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La nonviolenza e' in cammino. 1062
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 1062
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 23 Sep 2005 10:20:37 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1062 del 23 settembre 2005 Sommario di questo numero: 1. Forum comunitario di lotta alla violenza: Morii in una rissa, e non c'entravo. Un appello per il si' al referendum 2. Paola Del Zoppo: Si'. E una speranza 3. Beppe Pavan: Si'. Una grande notizia 4. Rachele Farina: Si' 5. Luca Salvi: Si' 6. Giorgio Beretta: Mercanti di morte e banche armate 7. Maurizio Simoncelli: I conflitti dimenticati 8. Eman Ahmed intervista Asma Jehangir 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. LETTERE DAL BRASILE. FORUM COMUNITARIO DI LOTTA ALLA VIOLENZA: MORII IN UNA RISSA, E NON C'ENTRAVO. UN APPELLO PER IL SI' AL REFERENDUM [Ringraziamo Maria Eunice Kalil (per contatti: mabice at terra.com.br) per averci inviato questo appello per il si' al referendum del 23 ottobre per la proibizione del commercio delle armi diffuso dal "Forum comunitario di lotta alla violenza" di Bahia. Maria Eunice Kalil e' responsabile del "Forum comunitario di lotta alla violenza" di Bahia, Brasile (per contatti: fccv at ufba.br). La traduzione - in endecasillabi e un settenario - e' di Benito D'Ippolito] Sognavo il mio futuro: diventare dottore, esser di quelli che tenaci riescon nella vita vittoriosi. D'un tratto il primo pugno, la sberla poi, e subito il ceffone, e vidi l'arma, l'attimo del colpo: ed era il mio il corpo che cadeva. Gente che corre, gente che gridava. Morii in una rissa, e non c'entravo. Io non ho vinto dunque nella vita. Vinca la vita allora anche per me: vota per il disarmo: scegli il si' salvate gli altri, voi che mi leggete. * Il 23 ottobre vota si'. * Per saperne di piu' sul referendum e sul processo di disarmo visita i seguenti siti: www.referendosim.org.br www.desarme.org www.soudapaz.org.br www.vivario.org.br 2. EDITORIALE. PAOLA DEL ZOPPO: SI'. E UNA SPERANZA [Ringraziamo Paola Del Zoppo (per contatti: lilith_dz at yahoo.it) per questo intervento. Paola Del Zoppo, acuta germanista, autrice di un ponderoso studio sulle traduzioni ottocentesche in lingua italiana del "Faust" di Goethe, sottile traduttrice di autori come Peter Bichsel e Heinz Czechowski, svolge attivita' di ricerca all'Universita' di Siena su temi di letteratura comparata e traduzione del testo letterario; ma e' anche da sempre impegnata nell'Agesci, e in molteplici iniziative di educazione e formazione, di solidarieta' concreta, di difesa dell'ambiente, di pace, di nonviolenza. Ed e' persona limpida e generosa, alla cui scuola sono maturati ragazze e ragazzi divenuti anch'essi persone impegnate e valorose - e questo non e' l'ultimo dei meriti suoi] Le armi non sono solo oggetti pericolosi, bensi' rappresentano la razionalita' dell'uomo applicata alla violenza, alla volonta' di supremazia di un uomo sull'altro. Ogni piu' piccola arma ha, in se', un concentrato di tutti gli elementi negativi della natura umana. In un'epoca come la nostra, in cui le armi sono ormai di tutti i tipi, e possono uccidere da vicino, a distanza, tante o poche persone insieme, dire no alle armi e' un atto di forte presenza pubblica. Anche se la violenza e' in chi usa le armi, ancor piu' che nell'oggetto stesso, e anche se, forse, il ritiro delle armi dal commercio non eliminera' ogni arma in circolazione, l'operazione rendera' molto piu' rari i casi in cui le armi vengono usate come strumento per dirimere ogni sorta di conflitto, come minaccia, come espressione della violenza piu' grande che si possa compiere, e cioe' l'annullamento dell'altro da se'. Per questo, un appello per il si' al referendum, insieme alla speranza che, in un tempo non troppo lontano, in un paese come il nostro possa verificarsi la stessa azione politica. 3. EDITORIALE. BEPPE PAVAN: SI'. UNA GRANDE NOTIZIA [Ringraziamo Beppe Pavan (per contatti: carlaebeppe at libero.it) per questo intervento. Beppe Pavan e' impegnato nella bellissima esperienza nonviolenta della comunita' di base e del "gruppo uomini" di Pinerolo (preziosa esperienza di un gruppo di uomini messisi all'ascolto del femminismo con quella virtu' dell'"attenzione" di cui ci parlava Simone Weil), ed in tante altre esperienze di pace e di solidarieta'] Comunque, e' una grande notizia. In Italia, nessuno ha mai pensato di proporlo. Mentre credo che sarebbe una buona carta per le primarie e per le prossime elezioni. No alle armi. Se non ci fossero non si farebbero le guerre (o si tornerebbe ai colpi d clava in testa?), perche' non ci sarebbero gli eserciti e i relativi addestratori/addestramenti... Qualche anno fa la Fim-Cisl aveva provato a contrattare per la riconversione dell'industria bellica, ma con scarso seguito. Il problema (uno dei problemi) e' che, se le costruiscono, poi le vendono, in un modo o nell'altro. Resta il fatto che se in Brasile davvero vincesse il desiderio popolare di mettere fuori legge le armi da fuoco e il loro possesso e uso, potremmo forse trovare il coraggio di fare altrettanto anche nel "civile" occidente, cominciando dall'Italia: facendo anche riferimento all'articolo 11 della Costituzione. Per non far guerra, aboliamo le armi. E aiutiamoci vicendevolmente a crescere nella capacita' di stare nelle relazioni con ascolto, scambio e rispetto verso ogni creatura diversa da me. Le donne non sono solo quelle che subiscono le conseguenze, dirette e indirette, della violenza: ci insegnano anche l'amore per la vita e per la vita di relazione, senza se e senza ma. Che la vittoria del popolo brasiliano in questo referendum significhi anche un passo avanti nella consapevolezza di dover abbandonare la cultura mortifera del patriarcato, per progredire verso quell'altro mondo possibile. Porto Alegre e' sempre in Brasile. 4. 23 OTTOBRE. RACHELE FARINA: SI' [Ringraziamo Rachele Farina (per contatti: rachelefarina at interfree.it) per questo intervento. Rachele Farina, storica e docente, presidente dell'Unione Femminile Nazionale nel 1985-1988, ha fondato nel 1986 il centro di studi storici "Esistere come donna"; promotrice di ricerche e organizzatrice di varie mostre di rilevanza internazionale. Tra le sue opere: (con Anna Maria Bruzzone), La Resistenza taciuta, Milano 1976, nuova edizione Bollati Boringhieri, Torino 2003; Dizionario biografico delle donne lombarde, Baldini & Castoldi, Milano 1995; Simonetta: una donna alla corte dei Medici, Bollati Boringhieri, Torino 2001] Vorrei anch'io sostenere come posso il si' al referendum brasiliano contro il commercio delle armi. 5. 23 OTTOBRE. LUCA SALVI: SI' [Ringraziamo Luca Salvi (per contatti: lucasalvi at msw.it) per questo intervento. Luca Salvi fa parte del gruppo di iniziativa territoriale della Banca Etica a Verona; e' impegnato in molte iniziative per la pace, la giustizia, i diritti umani] Per dire il mio sostegno al si' al referendum brasiliano ho ripreso e velocemente aggiornato una lettera che avevo pubblicato su "Nigrizia" lo scorso anno. * Dal business delle armi a quello del disarmo L'elezione di Lula nel 2002 aveva suscitato entusiasmi e acceso speranze non solo in Brasile ma in tutto il mondo, fra coloro che credono in un altro mondo possibile. Purtroppo, la sua azione di governo negli ultimi tempi e' stata azzoppata dalle accuse di corruzione e molto criticata anche all'interno del movimento per mancanza di coraggio nel realizzare delle svolte radicali in politica economica. Io credo che cambiare il mondo sia difficile e non possiamo pretendere di avere tutto e subito, il cambiamento purtroppo richiede tempi lunghi. Comunque Lula ha dato dei buoni segnali e ha compiuto dei gesti che possiamo definire profetici, come quando ha lanciato il programma "Fame zero", quando ha annullato la commessa per alcuni bombardieri o, ultimamente, con l'indizione del referendum sulle armi. Il Brasile, potenza emergente ma con ancora enormi sacche di poverta', e' anche uno dei paesi piu' armati al mondo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite e' addirittura al quarto posto per numero di omicidi dovuti ad armi da fuoco. L'anno scorso, contro la proliferazione delle armi, per cinque mesi e' stato sperimentato con successo nello Stato di Parana' un programma di acquisto dalla cittadinanza delle armi in loro possesso per distruggerle. Nel periodo considerato sono state tolte dalla circolazione 20.000 armi e gli omicidi sono diminuiti del 30%. Forte di questo risultato il governo verdeoro ha deciso di estendere il programma a tutta la nazione. Il programma prevede l'acquisto da parte dello stato dei fucili dei cittadini al prezzo di 100 dollari e delle pistole a 33. Si calcola che, grazie a questo programma, 80.000 armi saranno tolte dalla circolazione, con una spesa complessiva che si dovrebbe aggirare intorno ai 3,3 milioni di dollari. Inoltre e' iniziato un giro di vite che prevede regole rigidissime per il rilascio delle licenze, la creazione di un registro nazionale e il divieto di detenzione di armi nei luoghi pubblici. Il piano di Lula prevede infine un referendum per scegliere se vietare per legge il commercio di armi. Se l'esempio di Lula fosse stato seguito dalla coalizione americana in Iraq un anno fa, forse oggi l'Iraq sarebbe in una situazioni migliore, se non altro perche' le armi del regime non si sarebbero cosi' diffuse tra la popolazione. E dal business delle armi, in un paese sull'orlo della poverta', si sarebbe passati al business del disarmo. Non si potrebbe tentare di applicare questa semplice ricetta sia in Iraq che in tutti i paesi teatro di guerre, conflitti, violenze, magari con una grande iniziativa dell'Onu? Nel mondo si spendono ormai mille miliardi di dollari all'anno in armamenti, e' ora di invertire la rotta e iniziare a spendere per il disarmo e la ricostruzione. 6. ARMI. GIORGIO BERETTA: MERCANTI DI MORTE E BANCHE ARMATE [Da "Azione nonviolenta" n. 8-9 di agosto-settembre 2005 (sito: www.nonviolenti.org). Padre Giorgio Beretta, missionario saveriano, caporedattore di Unimondo, scrive per molte testate impegnate per la pace, la solidarieta', il disarmo, la nonviolenza; e' impegnato nella Rete italiana per il disarmo, nella Campagna "banche armate", nell'Osservatorio sulle armi leggere Opal, ed e' uno dei principali esperti sul traffico delle armi] Lo scorso giugno, per per la prima volta in 15 anni, la relazione annuale del Governo prevista dalla legge 185/90 sull'esportazione delle armi italiane e' stata oggetto di discussione nelle Commissioni Esteri e Difesa della Camera: segno evidente che le pressioni della societa' civile, confluite nella Campagna "Difendiamo la 185" e successivamente nell'importante lavoro di informazione, coordinamento e di pressione che sta svolgendo la "Rete per il disarmo" (per contatti: www.disarmo.org), stanno cominciando a trovare riscontro. Significativo che nel dibattito parlamentare siano stati posti anche da parte di esponenti della maggioranza al governo diversi interrogativi che le campagne da anni sollevano: oltre a quelli che riguardano le esportazioni in contrasto con i divieti della legge 185/90, vi sono quelli che concernono la difficolta' a conoscere con precisione la tipologia di armi vendute dall'Italia ai diversi paesi e soprattutto a cogliere dalla relazione le linee di "politica estera e di difesa" che dovrebbero guidare le autorizzazioni all'esportazione. Al riguardo l'on. Giuseppe Cossiga (Fi), relazionando per il Governo in IV Commissione Difesa, ha chiaramente affermato che "la relazione (sull'export di armi - ndr) non consente di compiere tale ricostruzione, in quanto pur fornendo numerose informazioni di dettaglio sui soggetti contraenti e sul valore delle transazioni effettuate, non permette il piu' delle volte di comprendere l'oggetto delle transazioni medesime ne' consente di effettuare una valutazione sulla strategia di politica estera che ha ispirato le operazioni verso i diversi paesi, soprattutto quelli non appartenenti alla Nato e all'Unione Europea". Domande alle quali il sottosegretario di stato alla Difesa, on. Filippo Berselli, ha risposto in modo elusivo sollevando la protesta dell'opposizione e l'insoddisfazione delle stesse forze al governo. * Armi e accordi con tutti, indistintamente Il dibattito parlamentare e' tuttora in corso ed e' importante monitorarlo: materia per far sentire la nostra voce ce n'e' a iosa. La Relazione 2005 della Presidenza del Consiglio sull'esportazione di armi riporta, infatti, che il comparto armiero - denominato con un eufemismo "Industria della Difesa" - ha collezionato nel 2004 nuove autorizzazioni all'esportazione per quasi 1,5 miliardi di euro con un incremento del 16% rispetto all'anno precedente: una cifra record dell'ultimo quadriennio nel quale il settore ha accresciuto il proprio portafoglio d'ordini di ben oltre il 70% passando dagli 863 milioni di euro di commesse del 2001 agli oltre 1.489 milioni di euro del 2004. Nell'ultimo anno i principali clienti delle armi "made in Italy" sono soprattutto i paesi dell'area Nato che hanno ricevuto il 72% delle nuove autorizzazioni. Ma non va dimenticato che nel 2003 le commesse della Nato ricoprivano meno del 45%, a dimostrazione che l'export di armi italiane risponde ormai non tanto ai principi di "politica estera e di difesa", quanto piuttosto alla domanda di mercato. Non si spiegherebbero altrimenti le autorizzazioni all'esportazione rilasciate verso paesi in aree di tensione a partire dall'Estremo oriente: 127 milioni di euro nel 2003 verso la Cina, sulla quale vige tuttora l'embargo da parte dell'Unione Europea, ed altri 2 milioni nel 2004 e, contemporaneamente, i 6,3 milioni di euro di esportazioni a Taiwan. O quelle verso l'India (42 milioni di euro le autorizzazioni del 2004) e Pakistan (13,5 milioni di euro) nonostante i due paesi, oltre al conflitto nel Kashmir, siano annoverati nella lista delle nazioni fortemente indebitate che spendono ingenti capitali nel settore militare (l'India e' il secondo importatore di armi al mondo, il Pakistan il decimo - informa il Rapporto Sipri 2005). O verso i Paesi del Vicino e Medio Oriente che sebbene, con 54 milioni di euro pari al 3% del totale, segnino - nota la Relazione - "il valore piu' basso degli ultimi anni", rappresentano comunque "uno dei mercati strategici per le imprese italiane del settore". Non va dimenticato, al riguardo, che quest'anno con alcuni paesi dell'area, tra cui Kuwait, Giordania e Gibuti, l'Italia ha ratificato "accordi per la cooperazione nel campo della Difesa": accordi che prevedono "acquisizioni e produzioni congiunte" di armamenti come "bombe, mine, razzi, siluri, carri, esplosivi ed equipaggiamenti per la guerra elettronica", e che - come segnalava in Commissione esteri a Montecitorio l'ex ministro della Difesa Sergio Mattarella - favoriscono "l'applicazione di un regime privilegiato nelle procedure relative all'interscambio di armamenti tra i due paesi" col rischio di "un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185 del 1990". Accordi simili sono tuttora in esame al Parlamento e riguardano diversi paesi in conflitto o dove si registrano continue violazioni dei diritti umani tra cui India, Indonesia, Israele, Libia e la stessa Cina. Tornando alla lista delle 690 autorizzazioni concesse dal governo nel 2004, troviamo poi una serie di paesi che le organizzazioni internazionali segnalano per le persistenti violazioni dei diritti umani tra cui Malaysia, Turchia, Algeria, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Siria e Arabia Saudita, giusto per citarne alcuni. In definitiva, nonostante la relazione rassicuri che "fra le autorizzazioni rilasciate, oltre a non esserci alcun paese rientrante nelle categorie indicate nell'articolo 1 della legge" (che vieterebbe le suddette esportazioni - ndr), e che il governo avrebbe "mantenuto una posizione di cautela verso paesi in stato di tensione", le preoccupazioni permangono. * Nuovi attacchi alla legge 185 Preoccupazioni alle quali se ne aggiungono di nuove. La prima concerne la Campagna di pressione alle "banche armate". La relazione, infatti, indicando tra le problematiche di "alta rilevanza" trattate a livello interministeriale l'atteggiamento di "buona parte degli istituti bancari nazionali" che, "pur di non essere catalogati fra le cosiddette 'banche armate' hanno deciso di non effettuare piu' o limitare significativamente le operazioni bancarie connesse con l'importazione o l'esportazione di materiali d'armamento", adduce "notevoli difficolta' operative" per le industrie del settore tanto da "costringerle ad operare con banche non residenti in Italia", con la conseguenza - secondo il governo - di "rendere piu' gravoso e a volte impossibile il controllo finanziario" da parte del Ministero. Ed ecco il punto: "Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha recentemente prospettato una possibile soluzione che sara' quanto prima esaminata a livello interministeriale" - si legge nella Relazione 2005. Quale sia questa "soluzione" non e' dato di sapere, ma resta il fatto che di "difficolta' operative" tali da richiedere modifiche alla legge non ce ne sono visto che le banche italiane, coi gruppi Capitalia e San Paolo Imi in testa, ricoprono tuttora piu' dell'85% delle transazioni per export di armi. La questione e' stata riproposta anche nell'intervento in sede parlamentare del gia' citato on. Cossiga il quale, considerando "eccessiva l'enfasi con la quale la relazione da' conto dell'ammontare complessivo delle operazioni finanziate dagli istituti di credito", afferma che la relazione della Presidenza del Consiglio sull'export di armi fornirebbe "dati che risultano non solo fuorvianti", ma addirittura "suscettibili ad alimentare campagne di informazione del tutto prive di fondamento, come nel caso della campagna banche armate". Una campagna, quest'ultima che, proponendo all'attenzione dei cittadini nient'altro che i dati forniti dal Ministero, e' stata pero' in grado di toccare nel vivo gli interessi della lobby armiera tanto da portare importanti istituti di credito ad assumere l'export di armi tra le proprie linee di "responsabilita' sociale e di impresa". * Un ultimo punto sul quale occorre tenere alta la guardia Asserendo a motivo "vari provvedimenti legislativi dettati dall'ambiente normativo europeo" che "piu' o meno direttamente afferiscono alla legge 185/90", e' in atto un "progetto governativo di riscrittura della legge 185 del 1990" - informa la Relazione 2005. Anche su questo ben poco e' dato di sapere, ma e' ancora fresco il ricordo della ratifica di accordi in ambito europeo che, se non ci fosse stata la puntuale mobilitazione della societa' civile, avrebbero sortito l'effetto di snaturare la legge 185/90. Una legge - non dimentichiamolo - che e' nata grazie ad un decennio di lotte e denunce di numerose organizzazioni dell'associazionismo pacifista, cattolico e missionario, del mondo sindacale e dei movimenti nonviolenti, e che ha costituito la base del Codice di condotta dell'Unione Europea. * La Campagna "banche armate" Promossa da tre riviste del mondo pacifista e missionario ("Nigrizia", "Mosaico di pace", "Missione oggi"), la Campagna di pressione alle "banche armate" e' stata avviata nel 2000, anno del Giubileo, chiedendo ai risparmiatori di interrogare le proprie banche sulle operazioni di appoggio alla compravendite di armi. Un modo semplice ed efficace di favorire un controllo attivo dei cittadini sui propri risparmi. In risposta alle domande dei correntisti diversi e importanti istituti di credito italiani (tra cui Mps, Unicredit, Banca Intesa), hanno adottato "politiche di responsabilita' sociale" e hanno deciso di non offrire, totalmente o in parte, i propri servizi per l'esportazione di armi italiane, soprattutto verso quei paesi per i quali vigono gli espliciti divieti della legge 185/90, come nazioni sottoposte all'embargo di armi da parte dell'Onu e dell'Unione europea, responsabili di gravi e accertate violazioni dei diritti umani, Paesi poveri o fortemente indebitati che destinano ampie risorse alle spese militari. Tutte le informazioni sulla Campagna sono reperibili sul sito: www.banchearmate.it 7. GUERRE. MAURIZIO SIMONCELLI: I CONFLITTI DIMENTICATI [Da "Azione nonviolenta" n. 8-9 di agosto-settembre 2005 (per contatti: www.nonviolenti.org). Maurizio Simoncelli, storico, membro del consiglio direttivo dell'Archivio Disarmo, docente di geopolitica dei conflitti al master in Educazione alla pace, cooperazione Internazionale, diritti umani e politiche dell'Unione Europea, nell'Universita' degli studi di Roma Tre; autore di diversi studi sull'industria militare e sulla politica della sicurezza. Tra le opere recenti di Maurizio Simoncelli: Armi, affari, tangenti, Ediesse, Roma 1994; Guerre senza confini. Geopolitica dei conflitti nell'epoca contemporanea, Ediesse, Roma 2003; (con M. Rusca), Hydrowar. Geopolitica dell'acqua tra guerra e cooperazione, Ediesse, Roma 2004; (a cura di), Le guerre del silenzio. Alla scoperta dei conflitti e delle crisi del XXI secolo, Ediesse, Roma 2005.] L'azione dell'uomo si e' svolta da sempre sugli spazi territoriali del nostro pianeta alla ricerca di condizioni migliori di vita, dapprima inseguendo la selvaggina, poi alla ricerca di aree fertili, sino al possesso e allo sfruttamento delle diverse risorse presenti in tali spazi. Pertanto, le varie risorse (minerarie, idriche, ecc.) sono divenute motivo di innumerevoli scontri a volte violentissimi, in relazione anche ai progressi tecnologici nel campo degli armamenti (dalla clava alla freccia, dal fucile all'arma nucleare). Spesso le rivendicazioni territoriali da parte di uno Stato ai danni di un altro Stato hanno trovato giustificazione proprio sulla base di altri elementi geografici, come quelli etnico-antropici, quelli della contiguita', il diritto di accesso o di transito sulle vie d'acque (laghi, mari, fiumi, anche attraverso stretti e canali), ed altri ancora. Infatti, guerre spesso lontane geograficamente, ma strettamente collegate da motivazioni politico-economiche, hanno insanguinato il pianeta Terra. In tempi relativamente piu' recenti, la seconda rivoluzione industriale di fine '800 ha offerto poi strumenti sempre piu' distruttivi che il secolo seguente ha ampiamente utilizzato in una serie di guerre che hanno incrinato la tradizionale supremazia mondiale delle potenze europee a vantaggio del nuovo bipolarismo di Mosca e di Washington. Parallelamente, nel corso del XX secolo anche il concetto di "minaccia" ha subito profonde trasformazioni, passando da un riferimento territoriale ben preciso (i confini nazionali o le aree coloniali, ad esempio) del primo cinquantennio ad una crescente interdipendenza globale che rende ardua una definizione ed una localizzazione esatte degli interessi nazionali nell'epoca odierna. Le guerre contemporanee, scaturite da tutte queste trasformazioni, evidenziano sempre di piu' alcune specifiche caratteristiche. * In primo luogo, se nella prima meta' del XX secolo esse avevano avuto come protagonisti principali le grandi potenze, soprattutto quelle europee con i loro imperi coloniali, a partire dall'epoca del bipolarismo i conflitti si sono andati concentrando sempre piu' nelle aree del cosiddetto Terzo Mondo, che peraltro tentava di affrancarsi dal controllo di quegli stati ex-dominatori. E mentre permaneva, anzi s'incrementava comunque una forte dipendenza economica del Sud rispetto al Nord del mondo, in seguito all'implosione dell'Urss anche nell'area dell'ex impero sovietico si sono scatenati conflitti che hanno segnato il territorio del vecchio continente (basti pensare alla guerra civile nell'area dell'ex-Jugoslavia). Tra il 1946 e il 2000 sono stati calcolati oltre 150 conflitti, concentrati per lo piu' in due aree geografiche: l'Africa subsahariana (42 guerre) e l'Estremo Oriente (37), seguite dall'America Latina (24), dal Medio Oriente (20), dall'Europa (16) e dall'Asia meridionale (13). Nei primi anni del XXI secolo permane tale concentrazione di conflitti e di crisi nei territori africani (22) e asiatici (16). * In secondo luogo, analizzando dal secondo dopoguerra ad oggi la tipologia dei conflitti rilevati mediante le due categorie di simmetrici (cioe' tra soggetti equivalenti, ad esempio tra Stati) e asimmetrici (cioe' tra soggetti non equivalenti, ossia governi e forze di opposizione, gruppi terroristici, ecc.), si puo' notare che la maggioranza di essi appartiene proprio alla seconda categoria, quella dei conflitti asimmetrici. E ancora una volta, dal punto di vista della loro localizzazione si nota un'elevata concentrazione proprio nei paesi in via di sviluppo, dove la diversa distribuzione della ricchezza e l'assenza di una base etnico/sociale omogenea (collegata strettamente a confini tracciati in modo del tutto artificioso dalle potenze coloniali) hanno ulteriormente contribuito all'incremento della conflittualita'. Anzi, nel corso di questo periodo, sono relativamente rari gli interventi militari diretti delle due superpotenze tesi a mantenere sotto controllo aree di interesse politico e/o economico. Possiamo ricordare le vicende dell'Ungheria (1956), della Cecoslovacchia (1968) e dell'Afghanistan (1978-'91) ad opera dell'Unione Sovietica, o quelle del Vietnam (1960-'75), di Panama (1989), dell'Iraq (1990-'91), dell'Afghanistan (2001-2002) e dell'Iraq (2003) ad opera degli Stati Uniti. Mentre ben piu' numerosi sono gli interventi indiretti, attuati anche mediante l'assistenza di consiglieri/istruttori (tra i tanti si pensi, ad esempio, a quelli sovietici a Cuba, a quelli statunitensi nella prima fase del conflitto vietnamita o a quelli cubani in Etiopia), mediante la fornitura di materiali bellici, attraverso la costituzione di basi militari, ecc. Infatti, anche nel recente conflitto in Afghanistan contro il governo talebano dopo l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno cercato per lo piu' di utilizzare una formula di tal genere, da un lato facendo anche ricorso a bombardamenti aerei e missilistici in misura massiccia, dall'altro sostenendo le forze d'opposizione ed evitando il piu' possibile un coinvolgimento diretto e imponente delle proprie truppe in prima linea (che comporta costi umani e politici elevati, come dimostra l'attuale situazione irachena). * In terzo luogo, in conseguenza diretta di quanto appena detto, la concentrazione della maggior parte delle guerre proprio nel Terzo Mondo ha causato milioni di vittime. All'interno di queste decine di milioni di vittime, inoltre, si e' andata riscontrando una percentuale crescente di vittime civili che ormai tocca mediamente punte del 90% del totale. E tra queste risultano particolarmente colpite le donne, divenute sempre piu' obiettivo di stupri sistematici sia da parte delle forze cosiddette regolari sia da parte di quelle paramilitari, irregolari o d'opposizione. Tali guerre, a volte del tutto ignote all'opinione pubblica occidentale, hanno causato nella seconda meta' del XX secolo piu' di 23 milioni di morti, per due terzi civili (per lo piu' donne, vecchi e bambini). * In quarto luogo, come accennato, si puo' notare che l'informazione rispetto alle aree di crisi e di conflitto in atto nel mondo appare assai limitata. La grande stampa e i maggiori network radiotelevisivi offrono notizie insufficienti e largamente parziali, come dimostra un recente sondaggio dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo. Realizzato su un campione di alcune centinaia di studenti delle scuole medie e superiori di Roma e provincia, tale sondaggio ha messo in evidenza come tali giovani, seppur interessati alle tematiche, mostrino di conoscere appena un decimo dei conflitti e delle crisi in atto nel 2005. Non a caso si parla, infatti, di guerre dimenticate in relazione a conflitti e scontri di cui non si trova alcuna traccia nei grandi circuiti informativi, mentre, con adeguate ricerche, se ne puo' ottenere in ambiti alternativi (internet, mondo missionario, ong, ecc.). * In quinto luogo, non puo' essere dimenticato che tali numerose guerre sono combattute con armi prodotte, come testimonia il Sipri Yearbook 2004, per lo piu' proprio dalle potenze membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Usa, Urss/Russia, Francia, Gran Bretagna e, ben distanziata, Cina), nonche' da altre potenze industriali minori, come Germania, Italia e Ucraina. Il mercato delle armi per l'80% e' da tempo e continua ad essere in mano a pochi produttori, che utilizzano tali forniture sia sul piano meramente commerciale, sia sul piano geopolitico per condizionare direttamente o indirettamente i paesi clienti di tali prodotti. * In sesto luogo non si deve mai dimenticare che molti di questi conflitti sono generati direttamente o indirettamente dalla lotta per il controllo di aree importanti dal punto di vista geopolitico (punti strategici o rilevanti per le risorse in esse presenti). Ad esempio, si stima che le tensioni in atto nell'area caucasica siano da collegare ai giacimenti petroliferi del Mar Caspio, ritenuti quantitativamente superiori agli attuali dell'area del Golfo Persico. Pertanto il possesso del territorio contiguo e del relativo bacino lacustre, la gestione delle risorse e del loro sfruttamento, il controllo delle aree ove passeranno gli oleodotti appaiono di rilievo strategico nel medio periodo. Le stesse ipotesi d'installazione degli oleodotti (attraverso l'area balcanica, il territorio curdo, il Mar Nero o collegandosi alla rete iraniano-irachena) stimolano potenti interessi geopolitici divergenti, come testimoniano appunto da un lato la conflittualita' cecena e la risposta repressiva russa, dall'altro l'elevato interesse statunitense a stabilizzare con governi amici tale area (con gli interventi in Afghanistan nel 2002 e in Iraq nel 2003). * In settimo luogo, bisogna purtroppo rilevare l'estrema inadeguatezza delle Nazioni Unite a costituire un sistema di compensazione e di controllo politico a livello internazionale. Anzi, le recenti vicende del XXI secolo hanno ancor piu' messo in evidenza la debolezza di questo organismo, la cui credibilita', gia' minata da una sua costituzione intrinsecamente debole, e' stata brutalmente attaccata proprio da un governo che vuole presentarsi come paladino della democrazia mondiale, cioe' gli Stati Uniti. * Il quadro insomma non appare rassicurante e la vecchia politica di potenza degli stati contemporanei non sembra di fatto essere in grado di offrire un'alternativa credibile. 8. MONDO. EMAN AHMED INTERVISTA ASMA JEHANGIR [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione questa intervista di Eman Ahmed ad Asma Jehangir. Eman Ahmed Khammas e' una prestigiosa intellettuale, giornalista ed attivista per i diritti umani, direttrice dell'Occupation Watch Center che denuncia e documenta i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani nell'Iraq sotto occupazione militare. Asma Jehangir, attivista per i diritti umani, e' la presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan] - Eman Ahmed: Com'e' cambiata la situazione, negli ultimi anni, rispetto ai diritti umani delle donne in Pakistan, e cosa ha contribuito al cambiamento? - Asma Jehangir: Se per "ultimi anni" intendi gli ultimi decenni c'e' stato un cambiamento enorme. L'intera percezione della questione e' passata dalla protezione al diritto. Precedentemente, si pensava che le donne avessero necessita' di essere protette. Persino i rapporti della Commissione delle donne parlavano solo in termini di divisione del lavoro tra uomini e donne. Naturalmente, in questo scenario le donne occupavano una posizione secondaria e la preoccupazione verteva sul dare a tale posizione un ritorno monetario. Negli anni '80 un approccio piu' basato sui diritti si e' manifestato, ma non e' andato abbastanza in profondita'. Quando parliamo di come la situazione e' cambiata, parliamo del fatto che le donne sono divenute piu' consce dei loro diritti, si avvalgono di piu' opportunita' qualora esse vengano loro presentate, si affermano in campi diversi, come la politica e l'economia. Ma se si esamina l'unita' base della famiglia, dove la discriminazione comincia (e in tale discriminazione le donne restano impantanate tutta la vita), ben poco e' cambiato, e nemmeno sulla carta. Ci sono stati degli avanzamenti minori, tuttavia, e sono dovuti primariamente al fatto che piu' donne sono entrate nella professione legale e, piu' importante ancora, che piu' donne hanno deciso di rischiare il contenzioso legale. Un'avvocata puo' esaminare le leggi da una prospettiva di genere, ma ha comunque bisogno di una cliente che voglia venire alla luce, assumersi i rischi legali, e non soccomba alle pressioni ed ai compromessi lungo la strada. Molti degli avanzamenti di cui parlo sono avvenuti proprio tramite casi giudiziari, una situazione in cui le donne coinvolte hanno sofferto parecchio. A volte, neppure sostenute dalle loro famiglie, hanno dovuto attraversare lunghi periodi di incertezza, durante i quali venivano diffamate come donne immorali che infrangevano norme sociali. E' stato un cammino difficile per queste donne, e vi e' davvero bisogno di celebrare il loro coraggio. * Eman Ahmed: Ti senti di prevedere ulteriori cambiamenti nei prossimi cinque anni? - Asma Jehangir: Si', certamente. Quando la palla inizia a rotolare e' difficile che si fermi, e le donne cominciano non solo a rivendicare i loro diritti ma a riunirsi in collettivi, dove il pensiero si elabora e strategie vengono pianificate. Tuttavia, poiche' questi gruppi sono organizzati attorno al lavoro produttivo o ai servizi necessitano di essere coinvolti in attivita' che consentano loro di continuare ad esistere. Il che e' una minaccia alla loro sopravvivenza: per esempio, le organizzazioni di donne non possono continuare a gestire scuole di cucito a macchina, quando il cucire a macchina e' diventato sovrabbondante. Inoltre, le risorse disponibili a questi collettivi si stanno restringendo, il che genera competizione fra loro: solo i gruppi che mostrano risultati ottengono sostegno. * Eman Ahmed: Che strategie stanno usando le donne in Pakistan nei loro sforzi verso l'eguaglianza e i diritti umani per le donne? Cosa ha funzionato, e cosa no? - Asma Jehangir: Le donne ne hanno messe in campo svariatissime, quello che manca in Pakistan e' una societa' civile che le sostenga. Non c'e' mai stata una visione d'insieme, che mettesse sul tappeto gli attrezzi, i meccanismi e i mezzi da adottare. Percio' ogni gruppo ha preso una strada differente. Ci sono coloro che hanno tentato di lottare per inserire i diritti delle donne nelle norme religiose. Ci sono coloro che hanno tentato di ottenere avanzamenti nella cornice dei diritti umani. E c'e' chi non sta parlando di eguaglianza, ma di equita': la loro argomentazione e' che il chiedere la nuda eguaglianza, in un momento in cui le donne sono distantissime dagli uomini sul piano economico, sarebbe svantaggioso per numerose donne. Altre sostengono che la capacita' economica puo' avvenire solo se il concetto di eguaglianza si afferma. Diciamo che e' il classico dibattito se viene prima l'uovo o la gallina. I cambiamenti piu' significativi sono avvenuti quando il successo non dipendeva solo dai meccanismi governativi. Sebbene numerosi avanzamenti per le donne si siano dati nei tribunali, se fosse dipeso solo dai tribunali non sarebbero mai avvenuti. Ci sono state continue campagne a sostenere i casi che poi hanno vinto. Per esempio, il fatto che una donna potesse sposarsi contro la volonta' dei suoi genitori fu sostenuto da una campagna molto dinamica, sui media e sulle strade. L'istanza venne dibattuta praticamente in ogni casa, e la campagna risulto' vincente. Alla fine, andare contro la volonta' delle donne era altrettanto difficile, per i tribunali, che andare contro la volonta' degli Ulema. Prima, le donne non potevano neppure mettere a confronto la loro forza con quella della lobby religiosa. Ma in questo caso avevano un'agenda comune e uno scopo unico: affermare i loro diritti. La lobby religiosa, dall'altro lato, aveva un'agenda piu' diversificata e la loro concentrazione sull'istanza ha avuto vita breve. Gli e' seccato, li ha punti, ma dovevano muoversi anche verso altre cose. Le donne invece sono rimaste concentrate sulla faccenda, per il semplice motivo che stavano lottando per sopravvivere. Le campagne non funzionano, invece, quando le donne dipendono completamente dalla decisione della macchina statale. E' stato il caso della campagna per avere una legge contro i delitti díonore. Prima della stesura di quest'ultima, la campagna contro i delitti d'onore veniva portata avanti autonomamente dalle ong e stava diventando un grosso soggetto di dibattito in Pakistan. Poiche' otteneva enorme attenzione, alcuni gruppi della societa' civile entrarono nella campagna e formarono un'alleanza con il governo per stilare la legge. Purtroppo la maggior parte di quelli che furono coinvolti nella stesura della legge non erano avvocate o avvocati e non avevano neppure un'infarinatura in merito. Un grosso errore, perche' dalla legge e' stato lasciato fuori cosi' tanto che praticamente nulla e' stato riformato, e la legge non fa che prolungare l'agonia delle donne. Ma la campagna si dissolse cosi', nella trionfante e falsa credenza di aver fatto una riforma. Io credo che le ong debbano fare cio' di cui sono competenti. Un'avvocata puo' dare dei suggerimenti su un piano economico, ma non puo' disegnarlo tutto da sola. Le strategie inoltre faticano a funzionare quando non vi sono meccanismi di efficacia e indipendenza nei poteri dello stato. Meno il potere giudiziario e' indipendente, meno tu hai successo; meno il parlamento e' sovrano, meno tu hai successo; e meno i partiti politici fanno il loro lavoro (e piu' si preoccupano esclusivamente della propria sopravvivenza), meno tu hai successo. Se cio' che riesci a raggiungere sono una manciata di ong, che non hanno agganci nella popolazione, l'opinione pubblica non ha modo di formarsi. Percio' devi collaborare con la societa' civile, l'associazione dei giornalisti, quella dei commercianti e anche con i politici. C'e' un legame molto stretto fra i diritti umani e lo sviluppo democratico. Non si ha vera liberta' d'espressione o vera indipendenza del sistema giudiziario senza democrazia. * - Eman Ahmed: Come possono formarsi legami significativi fra meccanismi e tecniche a livello locale, nazionale e regionale? E quanto importante e' stabilirli? - Asma Jehangir: Questa e' una questione davvero importante. Io credo che il movimento delle donne pakistane sia stato abilissimo nel fare precisamente cio' che hai detto. E se non avessero formato tali legami, specialmente durante il regime di Zia-ul-Haq, non sarebbero arrivate da nessuna parte. Sarebbero state soffocate in una battitura domestica, e nessuno ne avrebbe sentito parlare. Cio' che accadeva alle donne in Pakistan non ottenne attenzione fino a che la Bbc, Amnesty International e Human Rights Watch non lo riportarono pubblicamente: il fatto che fosse sotto gli occhi del mondo influenzo' i decisori pakistani. Per il Pakistan, stabilire legami regionali e' stato estremamente importante per numerose ragioni, e vorrei elaborarne un paio. La prima e' che stavamo perdendo le nostre naturali alleanze e somiglianze sociali e culturali. La nostra societa' e' stata "arabizzata". E quando ad una societa' accade questo c'e' qualcosa di artificiale in essa, ma dall'interno non riesci a dire cosa sia. Le persone cominciano a perdere le proprie culture indigene e le rimpiazzano con elementi di altre culture, senza neppure sapere cosa stanno facendo. Il Pakistan ha legami culturali con l'India, l'Iran e l'Afghanistan. Questi sono paesi con cui confiniamo e con cui abbiamo somiglianze etniche e culturali: abbiamo cominciato a sottolineare tali legami, a "riportarli a casa", e l'arabizzazione del Pakistan si e' un po' diluita. Ti faccio un esempio. Recentemente ho visto un programma sulla Cnn in cui si mostrava una madrassa (scuola religiosa) in Pakistan, e le donne se ne stavano sedute li' indossando veli bianchi (hijab) che lasciavano scoperti solo i loro occhi. Ora, questa non e' cultura pakistana. C'e' qualcuno in grado di mostrarmi una fotografia degli anni '70, '60, '50, '40 o ancora prima, dove si vedano scuole di questo tipo con le donne velate negli hijab? Questa non e' la nostra cultura, ma e' stata dipinta come tale, ed ora e' diventata accettabile per quanto ci sia estranea. Assieme ai veli si porta un pensiero politico, un'ideologia, e si manipolano le persone. Questa e' un'altra ragione importante per avere legami regionali e tenersi informate e coinvolte l'un l'altra. Sembra che ogni paese nella nostra regione voglia competere per i record negativi, anziche' per quelli positivi. Percio' se le Maldive possono bandire le persone che professano una religione diversa dall'Islam, presto qui in Pakistan ci faranno l'esempio delle Maldive. Cosi' come alla gente del Nepal viene portato l'esempio del Pakistan: se l'esercito puo' comandare in Pakistan, perche' non puo' comandare in Nepal? Dobbiamo fare in modo che le persone di paesi differenti si alleino, di modo che vi sia un comune sentire rispetto alla strada che vogliamo prendere. Persino in termini di sviluppo legale, se prendiamo i precedenti altrove essi possono essere molto utili qui. Se c'e' un miglioramento in India, usiamolo in Pakistan; se c'e' un miglioramento qui, che lo si usi in Bangladesh. E dovremmo anche imparare le buone pratiche gli uni dagli altri. * - Eman Ahmed: Come si puo' rendere i governi e i decisori privati responsabili delle loro azioni? - Asma Jehangir: Gli attivisti per i diritti umani a livello internazionale stanno guardando sempre di piu' agli attori non statali, in particolar modo per quanto riguarda la negazione della liberta' religiosa e la violenza contro le donne. Quest'ultima viene perpetuata, per la maggior parte, da soggetti non statali. Ma poiche' gli stati sono obbligati ad assicurarsi che i violenti non godano di impunita' e' molto importante farli discutere di questo. Lo stato di per se' puo' non attuare politiche discriminatorie verso le donne, ma se e' a conoscenza che non vi e' eguaglianza per le donne a livello culturale o sociale, deve realizzare quelle che chiamiamo "azioni affermative". Questo vale anche per l'esercizio della liberta' religiosa, i diritti dei bambini e dei popoli indigeni, e delle minoranze sessuali. Ci sono stati casi in cui membri di forze dell'ordine hanno minacciato e torturato persone a causa dell'orientamento sessuale di queste ultime, ma c'e' anche una sorta di discriminazione sociale in cui un governo puo' non essere direttamente coinvolto pur tollerandola con l'inazione. Percio', se uno stato tollera un abuso, esso va considerato responsabile, poiche' l'abuso si collega ai suoi atteggiamenti. * - Eman Ahmed: Che attrezzi o risorse sarebbero piu' utili alle donne in Pakistan per tradurre i "diritti umani sulla carta" in cambiamenti positivi e tangibili nelle vite delle donne? - Asma Jehangir: Penso che le donne dovrebbero elaborare un proprio progetto su come vogliono muoversi per rendere i diritti umani "cartacei" piu' concreti. Se con attrezzi intendi i vari modi in cui possono arrivare a questo, un sistema e' di certo la stampa. Piu' persone che credano nei diritti delle donne e nei diritti umani devono essere coltivate nella stampa. Meta' della lotta la si vince o la si perde nei media. I media elettronici sono anche estremamente importanti, oggi, non solo in Pakistan ma nel mondo intero. Le donne devono avere molto chiaro che bisogna usare questi sistemi. E' vero che larga parte dei nostri paesi non hanno molta tecnologia e percio' non possiamo affidarci solo ai metodi moderni, possiamo usarli assieme ad altri attrezzi. La cultura e' un modo efficace, ad esempio, per promuovere i diritti delle donne. Noi abbiamo sperimentato che il teatro di strada ha portato intere comunita' a discutere e riflettere. E' una sfortuna che in Pakistan non abbiamo una grande tradizione per il cinema o il teatro. Molti film prodotti in India sui diritti umani delle donne sono assai popolari nei centri che abbiamo a Lahore. Le persone vengono ai centri proprio per vederli e discuterne. Le emozioni e i sentimenti formano un linguaggio assai efficace. Un sistema che le donne non hanno ancora usato nel nostro paese, ed io penso che sia un errore, e' l'interagire con i giovani nelle istituzioni scolastiche. Abbiamo lavorato con i sindacati, e persino aperto strade nei settori piu' alti della societa', ma non con la giovane generazione, gli studenti, che sono circa il 40% della popolazione. Abbiamo anche bisogno di coinvolgere le professioniste, nell'industria, nella medicina, nel cinema: possono essere importanti portavoce delle cause delle donne. C'e' moltissimo che le ong delle donne e per i diritti umani possono fare in Pakistan. Se ad esempio senti le radio FM ti accorgi che la maggior parte di esse propaga fondamentalismo religioso. Dobbiamo contrastare questa tendenza, ed usare la radio come uno dei nostri attrezzi. Un buon numero di donne sta tentando di promuovere una cultura dei diritti umani e dei diritti delle donne tramite l'insegnamento religioso e le diverse interpretazioni della religione. Non so dirti quanto successo abbiano avuto fino ad ora, ma e' comunque un'altra strategia che la gente sta usando. Francamente, se vi sono diritti per le donne "sulla carta", poi coloro che vengono vittimizzate li usano eccome. I risultati che abbiamo ottenuto rispetto al diritto di famiglia, per esempio, le donne li usano. Anche rispetto alla rappresentanza elettorale, dovunque ne venga data l'opportunita' le donne partecipano. Percio' penso che anche i "diritti sulla carta" abbiano prodotto cambiamenti tangibili nelle vite delle donne. Attraverso gli anni, vedi, ogni qualvolta il nostro sistema legale e' diventato un po' piu' indipendente (non completamente, ma di piu'), noi abbiamo avuto piu' sentenze progressiste dai tribunali. In ognuno di questi periodi si possono trovare precedenti positivi, in cui le donne hanno colto le opportunita' ed ottenuto risultati concreti. Uno dei cambiamenti di cui abbiamo bisogno riguarda le leggi sul lavoro. Fino ad ora, non abbiamo ottenuto molto in questo campo. Ma questo e' un periodo in cui i sindacati sono banditi, e senza liberta' di associazione diventa piu' difficile ottenere diritti umani. 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 1062 del 23 settembre 2005 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).
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