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Nonviolenza. Femminile plurale. 27
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 27
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 1 Sep 2005 12:11:38 +0200
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 27 del primo settembre 2005 In questo numero: 1. Franca D'Agostini: Le donne salveranno il mondo? 2. Margaret Atwood: Io e Orwell. Dopo l'11 settembre 3. Lea Melandri: La sfida di Giobbe 1. RIFLESSIONE. FRANCA D'AGOSTINI: LE DONNE SALVERANNO IL MONDO? [Dal quotidiano "La stampa" del 9 settembre 2000. Franca D'Agostini e' nata a Torino, insegna filosofia contemporanea al Politecnico di Torino, collabora a "La stampa", "il manifesto", e a varie riviste italiane e straniere; si e' occupata dei rapporti tra filosofia anglo-americana ed europea (con specifico riferimento alle problematiche storiografiche concernenti la storia e la definizione della filosofia analitica), e di scetticismo e nichilismo sotto il profilo logico, epistemologico, ontologico; autrice di fondamentali ricognizioni sulla riflessione filosofica contemporanea europea ed americana, ha particolarmente tematizzato la differenza di approccio tra "continentali" (area europea) ed "analitici" (area angloamericana). Tra le opere di Franca D'Agostini: Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Cortina, Milano 1997; Filosofia analitica, Paravia, Torino, 1997; Breve storia della filosofia nel Novecento, Einaudi, Torino, 1999; Logica del nichilismo, Laterza, Bari-Roma, 2000; Disavventure della verita', Einaudi, Torino 2002; con Nicla Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002; Le ali al pensiero. Corso di logica elementare, Paravia, Torino, 2003; Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza, Carocci, Roma 2005. Maria Zambrano, insigne pensatrice spagnola (1904-1991), allieva di Ortega y Gasset, antifranchista, visse a lungo in esilio. Tra le sue opere tradotte in italiano cfr. almeno: Spagna: pensiero, poesia e una citta', Vallecchi, Firenze 1964; I sogni e il tempo, De Luca, Roma 1964; Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991; I beati, Feltrinelli, Milano 1992; La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, La Tartaruga, Milano 1995; Verso un sapere dell'anima, Cortina, Milano 1996; La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997; All'ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997; Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998; Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998. L'agonia dell'Europa, Marsilio, Venezia 1999. Dell'aurora, Marietti, Genova 2000; Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000; L' uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001; Le parole del ritorno, Citta' Aperta, Troina 2003. Opere su Maria Zambrano: un buon punto di partenza e' il volume monografico Maria Zambrano, pensatrice in esilio, "Aut aut" n. 279, maggio-giugno 1997, e il recente libro di Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti, Bruno Mondadori, Milano 2004; ci permettiamo di segnalare anche, nel nostro stesso notiziario, i testi di Elena Laurenzi e di Donatella Di Cesare riprodotti nei nn. 752, 754 e 805 de "La nonviolenza e' in cammino", e il fascicolo n. 11 di "Nonviolenza. Femminile plurale"] Ci viene detto (lo dice il papa, e lo ha ripetuto recentemente Amartya Sen) che le donne salveranno il mondo. Bene. Naturalmente, l'importante e' che qualcuno lo faccia, donna o uomo che sia, ma chi avesse dei dubbi sul fatto che siano proprio le donne a doversi e a potersi occupare di questa operazione che si suppone lunga e laboriosa dovrebbe leggere Maria Zambrano e anche pensatrici viventi e piu' recenti, come Christine Battersby (The Phenomenal Woman, Polity Press). Perche' Zambrano e Battersby stanno salvando - salveranno - il mondo? La risposta e' abbastanza semplice: perche' nelle loro parole e nel loro stile di pensiero c'e' quel famoso "sogno di una cosa" che tanto ossessiono' e commosse il pensiero rivoluzionario di questi ultimi due secoli, ossia il venire in chiaro di cio' che e' gia' allo scoperto; la voce di cio' che, non visto, e' in evidenza; se si vuole: la "ferita che salva", il "lampeggiare dell'evento" nel mondo della scienza e della tecnica. E' un fatto di stile di pensiero, naturalmente: forse e' l'entusiasmo del neofita, come disse un po' paternalisticamente Habermas commentando il femminismo americano contemporaneo; ma forse e' anche qualcosa di piu'. * "Non si puo' certo dire - scriveva Marx a Ruge - che io abbia in stima l'epoca presente. Ma se non dispero di essa e' per la sua condizione disperata, che mi riempie di speranza". Non ogni disperazione e' pero' in grado di trovare in se' le ragioni della speranza, molto dipende da come e quanto si riesce a considerare disperata la propria situazione. Ora nel pensiero femminile (e Battersby precisa molto bene che cosa debba intendersi con questa ambigua espressione: non si tratta propriamente di pensiero "delle donne") c'e' davvero il dopo-la-disperazione, il nuovo inizio, precisamente perche' cio' di cui si tratta non e' affatto nuovo ne' propriamente iniziale, coincidendo con qualcosa che di fatto da sempre ci accade: il semplice nascere. Battersby e Zambrano sono dunque pensatrici "al femminile" non perche' disprezzano e smentiscono le strutture della teoria maschile, ne' perche' traducono in sintassi l'emozione e pensano un pensiero vivente, con una prosa scalpitante: ma perche' hanno una precisa cognizione e teoria della natalita'. L'essere per la morte e' certamente un buon fondamento per un rigoroso pensiero vivente: se non altro perche' la morte e' "'a livella", come ricordava Toto', ed e' quindi il miglior modo per fornirsi di un piano comune di discorso, per dare alla fragile variabilita' del pensare una destinazione comune. Ma piu' inevitabilmente nostro, e antropologicamente fondato, e' l'essere per la vita, ossia il pensiero della nascita, cio' che secondo Zambrano si traduce filosoficamente nel "disnascere" (desnacer). * Battersby trova nell'esperienza della maternita' (anche nella esperienza della possibilita' di maternita') i preliminari di una antropologia fondata sull'essere (avere) in se' anche un altro. La relazione se'-altri, dice Battersby, deve essere ripensata nella prospettiva della natalita', ossia in considerazione del fatto che i se' sono generati. Ma che cosa significa ripensare questa relazione (o altre) nella prospettiva della nascita? Si tratta soltanto di un privilegio antropologico del femminile, di un certo primato filosofico delle donne, in quanto capaci, come ha suggerito Luisa Muraro, di "mettere al mondo il mondo"? Non e' forse vero che anche gli uomini "mettono al mondo il mondo", per esempio in quanto artisti, pensatori, poeti? Buonissime risposte si trovano nei due libri di Zambrano recentemente tradotti. Anzitutto, Delirio e destino: una autobiografia politico-filosofica in cui le vicende della Spagna si intrecciano alla storia dell'autrice, straordinario personaggio di un'Europa politicamente disfatta ma intellettualmente ancora gloriosa. A soli dieci anni, Zambrano pubblica il suo primo articolo nella rivista della scuola. "Non ci sono bambini prodigio, in questa casa" l'avverte il padre Blas Jose', pedagogista e socialista: e il senso di una fanciullesca minorita', l'impressione di essere una non-autorizzata e non-prodigiosa bambina prodigio, percorrono le pagine di questo libro, e creano come un'impronta di stile e di scrittura in tutta l'opera di Zambrano, decidendone l'intensita' e insieme la leggerezza. La sua posizione filosofica e' estremamente chiara e coerente, e si puo' riassumere in due tesi che rispettivamente ne costituiscono il fondamento e il progetto: una e' appunto l'idea del desnacer, l'altra e' la speranza o il programma di una storia non sacrificale. Disnascere e' da certi punti di vista una esperienza elementarmente filosofica, e' l'inizio della fenomenologia e delle filosofie esistenziali: ma il riferimento alla nascita da' al tema un accento fanciullesco che era estraneo alla pedanteria di Husserl e forse anche alla profondita' di Heidegger. Nell'introduzione a Delirio e destino Rosella Prezzo fa un esempio molto illuminante: e' il momento in cui un bambino, che ha fino a quel punto giocato con totale partecipazione, all'improvviso si ferma, e resta "incantato", immobile. A che cosa pensa? In realta' non pensa propriamente, o se mai pensa a un secondo e piu' profondo livello di pensiero: in quel momento di concentrazione serissima e di incanto il bambino ri-nasce, ri-fa' la propria nascita, distrugge e ricostruisce il proprio essere al mondo. * A questo punto si notera' che il discrimine tra il pensiero femminile (che salvera' il mondo) e il pensiero maschile si fa sottile: a tutti noi occorre rifare la nostra nascita, tutti noi stiamo qui a rimettere al mondo il mondo che noi stessi siamo (e questo e' desnacer). Tutti, non soltanto le donne (o gli artisti, i pensatori, i poeti), volendo, mettono al mondo il mondo. Resta pero' un'ultima decisiva domanda: perche' dobbiamo fare questo? Perche' dobbiamo, vogliamo, e dobbiamo volere, disnascere? Forse solo per un perfezionamento della nostra identita' personale, per un piu' compiutamente "umano" che dovra' esprimersi nel ri-metterci al mondo? La risposta e' data da Zambrano in Persona e democrazia. La storia sacrificale, un libro del 1958. In realta' c'e' un forte sospetto che tra poco, se qualcosa non cambia, non ci sara' piu' mondo in cui mettersi o ri-mettersi al mondo. Non si tratta dunque di edificare se stessi, ma di lanciare un diverso modo di costruire e pensare la storia. La storia e' sacrificale, e' sempre stata sacrificale, nel mondo maschile come in quello femminile: la stessa famiglia e' sempre stata luogo di vittime e di idoli, struttura eretta sul sacrificio dell'uno all'altare dell'altro. Ma non dovra' piu' essere cosi', puo' non piu' essere cosi': ed e' qui in questo punto che il tema della dis-nascita diventa vitale. Senza rielaborazione-ripetizione della nascita non c'e' salvezza dal negativo della storia: la storia e' dei vincitori, ma i vincitori saranno vinti, e con essi forse il mondo stesso, perche' il loro intero operare e' stato fondato sulla negazione e il sacrificio. Non si tratta allora di dare voce ai vinti, ma di sperare che i vinti riescano a salvare i vincitori. 2. RIFLESSIONE. MARGARET ATWOOD: IO E ORWELL. DOPO L'11 SETTEMBRE [Dal mensile "Lo straniero", n. 41, novembre 2004 (sito: www.lostraniero.net), riprendiamo (nella traduzione di Elena Fantasia) l'intervento di Margaret Atwood nel programma "Twenty Minutes: The Orwell Essays Series" della Bbc Radio 3, del 13 giugno 2003. Margaret Atwood (Ottawa, 1939) e' la piu' prestigiosa scrittrice canadese; dal quotidiano "Il manifesto" del 4 aprile 2003 riprendiamo la seguente breve presentazione: "Scrittrice canadese di lingua inglese, e' l'autrice piu' interessante del suo paese, di cui ha restituito l'identita' culturale in molte delle sue quindici raccolte poetiche, alcune tradotte da Bulzoni con il titolo Poesie. Tra le altre, Il gioco del cerchio, Procedure per il sotterraneo, I diari di Susannah Moodie, Storie vere, Interlunare. Autrice di circa dieci romanzi, e cinque libri di racconti, quattro libri per bambini e quattro saggi ha fatto attraversare la sua fiction da uno sguardo orientato alla questione femminile, seminandovi spesso una feroce ironia. Con L'assassino cieco, tradotto da Ponte alle Grazie, ha vinto un Booker Prize che ne indicava lo stile "lungimirante e drammatico". Sorprendente e' la gamma emotiva in cui la Atwood si esprime, capace com'e' di indagare i meandri della umana psiche. Tra gli altri libri disponibili in italiano, Fantasie di stupro, La tartaruga; La donna che rubava i mariti, L'altra Grace, Le uova di Barbablu', Tornare a galla e Vera spazzatura, da Baldini e Castoldi; La donna da mangiare, per il Corbaccio; Lady Oracolo da Giunti; Il racconto dell'ancella, Occhio di gatto, La principessa Prunella, editi da Mondadori; Negoziando con le ombre, Ponte alle Grazie". Eric Arthur Blair (George Orwell e' uno pseudonimo) e' nato a Motihari in India nel 1903 (il padre era impiegato nell'amministrazione coloniale britannica), educato in Inghilterra, presto' servizio nella polizia imperiale inglese in Birmania (ove colse la violenza coloniale e imperialista) e presto l'abbandono'; visse poi in poverta' e di vagabondaggi a Parigi e a Londra (acquisendo una forte coscienza sociale); denuncio' in un libro-inchiesta le condizioni di miseria dei minatori disoccupati; prese parte alla guerra di Spagna in difesa della democrazia contro i fascisti (e li' vide anche all'opera e conseguentemente denuncio' la violenza stalinista contro gli anarchici e la sinistra non allineata). Gia' minato nella salute si arruolo' volontario nella Home Guard nella seconda guerra mondiale, e lavoro' per la Bbc. Scrisse coi suoi due ultimi grandi libri un'analisi lucidissima del totalitarismo. Mori' a Londra nel 1950. Tra le opere di George Orwell: Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933) descrive le sue esperienze di poverta' e vagabondaggio; Giorni in Birmania (1934) ricorda la traumatica esperienza nella polizia coloniale; La strada di Wigan Pier (1937) costituisce l'inchiesta sulla disoccupazione dei minatori; Omaggio alla Catalogna (1938) riferisce delle sue esperienze nella guerra di Spagna; La fattoria degli animali (1945) e' una favola morale di denuncia dello stalinismo; 1984 (1949) e' l'angosciante descrizione di una societa' totalitaria. Tutti i libri sopra citati sono editi in Italia da Mondadori. Una raccolta di saggi di Orwell (tra cui alcuni fondamentali) e' Nel ventre della balena, Bompiani, Milano 1996. Opere su George Orwell: un agile profilo critico e' quello di Raymond Williams, Orwell, Mondadori, Milano 1990; cfr. anche Stefano Manferlotti, George Orwell, La Nuova Italia, Firenze 1979; fondamentale e' la biografia di Bernard Crick, George Orwell, Il Mulino, Bologna 1991] Sono cresciuta con George Orwell. Sono nata nel 1939, e La fattoria degli animali fu pubblicato nel 1945. Quindi, ho avuto la possibilita' di leggerlo all'eta' di nove anni. Lo vedevo in giro per casa e pensavo fosse un libro sugli animali parlanti, come i pupazzi animati della serie "Wind in the Willows". Non sapevo niente di quel genere di politica descritta nel libro - la politica che conoscevano i bambini a quel tempo, subito dopo la guerra, consisteva nella semplice nozione che Hitler era cattivo ma era morto. E cosi' trangugiai le avventure di Napoleon e Palla di Neve, degli astuti e avidi maiali in ascesa su due zampe, del tendenzioso portavoce Clarinetto, di Gondrano il cavallo nobile ma un po' duro di comprendonio, della pecora che recita gli slogan e si lascia guidare volentieri dagli altri, senza fare il minimo collegamento con gli eventi storici del tempo. Affermare che questo libro mi lascio' atterrita e' dir poco. Il destino degli animali della fattoria era cosi' triste, i maiali cosi' cattivi, bugiardi e traditori, le pecore cosi' stupide... I bambini hanno un forte senso dell'ingiustizia e fu questo a turbarmi di piu': il fatto che i maiali fossero cosi' ingiusti. Ho pianto fino allo sfinimento quando il cavallo Gondrano si fa male e lo portano via per ricavarne cibo per cani invece di dargli l'angolino tranquillo di pascolo che gli era stato promesso. * Questa lettura mi sconvolse profondamente ma saro' per sempre grata a Orwell per avermi mostrato da subito quali erano i segni del pericolo che da allora ho tenuto sempre sott'occhio. Nel mondo della fattoria degli animali gran parte dei comizi pubblici e delle chiacchiere sono stupidaggini e menzogne guidate e, sebbene molti personaggi siano buoni e benintenzionati, gli altri possono con il terrore indurli a coprirsi gli occhi per non vedere quello che gli succede intorno. I maiali intimidiscono gli altri con l'ideologia e poi la deformano per usarla a loro esclusivo vantaggio: i loro giochi di parole erano evidenti perfino a una bambina della mia eta'. Come insegnava Orwell, non sono le etichette - Cristianita', Socialismo, Islam, Democrazia, Cattivi a due zampe, Buoni a quattro zampe - a essere definitive, bensi' le azioni compiute in loro nome. Riuscivo a capire anche come fosse facile per quelli che avevano rovesciato un potere oppressivo cadere poi nelle stesse trappole e consuetudini. Jean-Jacques Rousseau aveva ragione di avvertirci che la democrazia e' la forma di governo piu' difficile da mantenere; un concetto che Orwell aveva assorbito fin nel midollo, perche' aveva visto con i suoi occhi come si fa presto a cambiare il comandamento "Tutti gli animali sono uguali" in "Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono piu' uguali degli altri". Riuscivo a capire quale interesse mellifluo i porci mostrano per gli altri animali, come sembrano preoccuparsi del loro benessere - solo per mascherare il disprezzo nei confronti di quelli che stanno manipolando. Con quale alacrita' indossano le uniformi un tempo disprezzate di quegli umani tirannici che loro stessi hanno cacciato, e come imparano a usare le fruste. Con quale ipocrisia giustificano le loro azioni, grazie alle ragnatele verbali intessute da Clarinetto, il loro addetto stampa dalla lingua sciolta, finche' tutto il potere non e' nelle loro zampe. A quel punto non e' piu' necessario fingere e possono governare con la forza bruta. Una rivoluzione spesso significa solo questo: un ribaltamento, un giro della ruota della fortuna grazie al quale quelli che stavano in basso salgono in cima e occupano le posizioni piu' ambite, schiacciando sotto di loro i precedenti detentori del potere. Dovremmo diffidare di coloro che tappezzano il nostro ambiente dei loro ritratti in formato poster come fa il maiale Napoleon. * La fattoria degli animali e' uno dei libri piu' spettacolari del ventesimo secolo sulla dimostrazione che "il re e' nudo" e procuro' molti guai a George Orwell. Chi si oppone alle convenzioni popolari del momento, chi mette in evidenza cio' che e' fastidiosamente ovvio, deve aspettarsi la condanna degli irosi belati di mandrie di pecore ostinate. All'eta' di nove anni non avevo capito tutto questo, certo non a livello cosciente. Ma noi apprendiamo la struttura delle storie prima di capirne il significato e La fattoria degli animali ha una struttura molto chiara. * Poi usci' 1984, pubblicato nel 1949. Lo lessi in edizione tascabile un paio di anni dopo, quando frequentavo la scuola superiore. Poi lo rilessi ancora e ancora: lo tenevo sullo scaffale dei miei libri preferiti, insieme a Cime tempestose. Nel frattempo, feci miei due libri che facevano il paio con 1984, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler e Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Ero entusiasta di tutti e tre i libri, ma per me la storia di Buio a mezzogiorno era una tragedia gia' avvenuta e Il mondo nuovo era una commedia satirica, quegli avvenimenti avevano poche probabilita' di verificarsi esattamente nel modo descritto. 1984 mi sembro' piu' realistico, probabilmente perche' Winston Smith mi somigliava di piu' - una persona tutta pelle e ossa che si stancava spesso ed era costretta a pratiche di educazione fisica a temperature sotto zero (una caratteristica della mia scuola) - e che disapprovava in silenzio le idee e lo stile di vita che gli venivano proposti. (Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui 1984 si apprezza al meglio quando lo si legge in eta' adolescenziale, perche' la maggior parte degli adolescenti si sente cosi'). In particolare condividevo il desiderio di Winston di mettere per iscritto i suoi pensieri proibiti in un diario segreto dalle pagine vuote e invitanti: non avevo ancora iniziato a scrivere ma ero attratta dall'idea. Ne percepivo anche i pericoli, perche' e' proprio questo suo scribacchiare - insieme alla pratica del sesso illecito, altro elemento particolarmente allettante per un adolescente degli anni cinquanta - a mettere nei guai Winston. * La fattoria degli animali traccia la storia di un movimento di liberazione idealista che si trasforma in un regime totalitario capeggiato da un dispotico tiranno; 1984 descrive come si svolge la vita in un sistema del genere. Il suo eroe, Winston, ha solo memorie frammentarie di com'era la vita prima che fosse instaurato il terribile regime del presente: e' un orfano, un bambino della collettivita'. Suo padre e' morto durante la guerra sfociata nella repressione e sua madre e' scomparsa lasciandogli solo uno sguardo di riprovazione perche' lui l'aveva tradita per una barra di cioccolato - un piccolo tradimento che e' sia la chiave per capire il carattere di Winston che il segno precursore di molti altri tradimenti nel libro. Il governo di Oceania, il paese di Winston, e' brutale. La sorveglianza costante, l'impossibilita' di parlare francamente con qualcuno, la figura incombente e sinistra del Grande Fratello, la necessita' del regime di avere nemici e guerre, seppur fittizi, usati per terrorizzare la popolazione e tenerla unita in nome dell'odio, gli slogan per ottundere la mente, le distorsioni del linguaggio, la distruzione di quanto e' realmente accaduto stipando ogni ricordo nel Buco della Memoria - tutto questo mi fece una grande impressione. Vorrei provare a esprimerlo in altra forma: me la feci sotto dalla paura. Orwell aveva scritto una satira sull'Unione Sovietica di Stalin, un luogo di cui sapevo molto poco all'eta' di 14 anni, ma lo aveva fatto cosi' bene da farmi pensare che quelle cose stessero succedendo ovunque. La fattoria degli animali non contiene alcuna storia d'amore, a differenza di 1984. Winston trova la sua anima gemella. Julia e' apparentemente una fanatica devota del Partito, ma in segreto e' una ragazza a cui piace far sesso, truccarsi e quant'altro sia considerato un tipico segno di decadenza. Ma i due amanti vengono scoperti e Winston viene torturato per crimini del pensiero - slealta' interiore nei confronti del regime. E' convinto che se riuscira' a restare fedele a Julia nel cuore, la sua anima sara' salvata - un concetto romantico, ma che probabilmente condividiamo. Come tutte le religioni e i governi assolutisti, pero', il Partito esige che ogni lealta' personale venga sacrificata a esso e sostituita da un'assoluta lealta' al Grande Fratello. Quando si trova faccia a faccia con la sua peggior paura nella famigerata Stanza 101, in cui gli viene posto sugli occhi un terribile aggeggio con una gabbia piena di ratti famelici, Winston urla: "Non fatelo a me, fatelo a Julia". (Questa frase e' diventata di uso comune nella mia famiglia quando si vogliono evitare compiti onerosi. Povera Julia - le avremmo reso la vita proprio difficile se fosse esistita davvero. Ad esempio, avrebbe dovuto partecipare a molti gruppi di discussione). Dopo aver tradito Julia, Winston diventa un manichino di gomma plasmabile. Vive nella ferma convinzione che due piu' due fa cinque e che lui ama il Grande Fratello. Nelle ultime pagine lo vediamo seduto in un caffe' all'aperto, istupidito dall'alcol, consapevole di essere diventato un morto vivente dopo aver saputo che anche Julia lo ha tradito, mentre ascolta un motivetto: "Sotto il castagno, chissa' perche' / Io ti ho venduto e tu hai venduto me". * Orwell e' stato accusato di essere troppo amaro e pessimista - di mostrarci una visione del futuro che non lascia all'individuo alcuna speranza e in cui la brutalita' dell'onnipresente Partito totalitario e del suo tallone terra' la faccia dell'uomo schiacciata nel fango, per sempre. Ma questa percezione di Orwell viene contraddetta nell'ultimo capitolo del libro, un saggio sulla neolingua, il linguaggio del bispensiero inventato dal regime. Espurgando tutte le parole che potrebbero creare problemi - "cattivo" non e' piu' permesso e diventa "sbuono" - e dando alle parole il significato opposto di quello che avevano prima - il luogo in cui le persone vengono torturate e' il Ministero dell'Amore, l'edificio in cui il passato viene distrutto e' il Ministero dell'Informazione - i capi di Oceania vogliono rendere letteralmente impossibile alla gente di pensare in modo corretto. Tuttavia, il saggio sulla neolingua e' scritto in inglese standard, in terza persona e al passato, il che puo' solo significare che il regime e' caduto mentre il linguaggio e l'individualita' sono sopravvissuti... Per chiunque abbia scritto il saggio sulla neolingua, il mondo di 1984 e' finito. Quindi, a mio parere Orwell aveva piu' fede nella capacita' di ripresa dello spirito umano di quanto gli si riconosca. * Orwell e' diventato uno dei miei modelli principali molti anni piu' tardi, nel vero 1984, l'anno in cui cominciai a scrivere una distopia in un certo modo diversa, Il racconto dell'ancella. A quel tempo avevo ormai 44 anni e avevo appreso molto sui regimi dispotici reali, mediante la conoscenza della storia, i viaggi e la mia collaborazione con Amnesty International, quindi Orwell non era piu' il mio unico riferimento. La maggior parte delle distopie - inclusa quella di Orwell - e' stata scritta da uomini e il loro punto di vista e' maschile. Quando le donne vi compaiono, hanno il ruolo di automi asessuati oppure di ribelli che sfidano le regole sessuali del regime. Agiscono come tentatrici del protagonista maschile, per quanto lui gradisca questa tentazione. E' cosi' per Julia; e' cosi' per la seduttrice "Orgy-Porgy" con la sottana del Selvaggio in Il mondo nuovo; e' cosi' per la sovversiva "femme fatale" dell'autorevole classico di Jevgenij Zamjatin scritto nel 1924, Noi. Volevo provare a scrivere una distopia dal punto di vista femminile - il mondo secondo Julia, cosi' com'era. Ciononostante, questo non fa de Il racconto dell'ancella una "distopia femminista", a eccezione del fatto che dare voce e vita interiore a una donna verra' sempre considerato "femminista" da quelli che pensano che queste cose non siano caratteristiche proprie di una donna. * Il ventesimo secolo potrebbe essere considerato una gara tra due versioni di inferno create dall'uomo - lo stato di oppressione totalitaria di 1984 di Orwell, e il paradiso edonistico ersatz de Il mondo nuovo, in cui tutto e' un bene di consumo e gli esseri umani sono progettati per essere felici. Con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, per un periodo sembro' che Il mondo nuovo avesse vinto - da quel momento in poi il controllo di stato sarebbe quasi scomparso e non ci restava altro che andare a fare shopping, sorridere molto, crogiolarci nei piaceri e ingoiare un paio di pillole quando arrivava la depressione. * Ma con l'11 settembre tutto questo e' cambiato. Si direbbe che adesso ci troviamo ad affrontare contemporaneamente la prospettiva di due distopie contraddittorie - mercati aperti, menti chiuse - perche' la sorveglianza di stato e' tornata e grida vendetta. Abbiamo vissuto nella spaventosa Stanza 101 del torturatore da millenni. Le prigioni sotterranee di Roma, l'Inquisizione, la Camera Stellata, la Bastiglia, i processi del generale Pinochet e della Junta in Argentina - tutti hanno goduto della segretezza e dell'abuso di potere. Molti paesi hanno avuto una loro versione della Stanza 101 - ognuno il proprio modo di mettere a tacere forme pericolose di dissenso. Tradizionalmente le democrazie si sono identificate, tra l'altro, con la liberta' e il governo delle leggi. Ma ora sembra che in occidente stiamo tacitamente legittimando i metodi delle epoche piu' buie dell'essere umano, tecnologicamente aggiornati, e consacrati dal nostro fruirne, naturalmente. Per amore della liberta', si deve rinunciare alla liberta'. Per andare nella direzione di un mondo migliore - l'utopia che ci viene promessa - deve prima signoreggiare la distopia. E' un concetto degno di un pensiero a doppio senso. Che e' anche, nel suo modo di ordinare gli eventi, stranamente marxista. Prima la dittatura del proletariato, fase in cui devono cadere molte teste; poi la celestiale societa' senza classi, che stranamente non si materializza mai. Al suo posto, invece, ci ritroviamo sempre i maiali con le fruste. Spesso mi chiedo: che ne direbbe George Orwell? Avrebbe molto da dire. 3. RIFLESSIONE. LEA MELANDRI: LA SFIDA DI GIOBBE [Da "La rivista del Manifesto", n. 19, luglio-agosto 2001. Lea Melandri, nata nel 1941, acutissima intellettuale, fine saggista, redattrice della rivista "L'erba voglio" (1971-1975), direttrice della rivista "Lapis", e' impegnata nel movimento femminista e nella riflessione teorica delle donne. Opere di Lea Melandri: segnaliamo particolarmente L'infamia originaria, L'erba voglio, Milano 1977, poi Manifestolibri, Roma 1997. Cfr. anche Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli, Milano 1988; Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991; La mappa del cuore, Rubbettino, Soveria Mannelli 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996. Dal sito www.universitadelledonne.it riprendiamo la seguente scheda: "Lea Melandri ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Attualmente tiene corsi presso l'Associazione per una Libera Universita' delle Donne di Milano, di cui e' stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987. E' stata redattrice, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli, della rivista L'erba voglio (1971-1978), di cui ha curato l'antologia: L'erba voglio. Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi 1998. Ha preso parte attiva al movimento delle donne negli anni '70 e di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le pubblicazioni: L'infamia originaria, edizioni L'erba voglio 1977 (Manifestolibri 1997); Come nasce il sogno d'amore, Rizzoli 1988 ( ristampato da Bollati Boringhieri, 2002); Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni 1991; La mappa del cuore, Rubbettino 1992; Migliaia di foglietti, Moby Dick 1996; Una visceralita' indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Franco Angeli editore 2000; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Bollati Boringhieri 2001. Ha tenuto rubriche di posta su diversi giornali: 'Ragazza In', 'Noi donne', 'Extra Manifesto', 'L'Unita''. Collaboratrice della rivista 'Carnet' e di altre testate, ha diretto, dal 1987 al 1997, la rivista 'Lapis. Percorsi della riflessione femminile', di cui ha curato, insieme ad altre, l'antologia Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998. Nel sito dell'Universita' delle donne scrive per le rubriche 'Pensiamoci' e 'Femminismi'". Luigi Pintor, nato nel 1925 a Roma, fratello di Giaime, antifascista, giornalista a "L'Unita'" dal 1946 al 1965, parlamentare, nel 1969 ha dato vita al "Manifesto" (iniziativa per cui fu radiato dal Pci), dapprima rivista e poi quotidiano su cui ha scritto fino alla scomparsa nel 2003. Straordinario corsivista politico, univa una prosa giornalistica di splendida bellezza ad un rigore morale e di ragionamento di eccezionale nitore. Opere in volume di Luigi Pintor: I mostri, Alfani, Roma 1976; Parole al vento, Kaos, Milano 1990; Servabo, Bollati Boringhieri, Torino 1991; La signora Kirchgessner, Bollati Boringhieri, Torino 1998; Il nespolo, Bollati Boringhieri, Torino 2001; Politicamente scorretto, Bollati Boringhieri, Torino 2001; I luoghi del delitto, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Punto e a capo, Manifestolibri, Roma 2004] Di fronte ai primi due libri di Luigi Pintor - Servabo (Bollati Boringhieri, 1991), La signora Kirchgessner (Bollati Boringhieri, 1998) - devo ammettere di aver provato un certo fastidio. Conoscevo, come lettrice del "Manifesto", la sua scrittura "militante", avevo spesso dissentito su un modo di intendere la politica che non si era lasciato scalfire dai movimenti antiautoritari degli anni settanta, ma non ero mai arrivata a pensare, come dice ripetutamente Pintor nei suoi scritti, che quegli articoli non fossero altro che una fragile, inconsistente "montagna di carta", e la militanza un "equivoco". Tanto meno potevo capire, avendo lavorato per anni sulla "scrittura di esperienza" e sulla memoria del corpo, visti come luoghi di una "preistoria" comune degli esseri umani, come si potesse affermare cosi' categoricamente che l'individuo e' "una monade senza finestre", chiuso entro confini impenetrabili. La lettura de Il nespolo (Bollati Boringhieri, 2001) ha avuto invece una presa maggiore fin dall'inizio e mi ha invogliata a rileggere con piu' attenzione i due testi precedenti, a vedere nel passaggio dall'uno all'altro somiglianze e cambiamenti. Ho capito che il modo migliore per non cadere in facili e pretestuose polemiche e' lasciarsi guidare dalla scrittura, scomporla e ricomporla, finche' non mostra essa stessa i suoi movimenti, le sue possibili interpretazioni, lasciando che il lettore faccia, se non la "meta'", come dice Voltaire, almeno una parte del lavoro. * Il primo aspetto che si puo' notare e' che tutti e tre i libri ubbidiscono allo stesso movimento: tornare sui propri passi, rifare il cammino all'incontrario, "ricominciare da capo" per rivivere qualcosa che si e' gia' vissuto o dargli una via d'uscita. E' quello che Elvio Fachinelli chiama "il paradosso della ripetizione", quella sorta di nostalgia che spinge all'agire, sia nel senso di una "replica cieca", sia come "ripresa" aperta verso nuove soluzioni. Il senso che Pintor attribuisce a questo reiterato viaggio a ritroso, appare molto chiaro dalle pagine di apertura di Servabo: da una parte c'e' l'infanzia felice nell'"isola dei mori", la Sardegna, le sue spiagge assolate, il "mondo fantastico e avventuroso" della musica e del cinematografo, l'esuberanza e la liberta' fisica, tratti della fanciullezza che l'avrebbero tenuto, "per indole", "lontano dalla vita pubblica", ancorato all'esperienza individuale; dall'altra ci sono la guerra e i primi lutti famigliari, la morte del padre e del fratello, che interrompono quell'"ordine" e piegano la vita in una direzione imprevista: la militanza politica, una specie di "arruolamento volontario", la fede collettiva, i "doveri" di marito e di padre. Il destino che si profila e' detto nella parola servabo: serviro', saro' utile - a chi soffre, a chi subisce ingiustizia -, un modo per continuare la guerra con altri mezzi, espiare la colpa di essere sopravvissuto. Ma servabo vuol dire anche "conservero'". Per "risarcimento o rivalsa", diventa dominante "il desiderio di ricostruire il mondo sentimentale che la guerra e poi i lutti avevano devastato", che Pintor collega al matrimonio e alla paternita', ma che vale anche per questa singolare trilogia tenacemente volta, dopo ogni lutto, a "ricominciare da capo", per riavere indietro le persone perdute o i loro fantasmi. * La scrittura si innesta dunque su quello spartiacque che e' il franare di un ordine e di un inizio felice, ma con valenze e esiti diversi: permette di conservare cio' che si e' perduto, ma anche di smascherare i giochi della memoria. "Che gusto c'e' a ricordare i vagoncini bianchi del tram che portavano al mare? - si chiede Pintor nel Nespolo - Nessuno, semmai si prova una pena, un rammarico, un rancore, perche' allora c'eri e adesso no. Ma vuoi tornare sul luogo del delitto e percie' richiami alla memoria con puntiglio ogni particolare". L'atto del ricordare, visto da quest'ultimo libro, non e' un tenero ripiegamento nostalgico, ma la sfida che Giobbe, "instancabile combattente", fa al suo dio che lo tratta come una straccio, il modo con cui gli tiene testa. Ma prima di arrivare a questa consapevolezza, il pensiero tenta la strada di una restituzione piena e indolore. Il ritorno a impressioni, certezze, che appartengono al passato, sa di poter contare su una "memoria corporea e sentimentale", capace di tener vivo e far ricomparire cio' che e' stato violentemente distrutto, la gioia come la sofferenza. La scrittura diventa il luogo in cui si da' conto di questa perdita, di questo "delitto", ma dove si puo' anche magicamente far finta che non siano avvenuti. Sotto questo aspetto essa riproduce in parte l'atteggiamento che Pintor dice di aver sempre avuto rispetto alla morte: "abolire la morte", "continuare a giocare", come fece da bambino dopo la morte di una cugina, o di un compagno di scuola, sbrigare le cose pratiche, mettere ordine, "come se la morte non si fosse intromessa": In altre parole: "annullare il lutto", "se sei bravo", anziche' elaborarlo; non lagnarsi e cambiare discorso, parlare di musica e di Giobbe, distogliere gli occhi dalla realta', dai "cattivi pensieri", e inventarsi un altro mondo, parlare con i fantasmi. Ma i fantasmi non rispondono e la memoria rimbalza contro i muri come una palla. "Ricominciare da capo", "riavere indietro i ragazzi", la propria e la loro infanzia, non e' concesso e allora, al posto della scrittura si vorrebbe il silenzio: "lavare la memoria come si lava un bicchiere". C'e' una coazione, un cupio dissolvi, sia nel tacere che nella "pulsione invincibile" a "penetrare il silenzio", a sfidare "l'illimitata fantasia del male", la bizzarria della vita - "breve parentesi tra due nulla" -, l'eterno ritorno dell'uguale nella storia. Il silenzio o, al contrario, una parola capace di restituire magicamente vita a qualcosa che non c'e' piu', sono le tentazioni contrapposte tra cui si muovono, senza via d'uscita, i due primi libri. Solo nel Nespolo si profila un'altra soluzione, un movimento piu' libero del pensiero e della scrittura. Ma a prepararla sono anche quei frammenti di riflessione sul proprio modo di procedere che ricorrono in tutti e tre i testi. * Parlando di Servabo, Pintor dice che sono "appunti", un'"espediente per riordinare nella fantasia dei conti che non tornano nella realta'": "voltarsi indietro nel desiderio di restituire alle cose una durata che non hanno". In chiusura, il proposito e' di raccontare, "un'altra volta", "le stesse storie in una versione piu' amabile". Nella Signora Kirchgessner e' infatti piu' evidente, fin dall'inizio, l'intenzione di ricreare atmosfere magiche, fiabesche: l'arrivo nell'isola felice in un "cesto di vimini", accolto da voci benevole di donne e gente umile, pescatori e carrettieri, i segni premonitori nel ricevere il nome di uno zio morto di meningite, il tentativo di ricreare i giochi nella casa d'infanzia, con l'aiuto di una memoria corporea inestinguibile. Anche la guerra e' vista con gli occhi di un adolescente innamorato del cinema, come una sequenza di fotogrammi. Il modello per questa scrittura viene, oltre che dal cinema, dalla musica, quel tipo di musica "che distrae e intenerisce", come nel caso della signora Kirchgessner che due secoli fa, cieca, virtuosa della glasharmonica, "diletto' le aristocrazie col suo strumento di cristallo". Ma la magia riesce solo in parte: il figlio, a cui si vorrebbe dedicare questo nuovo inizio, non risponde e non perdona per questo; la morte torna in campo in tutte le sue forme: e' la guerra che si prolunga nella "normalita'", la ferocia che attraversa le vite singole e la convivenza che si vorrebbe pacifica, e' la devastazione che si rivela principio fondativo delle civilta' superiori, e' la rapidita' con cui si dimenticano i morti, e' cio' che fa dire che "la morte sta scritta nel cuore dell'uomo". Ma e' anche, soprattutto, quella che torna a colpire nel privato: e' la morte del figlio, la consapevolezza che la "trepidazione paterna" puo' non trasmettere "intimita' o tenerezza", ma estraneita'. Nella chiusa del libro, torna l'"umor nero": sensazione di non aver fatto nulla nella vita, per cui sarebbe stata meglio "un'uscita tempestiva di scena", evitando le delusioni della storia. Torna anche la tentazione del silenzio: ci vorrebbe, dice Pintor, una "rivoluzione retrattile" che ristabilisca i "tempi interni", il gesto, la carezza, la percossa, che sfiorando le cose viventi, "dicono di piu' delle parole articolate di cui meniamo vanto". * Il nespolo e' una "ripresa", ma con un impianto diverso, che consente alla scrittura di muoversi piu' liberamente, nella varieta' delle intonazioni emotive, nella maggiore aderenza tra pensiero ed emozione, nella capacita' di affrontare direttamente i temi della morte, della malattia, del dolore, del lutto, della vecchiaia, nell'intreccio, meno contrappositivo, di privato e pubblico. Che qualcosa sia cambiato, nell'animo di chi scrive, lo si capisce anche dalla scelta dell'impianto narrativo: non e' un racconto, ne' una sequenza di fotogrammi, e non ha la scansione temporale delle autobiografie. E' un diario con notazioni mensili, ma anomalo nel suo genere: l'autore annota i pensieri di un personaggio, Giano, che e' in scena, una specie di doppio, posto alla distanza necessaria perche' lo si possa vedere e narrare. Quel che resta della vita del protagonista, ormai centenario, appartiene a un arco temporale delimitato. E' un tempo che include la morte, non solo come termine biologico, ma come morte decisa da chi scrive. Si tratta percio' di una scrittura destinata a essere letta postuma. La condizione da cui nascono i pensieri di Giano, le sue "divagazioni", e' quella di un morto vivente, di chi sta in prossimita' della morte, in un luogo - sotto il nespolo, albero famigliare - da cui si puo' contemplare il principio e la fine, il passato e il futuro, la vita e la morte, anche se e' difficile per il pensiero immaginarsi al di la' di se stesso. Di li' si possono vedere, soprattutto, la gioia e il dolore, le vicende degli individui nel loro intreccio con la storia dell'umanita'. Una visione che ha trovato la distanza giusta per non dovere, coattivamente, cancellare la morte. Una messa a morte di se', spostata su un doppio che trova posto nella scrittura, estingue in qualche modo la colpa o la vergogna di essere sopravvissuto ai figli, divenute un'intollerabile persecuzione, e percio' stesso permette, da un lato, di prolungare la vita, dall'altro di consegnare alla scrittura un'esperienza da cui niente ha piu' bisogno di essere cancellato, in cui anche il "gioco della memoria" - conservare presenze, atmosfere che non ci sono piu' - puo' essere smascherato, riconosciuto come tale, senza che il ricordo perda del tutto la sua dolcezza. Come il suo protagonista, Giano, anche la scrittura si va a collocare in una zona di confine: la vita "mondana" e' distante quanto basta perche' non si debba "fare nulla", solo contemplare, lasciare vagare i pensieri e scrivere senza scopo; la morte, quanto basta per continuare a dire di se', del mondo, della ferocia, della bizzarria, dell'infelicita' della condizione umana e dei molti modi con cui gli uomini hanno cercato di farvi fronte. E' dunque una prospettiva a largo raggio, che puo' lasciare in campo tutti i suoi oggetti - ricordi, sentenze, stati emotivi, ecc. - senza coordinarli, permettendo che ognuno trovi il suo posto. In questo senso l'immagine del "divagare" e' precisa: descrive il muoversi del pensiero indifferentemente tra reperti di memoria e sentimenti del presente, notazioni casuali e giudizi maturati a lungo, drammaticita' e leggerezza. * Il modello, che Pintor richiama per questa scrittura, e', innanzi tutto, la poesia nella sua espressione piu' alta: "un pensiero che si fa limpido quando e' in relazione con i turbamenti dell'animo" (il riferimento e' a Leopardi). I pensieri, lasciati a se', sono sempre "superficiali", ruotano su se stessi come le immagini su uno specchio. Profonde, dice Pintor, sono invece le emozioni, impresse per sempre nel corpo, da cui possono riemergere in ogni momento. L'altro riferimento e' la musica, ma una musica particolare: non piu' quella della signora Kirchgessner, fatta per intrattenere, ma quella, per esempio, di un preludio di Chopin - diciassette battute, quaranta secondi - che pero' si prestano a una varieta' di interpretazioni. Oppure: il quartetto d'archi, pochi strumenti, tante possibilita' combinatorie. Del resto e' solo la musica che puo' produrre, con leggere variazioni di tonalita', emozioni ed effetti molteplici. Per avere lo stesso risultato, "magico, stupefacente", la parola deve privilegiare la sintesi e la sobrieta': dire le cose essenziali, o meglio "l'essenzialita' delle cose che il cuore intuisce e la ragione smarrisce". Il nespolo si muove percio' con piu' liberta' rispetto alle spinte contrapposte del silenzio e della parola, del desiderio di dire o cancellare la morte, e trova la sua "perfezione", la sua "essenzialita'", proprio sui temi su cui e' cosi' difficile sostare e scrivere, perche' sfuggono a ogni formula: il dolore, che si deposita sul fondo e riaffiora, per poi tornare di nuovo sul fondo, resistente al tempo che, anziche' guarirlo, lo esaspera, collocato non si sa dove, "nel cervello come un roditore, nei polmoni come una compressione, nel cuore come una lama, nel sangue come un veleno, in ogni fibra come un tremito. Forse il dolore e' solo buio"; la morte, quando colpisce le persone piu' vicine, senza possibilita' di scambio - "non puoi stare vicino a chi muore perche' e' assente e non puoi stargli lontano perche' e' presente" -, il vuoto incolmabile che lascia e a cui ci si affaccia con "vertigine e furore"; ma anche la morte vista nello squallore di una civilta' che non ha una "cultura della morte", ne' tecniche ne' rituali per affrontarla; la vecchiaia e la malattia, esperienze che non possono essere capite se non vivendole, condizioni comuni degli esseri viventi ma che, non riconosciute come tali, lasciano l'individuo nella solitudine e nell'estraneita'. Lo sguardo che coglie insieme la sorte del singolo e il vivere collettivo si fa qui piu' circoscritto, essenziale e toccante: e' la corsia di un ospedale, dove i parenti aspettano ´"con la muta domanda che si legge negli occhi dei cani", l'interno di un cimitero o di un obitorio, simili a cantieri in disuso, dove le bare si depositano "in lista d'attesa"; e' il confronto tra morti comuni e morti celebri, tra la commozione che non comporta alcuna responsabilita', e quella da cui si e' costretti a distogliere gli occhi. Messi vicini a questa scrittura del dolore, del male e della sua "illimitata fantasia", anche i ricordi felici si smitizzano rivelandosi per quello che sono: sedimenti di impressioni che riaffiorano, che producono incanto ma anche pena e rammarico, che possono illudere, aiutare a cambiare discorso, ma per poco. Il "gioco della memoria" e' scoperto, i fantasmi che essa evoca e con cui vorrebbe intrattenersi, non rispondono. * Non vedo nel Nespolo quel "cristallo gelato della disperazione", di cui parla Vittorio Sermonti nella Lettera a Luigi Pintor e al suo libro ("Il manifesto", 21 marzo 2001), ma la straordinaria via d'uscita, o ripresa, che la scrittura offre alla vita, come possibilita' di sopravvivere a se stessi, nel momento in cui si pone come luogo in cui avvengono cambiamenti profondi: tra necessita' e liberta', tra privato e pubblico, tra corpo e pensiero, tra infanzia e storia. E' quella che ho chiamato spesso "scrittura di esperienza", che non coincide necessariamente con l'autobiografia, ma che lasciando divagare il pensiero, gli permette di trovare le proprie radici sensibili e le proprie diramazioni nel rapporto tra se' e gli altri, tra se' e il mondo. Di fronte a questo spostamento, o miracolo, che produce talvolta la scrittura, suonano allora semplificatori i giudizi che in forma di massime o aforismi ritornano costantemente nel libro: che l'esperienza individuale resta "proprieta' rigorosamente privata", che in tutte le rivoluzioni si ripete uguale l'altalena tra buone intenzioni e cattivi esiti, che l'evoluzione della specie e' un meccanismo autopropulsivo che si alimenta da se' come una metastasi, e che e' destinato percio' ad autodistruggersi; che ci vorrebbe una "rivoluzione sentimentale" per ristabilire il primato del gesto sulla parola, dell'arte sulla scienza, della poesia sul vuoto disquisire del discorso concettuale. Queste affermazioni, che oscillano tra il sublime e il banale, tra le grandi leggi della storia e le strisce dei cioccolatini Perugina, come suggerisce ironicamente lo stesso Pintor, producono su chi legge un sentimento contraddittorio: spingono provocatoriamente a un uso politico del libro ma, nel medesimo tempo, lo scoraggiano; costringono a confrontare il "monumento di carta" prodotto dal "mestiere di rivoluzionario", con le esili, essenziali pagine di questi libri, per riconoscerne i legami ma anche l'enorme lontananza. Verrebbe da concludere, con Sermonti, che non sono "opinioni", ma prolungamenti di stati d'animo e di esperienze personali cosi' tragiche da annerire qualsiasi cielo. La "storia dell'uomo solo", per quanto segnata da vicende universali come la nascita, l'amore, la malattia, la morte, sembra costretta a fare i suoi percorsi e a trovare la sua dicibilita' fuori dalle strade maestre dei saperi e dei linguaggi "sociali". Cio' che la rende tragica e incantata, nel medesimo tempo, non e' solo la certezza della morte, ma anche la sua immobile ripetitivita' - "una rincorsa a perdifiato su un cilindro che ruota a vuoto". La restituzione della storia personale alla cultura, alla storia e alla politica e' stato l'assunto piu' radicale del movimento delle donne, e se anche oggi percorre strade meno visibili, non per questo si e' eclissata la consapevolezza nuova che ha prodotto in uomini e donne. Per strani e imprevisti sommovimenti interni, puo' persino riaffiorare la' dove non e' attesa, in un libro che si vorrebbe fatto "per se'", per conservare una memoria "privata", lontano dagli "equivoci" della militanza. Talvolta, contrariamente a quanto afferma a piu' riprese Pintor, possono essere gli esiti a "deludere" e a sorprendere felicemente le intenzioni. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 27 del primo settembre 2005
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