammino nel Kurdistan turco. Alfabeti di pace: le donne cominciano dall'istruzione". Iniziativa promossa dall'Universita' per la formazione permanente degli adulti, in collaborazione con l'assessorato alle politiche educative della Provincia e le Donne in nero di Ravenna. - Mercoledi' 16 novembre a Roccastrada (Grosseto): ore 17, biblioteca comunale "Antonio Gamberi", incontro pubblico "Profonda Europa: un dialogo al femminile tra Turchia e Kurdistan". Iniziativa promossa dal Comune di Roccastada. - Giovedi' 17 novembre a Roma: ore 17, sede del Parlamento Europeo, sala delle bandiere, via IV novembre, Incontro pubblico "La marcia della Turchia. La questione curda entra in Europa". Promosso dalle Donne in nero in collaborazione con l'Associazione Europa Levante onlus. Altri incontri e iniziative si svolgeranno a Verona il 14 novembre; a Padova il 15 novembre; a Roma il 18 e 19 novembre. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 37 del 10 novembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/maillist.html L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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